Etica & Politica / Ethics & Politics, 2005, 2

http://www.units.it/etica/2005_2/RICCIARDI.htm

 

 

Il lavoro come professione: macchine umane, ontologia e politica in Max Weber

 

Maurizio Ricciardi

 

Dipartimento di Politica, Istituzioni, Storia

Università di Bologna

                                       

 

 

 

Abstract

Analysing two quite rarely considered Max Weber’s essays on social inquiry and on the problems of social psychology the Author places them within the coordinates of weberian historical research about ethics and the spirit of capitalism. These two essays of 1908-09 anticipate many of the principal themes emerging in the successive methodological and political writings of Max Weber. At first Weber discusses the bias between qualitative and quantitative sociological research in order to determinate the role of subjective motivations inside the objective conditions of capitalist domination. The analysis of the relationship between entrepreneur and workers becomes consequently an important pointer to understand in which way Weber concretely intends the social relationship and the sources of power and authority. The weberian reconstruction of social life in the factory meets in fact the possibility of the interruption of the association based on a disciplined obedience. As registered by Weber in the two categories of Macht and Herrschaft in this situation changes the perception to be submitted to an anonymous power and emerges the presence of a personal domination.

 

Abstract

 

 

 

1. L’etica sotto inchiesta

 

Andare in fabbrica fece bene a Max Weber. Almeno così assicura sua moglie Marianne: «lavora al mattino e detta al pomeriggio, in breve “vive” come se la malattia lo avesse abbandonato». (1) È un lavoro intenso quello che per alcune settimane, nell’estate del 1908, lo scienziato sociale conduce nella fabbrica tessile di Oerlingenhausen, un’azienda alla quale Max e suo fratello Alfred sono peraltro legati da una vicenda ereditaria che il primo aveva avviato a soluzione per entrambi con grande soddisfazione e ottime previsioni di rendita. (2) Oltre che la fonte di questi benefici, per così dire, privati, la fabbrica è però anche il luogo di un approfondito lavoro scientifico. Max Weber «si immerge nell’esame dei libri paga e dei registri orari del telaio, calcola con alacrità le curve delle prestazioni orarie, giornaliere e settimanali dei tessitori, allo scopo di sondare le cause psicofisiche delle variazioni di produttività». (3)

L’interesse weberiano per l’organizzazione del lavoro all’interno di una grande impresa capitalistica ha doppia matrice. La prima è intimamente collegata ai suoi studi sulle peripezie dello spirito del capitalismo, mentre la seconda è la grande inchiesta promossa dal Verein für Sozialpolitik sulle condizioni del lavoro industriale dentro e fuori la fabbrica. La fabbrica di Oerlingenhausen gli offre la possibilità di coniugare i suoi interessi scientifici con i progetti del Verein, non sempre condivisi nella loro impostazione. E si tratta di un luogo particolarmente favorevole. L’imprenditore che vi organizza la produzione e il lavoro, dedicando parte «della sua vita laboriosa all’educazione e al benessere dei propri operai», come annota sempre Marianne Weber, è «un uomo sinceramente giusto, formato all’etica puritana». (4) Almeno inizialmente è questa figura soggettiva il centro dell’interesse weberiano. Come aveva chiarito pochi anni prima, questo tipo di imprenditore aveva scelto l’ascesi intramondana, divenendo all’alba della modernità il testimone e promotore di una condotta di vita (5) alla quale, invece, i poveri erano obbligati, non solo dalle condizioni materiali in cui vivevano, ma anche dalle convinzioni e dalle attività dei ricchi calvinisti puritani. Già Calvino, infatti, aveva stabilito una cogente simmetria tra povertà e obbedienza a Dio, mentre gli «Olandesi (Pieter de la Court e altri) avevano secolarizzato questo concetto nel senso che la massa degli uomini lavorerebbe soltanto se a ciò li costringe la necessità, e questa formulazione di un motivo ispiratore dell’economia capitalistica sfociò poi ulteriormente nella corrente della teoria della “produttività” dei bassi salari». (6) Avviene così, secondo Weber, la transizione da un’etica che riconosce il proprio fondamento religioso a quell’etica utilitarista che diviene il principio motore dell’economia capitalista e della sua società. Non cambia molto, tuttavia, se mercanti e imprenditori calvinisti hanno potuto rispondere ‘liberamente’ alla loro vocazione, mentre i lavoratori sono stati costretti a un ascetismo involontario dalle coazioni della loro condizione. Alla fine l’opera di disciplinamento esterno ottiene gli stessi risultati dell’autodisciplinamento. (7)

«La considerazione del lavoro come “professione” diventò per l’operaio moderno altrettanto caratteristica quanto per l’imprenditore la corrispondente concezione del profitto». (8) Non esiste dunque una differenza di destino tra operai e imprenditori, anche se la simmetria che Weber stabilisce tra capitalisti e operai nella comprensione delle loro differenti professioni si fonda su un’altrettanto esplicita asimmetria, dato che lo stile di vita che pone in diretta relazione azione e rinuncia è per lui fondato su un «motivo ascetico fondamentale dello stile di vita borghese». (9) D’altra parte già la «limitazione al lavoro qualificato», che dovrebbe rendere evidente la rinuncia quale tratto specificamente moderno della soggettività borghese, non è una scelta che ogni operaio può compiere solo sulla base delle proprie capacità e inclinazioni.

Siamo così di fronte a un campo di tensione che da una parte congiunge precariamente l’originaria etica protocapitalistica dei protestanti puritani con gli sviluppi utilitaristici del capitalismo stesso, mentre dall’atra pone la diversità strutturale dei soggetti che abitano l’universo capitalistico, interrogandosi tanto sulle loro concrete occupazioni quanto sul loro attuale stile di vita. (10) Se nei confronti dell’etica protocapitalistica non è possibile alcuna nostalgia, ma piuttosto un interesse presente a riattivarla, nei confronti dell’utilitarismo contemporaneo non è pensabile alcuna condanna, perché esso descrive realisticamente, e in maniera in definitiva inconfutabile, la smania acquisitiva e senza rinunce che definisce ogni individuo. Questa polarità stabilisce così da una parte l’internità critica e sempre problematica di Weber al modo di intendere l’economia proprio della Scuola storica che faceva capo a Gustav Schmoller, dall’altra l’attenzione, sebbene a distanza, all’affermarsi definitivo della rivoluzione marginalista. Schmoller e in definitiva lo stesso Verein für Sozialpolitik rischiavano sempre di sovradeterminare l’agire economico individuale a partire da un’etica dell’agire collettivo che culminava nella valorizzazione storicamente determinata della capacità di mediazione burocratica e statale. D’altra parte i marginalisti, e in particolare Carl Menger, esercitano un’attrazione scientifica notevole su Weber. Loro è, infatti, la teorizzazione di un soggetto idealtipico, le cui scelte non sono interpretate naturalisticamente secondo una psicologia e tanto meno sulla scorta di un’etica, ma come calcolo razionale dei costi e dei benefici che ogni scelta comporta. L’astrazione scientifica di un homo oeconomicus, costantemente alla ricerca razionale del proprio massimo utile, consente di interpretare oggettivamente il soggetto necessario del capitalismo contemporaneo. (11) A questa posizione scientifica, tuttavia, per quanto più logicamente coerente di quella schmolleriana, nella quale in continuazione i giudizi di valore s’incaricano di collegare e legittimare proposizioni altrimenti contraddittorie, manca quel «fondamento decisivo nella vita personale» (12) che Weber aveva cercato di rintracciare nella sua ricerca sul Lebensstil che aveva improntato il nascente capitalismo. Il campo di tensione è così definito dalla polarità tra una scienza economica, quella marginalista, secondo Weber assolutamente in grado di dare conto della realtà acquisitiva del suo tempo, e un’altra, quella storica, che riconosce la necessità di un’etica, ma, ignorando la centralità, per Weber inderogabile, dell’individuo, finisce per produrre un discorso scientifico continuamente sovradeterminato politicamente. (13)

