Etica & Politica / Ethics & Politics, 2003,

http://www.units.it/~dipfilo/etica_e_politica/2003_1/3_varia.htm

 

 

 

L’uomo e la nascita della società: mythoi antropologici e sociogonici all’interno dei dialoghi di Platone (*)

 

Marco Mazzoni

 

Dipartimento di Filosofia, Università degli Studi di Pavia

 

 

Introduzione: il linguaggio mitico e la Kulturgeschichte

 

I capitoli che seguono intendono analizzare i più significativi miti platonici che descrivono, da una parte, la situazione originaria del genere umano, dall’altra, la genesi e le fasi embrionali dell’aggregazione sociale e politica. Platone, infatti, in diversi dialoghi come il Politico, il Protagora, la Repubblica, il Timeo, il Crizia e le Leggi, si serve del linguaggio mitologico per rappresentare non solo le caratteristiche antropologiche e le condizioni di vita dei “primi uomini”, ma anche le particolari modalità attraverso cui essi stessi hanno dato anticamente vita alle prime forme di organizzazione sociale e alle prime realizzazioni tecniche e culturali.

Il mythos (1), infatti, l’arcaica ma insuperata forma di trasmissione del sapere e dei precetti morali, per le sue stesse caratteristiche si rivela l’unico strumento adeguato a ricostruire, anche se in maniera soltanto approssimativa (eikos), eventi originari come questi, verosimilmente accaduti in un tempo molto remoto e separato dall’epoca attuale da una serie di catastrofi naturali che ciclicamente colpiscono il genere umano, cancellando pressoché tutte le forme di vita e tutte le tracce di civiltà. A causa dell’analfabetismo (cfr. lo agrammatoi di Criti. 109 d e di Tim. 23 a) dei pochi uomini che a questi cataclismi di volta in volta riescono a sopravvivere e dell’inevitabile perdita di ogni testimonianza diretta e attendibile, gli eventi originari della “storia” dell’umanità, per la loro stessa oscurità e indeterminazione, si rivelano del tutto al di fuori della portata del discorso razionale (logos) e dell’analisi oggettiva, costringendo così Platone a ricorrere all’unica forma di discorso in grado di rappresentare in maniera soddisfacente gli accadimenti di quel lontano passato: “E così, in quei miti (mythologias) che ora trattiamo, dato che non ci è concesso di sapere come andarono veramente (talethes) le cose nell’antichità (peri ton palaion), se ricalcassimo la finzione (to pseudos) il più possibile sulla verità (to alethei), non faremmo in tal modo qualcosa di utile (chresimon)?” (Resp. II, 382 c-d; ma cfr. anche Criti. 107 b sgg.).

Gli avvenimenti stessi di cui parlano i diversi miti - le antiche vicende che hanno come protagonisti gli uomini e gli dèi -, infatti, oltre che collocati in un tempo remoto posto ai confini tra la completa dimenticanza e la piena conoscenza, appartengono alla categoria ontologica del divenire (gignesthai, cfr. Tim. 59 c-d), condizione intermedia (metaxu) tra il non essere (me einai) e l’essere nella sua pienezza (to pantelos on, Resp. V, 477 a sgg.). Sospesi a metà tra il mondo immutabile e perfettamente conoscibile (pantelos gnoston) delle Idee e la sfera assolutamente inconoscibile del non essere (me on medame pante agnoston) (2), tali eventi possono essere conosciuti soltanto in maniera ipotetica e congetturale, attraverso quella forma di doxa che la Repubblica (cfr. VI, 509 d – 510 a) e il Timeo (cfr. eikota mythos di 29 d) chiamano eikasia. Forma di conoscenza intermedia tra l’assoluta ignoranza (agnosia) e quel sapere scientifico (episteme) che sancisce la supremazia intellettuale del filosofo, il mito, in quanto parte integrante del genere letterario dell’imitazione (mimesis) (3), risulta così essere l’unico mezzo adeguato a raffigurare gli eventi originari della “storia dell’umanità” (Kulturgeschichte), sottraendo così questi ultimi dal pericolo di una loro totale dimenticanza.

I mythoi a cui Platone dà forma nei diversi dialoghi, tuttavia, benché finalizzati alla ricostruzione approssimativa delle vicende dei “primi uomini”, in realtà, attraverso il grande potere raffigurativo della forma mitica stessa, assumono una serie di significati irriducibili alla sola “analisi storica” e “archeologica”, dando vita ad orizzonti di senso dal valore teorico ed estetico autonomo, ma pur sempre intimamente legati al contesto in cui ciascun mito è inserito. Non privi di riferimenti alle modalità attraverso cui il mondo umano ha avuto origine e si è sviluppato, ma sprovvisti di quel rigore scientifico e di quel senso di oggettività che contraddistingue la moderna nozione di storia, tali miti risultano così leggibili secondo due prospettive diverse e complementari, l’una diacronica - che mette in evidenza il cambiamento nel tempo - e l’altra sincronica - che sottolinea il valore universale e atemporale della costruzione logico-normativa (4).

La polivocità e la versatilità del mito, discorso verosimile né rigorosamente vero (alethes) né completamente falso (pseudos, cfr. Resp. II, 377 a; Leg. II, 663 d-e), fornisce così a Platone la possibilità di interpretare e riorganizzare quell’immenso patrimonio di sapere e saggezza che per secoli era stato tramandato oralmente e, soltanto a partire da Omero ed Esiodo, anche attraverso il potente veicolo della scrittura (5). Egli, infatti, consapevole come nessuno dei suoi contemporanei non solo della capacità persuasiva e coinvolgente (cfr. il kelesomen di Leg. VIII, 840 c), ma anche del potenziale euristico del mito, utilizza più volte nei suoi dialoghi questa forma di esposizione e di conoscenza, affidando ad essa la soluzione provvisoria (cfr. per es. il problema dell’insegnabilità della virtù in Prot. 320 c sgg. o della divisione nelle diverse classi sociali in Resp. III, 414 d sgg.) o definitiva (cfr. per es. le considerazioni escatologiche in Phaed. 113 d sgg., Gorg. 523 a sgg., Resp. X, 614 b sgg.) di rilevanti problemi gnoseologici, metafisici ed etici.

