Etica
& Politica / Ethics & Politics, 2003, 2 http://www.units.it/etica/2003_2/ZANOTTO.htm Liberalismo e tradizione cattolica. Osservazioni
critiche su Juan de Mariana Dipartimento
di Scienze Storiche Università
di Perugia
1. Intenti e limiti della
presente ricognizione Lo storico del pensiero politico
Dalmacio Negro Pavón ha recentemente sostenuto che la tradizione liberale del
“governo limitato” — la quale, a sua volta, si riallaccerebbe direttamente
alla “concezione classica greco-latina del governo sottoposto alle leggi” —
avrebbe avuto inizio nel corso del Medioevo. Tale idea si vedrebbe
strettamente collegata alla convinzione secondo cui il popolo detiene un
diritto originario ad esprimere il proprio consenso o dissenso all’azione dei
governanti, attraverso i suoi rappresentanti naturali. L’età media — prosegue
Negro Pavón, sulla scorta di alcuni studi compiuti da José María Ortega y
Gasset (1883-1955) (1) — avrebbe fermamente creduto che la
libertà, lungi dal configurarsi come una concessione del governo, fosse
previa alla legge, al pubblico, a quello che in età moderna si è definito
‘Stato’. Sempre a suo dire, inoltre, tale concezione riposerebbe,
fondamentalmente, nell’idea cristiana secondo la quale ogni uomo è libero a
causa della sua condizione di essere creato, secondo l’insegnamento biblico
contenuto nel Pentateuco, ad ‘immagine e somiglianza’ di Dio (2); situazione
per cui l’essere umano possiederebbe, a differenza della maggior parte delle
altre creature viventi, una “libertà naturale” (3). Secondo alcune ricerche compiute
da José Antonio Maravall Casesnoves, il Seicento politico castigliano avrebbe
ereditato elementi già presenti nel basso Medioevo, adattandoli con i motivi
provenienti dai nuovi influssi culturali del periodo (4). Gli
scolastici spagnoli dell’epoca rinascimentale, infatti, rielaborarono a più
riprese le concezioni tardo-medioevali del ‘pattismo’, in base al quale erano
da ritenersi ‘leggi fondamentali del regno’ (leges imperii) quelle
norme di diritto positivo che configuravano il ‘contratto’ fra il monarca ed
il popolo, attraverso le quali quest’ultimo riconosceva al primo la sua
qualità. Da parte sua, lo studioso
spagnolo Jesús Huerta de Soto Ballester si è detto convinto del fatto che si
sarebbe avuta, da parte di alcuni pensatori cattolici medioevali e
rinascimentali, un’anticipazione proprio delle tematiche relative alla teoria
liberale del governo limitato. In proposito, egli ha sottolineato anche come
il trionfo della Riforma, con la conseguente ricezione “imperfetta” della
“tradizione giusnaturalista” cristiana (5), che si ebbe nel mondo anglosassone
attraverso gli “scolastici protestanti”, avrebbe contribuito a sottrarre
prestigio ed influenza al ruolo svolto dalla Chiesa cattolica quale limite e
contrappeso al potere secolare dei governi, il quale si sarebbe visto, in tal
modo, notevolmente potenziato (6). Di conseguenza, il liberalismo
risulterebbe essere l’ideologia politica coerente con il cristianesimo nelle
condizioni del mondo moderno e contemporaneo (7). Non sarebbe, quindi, una mera casualità
che, in alcuni significativi esponenti della tradizione liberale
anglosassone, san Tommaso d’Aquino (1225-1274) venga individuato come the
first Whig (8). Allo stesso modo, non
rientrerebbe nella fattispecie delle semplici coincidenze neppure il fatto
che l’uso politico del termine “liberale” (liberal) abbia avuto
origine proprio in una nazione fra le più cattoliche che si conoscano: quella
spagnola (9). In particolare, a giudizio di Negro Pavón, gli scrittori
politici d’impronta liberale vissuti in Spagna nel XIX secolo dovettero molto
alla figura oggetto del presente studio: il gesuita Juan de Mariana de la
Reina (1535-1624) (10). D’altronde, molti di quegli stessi
esponenti storici del liberalismo politico spagnolo — come Antonio
Alcalá-Galiano y Villavicencio (1789-1865) — riconoscevano esplicitamente in
Mariana un vero e proprio precursore delle loro idee politiche, al punto che,
il 27 maggio del 1888, alcuni di essi gli vollero dedicare un monumento. Come
stanno a dimostrare frasi quali: “è sicuro solo quel potere che impone limiti
alle proprie forze” (11), che tanto impressionarono alcuni
moderni lettori del gesuita, proprio Mariana avrebbe infatti rappresentato
uno degli esponenti più intransigenti di tali tópoi dottrinari. La sua
conseguente connotazione quale ‘ultra-liberale’ — recentemente sviluppatasi
in ambiente libertario euro-americano — appare, in tal modo, logicamente
sostenibile. A contribuire in maniera
determinante nel cucire addosso al religioso castigliano i panni del
‘rivoluzionario’ fu, inoltre, la sua strenua difesa del ‘tirannicidio’ e le
traversie personali che ne derivarono (12). Egli sostenne tale teoria nella
propria opera del 1599 intitolata De Rege et Regis institutione (13), la quale andava a porsi, in tal modo, come la voce più
autorevole in quel tempo a sostegno del ‘diritto di resistenza’ in campo
cattolico (14). In linea con quanto già verificatosi in ambiente
protestante, infatti, anche nelle nazioni non riformate fiorì una tale
corrente di pensiero, detta dei ‘monarcomachi’, la quale avrebbe trovato in
Mariana il suo rappresentante più illustre (15). Tuttavia, quella di ‘liberale’
non è l’unica etichetta che si è cercato di attribuire retrospettivamente al
gesuita spagnolo; altri interpreti hanno creduto di scorgere in lui, di volta
in volta, un ‘socialista’, un ‘collettivista’, un ‘costituzionalista’, un
‘individualista’, un ‘razionalista’, un propugnatore della ‘teocrazia’ (16). Quanto di realistico riposi in tali convinzioni è,
pertanto, uno degli interrogativi di fondo ai quali il presente lavoro
tenterà di fornire una convincente risposta. 2. Mises e
Hayek sui rapporti fra cristianesimo e dottrina liberale: una premessa
necessaria
Prima di addentrarsi nel merito
del fine ultimo di questa indagine — che, come detto, si può ricondurre al
tentativo di indagare le fonti primarie nell’intento di evincere da esse il
grado di sostenibilità dell’affermazione in base alla quale sarebbe da
rintracciarsi un nesso causale stretto fra il liberalismo economico-politico
e la dottrina etico-sociale della Chiesa cattolica — sembra opportuno
evidenziare che l’assunto da cui essa prende le mosse non si configura come
un dogma incontestato nell’ambito della stessa tradizione liberale e
libertaria contemporanea, bensì risponde alle caratteristiche di
un’interpretazione che, da minoritaria, ultimamente sta acquisendo un sempre
crescente consenso al suo interno. Probabilmente, l’‘effetto
detonante’ è stato prodotto dall’assimilazione della teoria economica
liberale con la filosofia del giusnaturalismo aristotelico-tomista, operata
da parte di Murray Newton Rothbard (1926-1995) in antitesi a quella che era
stata la tendenza prevalente all’interno della Scuola austriaca fino a quel
momento. Tuttavia, precedenti significativi — ancorché impliciti — di tale
accostamento si erano già avuti per tramite di Hayek. Egli, infatti, sebbene
dichiaratamente agnostico, durante la relazione di apertura alla conferenza
fondativa della Società Mont Pélèrin, tenutasi il 1º aprile del 1947
nell’omonima località svizzera, dopo aver deplorato “l’anticlericalismo
militante ed essenzialmente illiberale” che aveva animato tanta parte del
liberalismo continentale del XIX secolo, si disse anche convinto del fatto
che, se la frattura tra il “vero liberalismo”, da una parte, e le convinzioni
religiose, dall’altra, non fosse stata in qualche modo sanata non si sarebbe
potuta avere alcuna speranza di rinascita per le forze liberali (17). D’altra
parte, quello espresso da Hayek sembrerebbe piuttosto essere un semplice
auspicio per l’avvenire che non l’esito di una ricerca analitica sulla
presenza o meno, nelle due distinte tradizioni, degli addentellati necessari
ad una loro effettiva compatibiltà o di esempi relativi a conclamati
precedenti storico-dottrinari (18). Occorre, inoltre, tenere in
considerazione la posizione che al riguardo aveva precedentemente assunto
Ludwig Edler von Mises (1881-1973). Egli, infatti, in stridente contrasto con
quelle che sarebbero state, poi, le affermazioni hayekiane — di cui si è
appena dato conto — individuava chiaramente un “inevitabile” conflitto tra le
due sfere in questione e ne imputava senza indugio la reità esclusivamente
alla religione (19). Attribuendo alle varie Chiese tutto
quel genere di accuse che in innumerevoli occasioni, dal ‘Secolo dei Lumi’ in
poi, sono state reiteratamente rivolte loro, nel 1927 Mises, nel teorizzare
la propria idea di Liberalismus, giungeva alla conclusione per cui
“anche se non vengono più accesi roghi ad majorem Dei gloriam, è
rimasta ancora tanta intolleranza” (20). D’altra parte, fedele al principio
secondo il quale non si doveva essere tolleranti con gli intolleranti,
l’economista austriaco aveva anche avuto modo di osservare come, “[s]e siamo
convinti che il fine ultimo dello sviluppo sociale è la cooperazione pacifica
tra tutti gli uomini, non si può ammettere che la pace sia turbata da preti e
zeloti” (21). Altrove, poi, pur riconoscendo che la religione “non può
esimersi dallo stabilire princìpi in materia di etica sociale” (22), e
ribadendo poco più avanti tale concetto, in base al quale “[s]enza un’etica
sociale, la religione è cosa morta” (23), tuttavia, Mises non ardiva a trarre le
conseguenze logiche delle proprie affermazioni, rasentando il rischio di
sfidare lo stesso principio aristotelico della non contraddizione
all’asserire che, se il liberalismo “non ha mai travalicato i confini della
propria sfera”, non invadendo il terreno della Weltanschauung, si è
però dovuto scontrare con la Chiesa (cattolica), poiché essa avrebbe preteso
“non solo di regolare il rapporto dell’uomo con l’aldilà, ma anche di
imporre alle cose terrene l’assetto che essa riteneva giusto” (24). Del resto, riguardo alla questione dei principî
etico-morali, va rilevato come perfino sotto l’aspetto metodologico Mises si
sia sempre detto contrario all’utilizzo della dottrina del diritto naturale (25), in favore di un’impostazione strettamente utilitaristica,
sebbene di un utilitarismo atipico, solitamente denominato come ‘teoria della
consequenzialità delle azioni’. Alla luce di quanto detto
sembrerebbe, pertanto, di poter escludere un’influenza diretta della lezione
cattolica sull’austro-liberalismo (26) o, comunque, un richiamo consapevole
dei suoi massimi esponenti all’opera dei teologi cristiani del periodo
medioevale e rinascimentale, d’altronde mai evocati apertamente dai
rappresentanti storici della Scuola austriaca come proprî precursori o punti
di riferimento (27); sebbene giovi, a tale proposito,
rammentare l’isolato — ma significativo — caso di Carl Menger (1840-1921) (28). Tuttavia, gli influssi ideali
spesso travalicano le volontà particolari per trascendere gli stessi eventi
della storia. Inoltre, si è detto come, da un certo momento in avanti, tale
influsso sia stato invece rivendicato esplicitamente da taluni liberali
‘classici’, Libertarians ed economisti ‘austriaci’. Si è, così,
virtualmente instaurato un contraddittorio fra chi accoglie questa tesi e chi
tende, per contro, a ridimensionarla. Quello che segue vuol essere un piccolo
contributo a tale controversia. 3.
Salmanticenses e Conimbricenses
Sulla scia di quanto già
verificatosi in precedenza sul territorio italico, nel corso del Cinquecento
si sarebbe avviato, in tutta l’area latino-mediterranea, un recupero del
pensiero scolastico; esso trovò un terreno particolarmente fertile nella
penisola iberica. Gli esponenti di questa Seconda Scolastica erano
ecclesiastici e docenti universitari cattolici largamente pervasi ed
influenzati da quell’humus culturale dal quale era germogliata la
corrente di pensiero umanistica. Il fine ultimo che essi si prefissero
coincise, appunto, con la produzione di una sorta di sintesi del corpo
dottrinale che era proprio della tradizione tomista, da affiancarsi alle
nuove prospettive che, nel frattempo, aveva dischiuso il movimento umanista (29). Conseguentemente, in questa Nuova Scolastica
(prevalentemente spagnola) si prestò una grande attenzione ai problemi
d’attualità, applicando i principî generali della teologia, della morale
cristiana e del diritto naturale alle più importanti questioni del momento (30). È d’uopo, nondimeno, operare una
netta distinzione fra due successive correnti di pensiero, connesse ad
altrettanti istituti religiosi: l’Ordine dei Frati Predicatori (Ordo
Praedicatorum), fondato alla fine del 1215 da Domingo de Guzmán
(1170-1221), e la Compagnia di Gesù (Societas Jesu), costituita nel 1534 dal basco Iñigo López de Loyola (1491-1556). La prima di tali correnti, forse
proprio perché vicina ai padri domenicani, si caratterizzò come più
marcatamente fedele alla lezione dell’illustre correligionario e caposcuola
san Tommaso (31). Il nucleo di teologi che la componeva è riconducibile,
nella maggior parte, ai cattedratici di quell’Universitas Studii Salamantini
che Alfonso IX (1171-1230), il quale era
divenuto re del León nel 1188, fondò l’anno 1218 nel rinomato centro della
Vecchia Castiglia (32). Con l’espressione “Scuola di
Salamanca” (1526-1617), pertanto, si suole identificare, in senso stretto,
proprio tale gruppo di studiosi (33). Il periodo nel quale los
Salmanticenses produssero le opere più significative coincise,
essenzialmente, con la prima metà del secolo XVI. La grande tematica che
suscitò un’attenta e profonda riflessione da parte di tali pensatori coincise
con le complesse questioni scaturite dalla scoperta del continente americano
(el hecho americano), connesse alla conseguente opera di
evangelizzazione che essa comportò (34). In quel particolare frangente, le
figure di riferimento furono incarnate da Francisco de Vitoria (ca.
1485-1546) — il riconosciuto fondatore della Scuola di Salamanca — e da
Domingo de Soto (1494-1560). La dottrina tomista, infatti, era
rimasta minoritaria all’interno della stessa Chiesa cattolica finché, nel
secolo XVI, la propagò padre Vitoria, in coincidenza con l’apice della
monarchia castigliano-aragonese (35). Secondo quanto sostenuto da José María
Artola nell’introduzione ad una recente edizione bilingue dell’opera di
Tommaso De aeternitate mundi contra murmurantes (ca. 1270), ciò si
sarebbe dovuto al fatto che “la sua prospettiva filosofica e teologica non
era facile da intendere, e di fatto sappiamo che non venne compresa né
durante la sua vita né tantomeno dopo da parte di un buon numero di pensatori
dell’epoca” (36). Nonostante la complessità della lezione di san Tommaso e
pur essendosi formato sulle dottrine nominaliste — il cui studio approfondito
era stato introdotto a Salamanca per opera del frate agostiniano Alonso de
Córdoba († 1541) — Vitoria apprese la lezione tomista all’Università di
Parigi, dove studiò fin verso il 1522, importandola poi in Spagna. Per
comprendere la portata della corrente di pensiero cui egli dette origine,
occorre tenere presente che a quell’epoca l’Europa era ancora dominata dalle
dispute fra i trattatisti tradizionali del diritto privato (mos italicus)
e gli esponenti del puro studio del diritto romano, che intendevano
restaurare nella propria totalità ed integrità, in quanto lo ritenevano
alterato dai compilatori di Giustiniano e dai giuristi medioevali (37). Il secondo movimento, come ricordato,
s’identificò con l’ordine dei gesuiti. Essi impersonarono, in un certo qual
senso, l’‘avanguardia intellettuale’ della Controriforma cattolica. Come
rappresentanti di detta corrente si possono ricordare Luis de Molina
(1535-1600), Francisco Suárez (1548-1617) — il Princeps Scholasticorum
— e Gabriel Vázquez de Belmonte (1551-1604). Questi ultimi furono chiamati los
Conimbricenses giacché la maggior parte di essi insegnò in Portogallo,
presso l’Università di Coimbra. Ora, sebbene vi sia stata indubbiamente
un’evoluzione cronologica fra la preponderanza dell’influenza domenicana e di
quella gesuitica (38), è pur vero che la relazione fra la
corrente legata a Salamanca e quella riconducibile a Coimbra non fu di mera
successione, né di semplice evoluzione. Sembra corretto, piuttosto, dire che los
Conimbricenses abbiano sviluppato una filosofia propria, la quale, pur
adagiandosi nell’alveo della corrente neoscolastica, su molte questioni
fondamentali si discostava in maniera decisa rispetto all’impostazione
assunta dai tomisti della Scuola di Salamanca (39). Un ulteriore nucleo di
intellettuali spagnoli vicini alla Chiesa romana fu poi rappresentato da
alcuni giuristi e filosofi del diritto appartenenti a vari ordini religiosi,
che si sarebbero a loro volta resi responsabili di una fioritura del pensiero
giuridico ed economico di tipo giusnaturalistico tradizionale e
proto-liberale. Fra di essi sono da segnalarsi il gesuita Juan de Medina
(1490-1546) ed il francescano Alfonso de Castro (1495-1558). Inoltre,
spiccano i nomi del domenicano Bartolomé de Medina (1497-1585) — che fu uno
dei più intransigenti nel professare l’ortodossia tomista — e del Doctor
Navarrus, al secolo Martín de Azpilcueta y
Jaureguizar (1493-1586) (40). Occorre, d’altronde, rammentare anche
i domenicani Tomás de Mercado (ca. 1500-1575) e Melchor Cano (1509-1560),
quest’ultimo acerrimo avversario della Compagnia di Gesù; Fernando Vázquez de
Menchaca (1509-1566) e il già citato Diego de Covarrubias y Leyva
(1512-1577), detto el Bártolo español; figure di prim’ordine fra gli
scolastici dell’epoca furono, poi, il gesuita Juan de Matienzo (1520-1579),
il domenicano Domingo de Báñez (ca. 1528-1604) — il quale fu anche confessore
della monaca carmelitana Teresa de Cepeda y
Ahumada, originaria di Ávila, che sarebbe poi divenuta la famosa santa Teresa
de Jesús (1515-1582) —, il vescovo agostiniano Miguel B. Salón (1538-1620), i
gesuiti Juan de Salas (1553-1612), Gregorio de Valencia (1549-1603), Pedro de
Oñate (1567-1646), il cardinale Juan de Lugo (1583-1660), che vestì,
anch’egli, l’abito di sant’Ignazio, nonché Antonio Escobar y Mendoza
(1589-1669) (41). Il pensiero ‘proto-liberale’ di alcuni fra questi autori è
stato analizzato nel citato saggio di Francisco Carpintero Benítez; in
particolare, è da segnalarsi in proposito l’esposizione delle teorie relative
al concetto di ‘proprietà’ — con la distinzione fra dominium
jurisdictionis e dominium proprietatis — negli scolastici
spagnoli, in cui l’autore si sofferma ad indagare anche pensatori spesso
trascurati o (a torto) considerati ‘minori’, come Leonardo Lessius
(1554-1623) e Gaspar Hurtado (1575-1646) (42). È, forse, superfluo precisare che
i summenzionati pensatori insegnarono in varie università della penisola
iberica — pubblicando le proprie opere a cavallo tra la fine del XVI e
l’inizio del XVII secolo — e che, conseguentemente, l’articolazione fra Salmanticenses
e Conimbricenses non va interpretata in maniera rigida. Se, difatti,
qualcuno ha potuto addirittura sostenere che Suárez sarebbe stato colui
attraverso il quale la dottrina scoto-occamista venne trasmessa all’età
moderna (43), va detto che gli stessi salmantini non ebbero uno spirito
così nettamente medioevale come, altrimenti, si potrebbe supporre. Il loro
stesso tomismo, infatti, era in parte spurio, somigliando piuttosto — sotto
certi aspetti — ad una sorta di ‘rivisitazione’ della filosofia elaborata
dall’Aquinate che non, semplicemente, ad una sua fedele riproposizione.