Questo campo di tensione attraversa tutta l’opera weberiana e di esso fa parte anche la frattura tra chi ha scelto il Beruf e chi vi è stato obbligato, che evidentemente rappresenta allo stesso tempo una cesura interna al Geist capitalistico e che motiva invece l’interesse di Weber verso il ceto imprenditoriale del suo tempo. In questo senso, quando l’inchiesta del Verein è ancora in fase di gestazione, Weber scrive al fratello dichiarando quali sono le sue priorità nella ricerca. La sua idea è di proporre un’inchiesta sulla situazione del lavoro intellettuale nella grande industria moderna (Lage der geistigen Arbeit in der modernen Großindustrie). Questa «etichetta popolare» dovrebbe, però, coprire un’indagine che si rivolge in primo luogo alla «struttura interna e alle chance di vita che la grande industria chiusa forma ovvero crea», e ai «più diversi strati superiori del personale complessivo della grande industria: inclusi gli stessi imprenditori secondo la misura e il tipo delle esigenze spirituali [geistig] che affrontano, le loro necessità di formazione ecc.». Il termine geistig è utilizzato qui da Weber in riferimento al lavoro specificamente intellettuale all’interno della grande impresa, per cui per la stessa preparazione del questionario sono già rilevanti «chimici, ingegneri ecc. e “impiegati” con mansioni direttive», ma lo stesso termine lascia trapelare l’altra sua connotazione semantica che rimanda a quel Geist storicamente specifico e determinato di cui Weber vuole ostinatamente rintracciare la storia. Siamo così di fronte al doppio registro che stabilisce il tono di tutta la ricerca weberiana. Da una parte, ma con un’ineluttabile priorità alla quale non si può sfuggire, la struttura oggettiva dei rapporti sociali moderni, quella struttura che, divenuta «la gabbia d’acciaio», racchiude e obbliga ogni tipo di agire che non miri a estraniarsi totalmente dalle sue regole, dall’altra la vicenda soggettiva degli individui che hanno ampiamente contribuito a costruire questa struttura, ma che, allo stesso tempo, forse, conservano una traccia dello spirito originario e della corrispondente etica che li ha spinti all’azione. Già gli impiegati rientrano in questa ricerca in maniera più obbligata che necessaria, data non solo la difficoltà di occuparsi delle loro richieste e rivendicazioni, ma anche il fatto che il lasciarli da parte farebbe mancare «l’olio lubrificante per tenere la cosa in moto all’interno del Verein, per come è ora». (14)

In questo quadro generale per Weber dovrebbe collocarsi l’inchiesta. Il suo impegno si limita in realtà alla redazione di un promemoria per i ricercatori sul campo e a un lungo saggio, nel quale, discutendo i risultati della psicologia del lavoro contemporanea, riporta anche gli esiti delle sue ricerche nella fabbrica di Oerlingenhausen. Rispetto alle sue intenzioni iniziali l’inchiesta finisce perciò per battere altre strade, al punto che egli non sarà tra i curatori dei volumi frutto dell’indagine, né sarà presente alla loro presentazione e discussione. (15) D’altra parte anche il suo specifico lavoro d’inchiesta non si muove lungo le direttrici che quella lettera esplicitava. Come scriveva Marianne Weber, si trattò di una lunga e attenta analisi del lavoro di fabbrica, sebbene nella sua ricerca sul campo Weber non abbia intervistato direttamente i lavoratori della grande impresa. A questa scelta contribuiscono diversi fattori. In primo luogo si deve notare che essa si discosta dal precedente più prossimo della ricerca sociologica tedesca che aveva trovato voce anche all’interno del Verein. Pochi anni prima, nel 1903, infatti, Ferdinand Tönnies nel suo contributo all’inchiesta sulla gente di mare aveva sostenuto che «la fonte principale per una ricerca sulla condizione sociale di un determinato gruppo o classe è tuttavia necessariamente quella stessa classe». (16) È evidente che le situazioni e le posizioni sono assolutamente diverse. Nel 1896/97 Tönnies si era buttato nella mischia dello sciopero di Amburgo mettendo a repentaglio, nelle condizioni stabilite dalle leggi antisocialiste, e soprattutto dalla Umsturzvorlage del 17 dicembre 1894, non solo la sua carriera accademica, ma anche la sua più generica accettabilità nei circoli scientifici. Già all’epoca aveva prodotto una serie di saggi che rompevano con la tradizione di studi sulla condizione della classe operaia costituita da narrazioni delle privazioni e dello sfruttamento di cui era oggetto, per cercare di mostrare lo stesso punto di vista operaio così come emergeva da una durissima lotta. (17) Weber non disconosce la necessità di ricostruire il punto di vista soggettivo di parte operaia. Anzi insiste affinché i ricercatori del Verein producano interviste strutturate che raccolgano la voce dei lavoratori, ma è soprattutto convinto che a essere restituito deve essere il quadro oggettivo dei rapporti. Il ricercatore non dovrà interrogarsi sulla legittimità di eventuali rivendicazioni degli operai, ma cercare di ricostruire la loro genesi e il loro rapporto con l’organizzazione complessiva dell’impresa, così come la vicenda individuale del singolo operaio. Esse dovranno in definitiva essere considerate e analizzate come «sintomi di attriti insiti nel processo di sviluppo», (18) dovranno cioè essere inquadrate sullo sfondo di un movimento oggettivo di razionalizzazione dei rapporti di lavoro che non potranno in nessun caso trascendere.

D’altra parte Weber è consapevole sia delle difficoltà che porrebbe a lui il rapporto con gli operai, sia degli ostacoli che porrebbero gli imprenditori. Quest’ultimo impedimento gli era già stato chiaro in occasione della sua precedente inchiesta sui lavoratori agricoli a est dell’Elba. Già allora, infatti, aveva dovuto accontentarsi del «punto di vista che datori di lavoro agricoli capaci e senza dubbio benevoli danno riguardo alla condizione dei loro lavoratori», affidandosi ai pastori e alla fiducia di cui godevano all’interno delle comunità per ricostruire il «punto di vista soggettivo dei lavoratori». (19) Accanto all’atteggiamento diffidente degli imprenditori, che si ripeterà anche in questa occasione, determinando il sostanziale fallimento dell’inchiesta del Verein, (20) vi sono tuttavia motivazioni legate allo stesso rapporto tra il ricercatore sociale e i soggetti da intervistare, dal momento che la distanza politica tra le due figure finisce per influenzare in maniera determinante non solo le risposte, ma anche la loro successiva interpretazione da parte del ricercatore. In questo senso, parlando del volume di interviste di Adolf Levenstein, ricercatore sociale e militante socialdemocratico, Weber rileva che quest’ultimo «in quanto “compagno” può utilizzare il “tu”», stabilendo una vicinanza altrimenti impossibile per il ricercatore esterno. Le conseguenze di questa distanza emergono sul piano dell’interpretazione dei dati raccolti, nel momento in cui le aspirazioni, i desideri, le rappresentazioni degli operai appaiono talmente diversi dalle dottrine ufficiali anche socialiste «che si può correre il pericolo di vedere nel proletario […] solo il “piccolo-borghese” in una situazione di interessi modificata quasi casualmente». (21) Ancora una volta è sul terreno dello stile di vita che si giocano le affinità e le differenze. E questa sarà anche l’ultima indicazione data da Weber ai ricercatori del Verein, ricordando loro che lo sviluppo della grande fabbrica induce mutamenti in larga misura indifferenti all’organizzazione capitalistica o socialistica della produzione: «essa esercita sugli uomini e sul loro “stile di vita” degli effetti di vasta portata che le sono specificamente propri». Essa impone, e qui affiora tutta l’insoddisfazione weberiana per la soluzione marginalista e, allo stesso tempo, la sua ricetta senza prescrizioni di un possibile diverso sviluppo, forme di agire fondate esclusivamente sul calcolo razionale e la riduzione di ogni relazione politica al suo interno al «calcolo privato dei costi e dei profitti dell’imprenditore», al punto che l’introduzione di una «qualsiasi forma di “solidarietà” economica comunitaria, modificherebbe radicalmente lo spirito che regna in questa mostruosa gabbia, e nessuno può nemmeno sospettarne le conseguenze». Come abbiamo detto, tuttavia, il versante soggettivo che può provocare eventuali deviazioni dagli sviluppi in atto rimane costantemente subordinato all’indagine sull’affermazione oggettiva del capitalismo di fabbrica. L’inchiesta deve quindi accontentarsi della consapevolezza che l’apparato di fabbrica «ha trasformato il volto spirituale del genere umano sì da renderlo irriconoscibile e lo trasformerà ancora ulteriormente». (22)