Il mito, infatti, discorso immaginifico ma dotato di verosimiglianza, per nulla in opposizione al discorso dialettico-razionale (6), sospendendo e sostituendo quest’ultimo, lo integra e lo arricchisce, utilizzando una strada diversa (cfr. la heteran odon di Pol. 268 d) al fine di risolvere complessi problemi concernenti sia la dimensione teorica che quella pratica. Affidandosi alla ricchezza evocativa e alla dynamis seduttiva del mythos, Platone dà così vita ad un esperimento teorico alternativo rispetto al consueto modo dialettico di procedere, caratterizzato sì dalla forma divertente (paidia) e rilassante che da sempre contraddistingue il linguaggio mitico, ma dotato, per quanto riguarda il suo contenuto, di quella stessa serietà (spoude) propria dell’argomentazione razionale (7) (cfr. Leg. II, 659 e – 660 a; X, 887 d). Facendo riferimento alla struttura e ai personaggi (Zeus, Atena, Efesto, Prometeo…) di quei racconti teogonici, cosmogonici e antropogonici che erano parte integrante della formazione di ogni giovane, il mito rappresenta così una potente forma di comunicazione, comprensibile non sono per le persone intellettualmente più dotate, ma anche per coloro che filosofi non sono; esso, infatti, senza mai mettere in discussione il valore euristico del discorso razionale, completa e rende maggiormente persuasiva l’analisi e la ricostruzione concettuale, integrando l’asetticità e la freddezza di quest’ultima attraverso la potenzialità espressiva del simbolo e la capacità raffigurativa della metafora. Attraverso il ricorso alla familiarità e al fascino della forma poetica e, allo stesso tempo, al potere icastico e senza tempo dell’immagine (8), Platone presenta così in maniera rapida (cfr. il tachy di Pol. 277 b) e coinvolgente una serie di possibili soluzioni a problemi concettualmente rilevanti ma difficili da risolvere in un tempo limitato, assicurandosi l’opportunità di portare avanti il discorso intrapreso e di rinviare ad un altro momento l’analisi dialettico-dimostrativa (didache).

Pericoloso nelle mani di poeti, retori, sofisti e di tutti coloro che non sono genuinamente filosofi a causa del suo potere incantatorio (9) (cfr. epodon mython di  Leg. X, 903 a), nelle sapienti mani del philosophos (cfr. Resp. II, 379 a) il mito diventa invece non solo un importante veicolo di trasmissione della conoscenza, ma anche un efficace mezzo per il condizionamento (peizein) del comportamento (10).

 

 

 I mythoi antropologici e sociogonici all’interno dei dialoghi platonici

 

Platone, come si è detto, in diversi dialoghi come il Politico, il Protagora, la Repubblica, il Timeo-Crizia e le Leggi, elabora una serie di mythoi che descrivono sia la situazione originaria del genere umano sia gli sforzi compiuti dagli uomini per dare vita alle prime forme di organizzazione sociale e politica. Un determinato numero di personaggi dialogici contraddistinti da una precisa e sempre diversa identità psicologica ed intellettuale - rispettivamente lo Straniero di Elea, Protagora, Socrate, Crizia, l’Ateniese -, infatti, espongono all’interno dei diversi dialoghi platonici qui considerati una serie di racconti mitici caratterizzati non solo dal loro grande fascino letterario, ma anche dal loro indipendente valore filosofico.

Ogni mito, del resto, sebbene strettamente connesso agli altri sulla base di numerose analogie sia dal punto di vista della struttura, sia da quello del contenuto, si dimostra una creazione artistica ed intellettuale autonoma, ma sempre indissolubilmente legata al contesto dialogico all’interno del quale ciascun mythos è inserito. Poiché introdotti allo scopo di fornire risposte e chiarimenti a problematiche ed interrogativi specifici, diventa così necessario, al fine di offrire una corretta analisi del loro significato, non sciogliere lo stretto legame esistente tra il racconto mitico e il quadro teorico in cui esso è collocato, ma, al contrario, esaminare caso per caso la funzione e il senso del primo in relazione al secondo e viceversa.

Ogni capitolo di questo lavoro, infatti, cerca di ricostruire le motivazioni che spingono Platone ad avvalersi della forma e del linguaggio mitico, prendendo in considerazione le risposte e le soluzioni che i diversi mythoi forniscono in relazione alle difficoltà e ai problemi teorici e pratici che ogni singolo dialogo affronta e, senza eliminare la veste mitica che li caratterizza, mettendo in evidenza la grande capacità espressiva ed euristica del mito stesso.

Nel Politico, per esempio, il lungo e complesso mito sulle due epoche cosmiche - l’età di Crono e l’età di Zeus - che contraddistinguono la “storia” dell’universo così come quella dell’uomo viene introdotto da Platone al fine di far progredire la ricerca sulla corretta definizione da attribuire al termine “politico”. Nel Protagora, la descrizione della genesi dell’aggregazione sociale ha come scopo primario quello di gettare luce su un problema cruciale di carattere pedagogico e politico come quello dell’insegnabilità o meno della virtù (arete). Nella Repubblica, l’indagine intorno alle modalità attraverso cui la prima forma di organizzazione politica (prote polis) ha origine, in modo del tutto simile al Politico, risulta finalizzata all’individuazione della corretta definizione di un concetto che, in questo specifico caso, si identifica con quello di giustizia (to dikaion). Il lungo discorso mitico sull’antica Atene che occupa la prima parte del Timeo e la totalità del Crizia, invece, ha lo scopo dichiarato di mettere in evidenza il comportamento pratico (en tois ergois praxeis) della kallipolis descritta nella Repubblica che, in questo ultimo dialogo, era stata delineata solo in via teorica. Nelle Leggi, per concludere, il discorso platonico sulle prime forme di organizzazione socio-politiche esercita, nella sua caratteristica forma storico-mitologica, una funzione introduttiva nei confronti del momento teorico cruciale della fondazione della nuova colonia cretese.

