Etica & Politica / Ethics & Politics, 2003,

http://www.units.it/etica/2003_2/1_varia.html

 

 

 

Il lecito piacere della finzione artistica

 

Maria Bettetini

IULM

 

Abstract

 

The Right Pleasure of Artistic Fiction

 

The medieval analysis of artistic creation has given way to different solutions: on one hand a strongly affirmed mistrust for the poetical written word (fabula), on the other a complete acceptance of the pictorial, sculptorial or mosaic image. Long before the beginning of the struggle against iconoclasty, for which various reasons of social and political order have been found, it is possible to recognise the proof of a philosophical origin of such an attitude. Some passages from Plotinus’ Enneads  define the artistic image as the direct connection to the Nous, thus being a clear invitation to represent objects in such a way as to underline their “form”, therefore avoiding all shadows and perspective issues. The result is an artistic program which has many similarities and correspondences with the Christian art of painting and sculpting of the first centuries, that clearly did not receive these aesthetical indications directly from Plotinus, but rather from the Fathers of the Church, who resumed many neo-platonical issues. Agostinus from Ippona, in a not very well known passage, states that the written text, once seen, requires a competent interpreter, whereas painting is of immediate comprehension. The written text therefore creates a further gap between its truth and the reader, while images, and in a certain sense also theatrical and mimic representations, have a ratio bifrons, as stated in the Soliloquia, in the sense that they are at the same time true and false: false because they are similar to the true and true because they are false.

 

 

Il contributo di queste pagine sorge da una domanda forse ingenua: perché la diffidenza verso il testo poetico e letterario, scritto o parlato, è sempre stata così evidente durante il Medioevo, e contemporaneamente perché le immagini dipinte o scolpite, o rese da basso e altorilievi, sono state accolte dall’Occidente almeno come strumenti didascalici, anche a costo di offendere, contraddire, forse tradire le tradizioni ebraica prima, orientale e islamica poi? Ovvero, quali motivazioni hanno spinto ad accettare, anzi accogliere, la finzione pittorica (o musiva o scultorea) come un aiuto nell’educazione dei cristiani e quali invece hanno portato a mantenere accesa la diffidenza verso la finzione letteraria, poetica o narrativa? Perché le chiese non hanno temuto di essere ricoperte di figure colorate e non hanno invece tentato una tregua o un accordo con i poeti e i letterati, o almeno non con tanta facilità?

Come si cercherà di mostrare, le motivazioni non sono solo di ordine pedagogico-catechetico, che pure ricopre un ruolo importantissimo, ma sono anche da ricercarsi nelle radici filosofiche di tale atteggiamento.

Che vedere un dipinto, ascoltare una musica, leggere o sentir leggere una poesia siano attività che producono piacere non era nascosto agli antichi e nemmeno ai medievali. La discussione è sempre ruotata intorno alla motivazione di tale piacere, e da qui poi la proibizione o l’incoraggiamento a provarlo. Per coglierne la motivazione a volte se ne è anche analizzata la struttura, se ne sono dedotte le conseguenze, si è così consigliata la visione delle tragedie e sconsigliato l’ascolto di alcune musiche, seguendo ora la linea aristotelica del valore dell’universale poetico, verosimile più vicino al vero del vero storico, ora la prudenza platonica, sospettosa nei confronti di copie non garantite dell’idea originale o comunque nei confronti di sollecitazioni sensibili che possono essere colpevoli, anche se non sempre, di allontanare dall’intelligibile.

La tarda antichità raccoglie tale tradizione e in particolare reinterpreta la lettura platonica secondo modalità cui ora accenneremo, non prive di influenza per almeno una decina di secoli.

Introducono all’argomento le parole di André Grabar,(1) da un testo su Plotino e le origini dell’estetica medievale: commentando Enn. V,8,4,1-6 (“lassù… tutto infatti è trasparente, …la luce infatti è manifesta alla luce”), Grabar ribadisce come per Plotino il ruolo dell’immagine, di ogni immagine, sia quello di offrire una visione intellettuale del Nous, “nella visione vi è una certa distanza spaziale tra colui che vede e il luogo nel quale egli si trova. Plotino ci invita a liberarci di questa esteriorità e a supporre che l’ambiente sia assorbito nell’essere, l’essere nell’ambiente; tale è lo stato della visione intellettuale”.(2) All’opera d’arte non si chiede un’imitazione della natura materiale (immediata o idealizzata, poco importa), procede Grabar, quanto di costituirsi a “punto di partenza per un’esperienza metafisica, un modo per creare quell’ineffabile contatto con il Nous, che quell’opera era tenuta a riflettere”.(3)