 

 

2. Psicofisica del lavoro quotidiano

 

Indagare il lavoro industriale ha avuto per lo sviluppo dell’opera weberiana un significato politico complessivo che va oltre il chiaro intento metodologico che caratterizza gli interventi specifici. Esplicitamente, nel pieno della disputa sui giudizi di valore, Weber sottolinea, infatti, che «il Verein für Sozialpolitik entra con questa ricerca nel campo dei lavori utili a scopi esclusivamente scientifici». (23) I contributi che verranno pubblicati dovranno quindi avere uno scopo esclusivamente inerente alla scienza sociale, restando lontani da ogni possibile tendenza della politica sociale. Accanto a questa battaglia interna al Verein gli scritti weberiani contengono una seconda intenzione metodologica. Il loro fine, infatti, è esplicitamente quello di verificare da un lato le ipotesi collegate in gradi diversi all’evoluzionismo sociale di derivazione più o meno darwiniana, mentre dall’altro lato si tratta di segnare i confini con una scienza sperimentale come la psicologia e, più in generale, fare i conti con il necessario carattere quantitativo delle scienze sociali moderne.

I dubbi di Weber sulla possibilità di trovare riscontri positivi alle ipotesi evoluzioniste sono molto espliciti. In ogni caso per lui è necessario riconoscere che il “sociale” in quanto terreno di indagine si configura come un campo chiuso, i cui rapporti interni possono avere eventuali cause di ordine storico che devono essere considerate prioritariamente rispetto a nebulose ipotesi biologiche legate alla ereditarietà del carattere e delle inclinazioni. L’indicazione ai ricercatori è di conseguenza «di non partire da ipotesi intorno all’ereditarietà nell’analizzare i fondamenti delle differenze nell’idoneità del lavoro […] è opportuno invece incominciare sempre con un’indagine volta ad accertare gli influssi dell’origine sociale e culturale, dell’educazione e della tradizione e di procedere fin dove è possibile con questo principio esplicativo». (24)

Weber si allontana così decisamente dal sostanzialismo che sta alla base di quelle ipotesi, giungendo in tal modo anche a prendere le distanze dal fratello, che era invece assai più sensibile tanto all’evoluzionismo sociologico quanto al vitalismo che caratterizzava la cultura non solo tedesca dell’epoca.

Weber prende molto più sul serio il confronto con la psicologia sperimentale che produce dati con una pretesa di oggettività e quindi comparabili con quelli della ricerca economica. Il serrato confronto avviene in particolare con le opere di Emil Kraepelin e con quelle più significative della sua scuola. Le indagini di Kraepelin, verso il quale Weber mostra a più riprese il massimo rispetto scientifico, approdano alla costruzione di una Arbeitskurve che dovrebbe rappresentare il rapporto tra tempo di lavoro e affaticamento. L’idea che la fonda è quella del lavoro come mera fatica fisica, rispetto alla quale si può stabilire in quale periodo della giornata, della settimana, del mese viene concentrato il massimo sforzo. In modo complementare si possono così stabilire, secondo Kraepelin, i tempi e i modi necessari affinché le energie fisiche e psichiche impiegate possano essere reintegrate. (25) Il dispendio di energia viene allo stesso tempo collegato tanto alla capacità di apprendimento delle mansioni quanto all’addestramento del singolo operaio, quanto infine alla possibilità di avere un tempo sufficiente di non lavoro e di sonno. L’obiezione generale, per così dire economica, opposta da Weber a questo approccio è che l’impresa moderna non punta al risparmio di energia, ma a risparmiare sui costi. La fatica fisica non è quindi un problema prioritario nel calcolo della redditività. Anche sul terreno della costruzione dell’ipotesi scientifica vi è un’altra obiezione che vale la pena sottolineare, perché sottintende una presa di posizione sulla misurazione della qualità dell’individuo al lavoro che emerge in tutta chiarezza come vedremo a proposito delle medie statistiche. Articolare l’indagine psicologica attorno ai criteri della durata e dell’intensità dello sforzo emotivo impedisce l’accesso alla dimensione specificamente individuale della ricerca che, come vedremo, è invece una preoccupazione fondamentale dell’intervento weberiano: «è vero che i vecchi “quattro temperamenti” oggi sono stati perlomeno sostituiti dalle quattro possibili combinazioni di intensità e durata della “situazione emotiva” presente di volta in volta. Tuttavia il contenuto qualitativo insito nei vecchi concetti va in questo modo perso». (26) Percorsa da questa tensione quantitativa per stabilire una base oggettiva delle sue ricerche, la psichiatria finisce per considerare il proprio oggetto di studio come secondario e derivato, inclinando sempre più a considerare « “reali” i processi somatici e [ritenendo] quelli psichici “modi fenomenici” accidentali». (27) In questo modo essa evita di interrogarsi sulle motivazioni stesse della scelta lavorativa, come pure sull’accettazione dell’intero destino lavorativo, considerandole come presupposti indiscussi perché indiscutibili di tutto il suo discorso. Weber, al contrario, pur consapevole della difficoltà di una regressione causale che giunga fino alle basi motivazionali delle azioni, le considera un dato irrinunciabile quando si voglia risalire ai motivi che hanno prodotto per esempio un accordo sul cottimo. La distanza che Weber stabilisce tra il suo metodo individualizzante e le regolarità presupposte dalla psicologia sperimentale si rispecchia peraltro nella critica puntigliosa all’utilizzazione delle medie statistiche per descrivere i fenomeni di massa. Vi è infatti per lui una relazione non scontata tra le ricerche sui casi singoli e le emergenze di massa. Quando Weber afferma che è necessario «orientarsi costantemente verso le medie», per distinguere «ciò che è totalmente singolare da ciò che è generalmente eccezionale», annuncia in modo chiarissimo la sua attenzione per la singolarità, per quella espressione individuale che deve servire da fondamento di ogni esemplificazione dei fenomeni collettivi. Per Weber è assodato che «l’indagine sul caso singolo ha principalmente, allo stato attuale dei problemi, un valore e un senso di “critica dei numeri”». (28) L’analisi dei rapporti di fabbrica mostra in modo assolutamente chiaro che i metodi esclusivamente quantitativi della psicologia sperimentale non possono divenire patrimonio di tutte le scienze sociali anche perché essa opera all’interno di laboratori, nei quali riesce a controllare pienamente i propri esperimenti, mentre le seconde devono fare i conti con la dimensione immediatamente di massa dei fenomeni. Affermare questa dimensione non significa tanto per Weber contestare la validità dei risultati ottenuti sperimentalmente; non significa cioè negare in assoluto l’attendibilità scientifica delle prove sperimentali; significa piuttosto sottolineare la specificità dei rapporti di fabbrica. Qui, infatti, la dimensione di massa esprime una serie di variabili sul piano delle motivazioni, dell’organizzazione e dei rapporti di potere che non solo sono difficilmente misurabili, ma che rimandano anche al carattere immediatamente politico del rapporto di lavoro. La psicologia sperimentale paradossalmente assume una prospettiva eccessivamente individualizzate. (29) Essa riduce ogni singolo alla dimensione naturalistica dell’animale da lavoro o, per meglio dire, a quello artificiale della macchina umana e ignora non solo le motivazioni che fanno di ogni singolo un individuo, ma anche il quadro complessivo nel quale si inseriscono dando loro senso. (30) Essa così si sottrae alla comprensione di quelle individualità storiche che, senza avere una costituzione organicamente stabile e definita, sono tuttavia presenti come fenomeni di massa che raccolgono una pluralità per quanto disomogenea di individui attorno a un’unica e determinata azione storica che rimane comunque per Weber attribuibile agli individui che la compongono. (31) Per restare all’interno di quella che sarà la sistemazione complessiva delle categorie weberiane, si potrebbe dire che, se da un lato la fabbrica non è un laboratorio, dall’altro essa non è nemmeno una comunità di produzione, ma un processo di messa in società che può conoscere solo una istituzionalizzazione economica e giuridica, ma non una composizione di interessi individuali presenti. (32)

Un esito di questo confronto è dunque l’affinamento della metodologia weberiana, che annuncia il passaggio dalla Nationalökonomie alla sociologia. Vi sono tuttavia altri percorsi dell’analisi weberiana che aprono direttamente il discorso sul rapporto politico che si instaura all’interno della fabbrica e che, come vedremo, rimarranno come costanti negli stessi interventi pubblici di Max Weber. Si deve perciò tornare all’analisi delle motivazioni che portano ad accettare il destino di fabbrica, perché essa si presenta in prima battuta come snodo tra le diverse esigenze disciplinari e quindi come punto di partenza per considerazioni di più immediata portata politica.