 

Ogni mythos, benché inserito in un particolare contesto dialogico e dotato di un significato autonomo, risulta tuttavia anche legato a tutti gli altri miti qui esaminati sulla base non solo delle evidenti affinità del contenuto, ma anche della presenza di una serie di elementi strutturali costanti come, ad esempio, la cornice storico-evolutiva che sempre accompagna la costruzione logico-normativa, il riferimento alla teoria della catastrofi naturali, l’accento posto sul ruolo esercitato dalla divinità... Per questo motivo, al di là di una loro analisi individuale che fa riferimento al quadro teorico in cui ogni singolo mythos è inserito, è possibile e interessante effettuare anche una lettura complessiva e sinottica dei diversi mythoi antropologici e sociogonici, in modo tale da mettere in evidenza non solo le differenze e l’estrema articolazione, ma anche le corrispondenze, l’unità di fondo e la complementarità che caratterizzano i vari discorsi di Platone sull’origine dell’organizzazione socio-politica.

La “scena primaria”, pertanto, seguendo una prospettiva di questo tipo, può venire identificata nel racconto del Politico (capitolo 1), nella descrizione cioè della mitica età di Crono, età in cui il cosmo, governato sapientemente dalla divinità, era armonicamente ordinato e la natura dispensava spontaneamente e generosamente i suoi frutti a tutti gli uomini. Questo idilliaco stato di cose, tuttavia, negativamente caratterizzato dall’assenza della dimensione politica e culturale, era destinato a venire meno, parallelamente alla fine del governo della divinità sul mondo, lasciando così l’uomo – secondo quanto afferma anche il mythos di Protagora nell’omonimo dialogo platonico (cap. 2) – solo e indifeso, costretto a procurarsi di che vivere attraverso grandi fatiche ed esposto sia alla voracità delle belve feroci sia alla forza distruttiva di epidemie e cataclismi. Nonostante questa situazione precaria, tuttavia, un esiguo numero di uomini di volta in volta riesce a sopravvivere e – così come testimonia l’inizio del Crizia e la parte iniziale del III libro delle Leggi –, grazie anche al prezioso aiuto da parte della divinità, a dar vita alle prime realizzazioni tecniche e alle prime forme di aggregazione sociale.

Ma in che modo vengono alla luce questi originari esempi di organizzazione politica? In modo innaturale come sostiene Glaucone nel secondo libro della Repubblica (cap. 3) che ravvisa nella nascita della polis il risultato di un calcolo utilitaristico, di  un patto di non aggressione reciproca che gli uomini stipulano a causa della loro paura e debolezza? oppure in modo naturale e incruento come afferma Socrate che, sempre nel secondo libro della Repubblica (cap. 3), individua l’arche dell’aggregazione sociale nel bisogno (chreia) e nella mancanza di autosufficienza economica che caratterizzano tutti gli individui?

La prima teoria, chiaramente ispirata alle concezioni di alcuni tra i più importanti sofisti - per es. Antifonte o lo stesso Protagora – e fondata sulla concezione antropologica in base alla quale gli uomini sono belve aggressive che lottano reciprocamente per sopraffarsi, benché mai direttamente confutata, viene messa provvisoriamente in disparte da Platone, probabilmente a causa del suo potenziale utilizzo in funzione oligarchica e filo-tirannica. Egli, al contrario, decide di sviluppare in modo organico la teoria “socratica” sull’origine della polis, caratterizzata dall’idea dell’originaria socievolezza da parte degli uomini e, per questo motivo, senza dubbio più adeguata alla legittimazione della concezione platonica della naturalità dell’articolazione del corpo sociale e del potere come servizio nell’interesse dell’intera comunità.

Per questi ed altri motivi, Platone, prendendo come punto di partenza la teoria antropologica espressa da Socrate, si impegna a descrivere, ancora una volta all’interno del secondo libro della Repubblica, le caratteristiche logico-strutturali della prima forma di aggregazione politica (prote polis), insistendo non solo sulla semplicità (euetheia) degli usi, dei costumi e dei generi di consumo dei suoi abitanti, ma anche sull’assenza di contese, invidie e ingiustizie che contraddistinguono i rapporti reciproci. Ancora priva di leggi, istituzioni politiche ed elementi culturali, tuttavia, essa è a più riprese criticata da Glaucone e Adimanto, i due fratelli di Platone che, sottolineando il suo sapore arcaico e  primitivistico, rendono necessario un ulteriore sviluppo di tale modello. Socrate introduce così una città del lusso (polis tryphosa) del tutto simile all’Atene periclea, caratterizzata sì dalla presenza di importanti elementi estetici e culturali, ma anche da quella pleonexia e da quella hybris che inevitabilmente procurano alle città guerre interne ed esterne (staseis kai polemoi), rendendo così a sua volta indispensabile la delineazione di un nuovo modello politico (kallipolis), contraddistinto questa volta non solo dalla presenza al suo interno della dimensione politica e culturale, ma anche da una situazione di pace, armonia, giustizia e collaborazione.

La possibilità della realizzazione pratica di questo paradigma sociale e politico, non negata, ma nemmeno affermata in maniera definitiva all’interno della stessa Repubblica, è presa in considerazione in altri due dialoghi come il Timeo e il Crizia (cap. 4); in essi, infatti, Platone, attraverso il riferimento all’antica e gloriosa storia di Atene, ribadisce, a distanza di un certo numero di anni, non solo la validità teorica del progetto di kallipolis, ma, a condizione di introdurre al suo interno alcuni significativi cambiamenti, anche la sua praticabilità.