Già nel trattato “Sul bello” (Enn. I,6), affermando che la bellezza non risiede nei colori e neppure nella simmetria, Plotino rivendicava con determinazione il legame tra bello sensibile e bello intelligibile, contro ogni tentazione neopitagorica (4) “È forse perché tutte le cose sono tali per via di una sola e medesima bellezza? Oppure vi è una bellezza nel corpo e un’altra in un altro?” (Enn. I,6,1,9-11).(5) Se unica è la fonte della bellezza, unico sarà anche il suo modo di manifestarsi, che non si vede perché debba dipendere dalla composizione di parti (forse brutte? Si domanda lo stesso Plotino) nel sensibile e invece possa godere dello splendore dell’unità nell’intelligibile. Vi sono cose materiali che sono belle non per la loro proporzionalità, ma in se stesse, nella loro semplicità: la luce del sole, il brillare delle stelle, un bel viso, che può apparirci brutto quando è alterato o malato, e in questo caso non perché perde le proporzioni che lo caratterizzano. Le realtà materiali sono belle perché illuminate da una “forma” (Enn. I,6,2,13: “diciamo che quelle sono belle per partecipazione della forma”) che l’anima sa cogliere riportando a unità il molteplice che raccoglie dal sensibile: le armonie impercettibili consentono di cogliere la bellezza di quelle sensibili, rivelando “l’identico nel diverso” (Enn. I,6,3,30-31). Un percorso che dichiaratamente ricalca l’ascesa erotica del Simposio, ma che da Platone in parte si discosta quando indica nell’artista un uomo capace di vedere e imitare le forme intelligibili, cui attinge per compiere la sua opera: si legge in Enn. V,8,1,35-38 che “le arti non imitano semplicemente ciò che si vede, ma risalgono ai principi razionali da cui deriva la natura”, anzi esse “creano da sé molte cose e completano ciò che per qualche aspetto è manchevole, possedendo la bellezza”. L’esempio a sostegno di questa tesi è molto noto: Fidia creò il suo Zeus senza guardare a un modello materiale, ma fu in grado di coglierlo così come apparirebbe ai nostri occhi Zeus stesso se mai si mostrasse. L’immaginazione, che in altri passi delle Enneadi ha solo la funzione di trasmissione e conservazione delle impressioni sensibili o di rappresentazione cosciente dei contenuti mentali,(6) diventa una via di assimilazione all’oggetto intelligibile della visione. Ma tale via ha due percorsi: dall’interno all’esterno, e tale è il cammino dello scultore, che rende staticamente ciò che di vivo possiede; e viceversa, dall’esterno all’interno, e tale è il cammino dell’anima guidata dal filosofo che grazie alla visione della statua rientra in se stessa e risale verso la purezza della forma, dell’intero mondo delle forme. L’anima diviene così “artista di se stessa” (7) e fa apparire in sé, lavorando su se stessa come sulla materia, le forme. Sciocca come Narciso si dimostrerebbe, se si accontentasse invece di guardare fuori di sé, perché come Narciso si perderebbe incantata dalla sua stessa bellezza, ossia da una bellezza che possiede davvero interiormente e che dall’esterno, dall’opera d’arte, viene solo imitata e quindi richiamata. Il percorso del Simposio può ora cominciare, grazie a un’interiorizzazione dovuta a immagini e all’immaginazione: ma l’anima non è più solo spettatrice, poiché nel vedere il bello “diviene bella”, sperimenta un’unione vitale con l’intelligibile come “inondata” ed “ebbra di nettare” (cfr. Enn. V,8,10,33-34 secondo immagini ancora del Simposio, cfr. 203 b 5). Come se possedesse la vista acuta di Linceo, l’anima che vede il bello e attraverso di esso accede all’intelligibile, vede tutti gli intelligibili e quindi tutto l’essere, accede a quel luogo ove “tutto è trasparente, nulla è oscuro né resistente, ognuno è manifesto all’altro fin nell’intimo e tali sono tutte le cose” (Enn. V,8,4,4-5). Questo è ciò che distingue il molteplice sensibile dall’intelligibile, l’opacità rispetto alla trasparenza che consente di vedere tutti in uno, attraverso uno, segno di una sempre più forte vicinanza al primo principio. “Lassù tutto è tutto, e ciascuno è tutto”: invece “quaggiù” le parti restano parti isolate, non generano altre parti, il frammento non ha in sé tutto l’intero. Ma c’è chi ha una vista tanto acuta (come quella di Linceo) da saper cogliere l’intero nell’apparenza di una parte. E come l’artista, forse non conscio del suo operare, ha tentato di rendere nell’opera d’arte con la bellezza la vitalità della forma, così l’anima che percorre la via della bellezza si trova a vivere la “vita senza affanni”, secondo l’espressione omerica di Iliade 6,138, dell’intelligibile, una vita che è “sapienza, una sapienza però che non è acquisita tramite ragionamenti, poiché è perfetta da sempre e non le manca nulla” (Enn. V,8,4,36-37).

Una sapienza che non è addizione di conoscenze razionali, ma “qualcosa di riunito” (V,8,6,9), come ben compresero i saggi egiziani, che “quando volevano esprimere qualcosa in forma di sapienza non impiegavano i segni delle lettere che accompagnano le parole”, ma “disegnavano invece delle figure e incidevano nei templi una figura particolare per ogni cosa, mostrando l’assenza di uno svolgimento discorsivo” (V,8,6,1-7). Le immagini hanno dunque il potere di permettere una conoscenza immediata e totale, tramite una visione intellettuale che non sarà “intellezione, ma soltanto un toccare e una specie di contatto, senza parola e senza pensiero” (V,3,10,43-44), precedente il pensiero come nel mondo del divino: “non bisogna dunque credere che lassù gli dèi e coloro che là sono più che beati vedano delle proposizioni poiché, anzi, tutto ciò che è stato detto si trova lassù come un insieme di belle figure” (V,8,5,20-23). L’espressione “belle figure” traduce kala agalmata, e agalma significa insieme splendore e decoro, ciò di cui uno si adorna (come la “fibbia lucente” d’oro, con il rilievo di un cane che trattiene un cerbiatto, di Odissea 19,257, donata da Penelope a Ulisse “perché gli fosse ornamento”, agalma), ma anche “statua, simulacro, immagine” (agalmata sono anche le immagini divine che Alcibiade scorge in Socrate come all’interno delle sculture dei sileni in Simposio 215 a 4 – b 3; 216 d 4-6), dal verbo che significa “celebro” e “decoro” insieme. Le immagini conducono all’intelligibile perché anche l’intelligibile è fatto di belle immagini, prive dell’opacità del sensibile e dunque trasparenti, ma il termine usato da Plotino non lascia dubbi: si tratta di figure, non di astrazioni. A queste devono portare le figure materiali.