All’interno delle due correnti, pertanto, erano presenti posizioni differenti
e sfumature variegate, tant’è vero che si è potuto individuare nel frate
agostiniano Pedro de Aragón (ca. 1546-1592) il pensatore probabilmente più
prossimo a quella ipotetica linea di demarcazione che idealmente le separa (44). 4. Le ‘Tre Vie’ della Nuova
Scolastica Avendo cercato, fin qui, di
esporre succintamente quali fossero gli elementi di autonomia e di
specificità che le contraddistinsero, conviene, adesso, porre in evidenza —
sia pure per sommi capi — quali siano i principali punti di contatto che
sussistono fra le pur distinte correnti neoscolastiche che presero corpo
nella penisola iberica durante il periodo in questione. La formazione umanistica di detti
autori, la loro interiorizzazione della cultura rinascimentale, definì
l’impostazione con la quale essi si accostarono alle problematiche teologiche
e, per conseguenza, anche a quelle politiche. Il riferimento è da intendersi
rivolto a ciò che si potrebbe denominare come una sorta di ‘ottimismo
antropologico’ (ens et bonum convertuntur, già secondo Tommaso),
coincidente con una sostanziale fiducia nelle potenzialità intrinseche alla
natura umana. La polemica anti-luterana,
inoltre, contribuì, per certi versi, a rafforzare ulteriormente tale
impostazione. Il rifiuto del nucleo teorico luterano — l’uomo che, dopo la
caduta dal Paradiso terrestre, si sarebbe mostrato incapace di compiere opere
buone — parallelamente si configurava, difatti, come rigetto dell’originaria
posizione politica protestante, secondo la quale l’uomo veniva
ritenuto incapace di convivere con i propri simili tramite relazioni di
giustizia, tanto che il potere doveva essere derivato direttamente da Dio (45). Secondo quanto affermato da Guido Fassò, infatti, il
radicale volontarismo teologico luterano ed il comune fondamento divino posto
alla base della bipartizione ‘autorità spirituale’ (Sacerdotium)/‘potere
temporale’ (Imperium) — che implicavano l’intolleranza e la guerra di
religione — avrebbero rappresentato il corollario che conduceva
inesorabilmente verso una forma di assolutismo teocratico (46). In tal
modo, le convinzioni teologico-religiose protestanti sfociavano logicamente
in una posizione politica di carattere dispotico e reazionario, tanto che
Franco Todescan ha potuto osservare come “tutto portava, in Lutero, verso un’idea
di diritto naturale orientato in senso conservatore” (47). Detto
conservatorismo — prosegue sempre Todescan — trovava, quindi, una coerente
manifestazione anche in sede politica, dove si attribuiva un’enorme
importanza allo jus gladii, allo scopo di garantire la pace sociale.
Poiché il peccato ed il disordine necessitavano di venire repressi con la
forza, ciò — conclude — “esigeva dialetticamente l’assolutizzazione del
potere storicamente affermatosi” (48). Un ulteriore tratto comune a
pressoché tutti i rappresentanti della tarda Scolastica spagnola fu che
costoro sostenevano l’origine umana della società e del potere, i quali
sarebbero stati creati per fini e con ragioni eminentemente mondani (49). In base alla loro visione, pertanto, il luogo nel quale il
potere politico assumeva una forma concreta era rappresentato dalla legge. Di
conseguenza, essi esposero le proprie idee politiche all’interno di o in
relazione con una teoria della legge (50). Alle fondamenta di queste teorie era
rinvenibile la ricezione della dottrina sulla gerarchia delle leggi che aveva
elaborato Tommaso: legge eterna, legge naturale, legge
(positiva) divina, legge (positiva) umana (51). Dal “settarismo” che — secondo la
ricostruzione di Belda Plans — affliggeva le scuole tardo-medioevali, il
quale obbligava ad una ferrea ortodossia rispetto alla lectio del
maestro, sorsero Tres Vías: tomismo,
scotismo ed occamismo. La corrente domenicana, tutta presa nella
propria opera di ripristino della tradizione tomista, rappresentava
l’espressione più conservatrice di quel movimento bifronte che era denominato
Via Antiqua o Realista, di cui l’altro volto era quello
scotista. Da quest’ultima dottrina, tuttavia, essa sarebbe stata indotta a
distanziarsi, così come dal nominalismo occamista, che in quell’epoca
costituiva la linea di pensiero prevalente all’interno della stessa
Scolastica europea: la cosiddetta Via Nova o Moderna (52). Essa, dunque, sottolineò il momento ‘intellettivo’ come
quello essenzialmente più importante nella legge. Di contro, i gesuiti tesero
a mettere in risalto, con maggior aderenza alle posizioni nominaliste, il momento
‘volitivo’: la legge consisteva per essi in un comandamento, un mandato, una
decisione di volontà. Ciò, senza dubbio, fornì loro prospettive e strumenti
più duttili, rispetto a quelli di cui disponevano i salmantini, al fine di
accostarsi alle questioni politiche del periodo (53). In ogni caso, tutti i suddetti
autori furono — sebbene per ragioni e con motivazioni assai differenti l’uno
dall’altro — decisamente monarchici. Ad esempio, per Vitoria — che, in
proposito, si limitava ad accogliere la lezione tomista — la miglior forma di
governo era da individuarsi in una ‘monarchia moderata’, in quanto più fedele
e idonea realizzazione del ‘regime misto’. Anche secondo Mariana la monarchia
avrebbe dovuto essere moderata, in quanto si presentava come l’organo
esecutivo di una società strutturata gerarchicamente. Essa aveva come
missione quella di far realizzare i principî e i diritti di ordine
trascendente: doveva essere cosciente dei suoi compromessi con la comunità,
avendo assunto i propri poteri attraverso il patto che si perpetuava e
ratificava con ogni monarca attraverso i rappresentanti (Cortes),
mediante un giuramento mutuo di lealtà e rispetto delle leggi. Nel decimo
capitolo del suo Discorso sui mali della Compagnia, Mariana dichiarava
apertamente di sospettare che le radici da dove procedevano tanti errori nel
governo fossero attribuibili al fatto che non sarebbe stata “ben temperata
questa monarchia”. Pertanto, egli consigliava di coinvolgere nel governo
anche la classe aristocratica, al fine di riequilibrare il potere del re. Ma,
come si accennava poc’anzi, sembrerebbe addirittura che Mariana, anziché
verso una monarchia pura, individuasse il vero “porto della felicità” in una
sorta di governo misto, risultante dal connubio fra monarchia ed
aristocrazia, nel tentativo di un reciproco bilanciamento dei poteri
istituzionali (54). Per tale motivo, agli scolastici si pose, innanzi tutto,
il problema di come giustificare la fuoriuscita da una società naturale
fondamentalmente democratica nella propria sostanza, al fine di
legittimare un regime monarchico nel proprio funzionamento. In contrapposizione
all’affermazione proposta dai conciliaristi — che venne accolta, invece, dai
monarcomachi —, in base alla quale il re sarebbe stato singulis major,
universis minor, i tardoscolastici spagnoli sostennero con convinzione la
visione per cui la fondazione di una società politica implicava anche la
creazione di un potere (imperium, potestas) che si poneva al di
sopra di tutti gli altri: quello del corpo (55). Il potere, che a loro giudizio
costituiva una realtà naturale, non era una semplice somma delle singole
volontà, bensì una realtà sociale la quale formava parte di quell’unità
organica indirizzata ai propri fini che era la società. Ciò avrebbe
rappresentato il genere di autorità che, secondo i filosofi e i giuristi
cattolici della Spagna rinascimentale, assumeva il monarca con il consenso
degli associati. Intercorreva, del resto,
un’ulteriore differenza cruciale tra la posizione fatta propria dai
domenicani e quella che, per contro, avrebbero assunto gli esponenti della
Compagnia di Gesù. I primi, infatti, consideravano il potere come inerente
alla società; per essi non era, cioè, neppure ipotizzabile una società senza
potere. Al contrario, i chierici gesuiti — come si è detto — attribuivano una
maggior importanza all’elemento volitivo nella sua costituzione; di
conseguenza, da ciò discendeva la possibile teorizzazione di una società
naturale primitiva di tipo sostanzialmente ‘anarchico’ (56). Per
quanto, a rigore, padre Mariana non appartenesse né alla Scuola di Salamanca
né a quella di Coimbra, tuttavia, la sua opera prese corpo e si sviluppò in
tale contesto (57). 5. La ‘Nuova Teologia’ di Alcalá Come accennato,
durante la prima metà del XVI secolo, in Spagna si produsse quello che è
stato definito come il “trionfo del Tomismo” (58). Una manifestazione rilevante di tale
situazione fu l’introduzione della “teologia aperta”, rappresentata dal
metodo d’insegnamento integrato delle Tres Vías (tomismo, scotismo e
nominalismo) che si adottò — come simbolo di un’apertura totale alla verità —
nell’Università di Alcalá, dove avrebbe finito per imporsi l’opera di san
Tommaso, a partire dal 1542 (59). Fondato il 26 luglio
del 1508, durante la festa di sant’Anna, l’ateneo di Alcalá si configurò come
uno dei più attivi ed innovatori del periodo. Con grande aderenza alla
congiuntura storica del momento, esso venne aperto a tutti, religiosi
osservanti ed umanisti laici, cosicché vi confluirono varie influenze di
scienza teologica, riforma spirituale e cultura umanistica (soprattutto
erasmiana). L’impulso fondamentale per l’organizzazione di questa Università
e, in particolar modo, della sua Facoltà di Teologia, venne dato dal
cardinale francescano Francisco Gonzalo Jiménez de Cisneros (1436-1517) (60), il quale era intenzionato a creare una Nueva Teología,
nella quale confluissero Scolastica ed Umanesimo, teologia speculativa e
teologia biblica. Nel suo intento Alcalá avrebbe dovuto essere un centro
teologico di prim’ordine improntato alle moderne problematiche trattate dagli
eruditi umanisti, piuttosto che alle dottrine ‘decadenti’ della bassa età
media; auspicio peraltro avveratosi, tanto che vi si affermò il metodo
positivo nello studio della teologia, superando definitivamente il metodo
dialettico che era stato proprio della Scolastica medioevale (61). Come si sa,
le incalzanti manifestazioni critiche degli umanisti possono essere
sintetizzate in alcune petizioni specifiche: a) sostituire al
barbarismo medioevale la chiarezza e l’eleganza formale degli autori antichi;
b) preferire all’utilizzo della glossa l’investigazione critica delle
fonti; c) rimpiazzare il predominio dell’autorità con il diritto
all’opinione personale; d) introdurre al posto del procedimento
logico-dialettico una metodologia critica improntata al rigore
storico-filologico (62). È opinione diffusa,
fra gli studiosi, che Alcalá abbia rappresentato il Rinascimento, mentre
Salamanca rimaneva saldamente ancorata alla Tradizione; che Alcalá abbia
assorbito il nascente Umanesimo, mentre Salamanca si limitava a riproporre
una Scolastica rinnovata; che Alcalá abbia incarnato l’innovazione e
Salamanca lo spirito conservatore (63). Nonostante tali articolazioni abbiano
un fondo di attendibilità, si può affermare che la linea di demarcazione fra
i due centri di cultura era tutt’altro che nitida, tanto che in entrambi i
luoghi era possibile rintracciare elementi di modernità al fianco di retaggi
tradizionali. Giova, inoltre, precisare come l’insidia costante — per quanto
scarsamente efficace — dell’eresia protestante sul territorio spagnolo e le
dispute teologiche interne, le quali portarono alla ristrutturazione che la Chiesa
si sarebbe data dopo il Concilio di Trento (1563), abbiano influito
sull’assetto che le attivissime università iberiche avevano assunto. Così,
rispetto all’impostazione dell’ateneo salmantino, alla fine del Cinquecento
si avvicendò una nuova corrente di studiosi, la quale deviò, in parte, dai
precetti e dallo spirito originario, precedentemente impresso da Vitoria (64). Tanto che, a rigore, si dovrebbe parlare di una Prima
Scuola di Salamanca nettamente distinta, rispetto ad alcune importanti
questioni, da una Seconda Scuola (65). Rimane, comunque, pur sempre vero che
Alcalá si configurò come un’Università maggiormente dinamica e giovanile,
mentre Salamanca rimase senza dubbio più fedele alla propria impostazione
riflessiva e trascendente (66). Inoltre, nell’Università di Alcalá
s’intraprese uno studio scientifico della Sacra Scrittura, il quale sarebbe
sfociato nella pubblicazione della prima Bibbia Poliglotta che si realizzò al
mondo, per opera di un gruppo di specialisti composto da filologi classici
(ellenisti e latinisti) ed ebraisti (giudei convertiti) (67). 6. La sovranità delle leggi In tale ambiente
culturale ed intellettuale studiò e si formò Juan de Mariana. Nel 1547,
infatti, egli s’iscrisse alla Facoltà di Filosofia e Teologia dell’Università
di Alcalá. Fu in quello stesso ateneo che venne ammesso, il 1° gennaio del
1554, all’età di appena 18 anni, nell’ordine della Compagnia di Gesù (68). Negli anni seguenti,
il giovane Juan svolse il proprio noviziato a Simancas, sotto la direzione
spirituale di Francisco de Borja (1510-1572), per fare quindi, alcuni anni dopo,
ritorno ad Alcalá al fine di proseguire i corsi all’Università nella quale
poi divenne, poco più che ventenne, lettore di sacra teologia, essendo in tal
modo il primo gesuita ad occupare una cattedra in quell’ateneo. Per ciò che concerne l’impostazione
di Mariana in materia di questioni politiche è, forse, superfluo dilungarsi
ad illustrare la sua celeberrima difesa del tirannicidio, proprio perché
tale. In molti casi, addirittura, il contributo del gesuita alla teoria
politica è stato lamentevolmente circoscritto a quelle poche (soprattutto se
confrontate con la totalità della sua opera) righe in cui egli si dedicava ad
enucleare tale concetto. Ma l’extrema ratio del ‘diritto di
resistenza’ ravvisava la propria causa e giustificazione in alcuni precetti
ben precisi, che merita ricordare. Secondo il religioso spagnolo,
infatti, se intendeva esigere la virtù dai più, il re avrebbe dovuto dare,
per primo, il buon esempio. Perché la superbia non si impossessasse di lui,
portandolo a tenere in dispregio i propri sudditi, occorreva che egli
apprendesse a vivere probamente con gli stessi diritti di tutti gli altri
cittadini, senza arrogarsi alcun privilegio per la propria autorità, bensì
riconoscendo “alle leggi quella stessa obbedienza che esige dai suoi sudditi”
(69). Tanto più che, osservava Mariana, “molte leggi {plures leges}
non sono state date dai Principi, ma stabilite dalla volontà di tutta la
repubblica {universae reipublicae voluntate constitutae}, la cui
autorità {maior auctoritas} e il cui potere di comandare {maius
imperium} come di proibire sono superiori a quelli del Principe {quam
Principis} […]. Non solo il Principe deve obbedire a tali leggi, ma
non gli è consentito mutarle senza il consenso e il parere dell’assemblea:
tra queste rientrano quelle della successione reale, dei tributi e della
forma di religione” (70). La virtù per eccellenza dei
governanti veniva identificata con la prudenza; essa era vista come una sorta
di dono divino che non si poteva sviluppare unicamente per mezzo
dell’insegnamento, cosicché, se fosse scarseggiata nel principe, gli sforzi
dei precettori, per quanto decisi e numerosi, sarebbero ugualmente risultati
vani (71). Tuttavia, anche l’esperienza personale, che si accumulava
soltanto con il passare degli anni, costituiva uno degli elementi
fondamentali di cui si componeva la prudenza necessaria ad un buon re (72). Insomma, la figura del monarca era
speculare a quella del tiranno che, pertanto, se ne collocava agli antipodi.