Nelle Leggi (cap. 5), infine, l’ultima opera di Platone, tutti i temi qui presentati sono in modo significativo ridiscussi e ripresentati; egli, infatti, tornando ad interrogarsi sui primordi dell’umanità e sulle modalità che portano alla costituzione delle prime forme di aggregazione politica, riprende l’ipotesi strutturale dell’esistenza di una serie di catastrofi che ciclicamente colpisce l’umanità, cancellando quasi ogni forma di vita e traccia di civiltà. I pochi che ad esse riescono a sopravvivere, come già nel Crizia, anche qui rappresentano non solo le uniche fiammelle dell’umanità (smikra zopyra tou ton anthropon genous, Leg. III, 677 b), ma anche il nucleo originario da cui in maniera naturale e pacifica le prime forme comunitarie hanno origine. Caratterizzate dalla stessa euetheia e dalla medesima assenza della dimensione culturale che connotavano la prote polis della Repubblica, esse, tuttavia, a motivo dell’arete e dell’eusebeia dei suoi abitanti, si dimostrano un esempio di virtù del tutto irraggiungibile da parte degli uomini del V e del IV secolo, a causa del processo di corruzione morale che ha inevitabilmente colpito questi ultimi. Allo stesso modo, il governo di carattere divino che Crono aveva realizzato nel mondo umano in un tempo antichissimo, depurato da quegli elementi di ambiguità che ancora contraddistinguevano il mito dell’età dell’oro del Politico, diventa il modello politico di riferimento per la strutturazione di quella nuova polis a carattere teocratico che Platone proprio nelle Leggi delinea.

In questo modo, la riflessione sulle caratteristiche antropologiche dei “primi uomini” e sulle modalità che conducono alla genesi della polis, resa possibile dalle eccezionali potenzialità euristiche e conoscitive del mythos, diventa non solo un ottimo pretesto per una presa di posizione critica nei confronti della corruzione etica e politica degli uomini del V e del IV secolo, ma anche un’importante occasione per la delineazione delle basi di quel complesso progetto di riforma della società che accompagna tutto il pensiero e l’attività di Platone.

 


 

Le due età cosmiche e l’origine del genere umano: il mito del Politico

 

Platone, al fine di dimostrare l’inadeguatezza della definizione dell’uomo politico come “pastore di uomini”, elabora all’interno del Politico un lungo e complesso mythos che ricostruisce non solo la “storia” dell’universo (macrocosmo), ma anche quella degli esseri viventi (microcosmo).

Con la finalità di descrivere schematicamente l’evoluzione del kosmos, egli fa ricorso ad una “teoria ciclica binaria” che prevede l’eterno alternarsi di due epoche distinte - quella di Crono e quella di Zeus - intramezzate senza fine da una serie di drammatiche catastrofi che sconvolgono il mondo intero e i suoi abitanti. La mitica età di Crono, caratterizzata dal diretto controllo da parte della divinità sul moto di rivoluzione degli astri e sulla vita degli uomini, si rivela un momento favorevole per il genere umano, sebbene non nei termini nei quali essa veniva tradizionalmente descritta. L’età di Zeus, invece, in cui la divinità abbandona il cosmo e non si prende più cura delle specie viventi, è contraddistinta dalla difficoltà da parte dell’uomo di procurarsi le risorse necessarie alla propria sopravvivenza, immerso com’è in una natura ostile e popolata da belve aggressive.

Ma qual è il modo di vita degli uomini durante ciascuna di queste due epoche? In quale delle due essi sono maggiormente felici? E ancora: in che modo quegli uomini arrivano a scoprire le tecniche e a dare vita alle prime comunità politiche? Che ruolo ha in questo processo il sapere e, in particolare, la filosofia?

Per dare una risposta a questi interrogativi, mi sembra opportuno iniziare proprio con l’analisi del mito del Politico che, benché cronologicamente successivo ai mythoi del Protagora e della Repubblica (11), prende esplicitamente in considerazione le diverse fasi dell’evoluzione e dell’organizzazione del genere umano.

 

 

 La definizione dell’uomo politico

 

Il Politico, uno tra i dialoghi dell’ultima produzione di Platone (12), ha come tema fondamentale la ricerca della corretta definizione dell’uomo politico e la determinazione delle prerogative che il buon governante deve avere. Proprio per raggiungere tale finalità, Platone, in questo dialogo così come nel coevo Sofista, delinea ed applica un nuovo strumento teorico, il metodo dicotomico (13).

Grazie all’impiego del procedimento della divisione (diairesis), lo Straniero di Elea (14), il protagonista principale del dialogo, arriva a definire il politico come colui che, grazie ad un’autorevolezza autonomamente posseduta, svolge un ruolo direttivo (epitaktikon) sull’insieme degli uomini e che, comportandosi come il pastore con il suo gregge, fornisce loro un adeguato sostentamento (trophe, 267 a-c).

Tale definizione, tuttavia, parallelamente a quella della politica come “scienza dell’allevamento in comune degli uomini” (anthropon koinotrophiken epistemen, 267 d), benché scaturita dall’applicazione di una corretta metodologia, risulta per varie ragioni insoddisfacente (267 c-d). In primo luogo, infatti, lo stesso termine trophe che denota l’attività del politico è palesemente ambiguo: da una parte, esso indica la semplice somministrazione di cibo, funzione che nella polis viene rivendicata da una pluralità di figure (panettieri, commercianti, agricoltori), dall’altra, l’insieme delle pratiche finalizzate ad un corretto sviluppo fisico, di competenza del maestro di ginnastica e del medico. Tutte queste figure, a onor del vero, per il fatto stesso di prendersi cura della trophe non solo di tutti gli altri cittadini, ma anche degli uomini politici, si dimostrano maggiormente indicati dei governanti stessi ad essere definiti “pastori di uomini”: “Tutti i commercianti (emporoi), gli agricoltori (georgoi) e i panettieri (sitourgoi) e, oltre a costoro, i maestri di ginnastica (gymnastai) e il genere dei medici (hiatron genos), sai tu che tutti costoro in tutti i modi entrerebbero in polemica con i pastori di uomini (anthropina nomeusin), che abbiamo chiamati politici, forti dell’argomento che sono loro ad occuparsi dell’allevamento umano (tes trophes epimelountai tes anthropines): non solo quello degli uomini del gregge (agelaion anthropon), ma anche di quello degli stessi governanti (archonton auton)?” (267 e – 268 a). La definizione espressa dallo Straniero, pertanto, per sua stessa ammissione, si dimostra incapace di distinguere il politico da queste figure professionali che operano tutte – e molto spesso in competizione (amphisbetounton) – all’interno della polis (268 b-d).