La visione di Plotino è dunque quella di un arte “trasparente”, dove gli oggetti, al contrario di come richiesto dall’arte naturalista imitativa, non devono essere autonomi né impenetrabili, ma anzi si lasciano attraversare dalla luce in uno spazio che viene in certo senso riassorbito. In Enn. II,8,1 troviamo addirittura quello che Tatarkiewicz non esita a definire “un programma per l’arte”,(8) che prima di analizzare brevemente si deve ricordare essere stato del tutto disatteso dai contemporanei di Plotino e soprattutto non incoraggiato dal punto di vista pratico. I neoplatonici, infatti, con il chiaro intento di sostenere un paganesimo in difficoltà e di opporsi al cristianesimo, sostennero dal punto di vista della pratica artistica un recupero della tradizione classica nelle forme e nella sostanza.

“Come le cose lontane appaiono piccole” è il titolo dello scritto plotiniano raccolto in Enn. II,8,1: si tratta di una discussione condotta alla maniera dei problemata tipici dei commentari aristotelici e riflette cinque tesi diverse sull’argomento. Il problema di fondo è quello sollevato da Aristotele nel De anima (9) “Ci sono cose che appaiono anche falsamente, di cui si ha al tempo stesso una persuasione vera. Ad esempio il sole appare della grandezza di un piede, ma si è convinti che sia più grande della terra abitata”. Il problema non è solo di tipo percettivo, Plotino ritiene infatti fondamentale per la conoscenza razionale di un oggetto la percezione della sua “forma”. Ora, tra le cinque proposte, Plotino propende per la tesi ricavata ancora una volta dal De anima stesso,(10) dalla distinzione tra sensibili propri e sensibili comuni: da vicino l’oggetto si percepisce oltre che per il colore anche per la grandezza, da lontano prevalentemente per la grandezza. Ma il colore è il sensibile proprio della vista, mentre la grandezza è un sensibile comune e non è quindi proprio di alcun senso specifico (nel nostro caso, dice Plotino, è “vista” ma solo accidentalmente). Da lontano sia il colore che la grandezza subiscono un decremento: il colore sbiadisce, mentre la grandezza, che è una forma, rimpicciolisce.

La vista da lontano non riesce a cogliere la qualità della forma, che non è un sensibile proprio, mentre difficilmente sbaglia sul colore, se pur sbiadito, ma questo non è sufficiente ad avere una corretta percezione, come nel caso della vista di un insieme di oggetti diversi (Plotino fa l’esempio di colline con case e alberi), di cui non si percepiscano le forme o di quella di oggetti vari ma con la medesima forma e il medesimo colore. Nel primo caso la visione è distorta per la mancata percezione delle forme nei loro particolari, nel secondo per la mancata differenziazione. Si pone lo stesso problema per gli oggetti vicini, quando i giochi di ombre nascondono alcuni dei particolari e non consentono un’esatta misurazione, e per gli oggetti che hanno forma e colore uniforme, perché su di essi la vista “scivola via”, non trovando alcuna differenza cui appigliarsi, e non riesce a misurare correttamente le distanze. Questo modo poetico di definire la prospettiva come uno sdrucciolare dello sguardo e le altre indicazioni portano a definire i caratteri di un’arte figurativa costretta a evitare ciò che è dovuto all’imperfezione del senso della vista: la diminuzione del colore e delle dimensioni, le alterazioni dovute alle ombre, la deformazione data dalla prospettiva. Gli oggetti devono quindi essere rappresentati tutti in primo piano, con i particolari in evidenza, senza giochi di luce. La luce che si vede sarà quella delle superfici, evitando ogni profondità che porterebbe ad addentrarsi nell’oscurità della materia. La forma di un oggetto deve poter essere ben visibile perché l’oggetto sia anche conoscibile, quindi la rappresentazione sarà meticolosa, ricca di particolari ma “piatta”, senza differenze di piani e senza ombre, con una ovvia tendenza alla geometrizzazione. Tale era la pittura dell’epoca di Plotino, ma tale non fu l’arte da Plotino incoraggiata, come si è detto.

I cristiani, invece, svilupparono un’arte vicina al pensiero di Plotino, sebbene gli fossero ostili (ed egli lo fosse a loro, che venivano da lui confusi con i detestati Gnostici). E’ soprattutto, se pur non esclusivamente, nell’arte cristiana della tarda antichità che si manifestano le nuove tendenze di un’arte che richiedeva immagini da contemplare con gli occhi dello spirito. Da tempo gli studiosi hanno individuato alcune caratteristiche del nuovo genere di immagini che a poco a poco prende il posto della tradizione classica greco-romana. Luce diffusa e uniforme, assenza di ombre, un solo piano per tutta l’immagine; grande attenzione ai particolari, che sembrano disturbare e come interrompere la visione d’insieme; prospettiva rovesciata e radiante, e insieme la collocazione dei personaggi su un piano parallelo rispetto alla superficie del dipinto o del rilievo; aloni luminosi che contornano alcuni dei personaggi; schemi geometrici regolari nella rappresentazione di oggetti che in natura sarebbero irregolari, “disordinati”: sono elementi che concorrono da un lato a una presentazione immediata dell’oggetto (il soggetto è trascinato in ciò che vede), dall’altro lo rendono “trasparente”, “ordinato”, figura priva di spessore e peso, sempre meno sensibile e sempre più intelligibile. Questi elementi, e altri ancora più espliciti, come i cerchi e i segmenti utilizzati per definire il mondo extra-cosmico, sono da leggere anche come “segnali”,(11) aiuti per chi osservava l’opera d’arte e doveva essere invitato a dirigere lo sguardo verso la sfera del sovrasensibile. La teoria dell’arte di Plotino, soprattutto quella della pittura, sopravvisse per secoli e divenne elemento essenziale dell’estetica medievale. Afferma Tatarkiewicz che i cristiani “non diedero una giustificazione teorica alla loro arte spiritualistica”,(12) che sarebbe invece da rintracciare nei testi di Plotino. Ma aggiunge anche che tracce dell’”estetica” plotiniana sono già presenti nei Padri, che il legame più interessante tra Plotino e il Medioevo è da cercarsi nei testi dello Pseudo-Dionigi, e conclude affermando che l’arte bizantina realizzò il programma di Plotino, che però non fu rinnegato neppure da quella occidentale, pronta a recepire soprattutto la funzione pedagogica delle immagini, ripresa dopo il Mille dalla Riforma di Gregorio VII, ben presente nelle note parole di Gregorio Magno sull’utilità delle pitture nelle chiese per coloro che non sanno leggere: ut in parietibus videndo legant quae legere in codicibus non valent.(13)