Quest’ultimo era descritto come un vero e proprio mostro, affetto da ogni
vizio: avarizia, lussuria, crudeltà. Il tiranno avrebbe attentato perfino
alla libertà di espressione, che era una delle caratteristiche più genuine
delle persone (73). Il monarca che aveva in mente
Mariana, per contro, non era un sovrano assoluto (Princeps non est solutus
legibus) (74), bensì un re sottoposto alle leggi. Egli, infatti, doveva
prestare obbedienza ad esse, dando il buon esempio ai cittadini, poiché gli
uomini, secondo il talaverano, avrebbero creduto più nel concreto esempio
umano che nella vuota legislazione. Se, infatti, il rispettare le leggi
poteva essere visto come un tratto proprio delle anime deboli, tuttavia, il
disprezzarle si configurava quale caratteristica comune degli uomini
depravati e ribelli (75). Il monarca in persona, dunque, avrebbe
dovuto ritenersi vincolato da quelle stesse leggi per le quali esigeva
rispetto ed obbedienza dai propri sudditi (76). Non doveva esistere alcun potere
superiore a quello delle leggi, anche se — precisava — “non siamo così insensati da
degradare i Re, collocati sulla sommità dello Stato, o da confonderli con la
moltitudine. Non è nostra intenzione assoggettare il Principe a tutte le
leggi senza distinzione alcuna, ma soltanto a quelle che siano istituite
senza ignominia della maestà e non intralcino la funzione regale” (77). Quelle leggi che, secondo
Mariana, non oltraggiavano la dignità del principe né gli impedivano in
qualche modo di espletare la propria funzione, ostacolandolo nelle sue azioni
di governo, potevano essere chiaramente individuate. Ve ne erano alcune, ad
esempio, che riguardavano i doveri generali dei cittadini, come quelle
promulgate riguardo al “dolo, la forza, l’adulterio, la moderazione dei
costumi”, nelle quali il principe in nulla risultava diverso dal popolo (78). Cosicché, ribadiva il gesuita, “credo che il Principe debba
osservare quelle leggi sanzionate dallo Stato, il cui potere abbiamo detto
essere superiore a quello del Re {cuius maiorem esse potestatem quam Principis
diximus} e che, se necessario, possa essere anche castigato. Sarebbe,
infatti, concesso esautorarlo dal potere e, qualora lo esigano le
circostanze, punirlo con la morte {morte plectere rebus exigentibus
superius est datum}” (79). Fedele alla propria
caratterizzazione del tiranno come colui che sovvertiva arbitrariamente le
norme di diritto, anziché limitarsi ad interpretare ed applicare la legge,
rispettando le consuetudini e le istituzioni nazionali che erano il frutto
della volontà dell’intera comunità (universitas), Mariana finiva per
riaffermare, così, quell’esigenza ‘costituzionalistica’ in base alla quale
s’intendeva vincolare il monarca non tanto alle leggi da lui stesso emanate
quanto, piuttosto, al diritto consuetudinario e tradizionale in vigore (80). Del resto, anche gli scolastici a lui successivi non
avrebbero mai disconosciuto il fatto che, per dirla con Suárez, “ciò che
riguarda tutti, da tutti deve essere approvato” (81). Secondo la stessa concezione del
gesuita, nella quale peraltro risaltavano distintamente echi di definizioni
classiche, la legge era “ragione imperturbabile” (Est enim lex ratio omni
perturbatione vacua), in quanto attinta alla mente divina, che avrebbe
avuto origine proprio dal sopraggiunto sospetto del popolo in merito
all’equità e all’imparzialità del principe (82). D’altronde, a quell’epoca l’arte del
governo era ancora interpretata come sinonimo dell’‘amministrare la
giustizia’ e, perché ciò avvenisse, non si doveva dare alcun potere superiore
a quello delle leggi (83). Rispetto al tiranno, che s’imponeva
attraverso la paura ed il castigo, il buon principe si reggeva, così, per
mezzo del premio e della speranza. 7. Embrioni di una moderna
filosofia politica libertaria, o reminiscenze di una consuetudine
tradizionale? Nel De Rege si trovava,
inoltre, un passo di particolare importanza, in cui si accennava ad una questione
fondamentale che sarebbe stata, poi, ripresa ed approfondita in seguito: il
disarmo della società civile. È, questo, un tema assai attuale e
particolarmente caro alla pubblicistica d’impronta libertaria; tale
problematica si vede legata alla moderna concezione di sovranità, la cui
espressione più compiuta conduce verso l’assolutismo di hobbesiana memoria (84). Da questo punto di vista Mariana, dapprima, notava come un
re che governa bene non ravvisi alcuna necessità “di portare via ai cittadini {civibus}
armi e cavalli {arma equosque}, lasciandoli marcire nell’ozio e nella
pigrizia, come fanno i tiranni {quod faciunt tyranni}, che usano
fiaccare la tempra del popolo costringendolo ad attività sedentarie, la
tempra dei magnati offrendo loro in abbondanza piaceri, lenocini, vino; avrà
cura al contrario che i cittadini si esercitino alla lotta {lucta}, al
combattimento {pugna}, al salto, alla corsa a cavallo o a piedi,
inermi ed armati, considerando il loro valore {virtute} un presidio
ben più valido che non le male arti e la frode. Sembrerebbe forse giusto
togliere le armi ai figli in pericolo per darle in mano ai servi? {An
aequum sit filijs in periculo arma detrahere, dare servis?}” (85). L’argomento tornava
all’attenzione in maniera ancor più decisa nel corso del quinto capitolo del
terzo libro, che aveva come oggetto specifico proprio “l’arte militare” (De
re militari). La salvezza di una nazione era preservata attraverso il
conferimento di responsabilità alla popolazione: destava sospetti un governo
che temeva i propri cittadini e non intendeva concedere loro fiducia. La
comunità era legata da un vincolo di appartenenza che costituiva l’unico
argine efficace contro la violenza e l’aggressione sistematica nei confronti
degli individui che la componevano; il pericolo serio veniva dall’esterno e,
contro quella minaccia, il popolo doveva essere messo in condizioni di
reagire per difendere la propria patria. Mariana era esplicito in ciò, senza
perifrasi alcuna esprimeva la propria convinzione secondo cui non ci sarebbe
stato miglior defensor pacis del comune cittadino (86). Contro
la ‘smilitarizzazione della società civile’, Mariana insisteva in maniera
decisa e con tono fermo: a suo avviso occorreva, infatti, “dare le armi ai sudditi {arma
provincialibus dentur} piuttosto che agli stranieri {externis},
ottenendo maggiori vantaggi con minori spese. Le forze proprie sono le più sicure.
Con questo mezzo, Alessandro il Macedone prima, i Romani poi, imposero il
loro giogo a numerose popolazioni. Tenere infatti il regno disarmato per non
fidarsi dei sudditi e comprare con oro un esercito straniero {aliunde
exercitum}, è proprio di un tiranno non di un re legittimo {id est,
tyrannum agere non legitimum Regem}. Ma per non procedere su questo
cammino, credo che i nostri ragionamenti debbano rifarsi alle massime degli
antichi: si deve fare in modo che ai nobili ed al popolo sia restituito il
vigore degli animi, concedendo loro l’uso delle armi {curandumque ut
proceribus & populo vigor animorum revocetur, armorum usu concesso}”
(87). Sull’amor di patria e sulla
destrezza degli stessi cittadini, dunque, anziché sui soldati mercenari o su
aiuti in qualunque modo assoldati avrebbe dovuto appoggiarsi il principe per
la difesa della propria dignità e la conservazione del “bene comune”. È
pacifico, d’altra parte, che egli non pensasse affatto alla soppressione di
un esercito regolare, cui affidare il compito precipuo di difendere i confini
nazionali. Secondo il gesuita, tuttavia, esso avrebbe dovuto essere composto
di uomini validi e fidati ed inoltre si sarebbe dovuti ricorrere anche ad
antiche tradizioni, cadute ormai in disuso, come la ricostituzione
dell’ordine militare della “Banda”, al fine di smuovere la virtù dei
cittadini (88). 8. Mariana, primo economista
‘austriaco’: un’interpretazione Ma la fortuna e l’attenzione di
cui il pensiero e la figura di Mariana hanno goduto negli ultimi anni — che,
in ambiente liberale, hanno decretato anche il risveglio di una conseguente
passione per il giusnaturalismo tomista, in antitesi al pensiero utilitarista
— sono strettamente connesse, in particolar modo, con la rilettura in chiave
libertaria della sua politica economica (89). Negli anni cinquanta e sessanta
del Novecento, infatti, Marjorie Grice-Hutchinson — un’allieva di Hayek —
compì alcune ricerche sulla Scuola di Salamanca (90). Più o
meno nel medesimo periodo di tempo, anche Raymond de Roover (1904-1972)
condusse alcune indagini sullo stesso filone (91). L’intreccio a maglie strettissime che
ha unito teologia morale ed economia produttiva, così come etica della carità
e logica degli scambi commerciali, dando origine a quelle categorie
concettuali le quali hanno reso possibile elaborare la ‘razionalità’
economica nell’Occidente cristiano fin dall’epoca medioevale, è stato
recentemente approfondito da Giacomo Todeschini (92). È da
supporre che le ricerche della Grice-Hutchinson non siano passate inosservate
agli occhi dello stesso Schumpeter, se questi attribuì — come detto — una
considerevole importanza al pensiero scolastico nella sua monumentale History
of Economic Analysis, del 1954. Prendendo le mosse da tali studi,
alcuni economisti seguaci della moderna Scuola austriaca hanno recentemente
creduto di scorgere nel gesuita spagnolo un campione di ‘liberalismo
economico’ ante litteram, nonché un precursore di talune idee che
avrebbero, poi, contraddistinto la corrente soggettivista del filone legato
alla cosiddetta ‘rivoluzione marginalista’ del pensiero economico, andando a
caratterizzare, in special modo, la propria corrente (93). Tale
convinzione troverebbe il proprio nucleo teorico in una storiografia mirante
a valorizzare sia la continuità fra la dottrina tomistica della legge
naturale e la tradizione lockeiana dei natural rights, sia l’affinità
tra il concetto di “valore economico” enucleato dalla Seconda Scolastica
spagnola e quello degli esponenti della Scuola austriaca. Dunque, è stato posto in risalto
da alcuni studiosi — fra cui, in modo particolare, risalta il nome di Lucas
Beltrán Flórez (1911-1996) — come la teoria su cui si fonda la moderna
economia di mercato sarebbe sorta nella penisola iberica e, segnatamente, in
Spagna (94). Secondo le investigazioni sulla teoria monetaria condotte
da Huerta de Soto, ad esempio, l’opposizione fra quella che in seguito
sarebbe stata definita “scuola bancaria” (banking school) e quella poi
denominata “monetaria” (currency school) troverebbe la propria origine
non già nell’Inghilterra del XIX secolo, bensì quasi trecento anni
prima, proprio per mano dei teologi tardo-scolastici spagnoli. Nella prima
egli colloca i gesuiti Luis de Molina e Juan de Lugo, mentre fra i
rappresentanti della seconda corrente egli annovera Luis Saravia de la Calle,
Martín de Azpilcueta e Tomás de Mercado (95). Gli scolastici salmantini,
inoltre, avrebbero osservato con grande attenzione anche gli effetti di
oscillazione prodotti sul livello generale dei prezzi dall’immissione nei
mercati europei dell’oro che giungeva dalle Americhe, arrivando a formulare
una vera e propria “teoria quantitativa del denaro”, prima dello stesso Jean
Bodin (1530-1596) (96). Importanti furono anche i
contributi degli Scolastici spagnoli alla teoria bancaria (97). In base
alla posizione che essi assumevano riguardo a tale tematica, l’utilizzo a
proprio beneficio, mediante la concessione di prestiti a terzi, del denaro
depositato a vista presso i banchieri era da ritenersi illegittima e
supponeva un grave peccato. Tale dottrina coincideva pienamente con quella
già stabilita dagli autori classici del diritto romano; quest’ultima, a sua
volta, sorgeva naturalmente dall’essenza giuridica del contratto di deposito
irregolare di denaro, in base al quale si criticava l’esercizio bancario con
“riserva frazionaria”. Gli scolastici spagnoli, insomma, anche se
implicitamente, ritenevano che la banca dovesse applicare un “coefficiente di
cassa del cento per cento”; proposta che sarebbe divenuta uno dei punti di
forza dell’analisi austriaca relativa alla teoria del credito e dei cicli
economici (98). Per quanto si tratti solamente di una suggestione
storico-dinastica e non di una concreta dimostrazione teoretica, al fine di
comprendere l’influenza che gli scolastici spagnoli avrebbero potuto
effettivamente giuocare sulla posteriore evoluzione compiuta dalla Scuola
economica austriaca è, inoltre, opportuno tenere presente come, nel XVI
secolo, l’imperatore Carlo V (1500-1558) — il quale deteneva anche la corona
spagnola — abbia inviato suo fratello Ferdinando I a ricoprire il ruolo di re
dell’Austria. In effetti, etimologicamente “Austria” non significherebbe
altro che “parte orientale” dell’Impero (99). In particolare, padre Mariana
scrisse un Discurso sobre las enfermedades de la Compañía; opera che
uscì per la prima volta a Bordeaux nel 1625, anche se pare fosse stata
scritta nel 1605 nell’originale spagnolo, rimasto a lungo inedito e pubblicato
postumo soltanto nella seconda metà del secolo successivo. In tale operetta
il gesuita avrebbe anticipato argomentazioni propriamente ‘austriache’ quando
sosteneva l’impossibilità, per mancanza di informazione, da parte di un
governo di organizzare la società civile in base a mandati coattivi. Egli,
riferendosi al governo, sosteneva che “è un grosso sbaglio che il cieco
pretenda di guidare colui che vede”, aggiungendo che i governanti “non
conoscono le persone, né i fatti, con le circostanze ad essi legate, da cui
dipende il risultato. È consequenziale che si cada in numerosi e gravi
errori, che pertanto la gente si disgusti e che disprezzi un governo così
cieco”. Mariana concludeva dicendo che quando “le leggi sono in eccesso, dal
momento che non tutte si possono osservare, né tanto meno conoscere, si perde
il rispetto di tutte” (100). In base a tale interpretazione, i
teologi spagnoli del XVI e XVII secolo avrebbero anticipato almeno una decina
di questioni fondamentali, poi accolte nella lezione economica contemporanea:
la teoria soggettiva del valore (Diego de Covarrubias y Leyva); la scoperta
della corretta relazione sussistente fra prezzi e costi (Luis Saravia de la
Calle); la natura dinamica del mercato con la conseguente impossibilità di
raggiungere il modello di equilibrio (Juan de Lugo e Juan de Salas); il
concetto dinamico di competizione, intesa come processo di rivalità fra i
venditori (Castillo de Bovadilla, Luis de Molina); il recupero del principio
della preferenza temporale (Martín de Azpilcueta); il carattere profondamente
distorcente che l’inflazione produce sull’economia reale (Juan de Mariana,
Diego de Covarrubias e Martín de Azpilcueta); l’analisi critica nei confronti
della banca gestita attraverso la riserva frazionaria (Luis Saravia de la
Calle e Martín de Azpilcueta); la scoperta che i depositi bancari formano
parte dell’offerta monetaria (Luis de Molina e Juan de Lugo); l’impossibilità
di organizzare la società per mezzo di comandi coercitivi, a causa della
mancanza di informazione necessaria allo scopo di fornire un contenuto di
coordinazione ai medesimi (Juan de Mariana); la tradizione
‘giusnaturalistico-liberale’, secondo la quale ogni intervento ingiustificato
sul mercato costituirebbe una violazione del diritto naturale (Juan de
Mariana) (101). A questo punto, risulta pertanto
chiaro che, se si considera la particolare situazione storica che si è appena
illustrato e, allo stesso tempo, si accolgono le osservazioni sopra esposte
sulla prefigurazione da parte di alcuni scolastici spagnoli di fondamentali
nozioni di economia ‘austriaca’, sussistono svariati argomenti a supporto
della tesi in base alla quale — quantomeno nelle proprie fondamenta teoriche
— la Scuola austriaca, in realtà, sarebbe da considerarsi addirittura come
una vera e propria “Scuola spagnola” (102). Per quanto un tale sillogismo appaia
tutt’altro che apodittico agli occhi di taluni osservatori, i quali
preferiscono rimarcare il carattere di semplice ‘anticipazione parziale’
delle teorie successive da parte dei teologi salmantini (103), è pur
sempre opportuno tenere in considerazione come, anche in seguito, uno dei
primi studiosi ad enunciare in maniera compiuta la legge dell’utilità
marginale sarebbe stato il già citato Balmes, che nel corso della sua breve
vita divenne il filosofo tomista spagnolo più in vista del proprio tempo. Con
ventisette anni di anticipo rispetto a quando lo stesso Menger avrebbe consegnato
alle stampe la prima edizione dei suoi Grundsätze der
Volkswirtschaftslehre (1871), infatti, egli — proprio seguendo la
tradizione soggettivista inaugurata dagli scolastici dei secoli XVI e XVII —
sarebbe giunto non soltanto a risolvere il cosiddetto ‘paradosso del valore’
degli economisti classici inglesi, ma addirittura avrebbe esposto, in tutti i
suoi dettagli, la teoria soggettiva del valore basata sull’utilità marginale
nel proprio articolo, pubblicato il 7 di settembre del 1844, intitolato Veritiera
idea del valore o riflessioni sull’origine, la natura e la varietà dei prezzi
(104). È quindi facile intuire come, in
una tale prospettiva, rispetto ai lavori degli umanisti cattolici, la
successiva strutturazione ‘scientifica’ della disciplina economica da parte
della Scuola classica anglosassone — così incentrata sulla teoria oggettiva
del valore-lavoro e sull’analisi dell’equilibrio — possa a ragione venire
interpretata più come una vera e propria “regressione”, anziché come uno
sviluppo, nella storia delle dottrine economiche. Tale involuzione troverebbe
la propria causa e ragion d’essere in un “deviazionismo di origine
protestante di fronte alla tradizione tomista continentale”; quest’ultima
linea di pensiero, infatti, si sarebbe mostrata assai più sensibile alle
esigenze particolari dell’essere umano ed inoltre non appariva “ossessionata
dai dogmi della predestinazione e della redenzione attraverso il lavoro”,
come per contro sarebbero stati i moralisti scozzesi del XVIII secolo (105). 9. Contro la ‘tosatura’ della
moneta Sebbene in un contesto più ampio,
volto all’esposizione della Late Scholastic Economics in generale (106), alcuni consistenti accenni agli aspetti basilari del
pensiero economico elaborato dal Mariana sono stati fatti dal ricercatore
argentino Alejandro Antonio Chafuen Rismondo nel suo studio del 1986,
intitolato Christians for Freedom (107). Nonostante le idee del gesuita
spagnolo in materia di economia non fossero sistematiche, la qual cosa può
essere attribuita al fatto che nella sua epoca tali dottrine non formavano
ancora un corpo scientifico a sé stante, tuttavia esse apparivano lo stesso
assai chiare e, in molti casi, avrebbero precorso le posizioni più avanzate
della futura scienza economica. Osserva, ad esempio, Chafuen che, in base a
quanto affermato nel De Rege dallo stesso Mariana, nel suo pensiero
sembrerebbe possibile applicare la ‘teoria dell’utilità soggettiva’
all’analisi dei sistemi politici (108). Il talaverano (109),
nondimeno, dedicò un intero trattato allo studio dei problemi monetari, che
non si riduceva ad una futile disquisizione numismatica, né si perdeva in una
esclusiva riproposizione di dati sterili; esso presentava, al contrario,
un’intenzione elevata che permetteva all’autore di evitare tali pericoli per
dimostrare i suoi postulati fondamentali, i quali possono concretizzarsi in
due punti essenziali: 1) illegalità della coniazione di moneta di bassa lega;
2) fatali conseguenze di tale misura. In tale trattato del 1609, intitolato De
monetae mutatione, poi riproposto in traduzione castigliana dello stesso
autore con il titolo Tratado y discurso sobre la moneda de vellón que al
presente se labra en Castilla y de algunos desórdenes y abusos (110), Mariana analizzava il caso di una moneta spagnola
dell’epoca che originariamente era composta in lega di argento, quindi in
“mistura” (vellón) gradualmente sempre più impoverita, fino a giungere
ad avere una moneta completamente in rame. La ‘discrasia’ nel composto
metallico aveva dato origine ad un patente contrasto fra il valore nominale e
quello reale di dette monete; già lo stesso Mariana, infatti, notava come una
moneta detenesse due distinti tipi di valore: l’uno “intrinseco naturale”, il
quale sarebbe stato determinato in base alla qualità del metallo ed al
peso, a cui tuttavia andava aggiunta la stima del costo sostenuto per
il conio, “ché vale ancora qualcosa il lavoro che si mette per
forgiarla”. Il secondo valore si poteva denominare “legale od estrinseco”;
esso era costituito da quello che gli apponeva tramite una sua legge il
principe, “il quale può tassare quello della moneta come quello delle altre
mercanzie” (111). Concludeva il nostro autore che “[i]l vero uso della moneta e
quello che nelle repubbliche ben ordinate si è sempre preteso e praticato è
che questi valori vadano di pari passo, perché come sarebbe ingiusto nelle
altre mercanzie che quello che vale cento si tassasse per dieci, così è nella
moneta” (112). Dunque, Mariana riconosceva che
non era giusto far coniare moneta al principe a sue spese, poiché,
tramite il conio, si recava un valore aggiunto a quello naturale della moneta
ed il costo che quest’operazione comportava andava riconosciuto al monarca,
come del resto disponeva anche la legge promulgata a Madrid nel 1556, in
relazione al conio dei cuartillos (113). Le specifiche misure adottate dai
ministri della casa reale, tuttavia, comportarono una svalutazione della
moneta spagnola rispetto ai mercati internazionali che provocò una profonda
crisi economico-finanziaria, la quale, come di norma, si ripercosse
profondamente anche sulla popolazione. Di qui la ferma condanna e la
conseguente denuncia del padre gesuita, che contestava al potere politico la
facoltà di gestire a proprio piacimento il denaro pubblico, modificandone
proditoriamente il contrassegno e la forma
in assenza di gravi casi di necessità ed in maniera permanente. Il talaverano
giudicava il trasferimento di ricchezza per mezzo della svalutazione
monetaria un “infame latrocinio”, paragonandolo all’azione di coloro i quali
si recavano in granai privati per rubare porzioni del raccolto ivi
immagazzinato (114). Mariana combatté l’alterazione
della moneta dal punto di vista economico tanto quanto, o addirittura più,
che sul piano politico. Essa, infatti, avrebbe condotto a quell’effetto,
attualmente definito “inflazione”, che il gesuita avversava fieramente,
poiché non soltanto avrebbe impoverito de facto la popolazione, che si
ritrovava in tasca un valore inferiore a quello che le sarebbe spettato, ma
anche perché egli lo riteneva nocivo per il commercio estero. Quest’ultimo
sarebbe divenuto in breve tempo impossibile, se i mercati nazionali non si
fossero risolti per soffrire un indebolimento paritetico al deprezzamento della
moneta; inoltre, poiché le cose detengono un valore in sé, al contrario della
moneta che varia, agli occhi del religioso spagnolo non appariva lecito
pagare con una moneta di bassa lega i debiti che si erano contratti al tempo
in cui la moneta era buona (115). Mariana attribuiva un’elevata
importanza alla moneta solida; il denaro, infatti, assieme alle altre unità
di peso e misurazione, a suo giudizio costituiva le fondamenta dell’arte
mercantile e dei contratti. Precisamente per tale ragione risultava opportuno
che i pesi, le misure e la moneta non venissero modificati, se s’intendeva
evitare “confusione ed oscillazioni del commercio”. Nel decimo capitolo del
suo trattato sull’alterazione della moneta, Mariana elencava i gravi
inconvenienti che derivavano da un processo di aumento artificioso della
massa monetaria nel mercato. Richiamandosi espressamente all’Antico
Testamento (116), il religioso spagnolo sosteneva addirittura che “la purezza
ed il giusto prezzo” della moneta andassero custoditi e preservati
all’interno del tempio. Il “siclo” (117) conservato nel tempio avrebbe dovuto
rappresentare l’unità di misura del valore (omnis aestimatio siclo
sanctuari ponderatur). Inoltre, citando anche san Tommaso (118), il
gesuita consigliava caldamente al principe di non alterare la valuta a
proprio piacimento, biasimando la svalutazione del denaro in quanto pratica
“barbara” sostenibile soltanto da parte di chi incarnava una “piaga della
repubblica” ed, in quanto balzello indiretto per il popolo, assimilabile ad
una sorta di rapina dai risvolti devastanti tanto nell’arena politica quanto
in quella economica (119). Nel mondo occidentale, il
controllo da parte dell’“autorità spirituale” sulla moneta si era perpetuato
ufficialmente e legittimamente fin verso la fine del Medioevo (120). Lo
stesso Mariana ricordava il caso del re di Francia Philippe IV le Bel, il
quale, per aver operato — mosso da “cupidigia” — una svalutazione del denaro,
venne bollato da Dante Alighieri (1265-1321) come “falsificatore di moneta”
(121). Anche il giurista luterano Samuel von Pufendorf
(1632-1694), peraltro menzionando esplicitamente lo stesso Mariana, avrebbe
impiegato argomentazioni similari al fine di esecrare le politiche di
svalutazione monetaria (122). Chafuen, inoltre, rileva come nel De
Rege Mariana si fosse espresso in favore del “mutuo scambio” di beni —
insostituibile collante sociale — quale unica attività realmente efficace per
superare la “scarsità” a favore del “vantaggio personale”, vero motore
dell’azione umana (123). 10. Il problema dei tributi:
una visione ‘liberale’? Mariana era consapevole che la
base su cui occorreva sviluppare un’azione di governo, che dovesse mantenere
un’organizzazione e dei funzionari, era quella delle “rendite pubbliche”
ottenute, fondamentalmente, con il denaro degli stessi cittadini. Il gesuita
fu tra i primi a dedurre una legge logica sull’efficacia e l’opportunità
delle imposte, le quali dovevano avere, innanzitutto, la possibilità di
essere coperte dai contribuenti. Riguardo all’introduzione dei
tributi, tuttavia, Mariana lasciava intravedere il suo criterio favorevole ai
vantaggi di una certa autonomia amministrativa, pur sotto la direzione e
tutela dello Stato. L’imposizione fiscale, inoltre, avrebbe dovuto essere
moderata e si dovevano generare nuovi tributi solo quando fossero stati
giustificati da casi eccezionali; anche perché, se la causa era buona,
secondo il gesuita, tutti vi avrebbero aderito volontariamente. Non si
dovevano imporre altri tributi in aggiunta a quelli che lo stesso popolo
aveva ratificato in base agli accordi delle Cortes che erano stati
stipulati a Madrid nel 1329, al tempo di Alonso el Onceano — o Alfonso XI —
(1312-1350), con la “petizione 68” (124). Era, inoltre, da escludersi
categoricamente che il re imponesse nuovi tributi senza l’approvazione
popolare, giacché in tal caso, così come per quanto riguardava l’abrogazione
di leggi esistenti e la modificazione della procedura per la successione al
trono, l’autorità del sovrano si mostrava decisamente inferiore a quella
della comunità (125). Egli parlava anche delle cariche
improduttive di rendita, come l’esercito e la marina, le quali dovevano
essere mantenute ad ogni costo, anche in tempo di pace (126). Però,
per soddisfare queste necessità si doveva eliminare ogni genere di arbitrio,
fatta eccezione per il pignoramento delle rendite pubbliche, giacché esse
costituivano delle vere ‘prime eredità’, inalienabili secondo la stessa
dottrina di Aristotele. Nondimeno, la coattività
dell’esazione fiscale rivestiva un tema centrale nel pensiero di Mariana, che
si trovava sviscerato in vari suoi scritti. Secondo la visione del religioso
spagnolo, in proposito perfettamente in linea con quella di Bodin, un limite
inderogabile al potere sovrano era costituito da quelle leggi che regolavano
i rapporti privati fra i sudditi, in primis i rapporti di proprietà.