Oltre a questa aporia poi, esiste un altro e decisivo fraintendimento a cui la definizione proposta dallo Straniero si presta: essa, infatti, individuando nella “koinotrophiken epistemen” (264 d) la principale qualità dell’uomo politico, finisce per assimilare quest’ultimo al pastore che si prende cura del suo gregge (267 b sgg.) come, del resto, aveva già suggerito Omero – che frequentemente aveva definito i suoi re “pastori di popoli” – e come ripeteva anche Senofonte - che nella Ciropedia aveva identificato il buon re con il pastore (I 1 e VIII 2, 14) -.

L’immagine del governante-pastore di uomini, tuttavia, del tutto fuori luogo nel contesto di una realtà politica complessa come quella della polis del V-IV secolo, evoca uno scenario molto diverso da quello della città attuale, quello di un passato molto lontano - l’età di Crono - in cui la divinità si occupava direttamente di tutti gli aspetti della vita del genere umano.

 

 

 Il grande mito del Politico: le due fasi cosmiche

 

Lo Straniero di Elea, per dimostrare l’inadeguatezza della definizione del politico da lui stesso espressa, decide di sospendere momentaneamente l’indagine dialettica e di percorrere una strada diversa, ricorrendo alla narrazione di un mythos: “Allora bisogna ripartire da un altro punto e procedere per una strada diversa (kata heteran odon poreuthenai tina) […]. Innestando a questo punto per certi versi un gioco (paidian). Infatti dobbiamo ricorrere a una buona porzione di un grande mito (megalou mythou) …” (268 d-e), non direttamente rintracciabile nel repertorio mitologico tradizionale, ma prodotto dell’originale  processo di unificazione e di rielaborazione di diversi episodi mitici che lo stesso Platone  nel Politico porta a compimento (268 e – 269 b): 

l’inversione del corso del sole e delle stelle durante la contesa tra Atreo

      e Tieste;

l’età dell’oro durante il regno di Crono;

la nascita degli uomini dalla terra;

il diluvio universale al tempo di Deucalione;

il dono della sapienza tecnica da parte di Prometeo agli uomini.

                               

La libera interpretazione e rielaborazione dell’immenso patrimonio mitologico tradizionale, del resto, era una prassi ampiamente consolidata nel mondo greco, come le stesse opere dei poeti epici e tragici - a partire da Omero fino ad arrivare ad Euripide - dimostrano. Essi, infatti, in assenza di una “storia sacra” dogmatica e codificata, appannaggio esclusivo di una casta di interpreti (15), avevano a più riprese modificato, in base alle loro esigenze di drammatizzazione, molte vicende tratte dal repertorio mitologico tradizionale, così che di uno stesso episodio mitico esistevano varie versioni, spesso molto diverse, se non addirittura in contraddizione tra loro (si pensi per es. alle differenti varianti del mito di Prometeo in Esiodo e in Eschilo). Nel Politico stesso, del resto, Socrate il Giovane, interpellato dallo Straniero di Elea sulla contesa tra Tieste ed Atreo, associa immediatamente questa vicenda all’episodio della pecora dal vello d’oro, dimenticandosi completamente dell’altro prodigio – l’inversione del corso degli astri – che la tradizione metteva in relazione alla loro lite (16).

 

 

STRA. Ebbene, sono avvenuti e ancora avverranno molti altri fenomeni prodigiosi tra quelli che si tramandano dall’antichità e quindi anche il prodigio (phasma) legato alla contesa (heris) tra Atreo e Tieste di cui si racconta. L’hai sentito, credo, e ti ricordi che cosa dicono che sia accaduto.

SOCR. IL G. Tu alludi forse al segno (semeion) costituito dall’agnello dal vello d’oro (chryses arnos).

STRA. Assolutamente no; mi riferisco invece allo scambio (tes metaboles) tra il tramontare e il sorgere del sole e degli altri astri; dicono che nel luogo donde ora sorgono allora tramontavano, mentre sorgevano dal luogo opposto, e che allora il dio, per testimoniare a favore di Atreo, cambiò la cosa nella configurazione attuale (epi to nyn schema), 268 e – 269 a).

 

 

Questi ed altri eventi prodigiosi, oggetto di un gran numero di racconti mitici indipendenti l’uno dall’altro, benché parzialmente dimenticati a causa dell’enorme quantità di tempo (chronou plethos) trascorso, secondo lo Straniero dipendono tutti dal medesimo evento, vale a dire dalla metabole cosmica ciclicamente provocata dall’azione della divinità (269 b-c): “A volte è il dio stesso (autos ho theos) ad accompagnare con la sua guida il cammino di questo nostro universo ruotando insieme con esso, a volte invece lo lascia libero, quando le rotazioni (periodoi) hanno ormai raggiunto la misura del tempo (metron chronou) che gli spetta, allora esso si mette a ruotare autonomamente in senso opposto (automaton), perché è un essere vivente (zoon on) e ha ricevuto intelligenza (phronesin) da chi lo ha congegnato all’inizio” (269 c-d).