Scrive dunque Weber che, accanto alle discipline fisiologiche, psicologiche e igieniche, ci sono le discipline economiche. Esse considerano il lavoratore da diversi punti di vista, ma la prospettiva privilegiata è pur sempre quella della «redditività economica privata», in forza della quale il lavoratore non è nient’altro «che un mezzo di produzione redditizio, delle cui qualità e “capricci” bisogna “tener conto”, come di un qualsiasi strumento di lavoro meccanico» (33). Lo strumento umano non è tuttavia utilizzabile al di fuori di quelle forme di coazione e di scambio che sfuggono al metodo della psicologia sperimentale con il suo intendere il lavoro à la Rousseau, ovvero come mera fatica, poi misurabile semplicemente in base a calcoli ergonomici. La stessa meccanizzazione della produzione non è avvenuta per Weber sulla spinta del progredire autonomo dello sviluppo tecnico, ma piuttosto con lo scopo e la necessità di dare ritmo al lavoro, «perché essa rende notevolmente più facile la produzione delle reazioni tipiche, senza che siano necessari impulsi articolati della volontà e ciò sia in prestazioni “fisiche” che “intellettuali”». (34) Coerentemente con il suo discorso, tuttavia, Weber non riduce il lavoro di fabbrica alla sua meccanicità, delineando un quadro assai più complesso, nel quale all’interno delle reali condizioni lavorative non è sempre semplice distinguere sia tra lavoro qualificato e non qualificato sia tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. (35)

Per tutti questi motivi la selezione della manodopera più adatta non avviene secondo le modalità previste dalle teorie evoluzioniste. L’adattamento non è naturale, ma disciplinato e selettivo, così come l’aumento delle prestazioni non dipende esclusivamente dalle condizioni di erogazione della forza lavoro, ma da ciò che le stabilisce e dalle loro conseguenze: «la possibilità d’impiegare il mezzo estremo, la frusta – sempre minacciosa – della disoccupazione, contribuisce al dispiegamento dell’efficienza delle maestranze almeno nella stessa misura della dipendenza diretta del guadagno dalla prestazione, stabilita nel sistema di salario a cottimo». (36) La figura del salario, che nella fabbrica di Oerlingenhausen è calcolato appunto a cottimo, con la sua necessità e il suo ammontare, con il suo essere l’espressione formale di una simmetria mercantile, coagula dunque più contraddizioni di quanto il semplice calcolo possa rilevare. Si può dire che, se dal punto di vista del calcolo del capitale il salario è la forma conclusiva del rapporto di lavoro, da quello dei lavoratori essa è invece una figura non statica ma aperta che, dato il carattere fisso del salario nominale, impone di agire sulla qualità del tempo di lavoro che viene ceduta. In questo senso esso non è solo la registrazione contabile di una compravendita, ma l’espressione dinamica di un rapporto per il quale si rivelano insufficienti i criteri dell’economia politica e diviene una volta di più necessario rivolgersi alla storia e alla sociologia: «in primo luogo, sul piano delle considerazioni razionali, ci scontreremo sempre e comunque con il fatto che i lavoratori regolano sistematicamente la misura e il tipo delle loro prestazioni per scopi materiali (cioè di guadagno), la aumentano e la diminuiscono o, coesistendo più prestazioni, cambiano tipo di combinazione». (37) La segmentazione della mansione lavorativa, la ricerca di mezzi tecnici per conoscere la produttività di ogni singolo addetto, l’imputazione delle quote di salario a ogni frazione di prodotto, tutta questa serie di calcoli non è sufficiente a dare conto dell’agire complessivo dei lavoratori. L’arcano della cooperazione non è risolvibile a partire dal singolo lavoro e tanto meno frazionandolo. Il salario, in particolare nella sua forma monetaria, e ancor più di quando non segue criteri tradizionali ma razionali e fondati sulla contabilità, è per Weber una figura della razionalizzazione capitalistica del rapporto di produzione; il suo studio rivela però che all’interno della fabbrica non si incontrano solo contraenti, ma si contrappongono due Mächte con le loro diverse strategie. Ciò che lo studio del salario rivela, infatti, è che le necessità capitalistiche di controllo e di accrescimento della produttività sono contrastate giorno per giorno, incidendo in maniera consistente sulla cooperazione che produce i profitti. In questo senso si è parlato di politicità del rapporto di lavoro, perché controllo sulla produzione e dominio del tempo si rivelano non essere nella piena disponibilità della decisione imprenditoriale. Non solo il materiale scientifico utilizzato da Weber si riferisce a industrie «nelle quali esiste una notevole influenza dei lavoratori sui ritmi e la qualità della produzione», (38) ma anche, per quanto riguarda il suo studio specifico sulla fabbrica di Oerlingenhausen, egli deve registrare che «d’altro canto, il tempo di lavoro dipende in misura tuttavia considerevole non dalla particolare capacità, bensì anche dalla volontà dell’operaio, che può lasciare fermo il telaio, per accomodare un filo rotto o per rimediare a un groviglio nel filo dell’ordito, tanto a lungo quanto vuole o abbisogna per riposarsi». (39) Il susseguirsi dei numeri e delle tabelle puntigliosamente approntate da Weber, i controlli numerici più moderni, le innovazioni tecniche e organizzative, lasciano emergere quello che si profila come un scacco dell’opera di disciplinamento e selezione della forza lavoro.

All’interno dell’innovazione costante dei mezzi di controllo della produttività, che d’altra parte gli operai «se ne avessero il potere [Macht]» rifiuterebbero, sopravvivono forme di resistenza al lavoro sia esso monotono sia che necessiti di impegno intellettuale. I calcoli weberiani, confermati dalle «opinioni dei direttori», mostrano che «la peggiore giornata lavorativa è il lunedì». (40) Weber scopre così che persistenza di quel San Lunedì che è stato uno dei costumi più diffusi tra i lavoratori europei nella prima fase dell’industrializzazione. (41) Ma altri comportamenti soggettivi anche più significativi sono registrati dallo sguardo oggettivo di Weber. Il tempo di lavoro non scorre più omogeneo all’interno della fabbrica, ma è caratterizzato da rallentamenti e da sottrazioni, è improntato da uno scontro di potere all’interno del quale, come ora vedremo, Weber cerca di rinvenire gli elementi etici che mostrino la continuità con lo spirito originario del capitalismo. Il punto è che all’interno dell’azienda i rischi si dispongono asimmetricamente, al punto da impedire che si stabilisca un’unità complessiva di intenti e di interessi. Come abbiamo detto, la fabbrica non è una comunità di produzione. Da un lato, infatti, i lavoratori non dipendono interamente dalle loro scelte né per quanto riguarda la produttività né per quanto concerne la qualità della produzione. L’agire dell’imprenditore è il presupposto indiscutibile di ogni effetto che loro possono produrre ed è tale non solo in fabbrica, ma per l’esistenza complessiva dei lavoratori: «la tanto diffusa affermazione secondo la quale “è l’imprenditore” a correre il rischio dell’impresa è, anche solo in un’accezione strettamente economica, totalmente falsa». (42) Il rischio dei lavoratori non  solo il fallimento dell’azienda, con il loro conseguente licenziamento, ma anche di trovarsi a lavorare con macchine inadeguate o con materia prima scadente. Ma il rischio principale è che il processo lavorativo sia completamente sottratto al loro controllo e la risposta non viene data i termini individuali, ma costruendo strategie solidali, per quanto non necessariamente politicamente strutturate, di controllo sul ciclo di lavorazione: «il “frenare”, non solo quello involontario, conforme allo stato d’animo, bensì quello consapevole e intenzionale, si riscontra anche in assenza di qualsiasi forma di organizzazione sindacale, ovunque si stabilisca una certa solidarietà tra i lavoratori o tra una parte significativa di essi. Parlando in termini molto generali, questa è, molto spesso, la forma con cui i lavoratori – coscienti e tenaci, ma muti – mercanteggiano e lottano per ottenere un prezzo di vendita più alto per la propria prestazione». (43)