Per il talaverano il re non rappresentava il padrone della proprietà privata.
Al contrario, il sovrano aveva dominio sulle tasse e le proprietà reali, ma
non su altri beni (127). L’agire diversamente — concludeva il
gesuita — sarebbe stato un atteggiamento da considerarsi tirannico e
coercitivo, per il quale, in base alla bolla papale In Coena Domini,
si avrebbe meritato la scomunica (128). Nel De Rege, il gesuita si
occupava in maniera specifica anche del problema dei “tributi” (De
vectigalibus) (129). Nel settimo capitolo del terzo libro,
infatti, egli enumerava con precisione i vari generi di tributo che era
possibile individuare: “Le entrate reali sono di tre
tipi {regius census trisariam divisus est}: alcune rendite {pecunia}
derivano dai beni patrimoniali del Sovrano, percepiti in denaro o in natura
dalle locazioni, e sono destinate al sostentamento della famiglia reale e
alla conservazione di tutta la corte e il palazzo. In secondo luogo vi sono i
tributi ordinari {vectigalia ordinaria}: qualunque sia il motivo della
loro esistenza e gli oggetti su cui grava, sono destinati all’amministrazione
regolare della repubblica in tempo di pace {republica in pace regenda
destinata sint}: servono al pagamento dei funzionari pubblici {publicis
ministris}, al rafforzamento delle città, all’edificazione di fortezze,
costruzione di strade pubbliche, riparazione di ponti, e al sostentamento
delle truppe di guarnigione. Oltre a queste due risorse vi sono, in
particolari circostanze, dei tributi straordinari {pecuniae
extraordinariae} imposti alla popolazione, al cui aiuto si deve ricorrere
o per difendersi nel caso di una guerra o per invadere i confini nemici” (130). Già nelle pagine precedenti
Mariana aveva osservato che i re giusti non avevano necessità di ingenti
prelievi. Storicamente, infatti, si intrapresero molte guerre importanti con
tributi assai scarsi. Inoltre, secondo la visione del gesuita, se per tali
ragioni non sembrava necessario imporre alla popolazione tributi smisurati e
straordinari, tuttavia, qualora se ne fosse presentato il bisogno per
l’erario, in seguito a calamità o guerre inattese, il principe senz’altro li
avrebbe ottenuti ugualmente con il consenso dei cittadini, se avesse saputo
parlare loro con franchezza e non con il terrore, la frode e le minacce (131). In ogni caso, era bene che la
tassazione dei cittadini fosse moderata, soprattutto laddove le condizioni
del territorio apparivano già depresse per cause naturali. Un valido criterio
di giustizia avrebbe potuto essere quello di una qualche proporzionalità nel
prelievo (132). Tutti questi accorgimenti stanno
a dimostrare che la concezione del re che aveva in testa Mariana era una
concezione nella quale il sovrano rappresentava semplicemente il popolo, ma
non ne era il padrone. Egli, pertanto, doveva governare bene e nell’interesse
dei governati: “Non deve mai credersi padrone
della repubblica né dei suoi sudditi {Neque enim se Princeps reipublicae
& singulorum dominum arbitrabitur}, sebbene gli adulatori dicano
questo alle sue orecchie, ma capo dello Stato con un certo contributo
stabilito dagli stessi cittadini: questa paga non tenterà mai di aumentare
senza il volere di questi stessi {sed rectorem mercede a civibus
designata: quam augere nisi ipsis volentibus nefas existimabit}. E, ciò
nonostante, riuscirà ad accumulare tesori e ad arricchire l’erario pubblico {publicum
aerarium} senza strappare un solo gemito ai suoi sudditi. […] In questo
modo il re Enrico III di Castiglia colmò la scarsezza delle casse
dell’erario, esauste dalle calamità dei tempi e, alla sua morte, poté
lasciare al figlio grandi tesori, raccolti senza frode, senza strappare un
gemito o un lamento dai sudditi. Furono sue quelle parole: “Temo più
l’esasperazione del popolo, che le armi dei nemici” {Populi se
execrationes amplius quam hostium arma formidare}” (133). Un punto significativo, al
riguardo, è quello in cui Mariana si scagliava con veemenza contro i cortigiani,
rei di traviare il principe indulgendo alle sue perversioni e, anzi,
fomentandole per proprio tornaconto (134). Una volta cacciati via gli adulatori,
tuttavia, egli avrebbe dovuto circondarsi di uomini probi, ai quali spettava
di svolgere l’arduo compito di impersonare “gli occhi e le orecchie” del re. 11. Questione sociale e
tassazione indiretta In tema di tributi, Mariana
coglieva l’occasione per mettere in guardia anche contro gli effetti
catastrofici che avrebbe potuto provocare un debito pubblico incontrollato. A
tal fine il monarca avrebbe dovuto razionalizzare le uscite, sopprimendo le
erogazioni in esubero, per meglio calibrare la tassazione. L’obiettivo
dichiarato consisteva nel perseguire un equilibrio fra quanto lo Stato era in
grado di incamerare e quanto, per contro, si aveva intenzione di spendere, al
fine di non essere costretti a richiedere un prestito, intaccando così le
risorse imperiali nell’intento di coprire gli interessi (135). Il religioso spagnolo affermava
con decisione che la spesa regale doveva essere ridotta. Infatti, egli
sosteneva di aver preso visione di una certa documentazione, redatta al tempo
in cui regnava il monarca Juan el Segundo (1458-1479) e riferita all’anno
1429 (136), quando le spese regali ammontavano, approssimativamente,
ad otto cuentos de maravedís (137), mentre nel 1564, sotto l’imperatore
Felipe II, esse erano cresciute fino a raggiungere i diciotto milioni di
maravedini (138). Nessuna giustificazione avrebbe potuto spiegare un così
sproporzionato aumento nella spesa della casa reale, ammoniva il gesuita; ed
aggiungeva sdegnato: “si dice che da pochi anni a
questa parte non ci sia un solo impiego o posizione che i ministri non
vendano in cambio di regalie e baciamani, etc., perfino i tribunali e i
vescovadi; non sarà vero, però è abbastanza vergognoso che si dica. Vediamo
ministri usciti dalla polvere della terra in un momento caricati di migliaia
di ducati di rendita; di dove è uscito questo, se non dal sangue dei poveri,
dalle viscere di negozianti e pretendenti?” (139). La figura dell’esattore delle
tasse poi — come visto — era particolarmente presa di mira dal Mariana, il
quale la giudicava uno dei più grandi mali per la repubblica. Questa figura
era deprecata anche per la confusione che generava il suo ruolo ibrido.
L’esattore, infatti, riscuoteva i tributi per conto dello Stato, ma rimaneva
pur sempre un privato cittadino, che riceveva questa funzione in appalto.
Storicamente, d’altra parte, non mancavano gli esempi, come quello di Verre
nella Trinacria romana, che avvalorassero la tesi sostenuta dal gesuita; e
questo Mariana dimostrava di saperlo assai bene (140).
Pertanto, egli invitava espressamente a non privarsi di questa fondamentale
funzione (141). Ben lontano dai precetti moderni, l’influsso dell’etica
cristiana si faceva sentire ancora poderoso nelle parole del gesuita, che
chiamava in causa lo stesso Aristotele al fine di regolamentare il prestito
ad interesse: “Credo che si debba ordinare al
principe, ed osservare egli stesso, la legge che, come ricorda Aristotele, si
osservava anticamente in molte città, secondo la quale a nessuno era
consentito vendere la prima eredità dietro corresponsione di denaro {nemini
licere primariam haereditatem pecunia vendere}. Si ricordi anche di
un’altra legge, molto famosa, attribuita a quanto dicono ad Oxe: “A nessuno è
consentito ricevere denaro ad interessi, dando in ipoteca la sua proprietà o
parte di essa” {faenori pecuniam dari fundo aut fundi partae oppignerata
nemini liceto}” (142). Tuttavia, ciò che sembra stesse a
cuore a Mariana sopra ogni altra cosa era la ‘questione sociale’. Uno Stato
veramente ‘etico’ — per avvalersi di una fortunata espressione successiva —
non poteva gravare con imposte e dazi di ogni sorta i propri cittadini,
soprattutto quelli più poveri. Mariana, infatti, condivideva il concetto
aristotelico secondo cui una società equilibrata doveva reggersi sulla classe
media, che andava, pertanto, privilegiata ed incrementata. Ma come sarebbe stato possibile
incamerare il necessario sostentamento finanziario, senza incidere
negativamente sulle risorse private dei cittadini meno abbienti? Mariana
suggeriva che attraverso la ‘tassazione indiretta’, ossia sui consumi, si
sarebbe potuti riuscire a calibrare la portata del prelievo fiscale nel senso
di una maggior equità, alleviando così la miseria dei cittadini (143). In tale ottica, i cosiddetti
“beni di lusso” ed, in generale, i beni voluttuari, erano, per definizione,
da ritenersi superflui; conseguentemente, per Mariana essi potevano essere
gravati da pesanti imposte, giacché questo non avrebbe compromesso la libertà
individuale: colui il quale poteva permettersi di acquistarli, infatti, non
avrebbe subito un danno eccessivo a causa della tassazione, anche perché
restava pur sempre libero nel decidere di non comperarli; qualora, per
contro, avesse deciso di farlo ugualmente, non gli sarebbe stato in alcun
modo impedito ma, almeno, con la sua ostinatezza per le cose futili avrebbe
recato un beneficio all’intera comunità (144). Inoltre, nel trattato De
monetae mutatione si affrontava la questione di quell’altra tassazione
indiretta che era rappresentata dal fenomeno inflazionistico. Tale
problematica risultava nevralgica. Secondo Mariana, ogniqualvolta si
vociferava che il tesoro pubblico era stato esaurito i contribuenti,
giustamente, si sdegnavano. Di conseguenza, l’atterrito principe avrebbe
ansiosamente ricercato un qualunque escamotage per far fronte ai
propri debiti (145). In queste
posizioni di Mariana, oltre che un chiaro riferimento ad Aristotele,
sembrerebbero quasi riecheggiare anche le parole utilizzate dal giurista
imperiale Julius Paulus (ca. 160-224) nel Digesto (146).
Cosicché il concetto di publica ac perpetua aestimatio risulta essere
un cardine del pensiero economico del gesuita derivato, oltre che dalla
teoria cristiana del “giusto prezzo” (147), dall’idea di un prezzo stabile e
fissato dalle autorità, che era una tematica già propria della riflessione
antica. Dunque, per Mariana costituiva un grave abuso alterare la
moneta sine populi consensu, tanto che — anche sulla scorta di
giuristi come il glossatore canonista Enrico da Susa, detto l’Ostiense dal
titolo cardinalizio di Ostia, il commentatore Niccolò Tedeschi, detto
Panormitano, ed Innocenzo — egli asseriva: “nessuna cosa che sia in
pregiudizio del popolo è consentito fare al principe senza il consenso del
popolo (dicesi pregiudizio prendersi qualunque parte delle sue finanze)” (148). Importante è anche sottolineare
come, in quanto forma indiretta di tributo, in linea di principio Mariana
considerasse immorali gli stessi monopoli di Stato. Tuttavia, quando questi
fossero stati istituiti per un maggior beneficio nella distribuzione ed
abbassamento dei prezzi, avrebbero senza alcun dubbio rappresentato la più
indovinata gestione di governo possibile (149). 12. Quanto deve essere libero
il mercato? Invocare un intervento
governativo in termini di tassazione per riequilibrare l’assetto sociale è un
espediente che risulta difficilmente assimilabile alla tradizione liberale
classica. La tassazione indiretta, poi, che va ad incidere sui consumi è una
misura di politica economica la quale, per così dire, influisce direttamente
sul mercato, condizionando, in una certa misura, le scelte degli acquirenti.
Di conseguenza, i fautori più intransigenti ed integralisti del ‘libero
mercato’ rifiutano nettamente tale tipo di soluzione redistributiva. Mariana,
per contro, subiva l’influsso aristotelico della mediazione, espresso nel
concetto di ‘politìa’, che puntava a stemperare le diseguaglianze economiche
nel tessuto sociale, favorendo il ceto medio quale massima garanzia di
stabilità politica. Ma numerosi altri dogmi
caratterizzarono il movimento liberoscambista del XIX secolo, di cui il
principale era l’annullamento di qualunque sorta di imposta doganale; ogni
forma di politica ‘protezionistica’ andava soppressa in nome della libertà di
commercio. Mariana sembra accogliesse certe istanze legate al libero
commercio; tuttavia, le sue posizioni si ponevano all’insegna della
moderazione e rifuggivano qualunque dogmatismo per essere calibrate e
modulate di volta in volta, a seconda delle situazioni specifiche. Così, egli
sostenne il ceto mercantile invocando sgravi fiscali per tale categoria.
Quella che svolgevano i mercanti, infatti, era da ritenersi un’attività
vitale per lo Stato e, pertanto, occorreva facilitare, da un punto di vista
politico, il loro compito: “Conviene inoltre favorire il
commercio con le altre nazioni, con modici tributi piuttosto che impedirlo
con gravose imposte {Praeterea commercia cum alijs regionibus iuvanda
potius moderatis vectigalibus sunt, quam impedienda tributorum gravitate}.