Nella Synodica di papa Adriano I per il Concilio di Nicea II (nel 787) tra tante è annoverata anche una citazione da Gregorio di Nissa: “come dice la dottrina dipinta: senz’altro una qualche materia c’è nelle differenti tinte, che compie l’imitazione dell’anima; colui che, infatti, guarda l’icona, una tavola riempita di colori con arte, non trae la somiglianza dalla tinta ma è condotto alla visione del prototipo”.(14) Il testo del Nisseno è assai corrotto sia nella versione latina che in quella greca della lettera papale, se, come hanno notato Claudio Gerbino e Mario Re,(15) l’originale dal Commento al Cantico dei Cantici, raccolta di omelie del 390, parlava di “soggetto vivo”, e non di anima, e di “immagine che l’artista ha espresso” e non di “prototipo” o prima figura. Ma forse proprio per questo hanno grande interesse le parole della Synodica, della lettera inviata dai vescovi delle sedi patriarcali, in questo caso dal Papa, in occasione di un sinodo: durante la violenta battaglia contro e pro l’iconoclastia, chi scrive in nome dell’Occidente non esita a forzare i testi dei Padri, in questo caso orientali, ai fini ribadire il valore dell’immagine, tramite col trascendente.

E proprio nei testi dei Padri è utile rinvenire qualche traccia se non di una “giustificazione teorica” almeno di una presa di posizione nei confronti dell’arte figurativa: che cosa è, quale funzione ha, e, soprattutto, come si pone in relazione alle arti della parola, eredità del mondo latino raccolta dai Padri e di volta in volta lodata o utilizzata, ma sempre in ultima analisi censurata.

Si provi a tornare al Padre latino che in parte raccolse l’eredità neoplatonica, in parte fondò se non l’estetica, almeno il modo di guardare al bello e all’arte della cultura cristiana. Non ci soffermiamo qui sui noti aspetti della teodicea estetica e del pitagorismo che rendono la musica l’arte più alta secondo Agostino d’Ippona, né sugli aspetti storico-sociologici del suo rifiuto per la danza e le rappresentazioni teatrali in genere. Leggiamo piuttosto una paginetta quasi sconosciuta, che però non è sfuggita a Shapiro e Tatarkiewicz, tratta dal Commento al Vangelo di Giovanni, dove si trovano alcuni elementi per noi assai utili.(16) Si tratta dell’omelia n. 24, probabilmente prima predicata oralmente e poi trascritta dopo il 418.(17) Oggetto dell’omelia è la pagina di Giovanni che descrive la moltiplicazione dei pani (Io 6,1-14), e Agostino spiega che “l’opera di Dio appare mirabile e stupenda anche nel più piccolo seme”, ma il governo del mondo non attrae l’attenzione, pertanto Dio compie ogni tanto delle opere fuori dal normale corso della natura perché gli uomini siano volti all’invisibile Dio per visibilia opera (24,1). Ovviamente, rispetto alla visione intellettuale di Plotino, il percorso perde in immediatezza per guadagnare in complessità, sdoppiandosi in due momenti: dapprima noscere invisibilium de rebus visibilis, poi, purificati dalla fede, ipsum invisibiliter videre. Non è sufficiente la conoscenza, infatti la visione invisibiliter è data solo con l’aiuto della fede che rende erecti e purgati. Il miracolo è dunque un segno visibile che porta almeno alla conoscenza dell’invisibile. Ma il miracolo ha anche una sua “lingua”, prosegue Agostino, perché è stato compiuto dal Verbo e ogni azione del Verbo è per noi un verbum, una parola, di cui va compreso il contenuto: non basta limitarsi a lodare Dio perché c’è stato un miracolo. Allo stesso modo, e queste sono le righe che ci interessano, quando si vede un testo scritto con lettere elegantemente composte, “non ci limitiamo a lodare lo stile di chi le ha fatte così ordinate, uguali e belle, ma vogliamo anche attraverso la lettura intendere ciò che per mezzo di esse lo scrittore ha voluto dirci” (24,2). E poi la precisazione: “Una pittura si guarda in modo diverso da uno scritto. Quando vedi una pittura, basta vedere per lodare; quando vedi uno scritto, non ti basta vedere”, quoniam commoneris et legere. Sei invitato, avvertito energicamente, in sostanza costretto – tale il senso del forte verbo commoneo – a leggere. Queste poche righe sono bastate per far dire a Władysław Tatarkiewicz che “Agostino coglie e mette in evidenza qualcosa che gli altri teorici dell’estetica avevano trascurato od omesso e che si rivelò invece della massima importanza per la teoria dell’arte”: non si possono riunire in una medesima teoria tutte le arti, diverso è vedere un quadro, diverso vedere delle lettere che possono essere lette e interpretate. “Per usare termini moderni: nella pittura, la forma è l’elemento essenziale, nella letteratura il contenuto è egualmente importante”.(18) Forse, a distanza di trent’anni, si possono prendere le distanze da questa semplificazione dello studioso polacco, e ci si può permettere di rivendicare altri significati per i termini di contenuto e forma da attribuire alle arti figurative e letterarie, ma qui preme che si sia messa in rilievo la notazione di Agostino: il testo scritto ha bisogno di uno che conosca la lingua in cui è scritto, non è sufficiente il riconoscimento delle lettere nelle loro forme, mentre viene ipotizzata per la forma della pittura una universalità che permette il passaggio diretto dalla visio alla intellectio. L’analogia del Commento al Vangelo di Giovanni si chiude qua, con l’equazione tra chi vede un testo scritto, lo loda, ma non lo capisce e chi conosce la storia del miracolo della moltiplicazione dei pani, la loda ma non ne comprende il senso. Entrambi hanno bisogno di un interprete, a entrambi occorre la presenza di colui che videt, laudat, legit et intelligit, che nel secondo caso è il predicatore che oralmente spiega il senso delle Scritture ai fedeli (Quia ergo vidimus, quia laudavimus, legamus et intellegamus). Sarebbe facile ora richiamare la platonica diffidenza per il testo scritto, orfano dell’autore, tanto chiaramente espressa in Fedro 274 b – 278 e, ma stiamo lavorando sulle parole di un autore che certo non aveva letto Platone (a esclusione forse della parziale traduzione ciceroniana del Timeo) e nessuno sa dire con sicurezza di quali testi “platonici” si fosse nutrito durante il breve soggiorno milanese.(19) Ci si limiti dunque a sottolineare un’ennesima contiguità tra la tradizione platonica e la produzione agostiniana e non si esiti a ritrovare nello stesso Agostino gli elementi per comprendere una posizione che diventa triplice: 1) la pittura rimanda immediatamente a qualcosa, 2) qualunque testo scritto ha invece bisogno di un interprete adeguato, 3) in particolare la Sacra Scrittura necessita di una lettura chiarificatrice e divulgativa. Tale visione delle cose può anche essere letta così: per l’Ipponate si tratta di individuare i diversi gradi di finzione, ossia di allontanamento dal vero, e quindi di assumere nei loro confronti un atteggiamento corretto.