 

 

3. Unter der Herrschaft des Kapitalismus

 

Siamo così nuovamente di fronte al problema delle motivazioni. Se esso non è risolvibile con gli strumenti della psicologia, le sue soluzioni sembrano essere solamente due. La prima è la sempre presente frusta della minaccia della disoccupazione, accompagnata dalla disciplina di fabbrica che si incarica di stabilire delle motivazioni che, per quanto meccaniche e per nulla interiorizzate, sono assolutamente efficaci dal punto di vista della produttività. La seconda soluzione è un’etica della responsabilità del lavoro che s’incarichi di razionalizzare quei comportamenti, certamente non irrazionali dal punto di vista soggettivo ma incompatibili con la prospettiva della redditività aziendale. Queste due soluzioni non si presentano come alternative. Esse convivono nello stesso spazio, al punto che ognuna tende sempre a mostrare anche la possibilità dell’altra, come pure l’eventualità, compresa da Weber, ma che rimane da lui impensata e impensabile, che, come abbiamo visto, la solidarietà tra i lavoratori modifichi «radicalmente lo spirito che regna in questa mostruosa gabbia».

Sottrarsi alla disciplina di fabbrica non stabilisce per Weber un agire irrazionale o tradizionalistico, ma contiene una tensione razionale a voler partecipare alla determinazione del salario. Questa tensione si esprime in una «forma di lotta», che non ha bisogno di un apparato organizzativo e, proprio per questo, per Weber è più immediata, diffusa, incisiva dello stesso sciopero. Anzi, nell’asimmetria costitutiva tra imprenditore e lavoratori che essa evidenzia, nel mostrare la possibilità di una rottura del nesso tra autorità e obbedienza, cioè del rapporto sociale in fabbrica, si dà la possibilità di una rottura anche di quella tensione partecipativa che essa contiene ed esprime: «il licenziamento, senza motivi validi, di un lavoratore non noto come incapace, per una presunta opera di “frenaggio”, in una situazione in cui i lavoratori non fossero del tutto privi di potere [machtlos], comporterebbe il sorgere di un odio [Odium], nei confronti dell’imprenditore, non facile da reggere» (44). E l’odio è qualcosa di più della generica conflittualità. Cancella la tensione a partecipare perché l’eventuale sanzione è oggettivamente impossibile da ricondurre al comportamento di un singolo lavoratore: «l’avversario non è in alcun modo in grado di dimostrare al singolo che e con quanta forza egli ha effettivamente frenato». (45) Prodromo dell’individualismo metodologico che in seguito Weber notoriamente sistematizza con tanta incisività, (46) questa affermazione ne lascia intravedere il senso politico profondo. La sospensione della possibilità di imputare al singolo un agire determinato contiene in sé l’impossibilità stessa di continuare a definire la relazione nei termini di quel rapporto sociale che sta alla base dell’intera sociologia weberiana. L’imputazione al singolo non è solo un criterio metodologico; o meglio, quest’ultimo schiude anche la possibilità di tipizzare i comportamenti oggettivamente, sfuggendo alla loro coniugazione meramente soggettiva. Ciò non vale per Weber solamente di fronte all’indisciplina operaia, ma anche di fronte alle modalità di costruzione del discorso scientifico. Nel corso della ricerca sul campo delle prestazioni lavorative si è continuamente imbattuto «nel significato delle caratteristiche individuali», verificando come «non tutti ma moltissimi operai mostrano in modo evidente qualità “tipiche”, che cioè si ripetono in maniera simile nella maggioranza dei loro rendimenti lavorativi». (47) L’individualizzazione non è per Weber la valorizzazione della singolarità, ma il presupposto della tipizzazione. E si tratta di un procedimento tanto più necessario, nel momento in cui la stessa scienza sociale indulge alla costruzione di “oggetti scientifici” ambigui quando non confusi. Su questo terreno, si potrebbe dire, emerge il passaggio dalla Nationalökonomie alla sociologia in forza di una critica diretta che è allo stesso tempo una presa di posizione all’interno del dibattito sul metodo sociologico. Categorie come milieu o anche predisposizione – ma si dovrebbe aggiungere su di un piano solo apparentemente eterogeneo la distanza di Weber dalla categoria simmeliana di interazione – grazie alla quale «i sociologi suddividono tutte le (ipotetiche) determinanti della qualità concreta di individuo», (48) finiscono per lasciare indeterminati i caratteri dell’individuo stesso e precludono la via di ogni possibile tipizzazione.

D’altra parte la stessa tipizzazione delle forme di agire individuale non è pensabile naturalisticamente, ma essa è possibile solo se è frutto di una disciplina o di un’etica razionalmente ricostruibili, altrimenti il deprecato ricorso alle predisposizioni tornerebbe ad avere validità ed efficacia. Weber è talmente colpito dall’impatto politico che la sottrazione alla disciplina di fabbrica evidenzia da prevedere che essa diverrà la forma di lotta predominante nel futuro: «con l’aumento del potere delle associazioni operaie, questa forma di lotta è destinata a divenire predominante, a spese dello sciopero, privo, al confronto, di grandi prospettive». (49) Se ci si attiene agli eventi storici dei decenni successivi, mai previsione fu più improbabile e disattesa. Se si guarda alla grande stagione europea di scioperi tra il 1905 e il 1907, cioè all’immediata vigilia del saggio weberiano, l’affermazione appare ancora più incredibile. (50) È davvero difficile dare ragione di una simile previsione. Se si esclude la possibile rivolta del “borghese” Weber contro quanto era successo nel biennio precedente, rimane la sua ricerca delle modalità che anche in fabbrica riescono a stabilire un «fondamento decisivo nella vita personale» a partire dal lavoro stesso. Il sottrarsi alla disciplina di fabbrica sembra essere colto nel suo rovescio, nel suo essere comunque legato alla prestazione lavorativa, mentre lo sciopero allude a una rottura esplicita del rapporto sociale, a una sottrazione che nega il rapporto formale di lavoro. D’altra parte proprio la centralità riconosciuta alla categoria di rapporto spiega perché, a differenza di quanto accaduto nella ricerca sui lavoratori agricoli, il riferimento alla Arbeitsverfassung non giochi qui alcun ruolo. (51) Qui non è questione di comunità di interessi o di produzione; se è rinvenibile un contenuto etico nelle diverse forme di agire, esso si colloca nella posizione e nei comportamenti che le differenti individualità assumono all’interno dell’azienda. Non è probabilmente casuale da questo punto di vista che Weber evidenzi subito il contenuto etico che motiva l’agire dei sindacalisti socialdemocratici all’interno delle fabbriche. Quel contenuto etico ha due conseguenze: da una parte una produttività superiore a quella di tutti gli altri operai, dall’altra parte una maggiore combattività per vedere riconosciuto il valore del loro lavoro. È invece certamente significativo che Weber individui lo stesso atteggiamento nelle operaie che, provenendo da conventicole pietiste, mostrano nei fatti la stessa intransigenza nel difendere le proprie pretese, sebbene con un «senso di giustizia estremamente individualistico», cioè non inserito in progetti collettivi e per di più con una ostilità manifesta verso ogni forma di sindacalizzazione. Questi sono i due poli etici che emergono dalla ricerca weberiana: il “tipo” del sindacalista socialdemocratico, del quale gli imprenditori dovrebbero secondo Weber riconoscere l’utilità più di quanto ne biasimino e temano la combattività, e l’operaia di ambiente pietistico, i cui comportamenti vengono letti «alla luce dell’abitudine dei pietisti di disprezzare luoghi di piacere (come i locali da ballo) come conseguenze dell’ “ascesi protestante”, in altre parole, della conseguente disposizione interiore nei confronti della propria professione “voluta da Dio”». (52)