Infatti, sebbene il venditore {venditor} copre con il ricavato della
vendita ciò che ha speso nel tributo, tuttavia, quanto minore sarà il numero
dei compratori, per il prezzo alto, tanto più difficile sarà lo scambio dei
prodotti {commercij}. Occorre facilitare, sia per mare che per terra,
l’importazione e l’esportazione {invectiones evectionesque} degli
articoli necessari. Accadrà in tal modo di poter scambiare ciò che in alcune
nazioni abbonda con ciò che in altre manca, e viceversa: vero oggetto e scopo
del commercio, a cui questa arte deve tendere {qui est verus mercaturae
usus & finis, quo tota ea ars referri debet}. Avidi mercanti {avidi
mercatores}, invece, aumentano il prezzo degli oggetti, valendosi di
cattive arti e vendendo una cosa più volte in uno stesso punto: tutto questo
deve essere proibito da una legge, affinché non siano aumentati i prezzi, a
causa della loro cupidigia {lege prohibendum est, ne ex eorum aviditate
pretia rerum augeantur}. Al di là di questi casi sono del parere che
occorre proteggere gli interessi dei mercanti, e sostenere con le leggi e il
diritto quest’arte che tanto giova alla salute dello Stato {Alioqui
mercatorum commodis consulendum arbitror iure & legibus adiuvanda ars
imprimis reipublicae salutaris}” (150). Parimenti, tuttavia, secondo
Mariana andavano combattute le distorsioni che singoli soggetti operanti
all’interno del mercato avrebbero potuto porre in essere. Giacché, non
essendo il mercato un’entità pensante e con vita autonoma, bensì consistendo
esso in uno dei tanti collectiva che, semplicemente, tenterebbe di
esprimere sinteticamente la sommatoria dei singoli individui che al suo
interno operano, poteva darsi che alcuni di essi provassero ingiustamente ad
approfittare della propria posizione aumentando indebitamente i prezzi delle
merci per avidità. Contro tali eventualità avrebbe dovuto erigersi un argine
in base alle norme di diritto, cosa alla quale spingeva anche la semplice
constatazione per cui “[I]l mercante che, per poter
trarre maggiore profitto, inganna {mercator qui specie utilitatis decipit}
non può conservare ciò che ingiustamente {iniuste} ha ottenuto con la
frode {per fraudem} e rompe con le relazioni commerciali” (151). La riaffermazione della legalità
giuridica nei confronti degli abusi, tuttavia, rappresentava soltanto una
faccia della medaglia dell’intervento governativo nel mercato che, secondo
Mariana, avrebbe dovuto compiersi anche in forma positiva per mezzo di aiuti
concreti all’arte mercantile da parte dello Stato. Inoltre, l’elemento nazionalista,
evidente e scontato in un’opera indirizzata al sovrano dell’impero spagnolo,
imponeva a Mariana di escogitare o recepire misure idonee a preservare
l’economia iberica, preoccupandosi anche della ‘questione demografica’. Egli,
pertanto, affiancò ai propri elogi del libero commercio anche severi
ammonimenti di chiara marca ‘protezionistica’. Così, ad esempio, il gesuita
dichiarava di desiderare che il medesimo criterio venisse osservato anche per
quegli articoli i quali provenivano dalle altre province, “sopra i quali credo si debba
imporre un alto tributo {magno imposito vectigali vendantur}; in tal
modo uscirà meno denaro dal regno {Sic pecuniae minus deferetur ad exteros}
e, con la speranza di guadagnare, verranno in Spagna artigiani, accrescendo
la popolazione, di cui nulla è più vantaggioso per aumentare le ricchezze
tanto del re quanto del regno” (152). D’altronde, anche in tema di
produzione agricola Mariana si diceva convinto che questa dovesse
incrementarsi grazie all’intervento dello Stato; per tale motivo, egli
teorizzò l’istituzione di premi al miglior coltivatore e propose
l’espropriazione per causa di utilità pubblica con indennizzazione soltanto
di una parte del valore dell’espropriato a quegli agricoltori che si fossero
mostrati negligenti. Degno di attenzione, inoltre,
appare il suo criterio di tassazione del prezzo dei prodotti, relazionato con
le riserve metalliche, per evitare il deprezzamento della moneta ed il
corrompersi del mercato; regolamentazione che sarebbe andata a favorire,
principalmente, il piccolo proprietario. L’impostazione di Mariana in
materia di economia, in conclusione, sembrerebbe essere stata improntata,
come quella politica, ad un avveduto e ragionevole senso pragmatico, che
rifuggiva qualunque genere di ‘assolutismo’, coniugando felicemente istanze
di diversa matrice nell’intento di elaborare ricette in grado di risolvere le
complesse esigenze del momento. L’utilità delle varie misure, tuttavia,
andava conciliata con gli imperativi etici che raccomandava la morale
cristiana. Al dogma era necessario ricorrere in tema di religione — sembra
aver voluto dire il gesuita —, per le cose terrene sarebbe stato sufficiente
osservare la realtà con occhi vigili e disincantati ma col cuore aperto,
senza il bisogno di nessuna ‘rivelazione’ né di alcun ‘atto di fede’. In questo
mondo — che non era e non avrebbe mai potuto essere il Paradiso — la verità e
la felicità assoluta restavano un’utopia: occorreva accontentarsi di
soluzioni parziali, suggerite dal buon senso e sostenute dall’integrità
dell’animo umano virtuoso. 13. Epilogo: Juan de Mariana,
un pensatore eclettico Com’è noto, il trattato De
monetae mutatione al Mariana procurò un anno di reclusione; e ciò ha
contribuito a procurargli quella fama di ribelle libertario a cui si è già
accennato. Tuttavia, va detto che, in fondo, le sue parole erano state in
gran parte equivocate o, quantomeno, se non proprio travisate nel loro
significato, certamente misinterpretate nel proprio bersaglio. Infatti,
quando egli ammoniva: “[i]o confesso la verità, che mi meraviglio che coloro
i quali siedono al governo non abbiano conosciuto questi esempi” (153), feriva profondamente la sensibilità del duca di Lerma e
dei suoi ausiliari, i quali scorsero in tali parole un’allusione a se stessi;
equivocandole, tuttavia, giacché Mariana intendeva riferirsi ad Alonso
Ramírez de Prado e Pedro Franqueza, già da tempo castigati per i loro abusi
quando apparve il trattato sulla moneda de vellón (154). In
esso si ponevano di manifesto i vizi della burocrazia dell’epoca, della quale
si esponevano gli inconvenienti sostenendo a chiare lettere che, se non lo
facevano in maniera adeguata, coloro che governavano avrebbero ricevuto,
meritatamente, l’odio del popolo. Tutto ciò assieme alla dichiarazione
iniziale, nella quale Mariana sosteneva di apprestarsi a dire quello che
nessun’altro si era mai azzardato a proclamare prima, resero oltremodo
sospettoso il suo trattato agli occhi del governo in carica. Di certo,
l’opera di Mariana si pose, al fianco di quella di Juan Luis Vives
(1492-1540) e, soprattutto, di Pedro de Valencia (1552-1620), con il suo Discurso
acerca de la moneda de vellón del 1605, come parte di una trilogia che,
unica, si oppose al potere del re sulla coniazione della moneta. È possibile che a
taluni Mariana sia sembrato un uomo ‘avanti con i tempi’ semplicemente
perché, invece, era ‘indietro’ ma, allo stesso tempo, profondamente
consapevole dell’epoca in cui viveva (155). La moneta spagnola, infatti, essendo
un circolante internazionale, aveva degli aspetti metallistici che la
rendevano simile ad una ‘merce-campione’. La sua stabilità costituiva la
garanzia anche della stabilità dei prezzi e, quindi, dell’ordine rispetto alla
sussistenza ed agli scambi. Ma tale garanzia di stabilità era assicurata,
innanzi tutto, dall’atteggiamento del re. Se questi, infatti, mosso da
avidità, avesse modificato la moneta, avrebbe generato crisi, guerre,
miseria. Tutto sembrerebbe risiedesse, per Mariana, nell’eticità del
comportamento regale: perfino tasse e monopoli — sebbene, per principio, non
auspicabili — potevano risultare accettabili, purché finalizzati al “bene
comune” (bonum commune). È noto come, già per Tommaso, la res
publica rappresentasse un “organismo sociale di ordine naturale” in sé
completo, tanto che civitas est communitas perfecta (156). Nella
filosofia dell’essere tomista, dunque, la società politica era vista come
un’‘entità morale’, la cui realtà implicava una moltitudine coesa, dotata,
quindi, di un’unità immanente — in quanto conseguenza della intrinseca
finalità dei singoli individui che la componevano — e ordinata all’univocità
di operazione (unitas ordinis). Tale unità, composta di relazioni con
vincoli talvolta impercettibili e tuttavia reali, subordinandola ad un
ordinamento volontario, la volgeva ad uno scopo nuovo; essa costituiva, in
una parola, un ordo (157). Collegando la finalità essenziale
della cosa pubblica al concetto di virtus, la filosofia tomista
prospettava una repubblica nella quale l’adesione fosse non solum propter
iram, bensì tale da richiedere un émpito consapevole attraverso il quale,
nel momento della propria associazione personale, vi si trasferisse anche un
contenuto deontologico (158). Il fine della repubblica, che era
rappresentato dal bonum commune, si caricava così di un valore
squisitamente etico, giacché veniva regolato dalle leggi dell’essere, della
ragione e della morale, per mezzo delle quali agivano gli stessi uomini che
lo costituivano. Risulta, infatti, evidente come quella repubblica che avesse
trascurato un qualunque lato dell’uomo, non avrebbe potuto promuovere il bene
comune, divenendo in tal modo ciò che lo stesso Doctor Angelicus
definiva un incompleto regime secundum quid (159). Ma una
tale autolimitazione sarebbe stata un’onta per quanto di più perfetto si
poteva trovare in tutta la natura, in quanto essere ragionevole e
sussistente: la persona umana (160). Dunque, il fine della singola persona
avrebbe coinciso, proprio per tale ragione, col servire il bonum commune
(161); mentre ripugnava alla legge dell’essere, ossia alla
“retta ragione” (recta ratio), il ritenere che il bene di uno solo
fosse superiore a tale “bene comune”, o “bene di tutti” (bonum totius)
(162), mentre fra essi non sussisteva alcuna identità (163). La differenza che intercorreva fra bene comune e bene
particolare, inoltre, non si esauriva in una semplice distinzione di grado,
bensì implicava la loro stessa essenza specifica (164). A questo proposito, in merito
alle interpretazioni rigidamente individualistiche e libertarie della
filosofia politica di Mariana, così come di quella dello stesso Aquinate, è
opportuno, forse, riportare il commento di un tomista convinto come Monsignor
Francesco Olgiati (1886-1962), il quale
riteneva che “[n]ulla è più in contrasto con
la concezione di S. Tommaso della teoria individualistica, propria del
liberalismo e tante volte condannata nei documenti pontifici […]. Quando
l’individualista crede di avere S. Tommaso come alleato nella difesa della
dignità della persona, trascura che la “persona” della filosofia dell’essere
(e della religione cristiana) non deve calpestare le leggi dell’etica” (165). In sostanza, il sospetto che
emerge da una lettura approfondita e scevra da pregiudizi dell’opera scritta
dal gesuita spagnolo è che, spesso, si sia voluto stravolgere il suo pensiero
con etichettature che tendevano ad evidenziarne soltanto una minima parte. Di
fronte ad un Mariana ‘socialista’ e ad uno ‘individualista’, verrebbe da
osservare che, più opportunamente, egli avrebbe potuto essere definito
semplicemente come un cattolico eclettico. È nota, infatti, l’attenzione
secolare della Chiesa nei confronti delle tematiche politico-sociali e, se al
suo interno è possibile rilevare una miriade di posizioni differenti, è pur
vero che, spesso, si può anche intravedere fra di esse un ‘minimo comun
denominatore’ — per adattare le formule di una scienza esatta con le ben più
instabili problematiche delle scienze sociali — che le unisce e le distingue
dalle teorie laico-secolarizzate, quali restano pur sempre sia il socialismo
che l’individualismo. Mariana mostrava di essere
incline ad accogliere varie posizioni, senza lasciarsi irretire in alcuna
corrente specifica; egli, infatti, riteneva di leggere distintamente la
realtà in quanto la giudicava ‘dall’alto’, da uomo, cioè, che si collocava
nel mondo, ma misurando le cose sul metro della parola divina e, ovviamente,
senza il bisogno di ‘interpretarla liberamente’. Non v’è dubbio che a
Mariana stessero a cuore le questioni individuali; ma, allo stesso tempo, il
valore attribuito alla funzione dell’etica personale, assieme all’attenzione
per i problemi della dignità umana, ponevano un argine poderoso verso le
estremizzazioni in un senso o nell’altro; argine che contribuiva a demarcare
nettamente gli ambiti in cui tale libertà individuale poteva svilupparsi e
prosperare. Insomma, se è indiscutibile il fatto che egli anticipò alcuni
nodi fondamentali del soggettivismo economico ‘austriaco’ e che la sua
attenzione per la persona umana lo pose in una prospettiva che, per certi
versi, potrebbe essere assimilabile all’‘individualismo metodologico’,
tuttavia, appare altrettanto evidente la sua distanza intellettuale
dall’‘individualismo filosofico’, che in epoche successive ha condotto
all’elaborazione di dottrine solipsistiche ed anarcoidi, in molte delle
quali, più che la libertà dei singoli, si pretendeva di rivendicare la
supposta legittimità della loro licenza. Singolare e — certamente — degno di
nota appare il fatto che le soluzioni di due correnti di pensiero idealmente
tanto distanti, come indubbiamente sono il liberalismo economico
contemporaneo e l’etica sociale dei teologi rinascimentali, sovente convergano
in maniera così chiara e decisa. Di conseguenza, per quanto il definire
Mariana come un precedente storico di ‘libertario’ o come ‘il primo
economista austriaco’ possa comprensibilmente apparire un anacronismo di
fronte al quale per lo storico delle dottrine è legittimo storcere il naso,
tuttavia, ciò conserva nella sostanza una sua dose di ragionevolezza qualora
si indossino gli occhiali dell’economista, del politologo o dello studioso di
filosofia politica. Difatti, gli anatemi ecclesiastici contro il ‘liberalismo’
sono riconducibili — e circoscrivibili — alla sua versione utilitaristica,
impregnata di tematiche tipicamente ottocentesche, come il nazionalismo, il
relativismo, l’agnosticismo. Pertanto, è evidente come quei libertari che
pongono al centro dei propri interessi le questioni deontologiche risultino
in larga parte immuni da tali rilievi. Conseguentemente, però, i problemi che
si presentano allo studioso che intenda tracciare una sorta di parallelo fra
le due distinte (ed articolate) teorie economico-politiche della
Neoscolastica spagnola e del libertarismo contemporaneo si possono ridurre,
essenzialmente, a due. Innanzi tutto, verificare se all’interno del variegato
arcipelago libertarian siano o meno riscontrabili posizioni che
richiamano quelle del ‘nichilismo morale’ o dell’‘edonismo narcisistico’, che
accomuna liberalismo ‘milliano’ ed egoismo ‘stirneriano’; idee le quali
rappresentano efficacemente quegli esempi utilitaristici, atomistici,
solipsistici ed anarcoidi reiteratamente condannati dalla Chiesa e,
certamente, assai distanti dalla lezione tomista. In secondo luogo,
domandarsi se sia filologicamente più corretto e teoricamente più proficuo
sostenere che le posizioni libertarie trovano dei parziali antecedenti
storici nelle teorie enucleate da alcuni teologi cattolici di epoca
rinascimentale, o piuttosto concedere che, semplicemente, sono taluni Libertarians
che intenderebbero coniugare, in maniera deliberata, tradizioni di pensiero
le quali, altrimenti, a parte qualche aspetto marginale, poco avrebbero a che
spartire fra di loro; tutto ciò nell’intento precipuo di formulare, in tal
modo, una nuova filosofia politica in grado di superare i presunti
limiti di entrambe. Qualche parola va, poi, spesa in
relazione al supposto ‘razionalismo’ di Mariana, più volte rilevato da taluni
commentatori. Egli era senza dubbio assai lontano dalla critica aspra e
totale all’utilizzo delle forze della mente umana per cogliere ed assimilare
le verità d’ordine naturale; posizione con la quale, all’opposto, s’identificava
quel filone (poi raccolto da un certo ‘tradizionalismo’, anche cattolico) che
negava ogni validità alla ragione, tanto da arrivare a sostenere — con le
parole di Juan Francisco María Donoso Cortés (1809-1853) — che essa “segue
l’errore ovunque vada, come una madre affezionata segue, ovunque vada, fosse
pure nell’abisso più profondo, il figlio del suo seno”. Ciò sarebbe equivalso
a negare le fondamenta della tradizione tomista, verso cui, per contro, tutta
la Neoscolastica spagnola, pur nella sua varietà, rimaneva profonda
debitrice. Tradizione che, peraltro, appariva come il più sublime tentativo
di sintesi tra fede e ragione che la storia abbia conosciuto, giacché restava
fedele alla convinzione secondo cui il Sommo Autore ordinò la ragione alla
verità e non, certamente, all’errore. Essa si rifaceva all’insegnamento di
Aristotele, che aveva tradotto la sapienza tramandata in una dialettica
ontologica. L’accostamento di Mariana al moderno razionalismo è, dunque,
comprensibile; specialmente se si accetta l’interpretazione per cui già la
Scolastica del tardo Medioevo avrebbe risolto la sintesi della filosofia
‘accademica’ e di quella ‘peripatetica’ in favore di una concezione più
rigorosa di quest’ultima, “preparando così la sua stessa fine e la vittoria
del razionalismo” (166). D’altra parte, Mariana sembrerebbe
aver compiuto un passo ulteriore verso la modernità con la ratifica del
trapasso — all’epoca ancora in fieri — dallo ‘scientismo cabalistico’,
proprio dell’empirismo ‘magico’ di radice aristotelica, a quello ‘puro’ o
moderno, secondo cui il calcolo di ogni genere avrebbe dovuto essere
‘verificato dall’osservazione’ (con tutte le conseguenti implicazioni
politiche di matrice ‘democratica’ implicitamente connesse con la fede
dichiarata nell’‘esperienza di prima mano’) (167). Tale propensione resta consegnata in
affermazioni del tenore di quella secondo cui “[n]essuna vita, per lunga che
possa essere, è sufficiente ad ottenere anche una sola scienza, se non fa
tesoro delle osservazioni di molti e dei risultati forniti da una lunga
esperienza” (168). Nondimeno, va chiarito come, in realtà, la ‘ragione’ di
cui egli si avvaleva non fosse ancora quella dei razionalisti moderni, bensì
come essa, più semplicemente, s’identificasse con il nobile impiego
dell’intelletto umano per il discernimento dei problemi: da ciò a riconoscere
la superiorità della ragione sull’anima, evidentemente, rimaneva pur sempre
un abisso. Occorreva, infatti, non dimenticare mai che “temeraria sarebbe
ogni indagine sugli arcani divini posti al di là della comprensione umana” (169). La qual cosa, peraltro, appare indubbiamente
significativa alla luce di quella critica radicale che, pur da una
prospettiva completamente diversa, avrebbe sferrato alla hybris del
moderno razionalismo ‘costruttivistico’ proprio uno dei più insigni teorici
dell’‘austro-liberalismo’ contemporaneo (170). Appare importante non
disconoscere il mondo spirituale all’interno del quale il gesuita si muoveva
che, in gran parte, rimaneva ancora il mondo della tradizione cattolica (171). Occorre, pertanto, non perdere di vista che il talaverano
perseguì, fra le altre cose, combattere la Riforma, attaccandola nel più
profondo della sua rivoluzione, con uno spirito riformista che cercava la
restaurazione di tutta la grandezza del passato, fustigando tutto il male del
presente. Ciò di per se stesso non significa cedere — come alcuni hanno
ritenuto — all’‘oscurantismo’; egli, infatti, ammetteva gli umani appetiti di
gloria e fama, così come l’amore per la scienza e per lo studio, ma sempre
che non fossero contaminati dal peccato, né dalla vanità. Secondo un’ottica tipicamente
cristiana, per Mariana l’etica non era avulsa dalla sfera politica e la
memoria storica avrebbe decretato il verdetto definitivo, attribuendo osanna
o condanne senza appello. Nel Trattato contro i giochi pubblici (172), per esempio, ad ogni pie’ sospinto Mariana esercitava il
proprio intento moralizzatore e, alla minima occasione che gli si presentasse
opportuna, parlando dei giochi nei quali conveniva che si esercitasse il
principe, sosteneva che questi non dovevano possedere nulla di crudele che
contraddicesse i costumi e la pietà cristiana (173).
