Etica & Politica / Ethics & Politics, 2003, http://www.units.it/etica/2003_2/1_varia.html
Il lecito piacere della finzione artistica
Il
contributo di queste pagine sorge da una domanda forse ingenua: perché la
diffidenza verso il testo poetico e letterario, scritto o parlato, è sempre
stata così evidente durante il Medioevo, e contemporaneamente perché le
immagini dipinte o scolpite, o rese da basso e altorilievi, sono state accolte
dall’Occidente almeno come strumenti didascalici, anche a costo di offendere, contraddire,
forse tradire le tradizioni ebraica prima, orientale e islamica poi? Ovvero,
quali motivazioni hanno spinto ad accettare, anzi accogliere, la finzione
pittorica (o musiva o scultorea) come un aiuto nell’educazione dei cristiani e
quali invece hanno portato a mantenere accesa la diffidenza verso la finzione
letteraria, poetica o narrativa? Perché le chiese non hanno temuto di essere
ricoperte di figure colorate e non hanno invece tentato una tregua o un accordo
con i poeti e i letterati, o almeno non con tanta facilità? Come si
cercherà di mostrare, le motivazioni non sono solo di ordine
pedagogico-catechetico, che pure ricopre un ruolo importantissimo, ma sono
anche da ricercarsi nelle radici filosofiche di tale atteggiamento. Che
vedere un dipinto, ascoltare una musica, leggere o sentir leggere una poesia
siano attività che producono piacere non era nascosto agli antichi e nemmeno ai
medievali. La discussione è sempre ruotata intorno alla motivazione di tale
piacere, e da qui poi la proibizione o l’incoraggiamento a provarlo. Per
coglierne la motivazione a volte se ne è anche analizzata la struttura, se ne
sono dedotte le conseguenze, si è così consigliata la visione delle tragedie e
sconsigliato l’ascolto di alcune musiche, seguendo ora la linea aristotelica
del valore dell’universale poetico, verosimile più vicino al vero del vero
storico, ora la prudenza platonica, sospettosa nei confronti di copie non
garantite dell’idea originale o comunque nei confronti di sollecitazioni
sensibili che possono essere colpevoli, anche se non sempre, di allontanare
dall’intelligibile. La tarda
antichità raccoglie tale tradizione e in particolare reinterpreta la lettura
platonica secondo modalità cui ora accenneremo, non prive di influenza per
almeno una decina di secoli. Introducono
all’argomento le parole di André Grabar,(1) da
un testo su Plotino e le origini dell’estetica medievale: commentando Enn.
V,8,4,1-6 (“lassù… tutto infatti è trasparente, …la luce infatti è manifesta
alla luce”), Grabar ribadisce come per Plotino il ruolo dell’immagine, di ogni
immagine, sia quello di offrire una visione intellettuale del Nous, “nella
visione vi è una certa distanza spaziale tra colui che vede e il luogo nel
quale egli si trova. Plotino ci invita a liberarci di questa esteriorità e a
supporre che l’ambiente sia assorbito nell’essere, l’essere nell’ambiente; tale
è lo stato della visione intellettuale”.(2) All’opera d’arte non si chiede un’imitazione
della natura materiale (immediata o idealizzata, poco importa), procede Grabar,
quanto di costituirsi a “punto di partenza per un’esperienza metafisica, un
modo per creare quell’ineffabile contatto con il Nous, che quell’opera era
tenuta a riflettere”.(3) Già nel
trattato “Sul bello” (Enn. I,6), affermando che la bellezza non risiede nei
colori e neppure nella simmetria, Plotino rivendicava con determinazione il
legame tra bello sensibile e bello intelligibile, contro ogni tentazione
neopitagorica (4) “È forse perché tutte le cose sono tali
per via di una sola e medesima bellezza? Oppure vi è una bellezza nel corpo e
un’altra in un altro?” (Enn. I,6,1,9-11).(5) Se
unica è la fonte della bellezza, unico sarà anche il suo modo di manifestarsi,
che non si vede perché debba dipendere dalla composizione di parti (forse
brutte? Si domanda lo stesso Plotino) nel sensibile e invece possa godere dello
splendore dell’unità nell’intelligibile. Vi sono cose materiali che sono belle
non per la loro proporzionalità, ma in se stesse, nella loro semplicità: la
luce del sole, il brillare delle stelle, un bel viso, che può apparirci brutto
quando è alterato o malato, e in questo caso non perché perde le proporzioni
che lo caratterizzano. Le realtà materiali sono belle perché illuminate da una
“forma” (Enn. I,6,2,13: “diciamo che quelle sono belle per partecipazione della
forma”) che l’anima sa cogliere riportando a unità il molteplice che raccoglie
dal sensibile: le armonie impercettibili consentono di cogliere la bellezza di
quelle sensibili, rivelando “l’identico nel diverso” (Enn. I,6,3,30-31). Un
percorso che dichiaratamente ricalca l’ascesa erotica del Simposio, ma che da Platone in parte si discosta quando indica
nell’artista un uomo capace di vedere e imitare le forme intelligibili, cui
attinge per compiere la sua opera: si legge in Enn. V,8,1,35-38 che “le arti
non imitano semplicemente ciò che si vede, ma risalgono ai principi razionali
da cui deriva la natura”, anzi esse “creano da sé molte cose e completano ciò
che per qualche aspetto è manchevole, possedendo la bellezza”. L’esempio a
sostegno di questa tesi è molto noto: Fidia creò il suo Zeus senza guardare a
un modello materiale, ma fu in grado di coglierlo così come apparirebbe ai
nostri occhi Zeus stesso se mai si mostrasse. L’immaginazione, che in altri
passi delle Enneadi ha solo la
funzione di trasmissione e conservazione delle impressioni sensibili o di
rappresentazione cosciente dei contenuti mentali,(6)
diventa una via di assimilazione all’oggetto intelligibile della visione. Ma
tale via ha due percorsi: dall’interno all’esterno, e tale è il cammino dello
scultore, che rende staticamente ciò che di vivo possiede; e viceversa,
dall’esterno all’interno, e tale è il cammino dell’anima guidata dal filosofo
che grazie alla visione della statua rientra in se stessa e risale verso la
purezza della forma, dell’intero mondo delle forme. L’anima diviene così
“artista di se stessa” (7) e fa apparire in sé,
lavorando su se stessa come sulla materia, le forme. Sciocca come Narciso si
dimostrerebbe, se si accontentasse invece di guardare fuori di sé, perché come
Narciso si perderebbe incantata dalla sua stessa bellezza, ossia da una
bellezza che possiede davvero interiormente e che dall’esterno, dall’opera
d’arte, viene solo imitata e quindi richiamata. Il percorso del Simposio può ora cominciare, grazie a
un’interiorizzazione dovuta a immagini e all’immaginazione: ma l’anima non è più
solo spettatrice, poiché nel vedere il bello “diviene bella”, sperimenta
un’unione vitale con l’intelligibile come “inondata” ed “ebbra di nettare”
(cfr. Enn. V,8,10,33-34 secondo immagini ancora del Simposio, cfr. 203 b 5). Come se possedesse la vista acuta di
Linceo, l’anima che vede il bello e attraverso di esso accede
all’intelligibile, vede tutti gli intelligibili e quindi tutto l’essere, accede
a quel luogo ove “tutto è trasparente, nulla è oscuro né resistente, ognuno è
manifesto all’altro fin nell’intimo e tali sono tutte le cose” (Enn.