Nella loro polarizzazione queste due figure “etiche” sembrano rappresentare il riconoscimento del lavoro come professione «sotto il dominio del capitalismo». (53) Entrambe mostrano, per così dire, un’eccedenza etica rispetto al loro essere semplicemente delle macchine da lavoro. Entrambe contribuiscono a porre il problema che d’ora in avanti Weber avrà sempre presente. Esse mostrano che non è possibile ridurre gli individui al ruolo di macchine umane, mentre allo stesso tempo incarnano i tipi umani che più di tutti gli altri sono disponibili a spingere in avanti il processo di universale burocratizzazione, di calcolabilità, di razionalizzazione costante dell’economia capitalistica. Il Mensch, che parte dalla più recente e interessante letteratura ha individuato quale oggetto centrale della scienza weberiana, (54) si trova catturato in questo doppio movimento: da una parte l’agire motivato dalla consapevolezza etica della sua individualità, dall’altra l’adesione quasi paradossale al meccanismo che nega ogni individualità. L’impossibile ontologia weberiana finisce così per essere presa nello scacco del suo soggetto, cioè del tipo di individuo che, al momento della genesi del capitalismo, è stato il portatore dello spirito capitalistico e ora si trova a doverlo riaffermare dentro le condizioni che egli stesso ha generato, ma che gli sono completamente sfuggite di mano. A più riprese Weber nega che si possa oltrepassare l’orizzonte stabilito dalla razionale calcolabilità della burocratizzazione universale; non è possibile sottrarsi a questo destino riattivando lo spirito originario, perché la macchina universale è esattamente l’incarnazione di quello spirito. La burocrazia è la vera macchina umana: «di fatto non esiste niente al mondo, nessun macchinario al mondo, che lavori con tanta precisione come fa questa macchina umana [Menschenmaschine] –e per di più: così a buon mercato»! (55) Si dovrebbe dire che proprio perché l’uomo è nella macchina non è possibile mutare nulla di ciò che sta accadendo. «La domanda che ci occupa non è: come si può cambiare qualcosa in questo sviluppo? Infatti non si può farlo. Bensì: che cosa consegue da esso»? (56) Queste domande riecheggiano le indicazioni ultime che, come abbiamo visto, Weber aveva dato ai ricercatori che si sarebbero impegnati nell’inchiesta del Verein. A esse tuttavia si aggiunge una preoccupazione, che ritornerà sempre più spesso anche negli anni successivi, sulla necessità di sottrarsi al modello d’ordine, che sembra replicare quello dell’antico Egitto, nel quale ognuno cerca solo il posto migliore da occupare: «che il mondo non conosca oggi altro che tali uomini d’ordine [Ordnungsmenschen], è lo sviluppo nel quale siamo in ogni caso coinvolti; e la questione di fondo quindi non sta nel chiedersi come possiamo promuovere e accelerare questo sviluppo, ma nel sapere che cosa abbiamo da opporre a un tale meccanismo per conservare un resto di umanità [Menschentum] in questa parcellizzazione dell’anima, in questo dominio assoluto dell’ideale burocratico». (57) Chi è allora il perfetto Ordnungsmensch? Il tipo burocratico che è sempre alla ricerca del giusto posto da occupare, oppure il sindacalista socialdemocratico o l’operaia di ambiente pietistico, che con i loro comportamenti rivendicano giustizia e contemporaneamente affermano il proprio lavoro come professione? In verità, i lavoratori come tali esprimono per Weber entrambe le facce di questo problema. Essi sono i portatori di quelle pretese di giustizia materiale che continuamente rischiano di mettere in crisi il carattere formale del diritto moderno, mentre il loro lavoro è a pieno titolo uno dei caratteri costitutivi dello stesso dominio capitalistico.

Nella Vorbemerkung alla Religionssoziologie, scritta poco prima della morte, Weber salda il debito che lo studio del 1905 lasciava scoperto. Nell’Etica protestante i lavoratori, come abbiamo visto, ricoprivano un ruolo quasi residuale rispetto alla genesi e al dispiegarsi dell’individualità imprenditoriale capitalista. Se è vero che il «nostro problema» rimane «la genesi del capitalismo d’impresa borghese con la sua organizzazione del lavoro libero», è anche vero che, con frasi che “imitano” la prosa del Manifesto di Marx ed Engels, Weber afferma che un carattere peculiare dell’Occidente è «l’antitesi [Gegensatz] moderna tra imprenditore della grande industria e libero lavoratore salariato». (58) Nel carattere formale di questa libertà Weber tuttavia vede un elemento di garanzia dell’indipendenza individuale, non una diminuzione della libertà stessa. (59) La formalità assoluta del diritto è ciò che dovrebbe rendere accettabile quel «contratto unilaterale di sottomissione» (60) che è il contratto di lavoro. Su questo terreno, tuttavia, risulta assai complesso riconoscere solo una Herrschaft impersonale come quella del capitalismo. In altri termini la presenza della Herrschaft non appare solo come «un caso speciale della Macht» (61), cioè di una relazione la cui forma può essere decisa nel corso della lotta; essa appare piuttosto come un’eccedenza politica che verifica praticamente l’asimmetria costitutiva del rapporto sociale. Se la Macht, infatti, è, in termini weberiani, l’espressione di una relazione che si forma grazie alla lotta tra le parti, alla Herrschaft, costituita in una situazione di monopolio, corrisponde la tendenza a trasformarsi in dominio autoritario, riducendo quel «minimo di interesse personale da parte di colui che obbedisce [che] rimane normalmente come indispensabile molla della obbedienza». (62) Su questo terreno, sul quale il bisogno di obbedire non è solo precario e disciplinato, (63) ma anche personalmente rischioso, risulta assai complesso riferirsi al Mensch, cioè a un tipo unitario di individualità; e il rapporto sociale rischia sempre di essere restituito alla possibilità di una tensione «assai difficile da reggere».

 

 

Note

 

(1) Marianne Weber, Max Weber. Ein Lebensbild, München 1989, p. 399 (tr. it. Max Weber. Una biografia, Bologna 1995, p. 473)

(2) Cfr. la lettera di Max a Alfred Weber del 3 settembre 1907, in M. Weber, Briefe 1906-1908, hrsg. von M. R. Lepsius und W. J. Mommsen in Zusammenarbeit mit B. Rudhard und M. Schon, Tübingen 1990, p. 381. Sui rapporti personali, scientifici e politici tra i due fratelli cfr. E. Demm, Alfred Weber und sein Bruder Max. Zum 25. Todestag Alfred Webers am 2. mai 1983, in “Kölner Zeitschrift für Soziologie”, 35, 1983, pp. 1-28.

(3) Marianne Weber, Max Weber, cit., p. 345 (tr. it. cit., p. 414). 

(4) Ibidem, p. 398 (tr. it. cit., p. 472).

(5) Cfr. P. Schiera, La conception weberienne de la discipline et le thème de la “Lebensführung”, in “Scienza & Politica”, 8, 1993, pp. 73-91.

(6) M. Weber, Die protestantische Ethik und der Geist der Kapitalismus, in Id. Gesammelte Aufsätze für Religionssoziologie, Tübingen, 1988, p. 199 (tr. it. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, in Id., Sociologia della religione, vol. I, Milano, 1982, pp. 187-188).

(7) Sul significato storico-costituzionale del processo moderno di disciplinamento cfr. P. Schiera, Specchi della politica. Disciplina, melanconia, socialità nell’Occidente moderno, Bologna 1999.

(8) M. Weber, Die protestantische Ethik, cit., p. 201 (tr. it. cit., p. 189)

(9) Ibidem, p. 203 (tr. it. cit., p. 191)

(10) Sulla concettualizzazione weberiana del capitalismo mi permetto il rimando a M. Ricciardi, Modelli capitali. Note su alcune ricostruzioni storico-concettuali del capitalismo, in I confini della globalizzazione. Lavoro, culture, cittadinanza, a cura di S. Mezzadra e A. Petrillo, Roma 2000, pp. 39-66.