Inoltre, in varie occasioni egli censurava con crudezza i vizi dell’epoca,
senza per questo scadere in toni stucchevolmente moralistici. I suoi strali
non risparmiavano nessuno: dai nobili cortigiani, accusati reiteratamente di
essere effeminati, adulatori infidi e ladri, fino ai magistrati, ai vescovi e
a certi stessi pontefici, passando per gli esattori delle tasse, tarme delle rendite
reali, e i giureconsulti, sulle cui arguzie ironizzava acutamente, nonché gli
stessi sovrani i quali, sotto la qualifica di “tiranni”, non si salvavano
dalle bacchettate del gesuita (174). La posizione di Mariana di fronte
alla Chiesa, che riteneva degna di stare sopra a tutte le cose terrene, in
quanto rappresentante dei poteri celestiali, ammetteva la separazione di
questa dallo Stato, per maggiore forza di entrambi. Tuttavia, il talaverano
indicava come conveniente che i religiosi prendessero parte attiva
all’organizzazione civile e che, a loro volta, si onorassero con dignità
ecclesiastiche quei cittadini che lo avessero meritato, in maniera tale che
il clima di cordiale collaborazione presiedesse ai lavori della Chiesa e
dello Stato (175). È, anzi, opportuno rilevare come Mariana abbia difeso una
partecipazione del clero alla politica in quanto vedeva in esso, soprattutto,
un potere moderatore di quel monarca legibus solutus che, nell’Europa
del Rinascimento, difendevano i teorici della monarchia assoluta. Per Mariana
la Chiesa rappresentava un’istituzione dalla quale non si poteva prescindere,
la cui funzione essenziale veniva perseguita anche grazie alla sua potenza
temporale (176). Appare dunque evidente che uno
Stato così concepito, quasi teocraticamente strutturato, dovesse
necessariamente configurarsi come confessionale e cattolico, in linea con il
sistema ‘ierocratico’ propugnato in quel tempo dall’autorità ecclesiastica.
Ciò traspariva chiaramente dalle parole di Mariana, il quale, nel sedicesimo
capitolo del terzo libro del De Rege — cui affidava la conclusione del
proprio trattato — sentenziava come “[n]on è vero che in un solo regno
possano esserci molte religioni” (177). Inoltre, nelle varie occasioni in cui
parlava della missione che doveva portare a termine l’impero spagnolo nel
mondo, egli poneva come funzione principale, indispensabile per la sua
espansione, la predicazione e diffusione della religione cristiana. In un tale Stato su base
religiosa è logico pensare che ogni ingiustizia sociale dovesse sembrare
intollerabile. Nel concetto statale di Mariana, difatti, si presentava tanto
perentorio questo senso di uguaglianza che per il gesuita risiedeva nella
stessa natura dell’uomo, il quale poteva ascendere per la scala degli onori,
come già in passato alcuni fecero dando origine all’aristocrazia; assumendo,
così, una posizione che apriva decisamente la via alla concezione sociale che
avrebbe poi contraddistinto la modernità occidentale. Tale convinzione si
legava strettamente al concetto che di “aristocrazia” Mariana aveva in mente,
il quale rispondeva a criteri piuttosto complessi e sembrava non tenere in
grande considerazione la stratificazione sociale in base a distinzioni di
sangue. Una classe nobiliare avulsa da responsabilità di governo rischiava di
adagiarsi unicamente sugli allori dell’autocompiacimento, attribuendo la
propria condizione ad arcane questioni ancestrali e giungendo perfino a
disprezzare le altre componenti del popolo che, invece, occorreva coinvolgere
(178). Per comprendere l’ordinamento
logico di Mariana, occorre non perdere di vista il metodo ‘induttivo’ da lui
utilizzato. Dapprima, egli affrontava la trattazione dell’istituto monarchico
e della conseguente autorità; in un secondo tempo, si concentrava
sull’autorità popolare come superiore a quella del monarca; infine, veniva
decretata la superiorità dell’autorità ecclesiastica su qualunque altra. Da
una tale prospettiva di valutazione sul valore politico dell’opera di
Mariana, emerge in tutta chiarezza l’intento religioso e, in special modo,
‘gesuitico’ dell’autore, che coincideva con l’affermazione del potere
temporale della Chiesa rispetto a quello laico. Lo spagnolo, infatti,
sosteneva che, qualora il principe avesse mostrato disprezzo per la
religione, avrebbe dovuto abdicare od essere destituito (179). In
proposito, è stato osservato come la vastità d’interpretazione a cui si
presta il concetto di ‘disprezzo della religione’ offrisse a Mariana gli
strumenti più adeguati per tentare d’imbrigliare in qualche modo il potere
laico: probabilmente, fine recondito dell’intera sua opera (180). In conclusione, occorre rilevare
come le tematiche analizzate da Mariana non costituissero, certamente,
argomenti originali di per sé. Al contrario, anche le sue tesi più polemiche,
come ad esempio la superiore autorità del regno su quella del monarca e, di
conseguenza, la sottomissione del re alle leggi — che il gesuita si
compiaceva di sottolineare — o persino la stessa teoria del tirannicidio
erano già, in una certa misura, dottrina comune di quella che è stata
definita “scuola spagnola del XVI secolo” o “Scuola di Salamanca” e, più in
generale, temi europei (181). L’originalità consistette, pertanto,
nella maniera in cui egli si accostò a certi argomenti, nel suo personale
modo di esporli. È, dunque, opportuno ricollocare
ogni manifestazione del pensiero di Mariana all’interno del microcosmo nel
quale era stata partorita. In una tale logica, lo stesso rilievo attribuito
alla dignità della persona umana, che era certamente presente nell’ideario
del padre gesuita, pur distinta nettamente dall’arbitrio individualistico
idolatrato nelle epoche successive da certe dottrine di stampo ‘atomista’,
parrebbe anzi rappresentare uno dei tratti salienti e peculiari della sua
filosofia, nonché, allo stesso tempo, l’effetto di una visione del mondo
ancora di tipo sostanzialmente tradizionale. Ecco che, in base ad essa, la
personalità umana sembrerebbe aver rappresentato — secondo una tipica e
storicamente fortunata versione dell’Hispanidad — una ‘monade
spirituale’, od anima ordinata alla vita perpetua, in grado di incarnare lo
strumento di valori assoluti e di esprimere, essa stessa, un valore assoluto
in sé. Da qui, la giustificazione di un rispetto fondamentale per la dignità
dello spirito umano, per l’integrità e la libertà della persona: una libertà
di natura profonda e legittimata superiormente, che non si sarebbe mai potuta
tradurre nella facoltà di infrangere arbitrariamente la convivenza civile o
di minarne le fondamenta. Note
(1) Conviene circostanziare come le
riflessioni di Ortega s’incentrassero su quella che, a suo modo di vedere, si
configurava quale un’esecrabile confusione odierna fra i due ben distinti
concetti di “liberalismo” e “democrazia”. In alcuni celebri paragrafi, il madrileño
poneva in evidenza come, per contro, tali “tendenze” non soltanto
risultassero originariamente differenti l’una dall’altra ma, addirittura,
fossero da considerarsi “di significato antagonista”. Esse, infatti,
atterrebbero a due questioni di diritto pubblico assolutamente diverse: la
democrazia si occuperebbe del problema di chi debba esercitare il potere
politico, ravvisando la soluzione più adeguata nella “collettività dei
cittadini”; il liberalismo, invece, si preoccuperebbe di individuare quali
siano i limiti invalicabili da apporre a tale potere, indipendentemente da
chi si trovi ad esercitarlo: cfr. Ortega
y Gasset (1926: 425). (2) Si tenga presente come alcuni
scolastici si mostrassero inclini ad individuare proprio in tale passo del Genesi
(1, 26) il fondamento ultimo del dominium; cfr. ad esempio Molina (1593-1609: Tract. II,
disp. 18, coll. 83-84).
Sulla filosofia politica di Molina si veda, in particolare, lo studio di Costello (1974). (3)
Cfr. Negro Pavón (1988: 12). (4) Cfr. Maravall Casesnoves (1944), (1972),
(1975) e (1982). (5) Per una trattazione delle tematiche
relative a ‘legge naturale’/‘diritti naturali’, ‘diritto di natura’/‘diritto
naturale’, etc. si rinvia agli studi di Villey
(1975), Tuck (1979), Finnis (1980), Brett (1997), Tierney (1986), (1997), (2002a) e (2002b), nonché Cubeddu (2001). In particolare, negli
scritti di Villey e Tierney si fronteggiano due tesi contrapposte. Il primo,
infatti, ha individuato una stretta interconnessione fra il volontarismo
teologico e quello giuridico. Per contro, il secondo è stato indotto a
collocare l’origine dei diritti soggettivi all’interno della riflessione
sviluppata dai canonisti di epoca medioevale, enfatizzando il nesso che
unirebbe al “diritto naturale” la dottrina dei “diritti individuali”,
interpretata come il “prodotto caratteristico” di quella “giurisprudenza
creativa”, la quale avrebbe posto, nel corso dei secoli XII e XIII, le
fondamenta della “tradizione giuridica occidentale”. (6) Cfr. Huerta de Soto (2002: 157). (7) Le discusse e controverse
interconnessioni tra fede e morale cattolica, da un lato, ed economia di
mercato e organizzazione politica di stampo liberale della società,
dall’altro, sono state dibattute in un incontro sul tema, svoltosi alla
Certosa di Pontignano, presso l’Università degli Studi di Siena, il 16 e 17
ottobre del 1998; gli atti di tale convegno sono stati pubblicati nel volume
collettaneo a cura di Cardini e
Pulitini (2000). Un’analisi di
tali questioni da una prospettiva di storia del pensiero giuridico è
disponibile nello studio di Clavero
(1991). Sulle medesime tematiche si vedano, inoltre, i contributi di Tosato (1994) ed Antiseri (1995). (8) La suddetta tesi interpretativa — che
in ambiente libertarian è divenuta, ormai, canonica — si colloca nel
solco tracciato da una cospicua parte della tradizione liberale classica
dell’Otto e Novecento che, da Lord John Emerich Edward Dalberg-Acton (1834-1902),
giunge sino a Friedrich August von Hayek (1899-1992); essa sembrerebbe
concorde nel considerare san Tommaso, appunto, come “il primo liberale”: cfr.
per tutti Novak (1993a: 45,
trad. it.). (9) Secondo quanto sostenuto dal liberale
granadino Francisco de Paula Martínez de la Rosa (1787-1862), il decreto
napoleonico apparso sulla “Gaceta extraordinaria de Madrid” l’11 dicembre del
1808 avrebbe rappresentato, assai probabilmente, la prima volta che si usò in
Spagna l’aggettivo liberal (in riferimento alla “Constitución de
Bayona”) con l’accezione che ha poi assunto in seguito: cfr. Martínez de la Rosa (1836: CLIII [V]
I, IX, cap. XXVI, VII). Del resto, anche l’applicazione della voce “liberale”
a gruppi di individui politicamente organizzati, avrebbe avuto un’origine
spagnola, iniziando ad essere usata a Cadice nel 1811 dal movimento che
l’anno seguente si costituì come il partito dei liberales: cfr. Hayek (1973: 136, trad. it.) e Negro Pavón (1988: 12, nota 4). Si
rammenterà, d’altra parte, il differente impiego già fattone da Edmund Burke
(1729-1797), il quale, nelle sue celebri Reflections on the Revolution in
France, pubblicate a Londra nel 1790, trattando dei primi rivoluzionari
di quel paese, asseriva che “their liberty is not liberal”: cfr. Negro Pavón (1988: 218, nota).
Inoltre, Sergio Amato ha richiamato l’attenzione sul ricorso che a tale
aggettivo fece lo scrittore tedesco Johann August Eberhard (1739-1809),
anch’egli in polemica con i misfatti e le scelleratezze che l’abuso della
libertà, degenerata in licenza sfrenata, aveva prodotto nella Francia
rivoluzionaria per mezzo di quel radicalismo che era proprio dello spirito
democratico-repubblicano. Alla pagina 10 del proprio manuale di lezioni di
scienza politica “per i cittadini e le cittadine tedeschi dei ceti colti”,
uscito a Berlino nel luglio del 1793 ed intitolato Über Staatsverfassungen
und ihre Verbesserung, egli rivendicava infatti nell’uomo di orientamento
moderato (der Gemäßigte) la presenza di un “sentimento liberale” (liberale
Gesinnung), pur mortificato dalle circostanze: cfr. Amato (1999: 138). (10)
Cfr. Negro Pavón (1988: 23). (11) “[E]am demum tutam esse potentiam,
quae viribus modum imponit”: Mariana
(1599: 95). (12) In proposito, avrebbe commentato il
sacerdote catalano Jaume Luciano Balmes Urpiá (1810-1848), annoverato come
uno fra i più significativi esponenti del cattolicesimo liberale vissuti
nella penisola iberica durante il XIX secolo: “Che penseremo di Mariana? La
risposta non è difficile; vi sono epoche di vertigine che frastornano le
menti e quella lo era […]. È deprecabile, di certo, che Mariana non abbia
trattato la questione con maggior senno e che abbia tratto conseguenze tanto
formidabili dai suoi principî sul potere; senza la dottrina del tirannicidio
il suo libro sarebbe stato in verità molto democratico”; cfr. Balmes Urpiá (1842: 53). (13) Di seguito, nel presente lavoro, per
le citazioni in italiano dei passi dal De Rege riportati fra
virgolette ci si è avvalsi dell’unica traduzione finora disponibile, a cura
di Natascia Villani, con alcune modifiche od integrazioni effettuate — senza
darne ogni volta menzione — sulla base del testo originale in latino, tratto
dall’editio princeps del 1599 (di cui esiste una riproduzione
anastatica pubblicata ad Aalen, Scientia Verlag, 1969); i rimandi puntuali
alle pagine sono, invece, riferiti alla medesima edizione latina. Tutte le
altre citazioni in italiano di opere di Mariana o di altri autori stranieri
sono tradotte da chi scrive, salvo diversa indicazione specifica. (14) Su cui si veda Salmon (1991). (15) Secondo alcuni interpreti,
addirittura, l’unico a cui possa correttamente applicarsi tale qualificazione
in ambito cattolico; cfr. Fava
(1953: 67). Sulla figura di Mariana si possono consultare gli studi di Pasa (1935) e (1939), nonché il
contributo di Nicoletti (1943).
(16) Alcuni esempi sono costituiti dagli
scritti di Costa y Martínez
(1898), Fernández-Santamaría
(1997), Lewy (1960), Pi y Margall (1854) e Sánchez Agesta (1981). A prescindere
dal grado di attendibilità di tali riletture — che, come ovvio, muta
notevolmente fra l’una e l’altra — quel che s’intende contestare qui è, più
in generale, l’applicazione del controverso concetto di ‘precursore’ tout
court. Se, infatti, è quantomai difficile ‘precorrere’ un qualcosa
(giacché nel momento in cui lo si ‘precorre’ questo, di fatto, già si
manifesta) è, logicamente, assai più coerente ‘emularlo’. Dunque, a fronte di
un Mariana anticipatore delle successive teorie liberali, sarebbe piuttosto
da domandarsi, forse, se i moderni esponenti del liberalismo non abbiano
ripreso alcuni elementi di una precedente tradizione cui si richiamava lo
stesso Mariana. In altri termini: riferendosi all’interpretazione che, a
giudizio di scrive, appare più fondata, Mariana formulò alcuni elementi del
moderno ‘costituzionalismo’ liberale o, piuttosto, quest’ultima corrente di
pensiero recuperò certe fertili tematiche, già affermatesi
in epoca medioevale e rinascimentale, dopo che esse erano cadute nell’oblio
con l’avvento dell’età moderna? Il cambio di prospettiva non pare un
dettaglio insignificante. (17)
Cfr. Hayek (1967: 286, trad.
it.). (18) È pur sempre doveroso, del resto, non
perdere di vista come, anche in assenza di ricerche autonome, Hayek
considerasse attendibili ed estremamente importanti quelle svolte da altri
studiosi in tale direzione. Al riguardo si rivela una testimonianza di
notevole interesse la lettera inedita, datata 20 gennaio 1979, spedita a
Huerta de Soto, in cui il futuro premio Nobel sosteneva che in tali studi si
dimostrava come “i principî basilari della teoria del mercato concorrenziale
{competitive market} vennero elaborati dagli scolastici spagnoli del
16º secolo e che il liberalismo economico non fu disegnato dai calvinisti, ma
dai gesuiti spagnoli”: cfr. Huerta de
Soto (2002: 250, nota 4). (19) Mises (1927: 93, trad. it.). (20) Ibidem.
(21) Ibidem.
(22) Mises (1922: 453, trad. it.). (23) Mises (1922: 454, trad. it.). (24) Mises (1927: 93, trad. it., corsivo
mio). (25)
Cfr. Mises (1949: Part Six,
chap. XXVII, § 3, pp. 715-719). (26) A giudicare dagli inequivocabili
segni di un influsso del pensiero hayekiano sull’Enciclica papale Centesimus
annus — dovuti, come noto, all’estesa conversazione che l’economista
austriaco intrattenne con il Santo Padre poco prima di morire, per cui si
veda Novak (1993b: 7) —
sembrerebbe vero, piuttosto, il contrario. (27) Gli stessi richiami che Joseph Alois
Schumpeter (1883-1950) fece ai dottori scolastici nella sua Storia dell’analisi
economica, infatti, non erano comunque diretti a sostenere una qualche
loro continuità ideale con la Scuola austriaca in particolare: cfr. Schumpeter (1954: 100 ss.). D’altra
parte, anche un critico quale Giacomo Costa, dopo aver giudicato con
scetticismo larga parte delle ricerche effettuate in tale direzione,
tuttavia, non sembra avere dubbi all’asserire che “[l]a Scuola Economica
Austriaca ha dato un fondamentale contributo alla conoscenza e
all’apprezzamento della Tardoscolastica, di cui può essere considerata, in
qualche misura, la continuatrice e l’erede. I membri della Scuola
Austriaca erano laici, e per di più certamente non tutti cattolici di
nascita. Tuttavia cattolicizzante la loro Scuola lo è, e non solo per la
sorridente condiscendenza con cui Schumpeter, o Mises, o Hayek, considerano
le posizioni del positivismo e del laicismo tardo-ottocentesco. Non
sorprendentemente per dei membri dell’élite intellettuale di un impero
multinazionale ormai vicino alla disgregazione, apprezzano profondamente
l’universalismo e il razionalismo della tradizione ecclesiastica medievale”: Costa (1999: 158, corsivo mio). (28) La citazione fatta da Menger del
trattato intitolato Veterum collatio numismatum, che Diego de
Covarrubias y Leyva (colui che avrebbe enunciato per primo la teoria
soggettiva del valore) aveva scritto nel 1560 sul maravedí
castigliano, è contenuta nei Principî fondamentali di economia, dove
si legge che “[l]a letteratura straordinariamente ricca che hanno prodotto il
medioevo e il sedicesimo secolo in materia di monete e di misure […]
<consta di> molte notevoli pubblicazioni […]. Esse si occupano per lo
più di questioni pratiche della moneta, in particolare della questione, divenuta
importante per i numerosi abusi delle pubbliche amministrazioni, dell’essenza
e dei limiti del diritto dei prìncipi di alterare le monete, e delle
conseguenze giuridico-patrimoniali di tali alterazioni. Alcune prendono
spunto da ciò per trattare anche la questione dell’origine del denaro, e si
liberano del problema sulla base delle ricerche dell’antichità, richiamandosi
sempre ad Aristotele. Così […]
Didacus Couarouvia, Veter.
numm. collat. (intorno al 1560), edit. Bud., p.