V,8,4,4-5). Questo è ciò che distingue il molteplice sensibile
dall’intelligibile, l’opacità rispetto alla trasparenza che consente di vedere
tutti in uno, attraverso uno, segno di una sempre più forte vicinanza al primo
principio. “Lassù tutto è tutto, e ciascuno è tutto”: invece “quaggiù” le parti
restano parti isolate, non generano altre parti, il frammento non ha in sé
tutto l’intero. Ma c’è chi ha una vista tanto acuta (come quella di Linceo) da
saper cogliere l’intero nell’apparenza di una parte. E come l’artista, forse
non conscio del suo operare, ha tentato di rendere nell’opera d’arte con la
bellezza la vitalità della forma, così l’anima che percorre la via della
bellezza si trova a vivere la “vita senza affanni”, secondo l’espressione
omerica di Iliade 6,138,
dell’intelligibile, una vita che è “sapienza, una sapienza però che non è
acquisita tramite ragionamenti, poiché è perfetta da sempre e non le manca
nulla” (Enn. V,8,4,36-37). Una
sapienza che non è addizione di conoscenze razionali, ma “qualcosa di riunito”
(V,8,6,9), come ben compresero i saggi egiziani, che “quando volevano esprimere
qualcosa in forma di sapienza non impiegavano i segni delle lettere che
accompagnano le parole”, ma “disegnavano invece delle figure e incidevano nei
templi una figura particolare per ogni cosa, mostrando l’assenza di uno
svolgimento discorsivo” (V,8,6,1-7). Le immagini hanno dunque il potere di
permettere una conoscenza immediata e totale, tramite una visione intellettuale
che non sarà “intellezione, ma soltanto un toccare e una specie di contatto,
senza parola e senza pensiero” (V,3,10,43-44), precedente il pensiero come nel
mondo del divino: “non bisogna dunque credere che lassù gli dèi e coloro che là
sono più che beati vedano delle proposizioni poiché, anzi, tutto ciò che è
stato detto si trova lassù come un insieme di belle figure” (V,8,5,20-23).
L’espressione “belle figure” traduce kala
agalmata, e agalma significa
insieme splendore e decoro, ciò di cui uno si adorna (come la “fibbia lucente”
d’oro, con il rilievo di un cane che trattiene un cerbiatto, di Odissea 19,257, donata da Penelope a
Ulisse “perché gli fosse ornamento”, agalma),
ma anche “statua, simulacro, immagine” (agalmata
sono anche le immagini divine che Alcibiade scorge in Socrate come all’interno
delle sculture dei sileni in Simposio
215 a 4 – b 3; 216 d 4-6), dal verbo che significa “celebro” e “decoro”
insieme. Le immagini conducono all’intelligibile perché anche l’intelligibile è
fatto di belle immagini, prive dell’opacità del sensibile e dunque trasparenti,
ma il termine usato da Plotino non lascia dubbi: si tratta di figure, non di
astrazioni. A queste devono portare le figure materiali. La
visione di Plotino è dunque quella di un arte “trasparente”, dove gli oggetti,
al contrario di come richiesto dall’arte naturalista imitativa, non devono
essere autonomi né impenetrabili, ma anzi si lasciano attraversare dalla luce
in uno spazio che viene in certo senso riassorbito. In Enn. II,8,1 troviamo
addirittura quello che Tatarkiewicz non esita a definire “un programma per
l’arte”,(8) che prima di analizzare brevemente si deve
ricordare essere stato del tutto disatteso dai contemporanei di Plotino e
soprattutto non incoraggiato dal punto di vista pratico. I neoplatonici,
infatti, con il chiaro intento di sostenere un paganesimo in difficoltà e di
opporsi al cristianesimo, sostennero dal punto di vista della pratica artistica
un recupero della tradizione classica nelle forme e nella sostanza. “Come le
cose lontane appaiono piccole” è il titolo dello scritto plotiniano raccolto in
Enn. II,8,1: si tratta di una discussione condotta alla maniera dei problemata tipici dei commentari
aristotelici e riflette cinque tesi diverse sull’argomento. Il problema di
fondo è quello sollevato da Aristotele nel De
anima (9) “Ci sono cose che appaiono anche
falsamente, di cui si ha al tempo stesso una persuasione vera. Ad esempio il
sole appare della grandezza di un piede, ma si è convinti che sia più grande
della terra abitata”. Il problema non è solo di tipo percettivo, Plotino
ritiene infatti fondamentale per la conoscenza razionale di un oggetto la