Come si legge in Soliloquia 2,10,18,(20) alcune opere sono false quadam necessitate: sono vere opere d’arte in quanto false, o almeno, “in certi aspetti sono vere per lo stesso motivo per cui in altri aspetti sono false”, tanto che “contribuisce al loro esser vere il solo motivo per cui in altro senso sono false”. La digressione sull’arte segue alcune pagine sul senso di verità e falsità in cui si riconoscono influenze aristoteliche ma soprattutto stoiche, tratte probabilmente da Cicerone (21) la falsità non è nelle cose, ma nei sensi che si ingannano e nel giudizio che liberamente decide di assentire all’errore del senso. Se vero è tutto ciò che è (come si legge anche nel Sofista e nell’Ippia Minore di Platone), il falsum è ciò che appare diversamente da come è, ma che in quanto tale è privo di esistenza, perché esiste solo il vero, che è appunto vero in quanto è. Non esistono dunque realtà false, ma giudizi sbagliati su cose vere: “Pertanto la falsità non è nelle cose, ma nella conoscenza sensibile e s’inganna soltanto chi presta l’assenso al falso”.(22) Questo consente di dire per la prima volta che una stessa cosa può essere insieme vera e falsa: un legno può essere vero legno, ma essere percepito come pietra, quindi può essere falsa pietra. Mentre tuttavia è possibile giocare liberamente con termini relativi, quali minore e maggiore, perché si predicano di un soggetto sempre in relazione ad altro, nel caso del verum e del falsum è solo la falsità che dipende dalla relatività della percezione sensoriale e dall’assenso di chi percepisce. In linea con la concezione platonica, ogni cosa che è per il fatto di essere è comunque vera, e può diventare falsa se è mal giudicata. Radicalmente diversa era stata la posizione aristotelica: lo Stagirita nella Metafisica e nel De interpretatione aveva dichiarato essere sia la verità che la falsità attributi dell’essere conosciuto e giudicato.(23) Il motivo di tale diversa interpretazione si può ricondurre ad argomenti di gnoseologia: se per Aristotele la conoscenza sensibile è un passaggio obbligato, previo a qualunque forma di conoscenza, per i platonici la sensazione è un “non essere nascosto”, un palesarsi al corpo di un atto dell’anima,(24) che è quindi origine e guida del sentire sensibile. L’anima inoltre, come ribadito proprio da Agostino e anche nei Soliloquia, è vera e possiede la verità, che la abita, quindi riconosce la verità delle cose, oppure può essere ingannata dalla percezione che essa stessa ha originato e guidato. Per questo la res agostiniana può essere contemporaneamnete vera e falsa: vera in sé, falsa per come è conosciuta, e per questo si può dare quella che Agostino definisce una ratio bifrons, la duplice struttura dell’opera d’arte, che è vera in sé ma che rimanda ad altro che è “finto” nella significazione e quindi diventa falsum nell’interpretazione. Ma ancora un aspetto si deve sottolineare della falsità dell’opera d’arte, così come della falsità di ogni cosa: tutto ciò che è falso è detto tale in quanto simile al vero. La notazione agostiniana è davvero interessante, e non va applicata al falso detto per ingannare, al mendacium, che dipende dall’intenzione, dalla voluntas fallendi di chi parla,(25) ma all’errore percettivo o a situazioni particolari, come il sogno e l’immagine riflessa nello specchio. “Chi, vedendo in sogno un cane, direbbe che ha sognato un uomo?”;(26) il cane del sogno è un falso cane, falso cane proprio perché simile a un vero cane. O meglio: “falso” perché percepito come vero, ma privo di esistenza se non onirica; “falso cane” perché ha delle somiglianza con un cane vero. Riprendendo una distinzione che è già nel Sofista (235 a – 243 a; 265 b – 276 d), il falsum diventa così “ciò che appare”, mimesis del vero secondo gradi diversi. Si ha una similitudine di grado uguale quando la somiglianza è reciproca, come nel caso di due uova, di grado invece diverso quando l’inferiore è simile al superiore, come nel caso del sogno o dell’immagine allo specchio. Solo quest’ultimo è un caso di falsità, di apparire come vero di ciò che al vero è solo simile. Falso è dunque ciò che se fingit esse quod non est, aut omnino esse tendit et non est (27) nel primo caso il falso si propone come vero, ha la pretesa di essere ciò cui solo somiglia, ma non è; nel secondo appare come qualcosa verso cui “tende”, perché gli somiglia. Il primo è il caso del mendacium, dell’intentio fallendi, dell’intenzione di trarre in inganno, che può risiedere solo nell’anima dell’uomo e nell’istinto dell’animale, della volpe per esempio, astuta e ingannatrice per tradizione più favolistica che scientifica. Ma è anche il caso della finzione dei mimi, degli attori, dei prestigiatori, che mentono senza l’intenzione di ingannare, e restano comunque dei mentientes, dei propugnatori di bugie, se non addirittura mendaces, bugiardi. Il secondo è invece il caso che riguarda le immagini: una res che “tende” al vero e che al vero somiglia, ma che è vera solo del suo essere immagine, e non dell’essere ciò che rappresenta. Hanno questa condizione le già citate immagini allo specchio, i sogni, le allucinazioni, le ombre, le illusioni ottiche e infine omnis pictura vel cuiuscemodi simulacrum et id genus omnia opificum.(28) Con un po’ di fatica Agostino aggiunge a questo elenco, sottraendoli dal primo, anche le tragedie, le commedie e le azioni dei mimi, tutti compresi nella falsità quadam necessitate di cui si è detto sopra, dovuta alla necessità del loro essere rappresentazioni di fatti, immagini, mimesis.