 

Platone, attraverso queste affermazioni, mette in evidenza l’esistenza di due distinte fasi cosmiche che ciclicamente si alternano, l’una caratterizzata dalla direzione dell’universo da parte del dio, produttore (gennesas, 269 d) e artefice (demiourgos, 270 a) del mondo (17), l’altra dal procedere autonomo del cosmo, a seguito dell’abbandono della “barra del timone” (272 e) da parte della divinità stessa. Il dio, infatti, dopo che l’universo ha compiuto un determinato numero di rotazioni, è costretto, a causa di una necessità congenita (ex anankes emphyton), a rinunciare al governo del cosmo (269 d). Quest’ultimo, in questo modo, momentaneamente abbandonato dal suo pilota (ho kybernetes, 272 e), non può far altro che procedere in maniera autonoma, conservando il moto circolare uniforme (18) che la divinità gli aveva impresso, ma mutando la direzione della propria rotazione (anapalin ienai, 269 c) (19).

Tale metabole, che per un essere vivente (zoon on) dotato allo stesso tempo di intelligenza (phronesis) e di corpo (soma) rappresenta il minor cambiamento possibile rispetto al moto (269 e) che esso aveva sotto la guida della divinità (20), determina così non solo la fine del governo divino dell’universo, ma anche una radicale trasformazione della vita degli uomini e degli animali: “Bisogna ritenere che questo mutamento (metabole) è, tra tutti i rivolgimenti che si producono nel cielo, il rivolgimento più importante e più completo. […] E allora bisogna credere che in quel frangente vengono a prodursi anche i più significativi mutamenti (megistas metabolas) per noi che vi abitiamo dentro” (270 b-c).

Ma in che modo questa metabole cosmica produce un rilevante mutamento nell’esistenza degli esseri viventi? Come cambia il modo di vita del genere umano in seguito al passaggio dalla prima alla seconda fase cosmica? Come era organizzata l’esistenza degli uomini in ognuna di queste due fasi? E ancora: in quale delle due si può dire che essi fossero più felici?

Per rispondere a questi interrogativi, è necessario esaminare dettagliatamente le informazioni che lo Straniero fornisce a proposito di queste due fasi, facendo particolare attenzione alle indicazioni che riguardano il diverso modo di organizzazione della vita degli uomini.

 

 

 Il governo della divinità sul cosmo: l’età di Crono

 

Si tramanda che, in un’epoca molto remota, quando la divinità si prendeva direttamente cura del corso degli astri, la vita degli uomini si svolgesse secondo modalità assai diverse da quelle attuali; in quel tempo lontano, infatti, il governo sulle varie regioni di cui il cosmo era composto (ta tou kosmou mere) veniva esercitato da un certo numero di esseri di natura divina, i daimones; essi, infatti, dopo aver diviso le diverse specie animali in greggi, se ne prendevano scrupolosamente cura (epimeloumenoi oles) e, come i pastori dell’epoca presente, erano totalmente autosufficienti (autarkes) nel soddisfare tutte le esigenze degli animali a loro sottoposti (21) (271 d).

Anche la vita degli uomini, così come quella degli altri animali, era completamente regolata dai daimones, dal momento che essi provvedevano a procurare loro tutte le risorse necessarie alla sopravvivenza, rendendo in questo modo inutile l’esistenza di qualsivoglia forma di convivenza politica (politeia, 271 e). La natura, inoltre, a differenza dell’epoca attuale, non era ostile all’uomo, ma forniva spontaneamente (automatos) frutti in gran quantità (karpous aphthonous), senza bisogno che la terra fosse lavorata (272 a). Gli uomini di quei tempi non avevano nemmeno bisogno di difendersi dagli altri animali, poiché non esistevano né fiere selvatiche (agrioi) né il pericolo dell’allelofagia (271 e); non avevano bisogno neppure di costruirsi abitazioni, vestiti e suppellettili, perché il clima costantemente temperato permetteva loro di pascolare nudi (gymnos) e di dormire all’aperto su giacigli di foglie (eunas, 272 a).

Anche la nascita e la morte avvenivano in maniera opposta a quanto avviene oggi: gli uomini, infatti, non avevano necessità né di prendere moglie né di avere figli (272 a), poiché essi nascevano direttamente dalla terra (gegeneis) (22), venendo alla luce con i capelli canuti, per poi ringiovanire sempre di più fino a scomparire serenamente, facendo ritorno alla terra stessa (271 a-c). Per tutti questi motivi, non sussistendo alcun motivo di contesa, a quei tempi non avevano luogo né guerre né sedizioni (polemos te stasis, 271 e), ma gli uomini trascorrevano la loro esistenza in pace e tranquillità.

Questo modo di vita in apparenza felice, sebbene non immediatamente, viene associato dallo Straniero, ancora una volta attraverso un esplicito richiamo al repertorio mitico, alla leggendaria età di Crono (ho bios epi Kronou, 271 c, 272 b). Secondo la tradizione mitologica (23), Crono era il più giovane dei Titani, figlio di Urano e Gea (il cielo e la terra), marito di Rea e padre, tra gli altri, di Zeus; egli, dopo aver detronizzato il padre, aveva assunto il governo del cosmo, prima di essere a sua volta spodestato dal figlio Zeus. Il suo nome, a partire da Le Opere e i Giorni di Esiodo, è sempre associato ad un remoto e splendido periodo dell’umanità - l’età dell’oro (24) appunto -, contraddistinto, in linea con la descrizione operata dallo Straniero, sia dall’assenza di dolore e fatiche, sia dall’abbondante presenza di beni e risorse: “Prima una stirpe aurea (chryseon genos) di uomini mortali / fecero gli immortali che hanno le olimpie dimore. / Erano ai tempi di Crono (epi Kronou), quand’egli regnava nel cielo; / come dei vivevano, senza affanni nel cuore, / lungi e al riparo da pene e miseria, né per loro arrivava / la triste vecchiaia, ma sempre ugualmente forti di gambe e di braccia, / nei conviti gioivano, lontano da tutti i malanni; / morivano come vinti dal sonno, e ogni sorta di beni / c’era per loro; il suo frutto  (karpon) dava la fertile terra / senza lavoro (automate), ricco e abbondante (aphthonon), e loro, contenti, / sereni, si spartivano le loro opere in mezzo a beni infiniti, / ricchi di armenti, cari agli dei beati” (Esiodo, Le opere e i giorni, vv. 109-120, trad. di G. Arrighetti) (25).