percezione della sua “forma”. Ora, tra le cinque proposte, Plotino propende per
la tesi ricavata ancora una volta dal De
anima stesso,(10) dalla distinzione tra
sensibili propri e sensibili comuni: da vicino l’oggetto si percepisce oltre
che per il colore anche per la grandezza, da lontano prevalentemente per la
grandezza. Ma il colore è il sensibile proprio della vista, mentre la grandezza
è un sensibile comune e non è quindi proprio di alcun senso specifico (nel
nostro caso, dice Plotino, è “vista” ma solo accidentalmente). Da lontano sia
il colore che la grandezza subiscono un decremento: il colore sbiadisce, mentre
la grandezza, che è una forma, rimpicciolisce. La vista
da lontano non riesce a cogliere la qualità della forma, che non è un sensibile
proprio, mentre difficilmente sbaglia sul colore, se pur sbiadito, ma questo
non è sufficiente ad avere una corretta percezione, come nel caso della vista
di un insieme di oggetti diversi (Plotino fa l’esempio di colline con case e
alberi), di cui non si percepiscano le forme o di quella di oggetti vari ma con
la medesima forma e il medesimo colore. Nel primo caso la visione è distorta
per la mancata percezione delle forme nei loro particolari, nel secondo per la
mancata differenziazione. Si pone lo stesso problema per gli oggetti vicini,
quando i giochi di ombre nascondono alcuni dei particolari e non consentono
un’esatta misurazione, e per gli oggetti che hanno forma e colore uniforme,
perché su di essi la vista “scivola via”, non trovando alcuna differenza cui
appigliarsi, e non riesce a misurare correttamente le distanze. Questo modo
poetico di definire la prospettiva come uno sdrucciolare dello sguardo e le
altre indicazioni portano a definire i caratteri di un’arte figurativa
costretta a evitare ciò che è dovuto all’imperfezione del senso della vista: la
diminuzione del colore e delle dimensioni, le alterazioni dovute alle ombre, la
deformazione data dalla prospettiva. Gli oggetti devono quindi essere
rappresentati tutti in primo piano, con i particolari in evidenza, senza giochi
di luce. La luce che si vede sarà quella delle superfici, evitando ogni
profondità che porterebbe ad addentrarsi nell’oscurità della materia. La forma
di un oggetto deve poter essere ben visibile perché l’oggetto sia anche
conoscibile, quindi la rappresentazione sarà meticolosa, ricca di particolari
ma “piatta”, senza differenze di piani e senza ombre, con una ovvia tendenza
alla geometrizzazione. Tale era la pittura dell’epoca di Plotino, ma tale non
fu l’arte da Plotino incoraggiata, come si è detto. I
cristiani, invece, svilupparono un’arte vicina al pensiero di Plotino, sebbene
gli fossero ostili (ed egli lo fosse a loro, che venivano da lui confusi con i
detestati Gnostici). E’ soprattutto, se pur non esclusivamente, nell’arte
cristiana della tarda antichità che si manifestano le nuove tendenze di un’arte
che richiedeva immagini da contemplare con gli occhi dello spirito. Da tempo
gli studiosi hanno individuato alcune caratteristiche del nuovo genere di
immagini che a poco a poco prende il posto della tradizione classica
greco-romana. Luce diffusa e uniforme, assenza di ombre, un solo piano per
tutta l’immagine; grande attenzione ai particolari, che sembrano disturbare e
come interrompere la visione d’insieme; prospettiva rovesciata e radiante, e
insieme la collocazione dei personaggi su un piano parallelo rispetto alla
superficie del dipinto o del rilievo; aloni luminosi che contornano alcuni dei
personaggi; schemi geometrici regolari nella rappresentazione di oggetti che in
natura sarebbero irregolari, “disordinati”: sono elementi che concorrono da un
lato a una presentazione immediata dell’oggetto (il soggetto è trascinato in
ciò che vede), dall’altro lo rendono “trasparente”, “ordinato”, figura priva di
spessore e peso, sempre meno sensibile e sempre più intelligibile. Questi
elementi, e altri ancora più espliciti, come i cerchi e i segmenti utilizzati
per definire il mondo extra-cosmico, sono da leggere anche come “segnali”,(11) aiuti per chi osservava l’opera d’arte e
doveva essere invitato a dirigere lo sguardo verso la sfera del sovrasensibile.