(11) Questa tensione weberiana emerge molto chiaramente in La legge dell’utilità marginale e la «legge fondamentale della psicofisica» (1908), tr. it. in M. Weber, Saggi sulla dottrina della scienza, Bari 1980, pp. 143-159. Cfr. anche M. Zafirovski, Max Weber’s Analysis of Marginal Utility Theory and Psychology Revisited: Latent Propositions in Economic Sociology and the Sociology of Economics, in “History of Political Economy”, 33, 2001, pp. 437-458.

(12) M. Weber, Antikritisches Schlußwort zum «Geist des Kapitalismus» in Id., Die protestantische Ethik II. Kritiken und Antikritiken, Gütersloh 1987, pp. 283-345, p. 296.

(13) Cfr. W. Hennis, Max Weber Fragestellung. Studien zur Biographie des Werks, Tübingen 1987, pp. 117-166 e Id., «Die volle Nüchternheit des Urteils». Max Weber zwischen Carl Menger und Gustav Schmoller. Zum hochschulpolitischen Hintergrund des Wertfreitheitspostulats, in Max Webers Wissenschaftslehre. Interpretation und Kritik, hrsg. von G. Wagner und H. Zipprian, Frankfurt a. M. 1994, pp. 105-145; K. Tribe, Strategies of Economic Order. German Economic Discourse 1750-1950, Cambridge-New York 1995, pp. 66-94.

(14) Max ad Alfred Weber, 3 settembre 1907, in M. Weber, Briefe 1906-1908, cit., p. 383.

(15) Cfr. da punti di vista differenti N. M. De Feo, Riformismo Razionalizzazione Autonomia operaia. Il Verein für Sozialpolitik 1872-1933, Manduria-Bari-Roma 1992, pp. 199-219; I. Gorges, Sozialforschung in Deutschland 1872-1914. Gesellschaftliche Einflusse auf Themen- und Methodenwahl des Vereins für Sozialpolitik, Königstein/Ts. 1980, pp. 457-470; D. Lindenlaub, Richtungskämpfe im Verein für Sozialpolitik im Kaiserreich vornehmlich vom Beginn des ‘neuen Kurses’ bis zum Ausbruch des ersten Weltkrieges, 1890-1914, Wiesbaden 1967, pp. 137 ss.

(16) Cfr. F. Tönnies, Die Ostsseehäfen Flensburg, Kiel, Lübeck, in Die Lage der in der Seeschiffart beschäftigen Arbeiter, (Schriften des Vereins für Sozialpolitik, Bd. 104, I Abt., T. 1), Leipzig 1903, pp. 509-614, p. 515. Per la ricostruzione delle diverse stagioni della “sociologia del lavoro” tedesca rimane fondamentale H. Schuster, Industrie und Sozialwissenschaften. Eine Praxisgeschichte der Arbeits- und Industrieforschung in Deutschland, Opladen 1987.

(17) Cfr. F. Tönnies, Der Hamburger Strike von 1896/97, in “Archiv für soziale Gesetzgebung und Statistik”, 10, 1897, pp. 173-238; F. Tönnies, Die Enquête über Zustande der Arbeit im Hamburger Hafen, in “Archiv für Gesetzgebung und Statistik”, 12, 1898, pp. 303-348. Complessivamente sull’opera di Tönnies rimando a M. Ricciardi, Ferdinand Tönnies sociologo hobbesiano. Concetti politici e scienza sociale in Germania tra Otto e Novecento, Bologna 1997.

(18) M. Weber, Erhebungen über Auslese und Anpassung (Berufwahl und Berufschicksal) der Arbeiterschaft der geschlossenen Großindustrie, in M. Weber, Gesamtausgabe, Abt. 1: Schriften und Reden, vol. 11: Zur Psychophysik der industriellen Arbeit. Schriften und Reden 1908-1912, hrsg. von W. Schluchter in Zusammenarbeit mit Sabine Frommer, Tübingen 1995, pp. 78-149, p. 82 (tr. it. in M. Weber, Metodo e ricerca nella grande industria, Milano 1983, pp. 67-119, p. 69. La traduzione italiana è stata in alcuni casi modificata.

(19) M. Weber, Dalla terra alla fabbrica. Scritti sui lavoratori agricoli e lo Stato nazionale (1892-1897), Roma 2005, p. 39.

(20) Cfr. H. Schuster, Industrie und Sozialwissenschaft, cit., pp. 213-230.

(21) La consapevolezza di queste difficoltà emerge esplicitamente in M. Weber, Zur Methodik sozialpsychologischer Enquêten und ihrer Bearbeitung (1909), ora in M. Weber, Gesamtsausgabe, Abt. 1: Schriften und Reden, vol. 11: Zur Psychophysik der industriellen Arbeit, cit., pp. 388-398.

(22) M. Weber, Erhebungen über Auslese und Anpassung, cit., p. 149 (tr. it. cit., p. 119).

(23) M. Weber, Erhebungen über Auslese und Anpassung, cit., p. 81 (tr. it. cit. p. 67).

(24) Ibidem, p. 116 (tr. it. cit., p. 93). Su questo terreno è d’altra parte massima la distanza dell’impostazione di Weber rispetto a quella di suo fratello Alfred. Sull’impegno di entrambi all’interno del Verein cfr. E. Demm, Max und Alfred Weber im Verein für Sozialpolitik, in Max Weber und seine Zeitgenossen, hrsg. von W. J. Mommsen und W. Schwentiker, Zürich 1988, pp. 137-136.

(25) Cfr. E. Kraepelin, Die Arbeitskurve, Leipzig 1902. Sulle ricerche di Kraepelin cfr. A. Ebbinghaus, Arbeiter und Arbeitswissenschaft: Zur Entstehung der “wissenschaftlichen Betriebsführung”, Opladen 1984, pp. 183-187.

(26) M. Weber, Erhebungen über Auslese und Anpassung, cit., p. 108 (tr. it. cit., p. 188).

(27) M. Weber, Zur Psychophysik der industriellen Arbeit, in M. Weber, Gesamausgabe, Abt. 1: Schriften und Reden, cit., pp. 162-380, p. 226 (tr. it. cit., pp. 121-297, p. 168). Nonostante questa pregnante critica un discorso a parte meriterebbe il rapporto specifico di Weber con la psicologia e, soprattutto, con la psicanalisi così come per esempio emerge nella celebre lettera a Else Jaffé del 13 settembre 1907 (cfr. M. Weber, Briefe 1906-1908, cit., pp. 393-403). Cfr. anche Sabine Frommen, Bezüge zu experimenteller Psychologie, Psychiatrie und Psychopathologie in Max Webers methodologischen Schriften, in Max Weber Wissenschaftslehre, cit., pp. 239-258.

(28) M. Weber, Zur Psychophysik der industriellen Arbeit, cit., p. 249 (tr. it. cit., p. 185).

(29) «Qui, tuttavia, non ci interessa ancora il problema della misurazione delle differenze individuali delle persone, ma il problema della misurazione di massa degli effetti dei lavori differenti e di differenti condizioni di lavoro», ibidem, p. 220 (tr. it. cit., p. 164). Cfr. anche P. F. Lazarsfeld, - A. R. Oberschall, Max Weber and Empirical Social Research, in “American Sociological Review”, 30, 1965, pp. 185-199.

(30) «Alla fine, comunque, il punto decisivo è che la storia non opera in alcun modo solo nell’ambito di quell’ “aspetto interiore”, ma “concepisce” l’intera costellazione del mondo “esterno”, da un lato, come motivo e, dall’altro, come risultato dei “processi interni” dei soggetti dell’azione storica – cose che nella loro molteplicità concreta, niente hanno a che fare con i laboratori di psicologia o con le espressioni puramente “psicologiche”, comunque si voglia definire il concetto di psicologia», M. Weber, Knies e il problema dell’irrazionalità, in Id., Saggi sulla dottrina della scienza, Bari 1980, p. 75.