468”: Menger (1871: 343-344,
nota 79, trad. it.). (29)
Cfr. Grabmann (1933: 181-182,
trad. esp.). (30)
Cfr. Prieto (1993: 277). (31) Per quanto riguarda il differente
tomismo professato dai gesuiti, invece, si veda lo studio di Beltrán de Heredia (1915). (32) Dopo l’unificazione della Castiglia
con il León, l’Universidad de Salamanca incorporò quella di Palencia (il più
antico ateneo iberico, risalente al 1208), divenendo, in tal modo, la più
importante del paese. La sua vertiginosa ascesa verso una statura
internazionale fu notevole, tanto che — nell’arco di trent’anni — papa
Alessandro IV l’avrebbe elevata al rango delle più importanti università
europee dell’epoca. Essa continuò a fiorire sotto i Reyes Católicos,
assumendo addirittura una pionieristica professoressa, Beatriz de Galindo, la
quale fu precettrice di latino della Regina Isabella. Nel XVI secolo essa si
mostrò abbastanza potente da resistere all’ortodossia dell’Inquisizione di
Felipe II (1556-1598) ma, alla fine, la libertà di pensiero sarebbe stata
repressa dall’estremo clericalismo predominante nel Sei-Settecento. (33) Su tale movimento dottrinale si
vedano gli studi di Belda Plans
(1984) e (2000). Lo stesso Giovanni Paolo II esprimeva parole di
apprezzamento verso l’operato dei salmantini, durante un discorso ai teologi
spagnoli, tenuto nel 1982: “Per incontrarmi con voialtri ho scelto questa
celebre e suggestiva città di Salamanca, che con la sua antica Università fu
centro e simbolo del periodo aureo della teologia in Spagna, e che da qui
irradiò la sua luce nel Concilio di Trento, contribuendo poderosamente al
rinnovamento di tutta la Teologia Cattolica […]. In quei tempi tanto
difficili per la cristianità, questi grandi teologi si distinsero per la loro
fedeltà e creatività. Fedeltà alla Chiesa di Cristo e compromesso radicale
per la sua unità sotto il primato del Romano Pontefice. Creatività nel metodo
e nella problematica. Insieme con il ritorno alle fonti — la Sacra Scrittura
e la Sacra Tradizione —, realizzarono l’apertura alla nuova cultura che stava
nascendo in Europa. La dignità inviolabile di ogni uomo e la dimensione etica
come normativa delle nuove strutture socioeconomiche entrarono pienamente nel
compito della teologia e ricevettero da essa la luce della Rivelazione
cristiana. Per questo, nei tempi nuovi e difficili che stiamo vivendo, i
teologi di quell’epoca continuano ad essere vostri maestri, nell’intento di
raggiungere un rinnovamento tanto creativo quanto fedele, che risponda alle
direttive del Vaticano II, alle esigenze della cultura moderna e ai problemi
più profondi dell’attuale umanità”: Joannes
Paulus II (1982: 259-260). (34) Su questo argomento si rimanda agli
studi di Carro (1951), Brufau Prats (1989) e Pérez Luño (1992). (35) Cfr. Carpintero Benítez (2002: 40).
Sulla fortuna del tomismo in Spagna prima dell’opera del Vitoria, si consulti
Belda Plans (2000: 63-73). (36)
Cfr. Artola (2002: 5). (37)
Cfr. Carpintero Benítez (2002: 41). (38) Se non altro perché, come detto, la Compañía
de Jesús non venne fondata prima del 1534 e ricevette ufficiale
approvazione da Paolo III — con la bolla papale Regimini militantis
Ecclesiae — soltanto nel 1540: cfr. Bosi
(1992-1997: I, 118-119). (39)
Cfr. Carpintero Benítez (2002:
41). (40) Su cui, in particolare, si vedano gli
studi di Muñoz de Juana (1998)
e (2001). (41) Bisogna, infine, almeno menzionare
Luis Saravia de la Calle e Francisco García, che sviluppò la teoria economica
del valore dei beni basata sull’utilità soggettiva nel suo Tratado
utilísimo, pubblicato a Valencia nel 1583. (42) Parlare di ‘proto-liberalismo’ in
riferimento agli esponenti del movimento che teorizzò e mise in atto la
Controriforma può apparire eccessivo, secondo i luoghi comuni che hanno
tramandato una leyenda negra in base alla quale la Spagna cattolica
viene spesso dipinta come il regno incontrastato dell’assolutismo monarchico
sostenuto da un’Inquisizione intollerante e persecutoria. Non s’intende, in
questa sede, discutere l’attendibilità di tali interpretazioni. Poiché,
tuttavia, del Tribunale della Santa Inquisizione fecero parte anche figure di
primo piano nel processo controriformatore messo in
atto dalla Chiesa romana nella seconda metà del Cinquecento, come il
cardinale gesuita Roberto Bellarmino (1542-1621) — peraltro discepolo di
Mariana negli anni in cui questi insegnò presso il Collegio Romano — giova
riportare un episodio significativo. Racconta Balmes che, durante un sermone
pronunciato di fronte all’allora regnante Filippo II, un predicatore dichiarò,
lasciandosi trasportare da spirito di piaggeria e servilismo, che “i re hanno
un potere assoluto sulla persona e sulla roba dei loro vassalli”.
L’Inquisizione intervenne prontamente, senza alcun ostruzionismo da parte del
potente sovrano, istruendo un processo in cui condannò il religioso
eccessivamente zelante a ritrattare quanto detto, imponendogli inoltre di
leggere pubblicamente una formula che recitava come “non hanno i re sui loro
vassalli più potere di quello che loro si permette dal diritto Divino ed
umano e non già di loro libera e assoluta volontà”: cfr. Balmes urpiá (1842-1844: II,
368-369, trad. it.). (43)
Cfr. Bastit (1990: 314). (44) Cfr.
Carpintero Benítez (2002: 44). (45) Cfr. Prieto
(1993: 278). (46) Cfr. Fassò
(1968: 36-40). (47) Todescan (2001: 4). (48) Ibidem.
(49)
Cfr. Prieto (1993: 278). (50) Cfr., in particolare, gli Atti
dell’Incontro di studio — tenutosi a Firenze dal 17 al 19 ottobre 1972 —
pubblicati a cura di Grossi
(1973). (51) Al riguardo si vedano gli studi di Gilson (1925), (1943) e (1948), Olgiati (1943), Chenu (1950), Fabro (1983), Finnis
(1998) e (2002), nonché Celada Luengo
(1999). (52)
Cfr. Belda Plans (2000: 22). Le divisioni suaccennate sono da
riconnettersi con le diverse scuole teologiche nelle quali era articolato il
panorama scolastico del tempo, su cui si veda lo stesso Belda Plans (2000: 13-14). (53)
Cfr. Prieto (1993: 279). (54) “In realtà, riteniamo che si debba
preferire il comando di uno solo {unius principatum} se raduna in
consiglio i migliori cittadini {optimos cives} e, una volta convocato
il senato, amministri gli affari pubblici e privati {respublicas &
privatas} basandosi sulla opinione di questo; in tal modo si preverrà
ogni abuso {imprudentiae} ed eccesso personale {privatis affectibus}.
Così quando il potere regio {regia maiestate} sarà congiunto con
quello degli ottimati {optimates}, che gli antichi chiamavano
aristocrazia {Aristocratiam}, e la città o la nazione avranno il loro
giusto cammino, si giungerà all’agognato porto della felicità {sic
civitate universa aut provincia cursum tenente, optatum felicitatis portum
occupabit}”: Mariana (1599:
33-34). (55)
Cfr. Prieto (1993: 279). (56)
Cfr. Prieto (1993: 279-280). (57) Egli si formò, infatti, presso
l’Università di Alcalá de Henares (nella provincia
di Madrid, quasi una trentina di chilometri ad est della capitale, sulla riva
destra del fiume Henares) e poi, dopo aver viaggiato per Italia e
Francia, si ristabilì in Spagna, nella città di Toledo, nei pressi della
quale era nato e cresciuto. Proprio per tale ragione, probabilmente, Diego
Mateo del Peral lo collocava a capo di una “Scuola di Toledo”, tacciata di
“anticonformismo intellettuale e politico”, dai contorni invero un po’
fumosi. (58)
Cfr. Belda Plans (2000: 63). (59) Ibidem. (60) Cisneros fu una tra le figure più
emblematiche della complessità che caratterizzò la Spagna dei Re Cattolici.
Nella sua persona erano ravvisabili, infatti, i tratti salienti di una delle
epoche più fiorenti di quella nazione. Guida della Chiesa spagnola, fu ad un
tempo il Grande Inquisitore che accompagnò i sovrani sotto alle mura di
Granada ed il fondatore dell’innovativo ateneo di Alcalá; predicatore della
guerra santa contro i Moriscos, presenziò nelle vesti di primate di
Spagna alla battaglia di Mazalquivir. In seguito alla morte di Fernando il
Cattolico assunse la reggenza fino alla maggiore età di Carlo V. (61) Cfr. lo studio di Huerga (1974: 585-616). (62)
Cfr. Belda Plans (2000: 76-77).
(63)
Cfr. Belda Plans (2000: 141). (64) Su tale questione, si vedano Alejo Montes (1990) ed Álvarez
de Morales (1991). (65)
Cfr. Belda Plans (2000: 178). (66)
Cfr. Belda Plans (2000: 141). (67) La Biblia Políglota Complutense,
la cui realizzazione fu voluta e coordinata personalmente da Cisneros,
rappresentò il frutto di una moderna concezione degli studi biblici, ispirata
alle rivendicazioni umaniste, testimoniando lo sforzo dell’ateneo madrileño
volto all’innovazione teologica. Si trattò di un vero e proprio lavoro di
gruppo al quale parteciparono, fra gli altri umanisti, anche Erasmo da
Rotterdam (1466-1536) ed, in qualità di latinista, Elio Antonio de Nebrija
(1442-1522). L’opera proseguì a ritmo serrato per una quindicina di anni, dal
1502 al 1517 (l’ultimo volume venne infatti stampato il 10 luglio del 1517),
precedendo le innovazioni dovute all’influsso luterano ed affiancando, per
contro, l’opera già intrapresa da Erasmo: cfr. Belda Plans (2000: 102). Sull’esegesi biblica nel XVI
secolo si consultino gli studi di
Andrés Martín (1976-1977: II, 63 ss. e 629 ss.) e quelli di Avilés Fernández (1987: 75-160). (68) Loyola —
pur risiedendo a Roma — era venuto a conoscenza della fama di cui godeva il
Mariana a causa della sua precocità intellettuale e, pertanto, apprese con
enorme soddisfazione la notizia della sua affiliazione, inviandogli la
propria benedizione. (69)
“[Q]uam a subditis obedientiam exigit, legibus ipse exhibeat”: Mariana (1599: 103). (70) “[…] Atque ijs legibus non modo
obedire Princeps debet, sed neque eas mutare licebit, nisi universitatis
consensu certaque sententia: quales sunt leges de successione inter
Principes, de vectigalibus, de religionis forma”: Mariana (1599: 102, corsivi miei). (71) Cfr. Mariana
(1599: 387-406). (72) Cfr. Mariana
(1599: 389). (73) “Sic cives congregari in unum, in
conventus & collegia coire vetat, & omnino de republica loqui per
inquisitiones occultas adempta loquendi libere, audiendique facultate, quod
supremum in servitute est ne gemitum quidem in tantis malis liberum esse
permittit”: Mariana (1599: 64).
(74)
Cfr. Mariana (1599: 99). (75)
Cfr. Mariana (1599: 107). (76)
Cfr. Mariana (1599: 103). (77) “[N]eque ita amentes sumus, ut Reges
in fastigio collocatos de gradu deijcere, in turbamque mittere conemur. Non
ea nostra mens est legibus omnibus sine discrimine Principem esse subiectum,
sed quae sine maiestatis sugillatione serventur, neque functionem Principis
impediant”: Mariana (1599:
105). (78)
Cfr. Mariana (1599: 105-106). (79) Mariana
(1599: 106-107). (80) “[N]on si impongono tributi, né si
fanno nuove leggi, senza il consenso del popolo {sed populis tamen
volentibus tributa nova imperantur, leges constituuntur}; e ciò che ancor
più significativo occorre il giuramento del popolo perché al successore siano
confermati i suoi diritti al potere supremo, nonostante l’abbia ricevuto per
successione ereditaria {& quod est amplius, populi sacramento, iura
imperandi quamvis haereditaria successori confirmantur}”: Mariana (1599: 73). (81)
“Quod omnes tangit, debet ab omnibus approbari”: Suárez (1612: Lib. V, cap.
15, § 2). (82)
Cfr. Mariana (1599: 23). (83)
Cfr. Mariana (1599: 103). (84) Da questa prospettiva può risultare
interessante notare, en passant, come con il moderno concetto di sovranità
sia stata sovvertita tutta la precedente struttura di diritto tradizionale,
fondato sulla ‘natura’ (cosa dalla quale sarebbe derivata, fra l’altro, la
stessa teoria cesaropapista). È da segnalarsi come, di conseguenza,
contrariamente a quanto comunemente accettato, sia possibile ricavare che gli
elementi garanti di tolleranza e libertà politica non abbiano coinciso con le
funzioni storiche svolte dalla borghesia e dal laicismo illuminista, bensì
con quelle dell’aristocrazia e della Chiesa cattolica: cfr. Negro Pavón (1988: 15-17). (85) Mariana
(1599: 58). (86) “Credo […] che si debba concedere ai
sudditi {provincialibus}, e persino comandare, qualora questi si
rifiutassero, di mantenere ciascuno armi e cavalli in base al loro censo e
alla loro rendita {unumquemque pro censu & re familiari equos &
arma habere}”: Mariana
(1599: 304). (87) Mariana (1599: 310). (88)
Cfr. Mariana (1599: 306). (89) Occorre ricordare che sulle analisi
di politica monetaria effettuate da Mariana, negli anni sessanta del
Novecento svolse alcune ricerche Jaime Lluis y Navas Brusi. Sull’introduzione
del concetto dinamico della competizione da parte degli scolastici spagnoli,
si vedano le osservazioni fatte da Popescu
(1987: 141-159), nonché gli studi sulla politica economica e monetaria di
Mariana svolti, fra gli altri, da Laures
(1928), Sáiz Estívariz (1955) e
García de Paso (1999). (90)
Cfr. Grice-Hutchinson (1952),
(1975) e (1989). In tali studi ella si concentrò sulla produzione di autori
come Luís Saravia de la Calle, Domingo de Soto, Martín de Azpilcueta Navarro,
Tomás de Mercado, Francisco García, Martín González de Cellorigo, Luís de
Molina e Pedro de Valencia. Si segnala che alla Scuola di Salamanca e, in particolare, agli studi
della Grice-Hutchinson sono state dedicate ampie sezioni della rivista
spagnola e latinoamericana “La Ilustración liberal”
nel n. 11 (Junio 2002), n. 12 (Octubre 2002) e n. 16 (Agosto 2003). (91) Cfr. Roover
(1955) e (1971). In esse l’autore segnalava la dipendenza del pensiero
economico del frate francescano san Bernardino da Siena (1380-1444) e di
quello del suo allievo sant’Antonino da Firenze (1389-1459) dall’opera del
monaco francese fra’ Pietro di Giovanni Olivi (1248-1298). (92)
Cfr. Todeschini (2002). (93) Cfr. Rothbard (1976) e (1995: I, 97-133 e 135-175). (94)
Cfr. Beltrán Flórez (1987a). (95) Cfr.