La teoria dell’arte di Plotino, soprattutto quella della pittura, sopravvisse
per secoli e divenne elemento essenziale dell’estetica medievale. Afferma
Tatarkiewicz che i cristiani “non diedero una giustificazione teorica alla loro
arte spiritualistica”,(12) che sarebbe invece da
rintracciare nei testi di Plotino. Ma aggiunge anche che tracce dell’”estetica”
plotiniana sono già presenti nei Padri, che il legame più interessante tra
Plotino e il Medioevo è da cercarsi nei testi dello Pseudo-Dionigi, e conclude
affermando che l’arte bizantina realizzò il programma di Plotino, che però non
fu rinnegato neppure da quella occidentale, pronta a recepire soprattutto la
funzione pedagogica delle immagini, ripresa dopo il Mille dalla Riforma di
Gregorio VII, ben presente nelle note parole di Gregorio Magno sull’utilità
delle pitture nelle chiese per coloro che non sanno leggere: ut in parietibus videndo legant quae legere
in codicibus non valent.(13) Nella Synodica di papa Adriano I per il
Concilio di Nicea II (nel 787) tra tante è annoverata anche una citazione da
Gregorio di Nissa: “come dice la dottrina dipinta: senz’altro una qualche
materia c’è nelle differenti tinte, che compie l’imitazione dell’anima; colui
che, infatti, guarda l’icona, una tavola riempita di colori con arte, non trae
la somiglianza dalla tinta ma è condotto alla visione del prototipo”.(14) Il testo del Nisseno è assai corrotto sia
nella versione latina che in quella greca della lettera papale, se, come hanno
notato Claudio Gerbino e Mario Re,(15)
l’originale dal Commento al Cantico dei
Cantici, raccolta di omelie del 390, parlava di “soggetto vivo”, e non di
anima, e di “immagine che l’artista ha espresso” e non di “prototipo” o prima
figura. Ma forse proprio per questo hanno grande interesse le parole della Synodica, della lettera inviata dai
vescovi delle sedi patriarcali, in questo caso dal Papa, in occasione di un
sinodo: durante la violenta battaglia contro e pro l’iconoclastia, chi scrive
in nome dell’Occidente non esita a forzare i testi dei Padri, in questo caso
orientali, ai fini ribadire il valore dell’immagine, tramite col trascendente. E proprio
nei testi dei Padri è utile rinvenire qualche traccia se non di una
“giustificazione teorica” almeno di una presa di posizione nei confronti
dell’arte figurativa: che cosa è, quale funzione ha, e, soprattutto, come si
pone in relazione alle arti della parola, eredità del mondo latino raccolta dai
Padri e di volta in volta lodata o utilizzata, ma sempre in ultima analisi
censurata. Si provi
a tornare al Padre latino che in parte raccolse l’eredità neoplatonica, in
parte fondò se non l’estetica, almeno il modo di guardare al bello e all’arte
della cultura cristiana. Non ci soffermiamo qui sui noti aspetti della teodicea
estetica e del pitagorismo che rendono la musica l’arte più alta secondo
Agostino d’Ippona, né sugli aspetti storico-sociologici del suo rifiuto per la
danza e le rappresentazioni teatrali in genere. Leggiamo piuttosto una
paginetta quasi sconosciuta, che però non è sfuggita a Shapiro e Tatarkiewicz,
tratta dal Commento al Vangelo di
Giovanni, dove si trovano alcuni elementi per noi assai utili.(16) Si tratta dell’omelia n. 24, probabilmente prima predicata
oralmente e poi trascritta dopo il 418.(17)
Oggetto dell’omelia è la pagina di Giovanni che descrive la moltiplicazione dei
pani (Io 6,1-14), e Agostino spiega che “l’opera di Dio appare mirabile e
stupenda anche nel più piccolo seme”, ma il governo del mondo non attrae
l’attenzione, pertanto Dio compie ogni tanto delle opere fuori dal normale
corso della natura perché gli uomini siano volti all’invisibile Dio per visibilia opera (24,1). Ovviamente,
rispetto alla visione intellettuale di Plotino, il percorso perde in
immediatezza per guadagnare in complessità, sdoppiandosi in due momenti:
dapprima noscere invisibilium de rebus
visibilis, poi, purificati dalla fede, ipsum
invisibiliter videre. Non è sufficiente la conoscenza, infatti la visione invisibiliter è data solo con l’aiuto
della fede che rende erecti e purgati. Il miracolo è dunque un segno
visibile che porta almeno alla conoscenza dell’invisibile. Ma il miracolo ha
anche una sua “lingua”, prosegue Agostino, perché è stato compiuto dal Verbo e
ogni azione del Verbo è per noi un verbum,
una parola, di cui va compreso il contenuto: non basta limitarsi a lodare Dio
perché c’è stato un miracolo. Allo stesso modo, e queste sono le righe che ci
interessano, quando si vede un testo scritto con lettere elegantemente
composte, “non ci limitiamo a lodare lo stile di chi le ha fatte così ordinate,
uguali e belle, ma vogliamo anche attraverso la lettura intendere ciò che per
mezzo di esse lo scrittore ha voluto dirci” (24,2). E poi la precisazione: “Una
pittura si guarda in modo diverso da uno scritto. Quando vedi una pittura,
basta vedere per lodare; quando vedi uno scritto, non ti basta vedere”, quoniam commoneris et legere. Sei
invitato, avvertito energicamente, in sostanza costretto – tale il senso del
forte verbo commoneo – a leggere.
Queste poche righe sono bastate per far dire a Władysław Tatarkiewicz
che “Agostino coglie e mette in evidenza qualcosa che gli altri teorici
dell’estetica avevano trascurato od omesso e che si rivelò invece della massima
importanza per la teoria dell’arte”: non si possono riunire in una medesima
teoria tutte le arti, diverso è vedere un quadro, diverso vedere delle lettere
che possono essere lette e interpretate. “Per usare termini moderni: nella
pittura, la forma è l’elemento essenziale, nella letteratura il contenuto è
egualmente importante”.(18) Forse, a distanza di
trent’anni, si possono prendere le distanze da questa semplificazione dello
studioso polacco, e ci si può permettere di rivendicare altri significati per i
termini di contenuto e forma da attribuire alle arti figurative e letterarie,
ma qui preme che si sia messa in rilievo la notazione di Agostino: il testo
scritto ha bisogno di uno che conosca la lingua in cui è scritto, non è
sufficiente il riconoscimento delle lettere nelle loro forme, mentre viene
ipotizzata per la forma della pittura una universalità che permette il
passaggio diretto dalla visio alla intellectio. L’analogia del Commento al Vangelo di Giovanni si
chiude qua, con l’equazione tra chi vede un testo scritto, lo loda, ma non lo
capisce e chi conosce la storia del miracolo della moltiplicazione dei pani, la
loda ma non ne comprende il senso. Entrambi hanno bisogno di un interprete, a
entrambi occorre la presenza di colui che videt,
laudat, legit et intelligit, che nel secondo caso è il predicatore che
oralmente spiega il senso delle Scritture ai fedeli (Quia ergo vidimus, quia laudavimus, legamus et intellegamus).