 

Ma è poi così sicuro che il modo di vita tipico di questa età leggendaria fosse veramente più felice (eudaimonesteron) e desiderabile di quello attuale? Socrate il Giovane, chiamato in causa dallo Straniero, dichiara in maniera significativa di trovarsi in difficoltà e di non essere in grado di fornire una risposta a questo interrogativo, lasciando così allo Straniero stesso il compito di dirimere tale questione (272 b).

 

 

 L’età dell’oro e la sua ambiguità

 

“Ebbene, se i pupilli di Crono (trophimoi tou Kronou), che avevano tanto tempo libero (schole) e una capacità tale da consentire loro di intrattenersi a dialogare non solo con gli uomini ma anche con le bestie, si servivano di tutte queste opportunità in funzione della filosofia (epi philosophian), conversando con le bestie e tra loro e cercando di sapere da ogni natura se mai qualcuna, grazie ad una sua particolare capacità, avesse recepito una cosa che meglio di ogni altra fa guadagnare intelligenza, allora è facile decidere (eukriton) che gli uomini di allora erano molto, molto più felici di quelli di adesso. Se invece, mentre si riempivano fino al collo di cibo e di bevande, si raccontavano tra di loro e con le bestie miti del tipo di quelli che appunto anche adesso si raccontano sul loro conto, anche in questo caso – se almeno posso esprimere la mia opinione – è molto facile decidere (eukriton). Tuttavia lasciamo in sospesa la questione, fino a quando non compaia un informatore in grado di dirci in quali dei due modi gli uomini di allora indirizzavano i loro desideri circa il sapere e l’uso dei discorsi (peri te epistemon kai tes ton logon chreias, 272 b-d)”.

 

Lo Straniero, attraverso queste sue affermazioni, getta una pesante ombra sulla conclamata felicità dell’età dell’oro (26); né lui né Socrate, infatti, lodano immediatamente e appassionatamente il modo di vita degli uomini di quel tempo, ma si dichiarano disposti ad ammettere la sua positività solo dopo aver avuto la certezza che quegli uomini avessero impiegato tutto il loro tempo libero e le loro capacità alla coltivazione della filosofia. Tuttavia, la ben precisa scelta grammaticale di utilizzare un periodo ipotetico dell’irrealtà [protasi: ei… katechronto; apodosi: eukriton (sott. esti)…], unitamente al tono ironico di tutto il discorso, lascia intendere che lo Straniero ritenga più probabile che quegli uomini avessero trascorso il loro tempo a rimpinzarsi di cibi e bevande, piuttosto che ad occuparsi seriamente di filosofia. Da quanto risulta dalle sue parole, infatti, essi non si dedicavano ad alcuna attività speculativa, ma si limitavano a raccontarsi una serie di mythoi semi-seri che, del tutto privi di qualsiasi pretesa euristica, costituivano soltanto una forma di svago e di divertimento, ben lontana e distinta dalla serietà e dal rigore dell’indagine filosofica.

A quell’epoca, del resto, le condizioni del venire ad essere della ricerca filosofica stessa non potevano in alcun modo sussistere; individui che vivevano in perfetta comunione con la divinità e con la natura, infatti, non avevano alcun motivo né di cimentarsi in indagini speculative né di impegnarsi per una trasformazione della realtà esistente. La filosofia, al contrario, conformemente alla concezione platonica, ha origine solo nel momento in cui l’armonia originaria viene meno, lasciando il posto ad una situazione di scissione e di conflitto (per es. tra essere e apparire, tra scienza e opinione, tra essere e dover-essere); solo in tali circostanze, infatti, si avverte il bisogno della filosofia, l’unica forma di conoscenza in grado di ricomporre dialetticamente e di ridurre ad unità le istanze contrapposte, attraverso un lungo ed impegnativo sforzo teorico e pratico (27).

Al di là della filosofia poi, il quadro delineato dallo Straniero risulta del tutto privo sia di quella dimensione culturale ed estetica che distingue una popolazione primitiva da una civile, sia di qualsiasi forma di organizzazione politica; ai tempi di Crono, infatti, dal momento che i demoni-pastori si occupavano di tutti gli aspetti dell’esistenza degli uomini, non avevano ragione di esistere né città (poleis), né istituzioni politiche (politeiai), né leggi (nomoi), realtà che, da Solone in poi, rappresentavano non solo gli elementi costitutivi della vita collettiva, ma anche i tratti distintivi che differenziano l’uomo dagli altri animali (28). Aristotele, infatti, riflettendo sull’intera esperienza della polis, aveva affermato che solo in essa l’uomo realizza completamente la sua natura di animale politico (zoon politikon); egli, infatti, a differenza degli altri animali che vivono in gruppi, non è semplicemente un gregario, ma, in forza della sua razionalità, è in grado di valorizzare la propria esistenza. Al di fuori dell’orizzonte della polis, al contrario, sono possibili solo forme di esistenza disumane, come quelle delle bestie e degli dei (Pol. I, 2, 1253 a, 2 sgg.).

 

L’assenza di qualsiasi forma politica, estetica e culturale, pertanto, rende l’età dell’oro non tanto un modello auspicabile (29), quanto un “paradiso puramente animale” (30), nel quale gli uomini altro non fanno che “lasciarsi vivere” passivamente, soddisfacendo i desideri della parte più infima dell’anima – quella concupiscibile - e realizzando così solamente una felicità di basso profilo (31).