L’attore Roscius (29) era una falsa Ecuba mentre contemporaneamente era un vero uomo e un vero attore tragico, e d’altra parte unde vera pictura esset, si falsus equus non esset? La ratio “bifronte” è però attribuita insieme alle immagini dello specchio e soltanto ad alcuni generi di opere d’arte: le opere della scultura e della pittura, le tragedie e le commedie, ossia le opere che si “vedono”, nonostante Agostino non neghi la possibilità di trovare analoghi falsi nel campo di altri sensi oltre alla vista (taceo de ceteris sensibus, 2,9,17). Siamo dunque a un primo grado di finzione, da cui allontanarsi se con Agostino si cerca “la verità da cui ha nome tutto ciò che è vero”, ma anche da non temere, proprio per quella doppia presenza del vero e del falso.

Tale mescolanza parrebbe presente anche nei testi che non usano delle immagini o delle rappresentazioni teatrali, ossia nei testi poetici scritti: la fabula del volo di Dedalo è una vera favola che racconta di un falso volo. La grammatica, intesa come scienza della metrica e dell’organizzazione del testo poetico, è una scienza, quindi come tale vera nel suo occuparsi di finzioni: ma la verità del suo essere scienza le deriva dalla dialettica, scienza delle definizioni, del dividere e del ricomporre, scienza del vero che con la verità stessa è identificata. Molto rapidamente lo studio della compresenza di vero e falso nella poesia è abbandonato dal testo agostiniano in favore di un approfondimento del ruolo della dialettica, la scienza che Cicerone aveva definito “inutile” per l’oratore, perché insegna a giudicare della verità ma non a trovarla (30) e che invece Agostino riabilita conferendole valore ontologico oltre che logico.(31) Non stupisce questo veloce superare il tema della grammatica, se si tengono presenti altre opere agostiniane, da cui si evince che ben diversa rispetto all’arte “visiva” è la gravità della finzione nell’uso del linguaggio verbale: l’intero De magistro, ma soprattutto il poco noto De dialectica, sono opere dedicate a illustrare la vanità e l’ambiguità di un verbum proferito per imitazione di un verbum mentale, a sua volta frutto di un’illuminazione dei verba eterni, grazie alla presenza del Verbum in ogni intelletto.(32)

La scrittura, il testo scritto, non fa che aggiungere un ulteriore livello di lontananza dal vero, quindi di possibile travisamento ermeneutico. Fa eccezione, tra le arti dello scrivere, la poesia quando è intesa come arte musicale del comporre armonie in metrica: allora, come nel caso della pittura, non si tratta di dover comprendere la verità di un contenuto, ma semplicemente di cogliere, con l’udito e non con la vista, una forma gradevole e facilmente riconoscibile, ricca, se vogliamo riprendere le indicazioni di Grabar, anche di “segnali”.