Sarebbe facile ora richiamare la platonica diffidenza per il testo scritto,
orfano dell’autore, tanto chiaramente espressa in Fedro 274 b – 278 e, ma stiamo lavorando sulle parole di un autore
che certo non aveva letto Platone (a esclusione forse della parziale traduzione
ciceroniana del Timeo) e nessuno sa
dire con sicurezza di quali testi “platonici” si fosse nutrito durante il breve
soggiorno milanese.(19) Ci si limiti dunque a
sottolineare un’ennesima contiguità tra la tradizione platonica e la produzione
agostiniana e non si esiti a ritrovare nello stesso Agostino gli elementi per
comprendere una posizione che diventa triplice: 1) la pittura rimanda
immediatamente a qualcosa, 2) qualunque testo scritto ha invece bisogno di un
interprete adeguato, 3) in particolare la Sacra Scrittura necessita di una
lettura chiarificatrice e divulgativa. Tale visione delle cose può anche essere
letta così: per l’Ipponate si tratta di individuare i diversi gradi di
finzione, ossia di allontanamento dal vero, e quindi di assumere nei loro
confronti un atteggiamento corretto. Come si
legge in Soliloquia 2,10,18,(20) alcune opere sono false quadam necessitate: sono vere opere
d’arte in quanto false, o almeno, “in certi aspetti sono vere per lo stesso
motivo per cui in altri aspetti sono false”, tanto che “contribuisce al loro
esser vere il solo motivo per cui in altro senso sono false”. La digressione
sull’arte segue alcune pagine sul senso di verità e falsità in cui si
riconoscono influenze aristoteliche ma soprattutto stoiche, tratte
probabilmente da Cicerone (21) la falsità non è nelle cose, ma nei sensi che
si ingannano e nel giudizio che liberamente decide di assentire all’errore del
senso. Se vero è tutto ciò che è (come si legge anche nel Sofista e nell’Ippia Minore
di Platone), il falsum è ciò che
appare diversamente da come è, ma che in quanto tale è privo di esistenza,
perché esiste solo il vero, che è appunto vero in quanto è. Non esistono dunque
realtà false, ma giudizi sbagliati su cose vere: “Pertanto la falsità non è
nelle cose, ma nella conoscenza sensibile e s’inganna soltanto chi presta
l’assenso al falso”.(22) Questo consente di
dire per la prima volta che una stessa cosa può essere insieme vera e falsa: un
legno può essere vero legno, ma essere percepito come pietra, quindi può essere
falsa pietra. Mentre tuttavia è possibile giocare liberamente con termini
relativi, quali minore e maggiore, perché si predicano di un soggetto sempre in
relazione ad altro, nel caso del verum
e del falsum è solo la falsità che
dipende dalla relatività della percezione sensoriale e dall’assenso di chi
percepisce. In linea con la concezione platonica, ogni cosa che è per il fatto
di essere è comunque vera, e può diventare falsa se è mal giudicata.
Radicalmente diversa era stata la posizione aristotelica: lo Stagirita nella Metafisica e nel De interpretatione aveva dichiarato essere sia la verità che la
falsità attributi dell’essere conosciuto e giudicato.(23) Il motivo di tale diversa interpretazione si può ricondurre
ad argomenti di gnoseologia: se per Aristotele la conoscenza sensibile è un
passaggio obbligato, previo a qualunque forma di conoscenza, per i platonici la
sensazione è un “non essere nascosto”, un palesarsi al corpo di un atto
dell’anima,(24) che è quindi origine e guida del sentire
sensibile. L’anima inoltre, come ribadito proprio da Agostino e anche nei Soliloquia, è vera e possiede la verità,
che la abita, quindi riconosce la verità delle cose, oppure può essere
ingannata dalla percezione che essa stessa ha originato e guidato. Per questo
la res agostiniana può essere
contemporaneamnete vera e falsa: vera in sé, falsa per come è conosciuta, e per
questo si può dare quella che Agostino definisce una ratio bifrons, la duplice struttura dell’opera d’arte, che è vera
in sé ma che rimanda ad altro che è “finto” nella significazione e quindi
diventa falsum nell’interpretazione.
Ma ancora un aspetto si deve sottolineare della falsità dell’opera d’arte, così
come della falsità di ogni cosa: tutto ciò che è falso è detto tale in quanto
simile al vero. La notazione agostiniana è davvero interessante, e non va
applicata al falso detto per ingannare, al mendacium,
che dipende dall’intenzione, dalla voluntas
fallendi di chi parla,(25)
ma all’errore percettivo o a situazioni particolari, come il sogno e l’immagine
riflessa nello specchio. “Chi, vedendo in sogno un cane, direbbe che ha sognato
un uomo?”;(26) il cane del sogno è un falso cane, falso
cane proprio perché simile a un vero cane. O meglio: “falso” perché percepito
come vero, ma privo di esistenza se non onirica; “falso cane” perché ha delle
somiglianza con un cane vero. Riprendendo una distinzione che è già nel Sofista (235 a – 243 a; 265 b – 276 d),
il falsum diventa così “ciò che
appare”, mimesis del vero secondo
gradi diversi. Si ha una similitudine di grado uguale quando la somiglianza è
reciproca, come nel caso di due uova, di grado invece diverso quando
l’inferiore è simile al superiore, come nel caso del sogno o dell’immagine allo
specchio. Solo quest’ultimo è un caso di falsità, di apparire come vero di ciò
che al vero è solo simile. Falso è dunque ciò che se fingit esse quod non est, aut omnino esse tendit et non est (27) nel primo caso il falso si propone come
vero, ha la pretesa di essere ciò cui solo somiglia, ma non è; nel secondo
appare come qualcosa verso cui “tende”, perché gli somiglia. Il primo è il caso
del mendacium, dell’intentio fallendi, dell’intenzione di
trarre in inganno, che può risiedere solo nell’anima dell’uomo e nell’istinto