Huerta de Soto (2002: 249-261, in particolare pp. 257-258). (96)
Cfr. Termes (1991: 11). (97)
Cfr. Huerta de Soto (2002:
73-99). (98)
Cfr. Huerta de Soto (1998:
23-34, 66-80 e 468-490). (99)
Cfr. Huerta de Soto (2002:
259). (100)
Mariana (1625: 151-155 e 216). (101)
Cfr. Huerta de Soto (2001: 59)
[trad. it. pp. 73-74]. (102)
Cfr. Huerta de Soto (2002:
260). (103) In proposito, si tenga presente
l’osservazione del Costa che, in merito alla tesi secondo cui gli scolastici
sarebbero stati fra i precursori di quegli economisti che ‘scoprirono’ la
teoria soggettiva del valore, commenta: “Precursori e non di più, penserei,
perché […] è difficile trovare traccia dell’importanza delle valutazioni marginali
dei beni <nei loro scritti più citati>”; cfr. Costa (1999: 154). (104)
Cfr. Balmes urpiá (1844). Su questo punto, si confronti
anche quanto riportato in Beltrán
Flórez (1989: 230-236), nonché in Huerta
de Soto (1994: 22, nota 8) e (2002: 261 e 361, nota 91). (105)
Cfr. Huerta de Soto (2002:
407). (106) Su cui, peraltro, si vedano anche
gli studi compiuti da Noonan
(1957), nonché quelli svolti da Barrientos
García (1984) e (1985). (107)
Chafuen Rismondo (1986). Al riguardo sembra opportuno
segnalare come, secondo il giudizio espresso da Juan Belda Plans, fatto salvo
l’indubbio interesse di quest’opera dal punto di vista della Storia del
pensiero economico, essa presenti, tuttavia, deficienze in tema di conoscenza
del contesto storico-teologico dell’epoca; “per citare solo qualche esempio:
<a p. 9 della trad. it.> fa domenicano Martín de Azpilcueta, e
francescano Juan de Medina (?)”. Cfr. Belda Plans (2000: 51, nota 125). (108) “[S]i può dimostrare che il potere
reale non è da preferire a quello democratico o, per lo meno, che in quel
tempo non si adattava sufficientemente alle usanze di quel popolo. Questo
accade in ogni cosa, dal vestiario, all’abitazione, alle scarpe, che per
quanto sono belle ed eleganti non è detto che piacciano a tutti; e ritengo
che possa accadere lo stesso nelle forme di Stato, in quanto non perché una
supera tutte le altre significa che debba essere accettata da popoli di
usanze ed istituzioni diverse {idem in reipublicae forma contingere
arbitror, ut quae praestantissima sit, eam non omnium populorum mores &
instituta recipiant}”: Mariana
(1599: 31). (109) Come è spesso chiamato Mariana dal
suo luogo di nascita, la cittadina Talavera de la Reina, in provincia di
Toledo. (110) Su tale scritto si consultino gli
studi di Mateo del Peral (1977)
e Beltrán Flórez (1987b). (111) Cfr. Mariana
(1609b: 580). (112)
Ibidem. (113)
Ibidem. (114) Cfr. Mariana
(1609b: 586-587). (115) Cfr. Mariana
(1609b: 586-588). (116) Si legge, infatti, nel Levitico:
“Tutte le tue stime si faranno in sicli del santuario; il siclo è di venti ghera”;
cfr. Lv, 27, 25. (117) Con tale espressione, derivata
dalla voce di origine ebraica sheqel, s’individuavano sia un’antica
unità di misura del peso (ca. 15 g), in uso presso Babilonesi ed Ebrei, sia
una moneta d’argento giudaica. (118)
Cfr. Aquino (1266: Lib. 11,
cap. 14). (119)
Cfr. Chafuen Rismondo (1986:
74-76, trad. it.). (120) In proposito, osservava anche il
celebre esoterista musulmano di origine francese René Jean-Marie-Joseph
Guénon (1886-1951) che, “se i contemporanei di Filippo il Bello considerarono
un crimine questa alterazione, bisogna concluderne che, cambiando di propria
iniziativa il titolo della moneta, egli andò oltre i limiti riconosciuti al
potere regale”: Guénon (1929:
74, nota 1, trad. it.). (121) Cfr. Mariana (1609b: 588, il corsivo si trova nel testo
originale). Osserva in proposito il Chafuen che, “[p]oiché i tardoscolastici
basavano le opinioni e le analisi di politica monetaria sulla loro teoria del
valore della moneta, non sorprende che, nel campo della politica economica,
giungessero a conclusioni simili a quelle degli autori libertari moderni. Gli
scolastici dichiaravano che la svalutazione della moneta causava uno
stravolgimento della ricchezza, minava la stabilità politica e violava i
diritti di proprietà. Inoltre, creava confusione nel commercio (interno ed
estero), portando alla stasi e alla povertà. La svalutazione, almeno per
Mariana, era uno strumento di rapina tirannica. […] Mariana criticava
aspramente quei principi che alteravano i parametri di conio per pagare i
debiti”: Chafuen Rismondo
(1986: 167-168, trad. it.). (122)
Cfr. Pufendorf (1672: 694). (123)
Cfr. Chafuen Rismondo (1986:
36-37, trad. it.). (124) Cfr. Mariana
(1609b: 579). (125) “Certe tributis imperandis,
abrogandisve legibus, ac praesertim quae de successione in regno sunt,
mutandis, resistente multitudine impar unius Principis auctoritas sit, &
si quae alia gentis moribus universitati reservata haudquaquam Principis in
arbitrio posita sunt”: Mariana
(1599: 92). (126)
Cfr. Mariana (1599: 301-311). (127) “[È] comune opinione fra i giuristi
[…] che i re senza il consenso del popolo non possono fare alcuna cosa che lo
danneggi, vale a dire, espropriargli tutti i suoi averi o parte di essi. […]
se il re non è il padrone dei beni particolari, non li potrà prendere tutti
né in parte se non con il consenso dei proprietari”: Mariana (1609b: 578-579). (128)
Mariana (1609b: 579). (129)
Cfr. Mariana (1599: 321-330). (130)
Mariana (1599: 323). (131)
Mariana (1599: 58-59). (132) “Pertanto la nostra principale e
maggiore preoccupazione deve essere, come abbiamo detto poco fa, di
proporzionare le spese alle ricchezze e potenzialità dei singoli e che i
tributi si relazionino alla necessità delle spese {ut sumptius singuli
facultati & copiae sint exaequati, ratio vectigalium & erogandi
necessitas inter se congruant}, affinché lo Stato non si trovi coinvolto
in mali maggiori, se eccede la misura”:
Mariana (1599: 323). (133) Mariana
(1599: 59-60). (134) “Il re dovrà, quindi, cacciare
dalla reggia gli adulatori, perniciosa razza {genus hominum
pestilentissimum}, i quali, spiando astutamente i gusti del principe,
lodano sempre ciò che dovrebbero biasimare, e riprendono ciò che, al
contrario, è lodevole, volgendosi rapidamente là dove vedono volgersi e
inclinare il capriccio del sovrano; arte infame {pessima ars} questa,
che ha preso uno sviluppo smisurato per il successo da molti ottenuto”: Mariana (1599: 60). (135) “Per questo il principe cercherà
prima di tutto che, eliminate tutte le spese superflue, siano regolati i
tributi {ut supervacaneis sumptibus detractis, modus vectigalibus sit};
egli deve comportarsi come farebbero gli uomini sobri {frugales homines},
che pensano con attenzione a conservare il loro patrimonio, affinché le spese
pubbliche {expesae publicae}, se non minori, almeno non siano maggiori
delle entrate reali {regio censu}; altrimenti sarebbe costretto a
chiedere un prestito {versuram}, e a consumare le risorse dell’impero
{opes imperij} nel pagare interessi {fenore} che crescono di
giorno in giorno […]. Se le spese regie saranno a lungo molto maggiori delle
entrate {vectigalibus}, il male che ne deriverà sarà inevitabile: per
la necessità di imporre ogni giorno nuovi tributi, si renderanno sordi i
cittadini e si esaspereranno gli animi {nova indies tributa imperandi
necessitate, obsurdescent aures provincialium, axacerbabuntur animi}”: Mariana (1599: 322-323). (136) Al tempo, cioè, in cui governava
ancora il re Alfonso V (1416-1458). (137) Trentaquattro maravedís
componevano un real che, a sua volta, rappresentava la
sessantasettesima parte di un marco d’argento (otto once). Cuento
significava “un milione”. (138) Cfr. Mariana
(1609b: 591). (139) Cfr. Mariana
(1609b: 592). (140) “Molto servirà che i tributi reali
{regia vectigalia}, da qualunque luogo provengano, siano curati con
attenzione affinché non diminuiscano per la malvagità di alcuni uomini che
conoscono tutti i mezzi per fare denaro e che non si astengono da ogni tipo
di inganno per ottenerlo, siano questi pubblicani o coloro ai quali è affidata
la riscossione delle imposte regie {sive publicani ij sint, sive quibus
cura regiorum vectigalium credita est}. Questa è la peste più terribile
che si possa immaginare {qua peste vix ulla magis tetra excogitari potest}.
[…] Si dovrebbe esigere che essi rendano esattamente conto delle proprie
ricchezze, sottraendo loro quelle di cui non possono dare una chiara
giustificazione”: Mariana
(1599: 323-324). (141) “Consideri come cosa dannosa, da
evitare ad ogni costo, di vendere dietro pagamento i tributi annuali,
aggiudicandoli a ricchi capitalisti {Vendere etiam pretio annua
vectigalia, copiosisque hominibus addicere noxium est}”: Mariana (1599: 322). (142) Mariana
(1599: 322-323). (143) “Si possono imporre modici tributi
{modico vectigali imposito vendantur} su quei beni di prima necessità
{merces quibus ad vitam sustentandam populus opus habet}, come il
vino, il grano, la carne, i vestiti di lana e di lino, specialmente su quelli
non troppo eleganti”: Mariana
(1599: 327). (144) “[Q]uanto è stato sottratto da
questi beni venga caricato sulle merci ricercate {quod ex ijs rebus
detractum fuerit, ex curiosis mercibus suppleatur}, come gli aromi — di
cui la Spagna è sprovvista — lo zucchero, la seta, il vino buono, la
selvaggina, e molte altre merci che, oltre a non essere necessarie per la
vita, hanno molta influenza per indebolire i corpi e corrompere gli animi. In
tal modo saranno favoriti i poveri, in gran numero, si porrà un freno allo
smodato lusso dei ricchi {sic enim & inopibus consuletur, quorum est
magnus numerus, & luxui hominum potentium modus erit}, affinché non
dissipino facilmente i loro tesori nei piaceri della tavola. E se non
volessero essere sanati, sarà giusto almeno ottenere, dalla loro
insensatezza, un vantaggio per la repubblica {quod si sanari noluerint, ex
eorum amentia fructum aliquem ad rempublicam redire aequum erit}. Nello
stesso tempo accadrà che né i poveri saranno del tutto impoveriti, altrimenti
sorgerebbero nuovi e gravi tumulti; né i ricchi i quali sempre di meno
utilizzano quei beni di lusso, essendo aumentato il prezzo, cresceranno
troppo in potenza e in ricchezza. Entrambi gli eccessi infatti sono dannosi,
come lasciarono detto i grandi filosofi e la realtà stessa dimostra {Utrumque
enim noxium est, uti magni philosophi affirmatum reliquerunt & res ipsa
indicat}”: Mariana (1599:
327). (145) “Egli chiede un parere e riceve
consigli completamente contraddittori. Non è raro che l’iniquo e
ugualmente inutile suggerimento di alterare il valore della moneta venga
sussurrato all’orecchio del re. Con tale provvedimento, dicono, nessuno
subirà un danno diretto. Il valore intrinseco della moneta sarà inferiore, ma
il valore legale rimarrà inalterato. Si può immaginare un mezzo più rapido o
di più semplice esecuzione per togliere il principe dalla sua terribile
situazione? Ma come possono uomini di tale cultura giungere a credere in
un così grave errore e ad applaudire un piano così insensato? Una
nazione, un principe, non dovrebbero mai agire contro la giustizia. Tali
mezzi, considerati da qualsiasi prospettiva, sono e saranno sempre una rapina
{latrocinium}. Come può essere diversamente, se vengo obbligato a
pagare cinque ciò che vale tre? Se la moneta è giunta a essere un mezzo di
scambio comune, è precisamente per la sua stabilità di valore, soggetta
solamente a poche oscillazioni in tempi di grave crisi”: Riportato in Chafuen Rismondo (1986: 59-60 trad.
it., corsivi miei). (146) Secondo
quanto sosteneva lo stesso Julius Paulus, infatti: “L’origine della
compravendita {emendi vendendique} risale al baratto {permutatio}. Un tempo, infatti, non esisteva la moneta {nummus},
né si chiamavano l’un termine merce {merx}, l’altro prezzo {pretium},
ma ciascuno, in base alla necessità del momento e delle circostanze,
scambiava cose inutili con utili {sed unusquisque secundum necessitatem
temporum ac rerum utilibus inutilibus permutabat}, giacché spesso accade
che ciò che ad uno abbonda ad un altro manchi. Ma dal momento che non sempre
né facilmente si verificava che, quando tu avevi ciò che io desideravo, per
contro, fosse da me posseduto quello che avresti voluto ricevere tu, si è
scelto un materiale {electa materia est}, la cui valutazione pubblica
e permanente {publica ac perpetua aestimatio} permetterebbe di risolvere le difficoltà dello scambio {permutationum}
per mezzo di un’uguaglianza quantitativa {aequalitate quantitatis}”: Paulus, Dig.,
18, 1, 1. [Debbo questa segnalazione al Dott. Cristiano Viglietti,
dell’Università di Siena, cui esprimo la mia gratitudine]. (147) Su cui si veda Roover (1958). (148)
Mariana (1609b: 580). (149) Cfr. quanto sostenuto in proposito
da Ballesteros Gaibrois (1939:
46-47). (150)
Mariana (1599: 330-331). (151)
Mariana (1599: 208). Pur con tutte le cautele che tali
paralleli devono suscitare, tuttavia, al riguardo si può affermare che lo
stesso filosofo viennese Karl Raimund Popper (1902-1994) ha avuto modo di
sostenere concetti similari quando, proprio sulla scorta di un esempio
storico di furto, attuato da parte dei Fenici ai danni degli Ateniesi, ha
precisato che “[s]e prima non si è instaurato un sistema legale, non si può
avere un mercato libero. […] Un tale sistema può essere instaurato soltanto
dallo Stato e dal suo sistema legale. E anche nel caso di una società in cui
vi siano pratiche di semi-ruberia, vale a dire di corruzione, anche lì la
gente fa degli intrighi che non possiamo considerare un mercato libero. […]
Se immaginiamo un tentativo di instaurare quello che chiamiamo “capitalismo”
senza un sistema legale, ci troveremo di fronte a corruzione e furto”: cfr. Popper (1992: 33). (152)
Mariana (1599: 328). (153)
Mariana (1609b: 588). (154) Cfr. quanto sostenuto da Ballesteros Gaibrois (1939: 26); di
questo stesso autore si veda anche (1944). (155) Lo stesso Mariana notava che
“[o]gni uomo saggio {vir prudens} […] deve tenere in considerazione i
tempi e la forma di Stato {reipublicae} in cui è nato, e non lasciarsi
prendere dal desiderio di un totale rinnovamento: aspirare sì al meglio, ma
rammentando sempre che gli imperi e le repubbliche {imperia &
respublicas} non mutano se non in peggio”: Mariana (1599: 36). (156) “Illa enim erit perfecta communitas
quae ordinatur ad hoc quod homo habeat sufficienter quidquid est necessarium
ad vitam: talis autem communitas est civitas. Est enim de ratione civitatis
quod in ea inveniantur omnia quae sufficiunt ad vitam humanam, sicut
contingit esse. Et propter hoc componitur ex pluribus civibus, in quorum uno
exercetur ars fabrilis, in alio ars textoria, et sic de aliis”: Aquino (1268-1272: Lib. I, lect. 1).
(157) “Non inventur una forma in pluribus
suppositis, nisi unitate ordinis, ut forma multitudinis ordinatae”: Aquino (1266-1273: I, q. 39, a. 3). (158)
“Civitas est societas perfecta. Primitus facta est gratia vivendi, ut
scilicet homines sufficienter inveniant unde vivere possent; sed ex eius esse
provenit, quod homines non solum vivant, sed quod bene vivant, in quantum per
leges civitatis ordinatur vita hominum ad virtutes”: Aquino (1268-1272: Lib. I, lect.
1). (159) Cfr. Aquino
(1266-1273: I-II, q. 92, a. 1; q. 94, a. 4; q. 104, a. 3, ad 2). (160)
“Persona significat id quod est perfectissimum in tota natura, scilicet
subsistens in rationali natura”:
Aquino (1266-1273: I, q. 29, a. 3). (161)
“Bonum commune est finis singularum personarum in communitate existentium”: Aquino (1266-1273: II-II, p. 58, a.
9, ad 3). (162) “Repugnat rationi rectae, quae hoc
judicat quod bonum commune sit melius quam bonum unius”: Aquino (1266-1273: II-II, q. 47, a.
10). (163)
Cfr. Aquino (1266: Lib. 1, cap.
1). (164) “Bonum commune civitatis et bonum
singulare unius personae non differunt solum secundum multum et paucum, sed
secundum formalem differentiam. Alia enim est ratio boni communis et
boni singularis, sicut alia est ratio totius et partis. Et ideo Philosophus (Polit.,
L. I, c. I) dicit quod non bene dicunt qui dicunt civitatem et domum, et alia
huiusmodi, differre solum multitudine, et paucitate, et non specie”: Aquino (1266-1273: II-II, q. 58, a.
7, ad 2). (165) Olgiati
(1943: 115 e 118). (166)
Burckhardt (1964: 31, nota 12, trad. it.). (167) Su tale metamorfosi intellettuale,
si consulti lo studio di Haydn
(1950). (168) “[C]onficiendis omnibus nullius
vita quamvis longaeva sufficiat, nisi observatio multorum prudentiaque
accedat multo usu collecta” Mariana
(1599: 19). (169) Mariana
(1609c: 398). (170)
Cfr. Hayek (1952). (171) Si veda, su tale questione, Ferraro (1989). (172)
Mariana (1609a: 413-462). (173) In proposito si veda anche Mariana (1599: 161-167). (174)
Cfr. Sánchez Agesta (1981: xviii). (175) “Separati assolutamente i due
poteri, si deve però cercare, con impegno, che entrambi gli ordini siano
uniti dai lacci dell’amore e dalla reciproca corrispondenza {Prorsus
divulsa utraque potestate curandum diligenter, ut uterque ordo benevolentia
& mutuis inter se officijs constringantur}. Questo può accadere
facilmente se ad entrambi sia consentito l’accesso agli onori e agli oneri
dell’uno e dell’altro. Infatti, in tal modo, una volta conciliati gli animi,
mentre gli uomini rivestiti del sacro ordine si adopereranno per la salvezza
della repubblica, i principi e i grandi del regno prenderanno con impegno il
compito di difendere la religione cristiana. Da ciò si manifesta la speranza
certa di potere ingrandire in onori e ricchezze se stessi e i suoi”: Mariana (1599: 110). (176) Tanto che, in chiara polemica con
le concezioni protestanti, asseriva: “Sono in errore, e in errore gravissimo,
quanti, rifacendosi ai primi tempi della Chiesa, reputano molto più utile per
il bene della repubblica e di tutti {e republica atque communi salute fore},
se i Pontefici, sull’esempio degli Apostoli {Pontifices Apostolorum
exemplo}, fossero costretti ad abdicare a tutte le loro ricchezze, a
tutti i loro domini e poteri temporali {curamque reipublicae}. In
realtà questi uomini sono ciechi non considerando a quanti mali si andrebbe
incontro una volta privati i sacerdoti di tali mezzi, quanta confusione ci
sarebbe tra la plebe {plebis licentia}, quanto disprezzo per il sacro
ordine {sacrati ordinis}. Solo se, privati delle ricchezze,
diventassero più virtuosi allora forse dovremmo accettare la loro opinione.
Ma spogliati delle ricchezze ora, per come vanno gli uomini e i tempi,
sarebbero maggiori i vizi {Sublatis opibus si virtutes succederent,
probanda eorum ratio esset fortassis. Nunc detractis opibus, ut sunt homines
& tempora, major vitiorum licentia existat}: riscontriamo infatti
che, in quegli stati in cui i sacerdoti vivono miseramente, questi non sono
affatto migliori, ma peggiorano in tutti i sensi la loro condotta e sono
disprezzati dal popolo, con grande disonore per la religione cristiana”: Mariana (1599: 276-277). (177) “Multas in una provincia esse
religiones non est verum”: Mariana
(1599: 419). (178) “A mio parere il principe deve
proteggere la nobiltà {nobilitas} e dare, in base agli illustri meriti
dei loro predecessori, qualcosa ai discendenti solo se alla nobiltà di
nascita {natalium splendorem} si aggiungano l’ingegno {industriam},
la virtù {virtutem} e l’integrità dei costumi {mores haud
dissimiles}. Nulla è più vergognoso di una nobiltà vile {ignava
nobilitate}, che inorgoglita dalla gloria dei predecessori, consuma nella
prodigalità e dissolutezza {nequitia & levitate} le ricchezze {opes}
ottenute in eredità; fidando negli elogi che meritarono i loro nonni,
illanguidisce nella lascivia e nella pigrizia, aspirando ad ottenere con i
suoi vizi il premio della virtù e, grazie all’apparenza di nobiltà, di
occupare con indolenza e infingardaggine i posti dati a uomini forti di
carattere. Tali uomini devono essere allontanati dal principe per la loro
duplice ignominia: non solo contaminano se stessi con tale onta, ma macchiano
anche lo splendore del loro lignaggio {generis claritatem}. Infatti,
quanto più illustri furono i loro avi, tanto più sono degni di odio coloro
che oscurano con passioni vergognose lo splendore della nobiltà {splendorem
nobilitatis}. Ma soprattutto la maggior parte di loro è talmente
temeraria e forte che, insuperbiti da titoli inutili {nominibus
inanissimis superbientes}, disprezzano gli uomini di oscuri natali, per
quanto siano abili, forti ed operosi, giungendo perfino a non riconoscerli
come uomini. Ricoperti di molti onori ne desiderano sempre di maggiori,
credendo, questi uomini perfidi ed ambiziosi, che tutti i premi dovuti alla
virtù {virtuti} siano da attribuire alla loro nobiltà {nobilitati}”:
Mariana (1599: 293). (179) “[…] Princeps contingat, alioquin
si rempublicam in periculum vocat, si patriae religionis contemptor existit,
neque medicinam ullam recipit, abdicandum iudico, aliumque substituendum:
quod in Hispania non semel fuisse factum scimus”: Mariana (1599: 43-44). (180)
Cfr. Fava (1953: 125). (181)
Cfr. Sánchez Agesta (1981: xv). BIBLIOGRAFIA Alejo Montes, Javier, (1990) La reforma de la Universidad de Salamanca a
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