Da qui alcune conclusioni: tramite Agostino si veicola un’idea di opera d’arte eticamente accettabile nel caso in cui si limiti a porgere forme immediatamente percepibili come tali, a un primo grado di finzione; per quanto riguarda i testi del linguaggio verbale, invece, si richiede la presenza di un interprete, che può essere lo stesso lettore se in grado di comprendere la lingua del testo, ma che se non autorizzato, come è invece il vescovo Agostino stesso per le Scritture, rischia di rendere ancora più lontano dalla verità il risultato del lavoro ermeneutico. Questa tradizione si è incontrata con quella descritta sopra, vicina ai contenuti della quinta Enneade, per indurre il Medioevo occidentale a una forte positività nei confronti della pittura e delle arti figurative in generale, che sono tramiti immediati, se pur con un lato di falsità, verso il soprasensibile. E tramiti di facile lettura, si pensi all’uso pastorale delle immagini proposto con veemenza già da Gregorio Magno, e a quella che è stata definita “la possente esigenza da parte della Chiesa, dopo aver sconfitto l’iconoclastia nel IX secolo, di sviluppare un articolato sistema di immagini atto a rendere il suo credo più intelligibile, e pertanto più accessibile, a una vasta massa di credenti reali o potenziali”,(33) credenti per la maggior parte sprovvisti della possibilità di leggere i testi sacri e difficilmente raggiungibili dalla tradizione orale. Non pochi studiosi hanno tentato di ricondurre il grande tema dell’avversione all’iconoclastia a ragioni di predominio sociale e politico, ma con Maldonado ci sentiamo di affermare che se c’è stata anche una questione di potere, “per la Chiesa era in gioco anche, e soprattutto, l’efficacia dei mezzi di comunicazione utlizzati nella sua opera di proselitismo. Si poteva scendere a patti su molte cose, non sul divieto delle immagini, il cui uso la Chiesa considerava irrinunciabile per una capillare propagazione della fede”.(34) Almeno da quando la già debole posizione anti-idolatrica dei primi cristiani viene ulteriormente indebolita dalla progressiva influenza della tradizione artistica greco-romana che si avvale delle immagini per celebrare le divinità e legittimare i potenti, ossia dalla conversione di Costantino, dal quarto secolo. Gregorio Magno nelle due famose lettere al vescovo iconoclasta Serenus di Marsiglia, del 599 e del 600, sottolinea il grande valore delle immagini, soprattutto per gli illetterati, e permette all’arte cristiana contemporanea di diventare a sua volta modello di un’altra arte dagli intenti didascalici, ma non per questo meno intensa: quella voluta dalla riforma di un altro Gregorio, il papa Gregorio VII, pontefice dal 1073 al 1085. Hélène Toubert, allieva di Grabar, parla di “continuità sotterranea e consapevole reintensificazione dell’uso” dei modelli paleocristiani nei decenni successivi alla Riforma Gregoriana.(35) La Roma della riforma si ispirò alla Roma cristiana trionfante, evocò i grandi papi Clemente, Silvestro, Leone Magno, Gregorio Magno; selezionò un corpus di motivi ricavati dal repertorio classico della pittura, del mosaico, anche della scultura. D’altra parte un’arte didattica deve riconoscere dei prototipi e utilizzare degli stereotipi, deve essere facilmente comprensibile, dal cristiano che entra a Roma in San Clemente come da quello che aveva varcato la soglia di San Vitale a Ravenna molti secoli prima. Su questa linea potremmo divagare, ascoltando lo stupore di Hermann, ebreo convertito di Colonia, che non riesce a non vedere nelle immagini delle chiese “idoli di una scettica società di gentili”,(36) o domandandoci con Maldonado addirittura se “avrebbe potuto esistere un Rinascimento, e anche, diciamo, un mondo moderno, se l’iconoclastia fosse stata vincente”.(37) Ma non lo è stata, in Occidente, perché così non volle Gregorio Magno, e poi Adriano I, e poi ancora Gregorio VII. Ma forse anche perché così avevano pensato, prima di tutti, Plotino e Agostino.

Accanto a questa linea, la sfiducia nello scritto non autorizzato, e non commentato da chi a sua volta è autorizzato, condurrà invece alla svalutazione, almeno teorica, dell’arte poetica e narrativa che ancora richiedeva a Tommaso d’Aquino di giustificare la metafora dall’accusa di essere un pura menzogna e di salvarla come figura veritatis, utilizzando, non a caso, parole dell’Ipponate. Nella quaestio 110 della Summa Theologiae II, II, dedicata ai vizi che si oppongono alla verità, il secondo articolo si domanda se ogni menzogna sia peccato. Anche le hyperbolicae locutiones, che si trovano etiam in Sacra Scriptura, e che non portano danni a nessuno? (38) La risposta di Tommaso al problema è nota: la menzogna è un male ex genere, quindi nullo modo potest esse bonum et licitum. Ogni mendacium è peccatum, come sostiene anche Agostino sempre nel De mendacio. Tuttavia si deve ricordare che ogni operatio può essere considerata sia in se stessa, sia ex parte operantis. Per quanto riguarda questo secondo aspetto, mentre non si salva il mendacium iocosum, che è comunque una menzogna volta a ingannare, se pur per scherzo, trova invece una via per la liceità la locutio hyperbolica aut figurativa, proprio quella di cui sono piene le Scritture. E’ ancora una citazione dal De mendacio agostiniano a salvare l’uso della metafora: omnis enim enuntiatio ad id quod enuntiat referenda est.(39) Ossia: chi è in grado di capire ciò a cui davvero si riferiscono le “figure” letterarie, non è ingannato. Quindi non si tratta di menzogna da parte di chi enuncia, ma, ancora una volta, di necessità di una buona ermenutica da parte di chi recepisce. Forse che ciò che si dice per le Scritture vale anche per le poesie? Ma questa è un’altra fabula.

 

 

Note.

 

(1) A. Grabar, Les origines de l’esthétique médiévale, Macula, Paris 2001 (si tratta di tre saggi scritti tra il 1945 e il 1964, più volte riediti e raccolti in questa edizione postuma); traduzione italiana di M.G. Balzarini, Le origini dell’estetica medievale, Jaca Book, Milano 2001.

(2) Grabar 2001, p. 41 dell’ed. italiana.

(3) Ibidem, p.43.

(4) Presente invece nelle definizioni agostiniane di bellezza, cfr. ep. 3,4 (congruentia partium cum quadam coloris suavitate), ripresa alla lettera in civ. 22,19,2. Agostino considererà possibile il trascorrere dalla bellezza sensibile a quella intellegibile proprio grazie alla presenza nella prima di quella mensura e di quel numerus, riscontrabili nella proporzione, che rimandano all’uguaglianza e in ultima istanza all’unità dell’intelligibile.

(5) Per la traduzione delle Enneadi utilizziamo Plotino, Enneadi, a cura di M. Casaglia, C. Guidelli, A. Linguiti, F. Mariani, prefazione di F. Adorno, 2 vol., Utet, Torino 1997.

(6) Ma in quanto tale ha sempre il potere, oltre che di fare vedere, di disporre l’anima in un certo modo, come osserva Guidelli in C. Guidelli, Dall’ordine alla vita. Mutamenti del bello nel platonismo antico, Clueb, Bologna 1999, p. 149.

(7) Guidelli 1999, ibid.

(8) W. Tatarkiewicz, History of Aesthetics. I: Ancient Aesthetics, Państwowe Wydawnictwo Naukowe, Warszawa 1970; traduzione italiana di G. Fubini, Storia dell’estetica, a cura di G. Cavaglià, vol. primo, L’estetica antica, Einaudi, Torino 1979, p. 364.