dell’animale, della volpe per esempio, astuta e ingannatrice per tradizione più
favolistica che scientifica. Ma è anche il caso della finzione dei mimi, degli
attori, dei prestigiatori, che mentono senza l’intenzione di ingannare, e
restano comunque dei mentientes, dei
propugnatori di bugie, se non addirittura mendaces,
bugiardi. Il secondo è invece il caso che riguarda le immagini: una res che “tende” al vero e che al vero
somiglia, ma che è vera solo del suo essere immagine, e non dell’essere ciò che
rappresenta. Hanno questa condizione le già citate immagini allo specchio, i
sogni, le allucinazioni, le ombre, le illusioni ottiche e infine omnis pictura vel cuiuscemodi simulacrum et
id genus omnia opificum.(28)
Con un po’ di fatica Agostino aggiunge a questo elenco, sottraendoli dal primo,
anche le tragedie, le commedie e le azioni dei mimi, tutti compresi nella
falsità quadam necessitate di cui si
è detto sopra, dovuta alla necessità del loro essere rappresentazioni di fatti,
immagini, mimesis. L’attore
Roscius (29) era una falsa Ecuba mentre
contemporaneamente era un vero uomo e un vero attore tragico, e d’altra parte unde vera pictura esset, si falsus equus non
esset? La ratio “bifronte” è però
attribuita insieme alle immagini dello specchio e soltanto ad alcuni generi di opere d’arte: le opere
della scultura e della pittura, le tragedie e le commedie, ossia le opere che
si “vedono”, nonostante Agostino non neghi la possibilità di trovare analoghi
falsi nel campo di altri sensi oltre alla vista (taceo de ceteris sensibus, 2,9,17). Siamo dunque a un primo grado
di finzione, da cui allontanarsi se con Agostino si cerca “la verità da cui ha
nome tutto ciò che è vero”, ma anche da non temere, proprio per quella doppia
presenza del vero e del falso. Tale
mescolanza parrebbe presente anche nei testi che non usano delle immagini o
delle rappresentazioni teatrali, ossia nei testi poetici scritti: la fabula del volo di Dedalo è una vera
favola che racconta di un falso volo. La grammatica, intesa come scienza della
metrica e dell’organizzazione del testo poetico, è una scienza, quindi come
tale vera nel suo occuparsi di finzioni: ma la verità del suo essere scienza le
deriva dalla dialettica, scienza delle definizioni, del dividere e del
ricomporre, scienza del vero che con la verità stessa è identificata. Molto
rapidamente lo studio della compresenza di vero e falso nella poesia è
abbandonato dal testo agostiniano in favore di un approfondimento del ruolo
della dialettica, la scienza che Cicerone aveva definito “inutile” per
l’oratore, perché insegna a giudicare della verità ma non a trovarla (30) e che invece Agostino riabilita
conferendole valore ontologico oltre che logico.(31)
Non stupisce questo veloce superare il tema della grammatica, se si tengono
presenti altre opere agostiniane, da cui si evince che ben diversa rispetto
all’arte “visiva” è la gravità della finzione nell’uso del linguaggio verbale:
l’intero De magistro, ma soprattutto
il poco noto De dialectica, sono
opere dedicate a illustrare la vanità e l’ambiguità di un verbum proferito per imitazione di un verbum mentale, a sua volta frutto di un’illuminazione dei verba eterni, grazie alla presenza del Verbum in ogni intelletto.(32) La
scrittura, il testo scritto, non fa che aggiungere un ulteriore livello di
lontananza dal vero, quindi di possibile travisamento ermeneutico. Fa
eccezione, tra le arti dello scrivere, la poesia quando è intesa come arte
musicale del comporre armonie in metrica: allora, come nel caso della pittura,
non si tratta di dover comprendere la verità di un contenuto, ma semplicemente
di cogliere, con l’udito e non con la vista, una forma gradevole e facilmente
riconoscibile, ricca, se vogliamo riprendere le indicazioni di Grabar, anche di
“segnali”. Da qui
alcune conclusioni: tramite Agostino si veicola un’idea di opera d’arte
eticamente accettabile nel caso in cui si limiti a porgere forme immediatamente
percepibili come tali, a un primo grado di finzione; per quanto riguarda i
testi del linguaggio verbale, invece, si richiede la presenza di un interprete,
che può essere lo stesso lettore se in grado di comprendere la lingua del
testo, ma che se non autorizzato, come è invece il vescovo Agostino stesso per
le Scritture, rischia di rendere ancora più lontano dalla verità il risultato
del lavoro ermeneutico. Questa tradizione si è incontrata con quella descritta
sopra, vicina ai contenuti della quinta Enneade,
per indurre il Medioevo occidentale a una forte positività nei confronti della
pittura e delle arti figurative in generale, che sono tramiti immediati, se pur
con un lato di falsità, verso il soprasensibile. E tramiti di facile lettura,
si pensi all’uso pastorale delle immagini proposto con veemenza già da Gregorio
Magno, e a quella che è stata definita “la possente esigenza da parte della
Chiesa, dopo aver sconfitto l’iconoclastia nel IX secolo, di sviluppare un
articolato sistema di immagini atto a rendere il suo credo più intelligibile, e
pertanto più accessibile, a una vasta massa di credenti reali o potenziali”,(33) credenti per la maggior parte sprovvisti
della possibilità di leggere i testi sacri e difficilmente raggiungibili dalla
tradizione orale. Non pochi studiosi hanno tentato di ricondurre il grande tema
dell’avversione all’iconoclastia a ragioni di predominio sociale e politico, ma
con Maldonado ci sentiamo di affermare che se c’è stata anche una questione di potere, “per la Chiesa era in gioco anche, e
soprattutto, l’efficacia dei mezzi di comunicazione utlizzati nella sua opera
di proselitismo. Si poteva scendere a patti su molte cose, non sul divieto