(31) «Il fatto che ciò che è in generale uguale in una pluralità disomogenea di individui costituisca un “fenomeno di massa” non impedisce che il suo significato storico stia nel contenuto individuale, nella causa individuale, negli effetti individuali di ciò che è comune a questa pluralità (ad esempio: una concreta idea religiosa o una costellazione concreta di interessi economici)», ibidem, p. 49. Non si deve dimenticare che questo è anche il momento storico della sistematizzazione delle masse e dei fenomeni di massa all’interno del discorso politico e delle scienze sociali. Cfr. a questo proposito S. Cavazza, Dimensione massa. Individui, folle, consumi 1830-1945, Bologna 2004.

(32) Si veda quanto scrive successivamente Max Weber sulla fabbrica: «Il tratto caratteristico veramente decisivo della fabbrica moderna non è però, in generale, né lo strumento usato né il tipo di processo lavorativo, bensì l’appropriazione nelle stesse mani – quelle dell’imprenditore – di officina, strumenti, fonti di energia e materie prime», M. Weber, Storia economica. Linea di una storia universale dell’economia e della società (1923), trad. it. Roma 1993, p. 265.

(33) M. Weber, Zur Psychophysik der industriellen Arbeit, cit., p. 240 (tr. it. cit., p. 178).

(34) Ibidem, p. 178 (tr. it. cit. p. 132).

(35) M. Weber, Erhebungen über Auslese und Anpassung, cit., pp. 92-93 (tr. it. cit., pp. 102-103).

(36) M. Weber, Zur Psychophysik der industriellen Arbeit, cit., p. 241 (tr. it. cit., p. 179).

(37) Ibidem, p. 246 (tr. it. cit., p. 183).

(38) Ibidem, p. 256 (tr. it. cit., pp. 190-191).

(39) Ibidem, p. 263 (tr. it. cit., p. 196).

(40) Ibidem, p. 264 (tr. it. cit., p. 197).

(41) Cfr. a questo riguardo E. P. Thompson, Tempo, disciplina del lavoro e capitalismo industriale, in Id., Società patrizia e cultura plebea. Otto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, Torino 1981, pp. 3-55.

(42) M. Weber, Zur Psychophysik der industriellen Arbeit, cit., p. 272 (tr. it. cit., p. 205).

(43) Ibidem, p. 273 (tr. it. cit., pp. 205-206).

(44) Ibidem, p. 275 (tr. it. cit., p. 207)

(45) Ibidem.

(46) «Per l’interpretazione intelligibile dell’agire, a cui la sociologia aspira, queste formazioni sono invece semplicemente processi o connessioni dell’agire specifico di singoli uomini, poiché questi soltanto costituiscono per noi il sostegno intelligibile di un agire orientato in base al senso», M. Weber, Economia e società, Milano 1980, vol. I, p. 12.

(47) M. Weber, Zur Psychophysik der industriellen Arbeit, cit., p. 364 (tr. it. cit. p. 279).

(48) Ibidem, p. 365 (tr. it. cit., p. 280).

(49) Ibidem, p. 275 (tr. it. cit., p. 207).

(50) Cfr. per la Germania D. Groh, Intensification of Work and Industrial Conflict in Germany 1896-1914, in “Politics and Society”, 8,1978, pp. 350-397.

(51) Cfr. l’introduzione F. Ferraresi e S. Mezzadra a M. Weber, Dalla terra alla fabbrica, cit., pp. XVII-XXIII.

(52) M. Weber, Zur Psychophysik der industriellen Arbeit, cit., p. 279 (tr. it. cit., p. 211).

(53) M. Weber, Erhebungen über Auslese und Anpassung, cit., p. 133 (tr. it. cit., p. 107). Cfr. S. Seidman – M. Gruber, Capitalism and Individuation in the Sociology of Max Weber, in “The British Journal of Sociology”, 28, 1977, pp. 498-508.

(54) A partire dai contributi di W. Hennis, Max Webers Fragestellung. Studien zur Biographie des Werkes, cit., e Max Webers Wissenschaft von Menschen: neue Studien zur Biographie des Werks, Tübingen 1996; ma cfr. anche H. H. Nau, Eine “Wissenschaft vom Menschen”: Max Weber und die Begründung der Sozialökonomik in der deutschsprachigen Ökonomie 1871 bis 1914, Berlin 1997; L. A. Scaff, Fleeing the Iron Cage. Culture, Politics and Modernity in the Thought of Max Weber, Berkeley, Los Angeles, London 1989; e, con specifico riferimento agli scritti finora analizzati, R. M. Brain, The Ontology of the Questionnaire: Max Weber on Measurement and Mass Investigation, in “Studies in History and Philosophy of Science”, 32, 2001, pp. 647-684.  

(55) M. Weber, Debatterede auf der Taugung des Vereins für Sozialpolitik in Wien 1909 zu den Verhandlungen über «Die wirtschaftlichen Unternehmungen der Gemeinden», in Id., Gesammelte Aufsätze zur Soziologie und Sozialpolitik, Tübingen 1988², pp. 412-416, p. 413.

(56) Ibidem, p. 414. Weber riprende i termini di questo discorso, con incisività forse ancora maggiore, nel 1918 scrivendo: «Una macchina inanimata è spirito rappreso. Solo questo dà ad essa il potere di costringere gli uomini al suo servizio e di determinare in maniera tanto imperativa il ritmo quotidiano della loro vita lavorativa, come avviene effettivamente in fabbrica. Spirito rappreso è anche quella macchina vivente che è rappresentata dall’organizzazione burocratica con la sua specializzazione del lavoro professionale, la sua delimitazione delle competenze, i supi regolamenti e i suoi rapporti di subordinazione ordinati gerarchicamente», cfr. Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania e altri scritti politici, tr. it. Torino 1982, p. 93.

(57) M. Weber, Debatterede auf der Tagung des Vereins für Sozialpolitik in Wien 1909, cit., p. 414. Ma si veda l’ottimo lavoro di F. Ferraresi, Il fantasma della comunità. Concetti politici e scienza sociale in Max Weber, Milano 2003, specialmente pp. 228-234 e pp. 377 ss.

(58) M. Weber, Die protestantische Ethik, cit., p. 9 (tr. it. cit., p. 11). Scrive Weber: «“Lotte di classe” tra strati di creditori e strati di debitori, tra proprietari fondiari e nullatenenti o servi della gleba o affittuari, tra soggetti interessati al commercio e consumatori o proprietari fondiari, si sono sempre avute ovunque diverse costellazioni. Ma già le lotte del Medioevo occidentale tra datori di lavoro a domicilio e lavoratori a domicilio si rinvengono altrove soltanto in forma iniziale». La differenza specifica con Marx è che per Weber il problema non è tanto il carattere storicamente costitutivo di queste lotte, ma la peculiarità di quello spazio fisico e concettuale che viene nominato come Occidente, cioè tra ciò che avviene al suo interno e ciò che non si è verificato nel resto del mondo. Per un’analisi del concetto weberiano di lavoro cfr. G. Schöllgen, Max Webers Anliegen, Darmstadt 1985, pp. 46-61.

(59) Esemplare a questo proposito è la lunga recensione a P. Lotmar, Der Arbeitsvertrag, ora in M. Weber, Gesamtausgabe, Abt. 1: Schriften und Reden, vol. 8: Wirtschaft, Staat und Politik. Schriften und Reden 1900-1912, hrsg. von W. Schluchter in Zusammenarbeit mit P. Kurth und B. Morgenbrod, Tübingen 1998, pp. 37-61, che culmina con la citazione di Jhering «La forma è la nemica giurata dell’arbitrio, la gemella della libertà».

(60) M. Weber, Debatterede zu den Verhandlungen des Vereins für Sozialpolitik in Mannheim 1905 über das Arbeitsverhältnis in den privaten Reisenbetrieben, in Id., Gesammelte Aufsätze zur Soziologie und Sozialpolitik, cit., pp. 394-399, p. 394.

(61) M. Weber, Economia e società, cit., vol. IV: Sociologia politica, p. 44.

(62) Ibidem, p. 47.

(63) Cfr. A. D’Attorre, Perché gli uomini ubbidiscono. Max Weber e l’analisi della società umana, Napoli 2004.