(9) De anima, III 3, 428 b 2 ss.; utilizziamo la traduzione di G. Movia, Aristotele, L’anima, Rusconi, Milano 1996, p. 209.

(10) De anima, III 3, 428 b 2 ss.; utilizziamo la traduzione di G. Movia, Aristotele, L’anima, Rusconi, Milano 1996, p. 209.

(11) Grabar 2001, p.87 dell’edizione italiana.

(12) Grabar 2001, p.87 dell’edizione italiana.

(13) Gregorius I, Registri, IX, 208, in Monumenta Germanica Epistolae, II, Berolini 1893, p. 195.

(14) Synodica di Adriano I alla Corte di Costantinopoli, in Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto dell’immagine, a cura di L. Russo, traduzione di C. Gerbino, note di C. Gerbino e M. Re, Aesthetica, Palermo 1997, p. 20.

(15) Russo 1997, p. 150. Questa la traduzione di Gerbino e Re secondo il testo dell’edizione di Langerbeck (Commentarius in Canticum Canticorum, ed. H. Langerbeck, Gregorii Nysseni Opera VI, Leiden 1960, p. 28, 7-13; PG 44.776A): “come secondo la scienza pittorica una qualche materia senz’altro si trova nelle diverse tonalità di colore, ed essa compie l’imitazione del soggetto vivo, così chi guarda l’icona, confezionata con arte attraverso i colori, non ferma lo sguardo sulle tinture spalmate sulla tavola, ma guarda unicamente all’immagine che l’artista ha espresso servendosi dei colori”.

(16) Augustinus, In Iohannis Evangelium tractatus, Corpus Christianorum 36, ed. R. Willems, Tournhout 1954. La traduzione italiana di cui ci serviamo, con alcune modifiche, è in Opere di Sant’Agostino, parte III: Discorsi, XXIV, Commento al Vangelo e alla prima Epistola di san Giovanni, vol. I, traduzione e note di E. Gandolfo, Città Nuova, Roma 1968 e 1985.

(17) Cfr. Opere…, pp. XVI-XVII dell’Introduzione di A. Vita.

(18) W. Tatarkiewicz, History of Aesthetics. II: Medieval Aesthetics, Państwowe Wydawnictwo Naukowe, Warszawa 1970; traduzione italiana di M.T. Marcialis, Storia dell’estetica, a cura di G. Cavaglià, vol. secondo, L’estetica medievale, Einaudi, Torino 1979, p. 74-75.

(19) Cfr. conf. VII, 9,13: “mi procurasti, tramite un uomo gonfio di boria sconfinata, certi libri di filosofi platonici tradotti dal greco in latino”. Per un punto sulla questione dei platonicorum libros cfr. G. Madec, commento a Sant’Agostino, Confessioni, Fondazione Lorenzo Valla-Arnoldo Mondadori, vol. III, Milano 1994, pp. 193-197 e il nostro Agostino, Confessioni, Einaudi-Gallimard, Torino, pp. 707-714.

(20) Augustinus, Soliloquia, in Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum LXXXIX, Soliloquia, De inmortalitate animae, De quantitate animae – ed. W. Hörmann 1986; utilizziamo la traduzione, riveduta, di Opere di Sant’Agostino, III, Dialoghi, traduzione di D. Gentili, Città Nuova, Roma 1970.

(21) Cfr. Cicerone, Lucullus 6,18 e 18,57 su Zenone.

(22) sol. 2,3,3: Non igitur est in rebus falsitas, sed in sensu: non autem fallitur qui falsis non assentitur.

(23) Cfr. Metafisica V 7 1017 a 31-35; 29 1024 b 17 – 1025 a 13; VI 2 1026 a 34-35; 1027 b 17 – 1028 a 6; IX 10 1051 a 34 – 1052 a 11 e De interpretatione 2, 16 b 1-5; 3-4-5, 16 b 6 – 17 a 12; 6, 17 a 25-37; 9, 18 a 28-35.

(24) Cfr. Platone, Filebo, 33 d 9; Plotino, Enneadi, I, 4, 2, 3-4; Agostino, De quantitate animae 23,41; De musica VI, 5,9.

(25) Cfr. mend. 3,3.

(26) sol. 2,6,10.

(27) sol. 2,9,16.

(28) sol. 2,9,17.

(29) Q. Roscio Lanuvino, citato anche in Cicerone, Brutus 84, 290 e De oratore 2, 57, 233.

(30) De oratore 2,38, 157-161.

(31) sol. 2,11,21: …per seipsam disciplina vera est. Quisquamne igitur mirum putabit si ea qua vera sunt, omnia ab ipsa vera sunt, si et ipsa sit veritas.

(32) Sulla natura ambigua del linguaggio in Agostino ci permettiamo di rimandare al nostro Agostino: i segni e il linguaggio, in Knowledge through Signs: Ancient Semiotic Theories and Practices, ed. by G. Manetti, Brepols, Thournhout 1996, pp. 207‑272.

(33) T. Maldonado, Reale e Virtuale, Feltrinelli, Milano 1992, p. 23.

(34) Ibidem, p. 25.

(35) Cfr. H. Toubert, Un art dirigé. Réforme gregorienne et Iconogrephie, Les Éditions du Cerf, Paris 1990; traduzione italiana: Un’arte orientata. Riforma gregoriana e iconografia, a cura di L. Speciale, Jaca Book, Milano 2001, p. 15.

(36) Cit. in Toubert 2001, pp. 27-28.

(37) Maldonado 1992, p. 24.

(38) S. Th. II, II, 110, a.3, dove si cita proprio il De mendacio agostiniano dove la menzogna per essere tale decipit proximum.

(39) Cfr. mend. 5,7, che prosegue così: omne autem figurate aut factum aut dictum hoc enuntiat quod significat eis quibus intelligendum prolatum est.