delle immagini, il cui uso la Chiesa considerava irrinunciabile per una
capillare propagazione della fede”.(34)
Almeno da quando la già debole posizione anti-idolatrica dei primi cristiani
viene ulteriormente indebolita dalla progressiva influenza della tradizione
artistica greco-romana che si avvale delle immagini per celebrare le divinità e
legittimare i potenti, ossia dalla conversione di Costantino, dal quarto
secolo. Gregorio Magno nelle due famose lettere al vescovo iconoclasta Serenus
di Marsiglia, del 599 e del 600, sottolinea il grande valore delle immagini,
soprattutto per gli illetterati, e
permette all’arte cristiana contemporanea di diventare a sua volta modello di
un’altra arte dagli intenti didascalici, ma non per questo meno intensa: quella
voluta dalla riforma di un altro Gregorio, il papa Gregorio VII, pontefice dal
1073 al 1085. Hélène Toubert, allieva di Grabar, parla di “continuità
sotterranea e consapevole reintensificazione dell’uso” dei modelli
paleocristiani nei decenni successivi alla Riforma Gregoriana.(35) La Roma della riforma si ispirò alla Roma cristiana
trionfante, evocò i grandi papi Clemente, Silvestro, Leone Magno, Gregorio
Magno; selezionò un corpus di motivi ricavati dal repertorio classico della
pittura, del mosaico, anche della scultura. D’altra parte un’arte didattica
deve riconoscere dei prototipi e utilizzare degli stereotipi, deve essere
facilmente comprensibile, dal cristiano che entra a Roma in San Clemente come
da quello che aveva varcato la soglia di San Vitale a Ravenna molti secoli
prima. Su questa linea potremmo divagare, ascoltando lo stupore di Hermann,
ebreo convertito di Colonia, che non riesce a non vedere nelle immagini delle
chiese “idoli di una scettica società di gentili”,(36) o domandandoci con Maldonado addirittura se “avrebbe potuto
esistere un Rinascimento, e anche, diciamo, un mondo moderno, se l’iconoclastia
fosse stata vincente”.(37) Ma non lo è stata, in
Occidente, perché così non volle Gregorio Magno, e poi Adriano I, e poi ancora
Gregorio VII. Ma forse anche perché così avevano pensato, prima di tutti,
Plotino e Agostino. Accanto a
questa linea, la sfiducia nello scritto non autorizzato, e non commentato da
chi a sua volta è autorizzato, condurrà invece alla svalutazione, almeno teorica,
dell’arte poetica e narrativa che ancora richiedeva a Tommaso d’Aquino di
giustificare la metafora dall’accusa di essere un pura menzogna e di salvarla
come figura veritatis, utilizzando,
non a caso, parole dell’Ipponate. Nella quaestio
110 della Summa Theologiae II, II,
dedicata ai vizi che si oppongono alla verità, il secondo articolo si domanda
se ogni menzogna sia peccato. Anche le hyperbolicae
locutiones, che si trovano etiam in
Sacra Scriptura, e che non portano danni a nessuno? (38) La risposta di Tommaso
al problema è nota: la menzogna è un male ex
genere, quindi nullo modo potest esse
bonum et licitum. Ogni mendacium
è peccatum, come sostiene anche
Agostino sempre nel De mendacio.
Tuttavia si deve ricordare che ogni operatio
può essere considerata sia in se stessa, sia ex parte operantis. Per quanto riguarda questo secondo aspetto,
mentre non si salva il mendacium iocosum,
che è comunque una menzogna volta a ingannare, se pur per scherzo, trova invece
una via per la liceità la locutio
hyperbolica aut figurativa, proprio quella di cui sono piene le Scritture.
E’ ancora una citazione dal De mendacio
agostiniano a salvare l’uso della metafora: omnis
enim enuntiatio ad id quod enuntiat referenda est.(39) Ossia: chi è in grado
di capire ciò a cui davvero si riferiscono le “figure” letterarie, non è
ingannato. Quindi non si tratta di menzogna da parte di chi enuncia, ma, ancora
una volta, di necessità di una buona ermenutica da parte di chi recepisce.
Forse che ciò che si dice per le Scritture vale anche per le poesie? Ma questa
è un’altra fabula. Note. (1) A. Grabar, Les origines de l’esthétique médiévale, Macula, Paris 2001 (si
tratta di tre saggi scritti tra il 1945 e il 1964, più volte riediti e raccolti
in questa edizione postuma); traduzione italiana di M.G. Balzarini, Le origini dell’estetica medievale, Jaca
Book, Milano 2001. (2) Grabar 2001, p. 41 dell’ed. italiana. (3) Ibidem, p.43. (4) Presente invece nelle definizioni
agostiniane di bellezza, cfr. ep. 3,4 (congruentia
partium cum quadam coloris suavitate), ripresa alla lettera in civ.
22,19,2. Agostino considererà possibile il trascorrere dalla bellezza sensibile
a quella intellegibile proprio grazie alla presenza nella prima di quella mensura e di quel numerus, riscontrabili nella proporzione, che rimandano
all’uguaglianza e in ultima istanza all’unità dell’intelligibile. (5) Per la traduzione delle Enneadi utilizziamo Plotino, Enneadi, a cura di M. Casaglia, C.
Guidelli, A. Linguiti, F. Mariani, prefazione di F. Adorno, 2 vol., Utet,
Torino 1997. (6) Ma in quanto tale ha sempre il potere, oltre
che di fare vedere, di disporre l’anima in un certo modo, come osserva Guidelli
in C. Guidelli, Dall’ordine alla vita.
Mutamenti del bello nel platonismo antico, Clueb, Bologna 1999, p. 149. (7) Guidelli 1999, ibid. (8) W. Tatarkiewicz, History
of Aesthetics. I:
Ancient Aesthetics, Państwowe Wydawnictwo Naukowe, Warszawa 1970;
traduzione italiana di G. Fubini, Storia
dell’estetica, a cura di G. Cavaglià, vol. primo, L’estetica antica, Einaudi, Torino 1979, p. 364. (9) De
anima, III 3, 428 b 2 ss.; utilizziamo la traduzione di G. Movia, Aristotele, L’anima, Rusconi, Milano
1996, p. 209. (10) De
anima, III 3, 428 b 2 ss.; utilizziamo la traduzione di G. Movia, Aristotele, L’anima, Rusconi, Milano
1996, p. 209. (11) Grabar 2001, p.87 dell’edizione italiana.
(12) Grabar 2001, p.87 dell’edizione italiana.
(13) Gregorius I, Registri, IX, 208, in Monumenta
Germanica Epistolae, II, Berolini 1893, p. 195. (14) Synodica
di Adriano I alla Corte di Costantinopoli, in Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto dell’immagine, a cura di L.
Russo, traduzione di C. Gerbino, note di C. Gerbino e M. Re, Aesthetica,
Palermo 1997, p. 20. (15) Russo 1997, p. 150. Questa la traduzione
di Gerbino e Re secondo il testo dell’edizione di Langerbeck (Commentarius in Canticum Canticorum, ed.
H. Langerbeck, Gregorii Nysseni Opera
VI, Leiden 1960, p. 28, 7-13; PG 44.776A): “come secondo la scienza pittorica
una qualche materia senz’altro si trova nelle diverse tonalità di colore, ed
essa compie l’imitazione del soggetto vivo, così chi guarda l’icona,
confezionata con arte attraverso i colori, non ferma lo sguardo sulle tinture
spalmate sulla tavola, ma guarda unicamente all’immagine che l’artista ha
espresso servendosi dei colori”. (16)
Augustinus, In Iohannis Evangelium
tractatus, Corpus Christianorum 36, ed. R. Willems, Tournhout 1954. La
traduzione italiana di cui ci serviamo, con alcune modifiche, è in Opere di Sant’Agostino, parte III: Discorsi,
XXIV, Commento al Vangelo e alla
prima Epistola di san Giovanni, vol. I, traduzione e note di E. Gandolfo,
Città Nuova, Roma 1968 e 1985. (17) Cfr. Opere…,
pp. XVI-XVII dell’Introduzione di A. Vita. (18)
W. Tatarkiewicz, History of Aesthetics.
II: Medieval Aesthetics, Państwowe Wydawnictwo Naukowe, Warszawa 1970;
traduzione italiana di M.T. Marcialis, Storia
dell’estetica, a cura di G. Cavaglià, vol. secondo, L’estetica medievale, Einaudi, Torino 1979, p. 74-75. (19) Cfr. conf. VII, 9,13: “mi procurasti,
tramite un uomo gonfio di boria sconfinata, certi libri di filosofi platonici
tradotti dal greco in latino”. Per un punto sulla questione dei platonicorum libros cfr. G. Madec,
commento a Sant’Agostino, Confessioni,
Fondazione Lorenzo Valla-Arnoldo Mondadori, vol. III, Milano 1994, pp. 193-197
e il nostro Agostino, Confessioni,
Einaudi-Gallimard, Torino, pp. 707-714. (20) Augustinus, Soliloquia, in Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum LXXXIX,
Soliloquia, De inmortalitate animae, De quantitate animae – ed. W.
Hörmann 1986; utilizziamo la traduzione, riveduta, di Opere di Sant’Agostino, III, Dialoghi,
traduzione di D. Gentili, Città Nuova, Roma 1970. (21) Cfr. Cicerone, Lucullus 6,18 e 18,57 su Zenone. (22) sol. 2,3,3: Non igitur est in rebus falsitas, sed in
sensu: non autem fallitur qui falsis non assentitur. (23) Cfr. Metafisica
V 7 1017 a 31-35; 29 1024 b 17 – 1025 a 13; VI 2 1026 a 34-35; 1027 b 17 – 1028
a 6; IX 10 1051 a 34 – 1052 a 11 e De
interpretatione 2, 16 b 1-5; 3-4-5, 16 b 6 – 17 a 12; 6, 17 a 25-37; 9, 18
a 28-35. (24) Cfr. Platone, Filebo, 33 d 9; Plotino, Enneadi,
I, 4, 2, 3-4; Agostino, De quantitate
animae 23,41; De musica VI, 5,9. (25)
Cfr. mend. 3,3. (26) sol. 2,6,10. (27) sol. 2,9,16. (28) sol. 2,9,17. (29) Q. Roscio Lanuvino, citato anche
in Cicerone, Brutus 84, 290 e De oratore 2, 57, 233. (30) De
oratore 2,38, 157-161. (31) sol. 2,11,21: …per seipsam disciplina vera est. Quisquamne
igitur mirum putabit si ea qua vera sunt, omnia ab ipsa vera sunt, si et ipsa
sit veritas. (32) Sulla natura ambigua del
linguaggio in Agostino ci permettiamo di rimandare al nostro Agostino: i segni e il linguaggio, in Knowledge through Signs: Ancient Semiotic Theories
and Practices, ed. by G. Manetti, Brepols, Thournhout 1996, pp. 207‑272.
(33) T. Maldonado, Reale e Virtuale, Feltrinelli, Milano
1992, p. 23. (34) Ibidem, p. 25. (35) Cfr. H. Toubert, Un
art dirigé. Réforme gregorienne et Iconogrephie, Les Éditions du Cerf,
Paris 1990; traduzione italiana: Un’arte
orientata. Riforma
gregoriana e iconografia, a cura di L. Speciale, Jaca Book, Milano 2001, p.
15. (36) Cit. in Toubert 2001, pp. 27-28. (37) Maldonado 1992, p. 24. (38) S. Th. II, II, 110, a.3, dove si cita
proprio il De mendacio agostiniano
dove la menzogna per essere tale decipit
proximum. (39) Cfr. mend. 5,7, che prosegue
così: omne autem figurate aut factum aut
dictum hoc enuntiat quod significat eis quibus intelligendum prolatum est. |