La mitica età dell’oro, pertanto, secondo il ritratto fornito dallo Straniero, non risulta essere così desiderabile come molti contemporanei di Platone sostenevano; proprio contro costoro è possibile che Platone stesso prendesse posizione, ridimensionando l’immagine dell’età di Crono come tempo massimamente felice ed ancora incontaminato dell’umanità. Diversi intellettuali del suo tempo (sofisti, retori, poeti…), interpreti di tendenze altrettanto eterogenee (cosmopolitiche, autarchiche…), infatti, vagheggiavano un ritorno al bios epi Kronou; tra questi, senza dubbio, spiccava la personalità di Antistene (32), allievo di Socrate al pari di Platone e rappresentante di un indirizzo radicale – sempre nato nell’ambito del socratismo – che si opponeva tenacemente agli sviluppi platonici. Egli, e in modo più sensazionalistico il cinico Diogene, criticavano le istituzioni politiche e i valori generalmente condivisi, in quanto esercitavano un influsso negativo e corruttore nel processo di acquisizione della virtù da parte del singolo individuo. Ravvisando nella polis un’istituzione contro natura (para physin), Antistene contrapponeva ad essa un modello di vita caratterizzato dall’autosufficienza, dall’indipendenza dalle convenzioni e dalla libertà - eleutheria epi kronou appunto -, favoleggiando un ritorno a quelle forme di convivenza pre-politiche, di cui Eracle e i Ciclopi (33) erano da sempre i simboli (cfr. Diogene Laerzio, VI, 17, 18, 73, 80).

Anche Diogene, fondatore della scuola cinica, riprendeva, portando ad un livello estremo, considerazioni di questo tipo; egli, infatti, nella Politeia, una delle opere – anche se con molti dubbi – a lui attribuite, criticava aspramente le convenzioni politiche e sociali, proponendo provocatoriamente la violazione di tutti i tradizionali “taboo”, come la promiscuità sessuale, l’incesto, il cannibalismo (34).

 

Platone, al contrario, a differenza di Antistene e di altri intellettuali, non sembra aspirare né all’eliminazione delle forme sociali e politiche tradizionali né tanto meno al ritorno all’età di Crono. A suo parere, infatti, i gravi errori commessi dalla classe dirigente del V secolo hanno sì causato una degenerazione della polis (cfr. Gorg. 518 c sgg.), ma non hanno messo in discussione la validità di essa quale modello-base di organizzazione dell’esistenza degli uomini; più che a un suo rifiuto o ad un suo superamento, pertanto, Platone pensa ad un complesso progetto di riforma generale della polis stessa, finalizzato a ripristinare al suo interno un ordine armonico e giusto - e quindi felice -, attraverso la creazione ed il mantenimento di un corretta gerarchia tra le sue diverse componenti (Resp. IV, 442 b sgg.).

Tuttavia, è possibile che anche Platone, pur non aderendo a posizioni politiche radicali, avesse avvertito in qualche modo quella sfiducia nella dimensione costitutiva dell’esperienza umana - la polis appunto - che aveva portato molti dei suoi contemporanei a guardare ad essa come a un’istituzione inadeguata e alienante e a ricercare al di fuori di essa una serie di modelli alternativi di convivenza (età dell’oro, stato di natura, idillio agreste, isola dei Beati…). Platone, del resto, spettatore in prima persona della sconfitta di Atene nella guerra del Peloponneso (427-404 a.C.) e della cruenta lotta civile tra la fazione democratica e quella oligarchica (411 a.C. e 404 a.C.), aveva vissuto quel clima di crisi dell’“ideologia della città (35)” che aveva ridimensionato tutte le certezze politiche, economiche e psicologiche dell’età periclea.

L’età dell’oro, se questa ipotesi è corretta, potrebbe essere introdotta da Platone anche al fine di contrapporre la sua serenità, pace ed armonia al disagio intellettuale e politico della polis del suo tempo, dilaniata non solo all’esterno, ma anche al suo interno dagli orrori delle guerre (polemoi) e delle lotte intestine (staseis). Secondo questa prospettiva, l’età di Crono, quale riferimento per una presa di distanza critica dalla realtà attuale, si trasformerebbe così da modello indesiderabile a paradigma positivo. Questo diverso modo di guardare ad essa, tuttavia, sebbene produca una sua parziale rivalutazione, non è comunque in grado di cancellare totalmente la sua congenita povertà di cultura e di valori, lasciando così intatte le tensioni dialettiche che la percorrono e la sua ambiguità di fondo.

Questo modo di presentare l’età dell’oro, più che ad Antistene o ai sofisti, avvicina Platone alla poesia comica e, in particolare, ad autori teatrali del calibro di Ferecrate, Aristofane, Eupoli, Cratete, Frinico, Cratino, Teleclide. Tutti questi commediografi, infatti, in alcune delle loro opere, anche se con accenti diversi, proiettano il desiderio di una città giusta, di un koinos bios ordinato e civile su modelli atopici e storicamente inattuali di convivenza, contrapponendoli così alla precarietà e all’infelicità della loro realtà storica. In commedie come i Persiani e i Selvaggi di Ferecrate, gli Uccelli e gli Acarnesi di Aristofane, l’Età dell’oro e le Capre di Eupoli, le Bestie di Cratete, il Solitario di Frinico etc. vengono rappresentati, secondo diverse modalità, sogni di evasione, paesi della cuccagna, idilli agresti, forme arcaiche di organizzazione sociale (36); tuttavia, le descrizioni bizzarre dell’archaios bios e il tono molto spesso ironico utilizzato da questi autori (37) indicano chiaramente come le loro rappresentazioni abbiano una finalità strettamente polemica nei confronti della decadenza politica - a causa dei demagoghi -, economica - per la crisi dell’imperialismo -, culturale - per l’influenza negativa dei sofisti -, religiosa - a causa del dilagante ateismo - della città del loro tempo (38). Le forme di convivenza che tali opere rappresentano, infatti, benché esaltate e vagheggiate da molti intellettuali, non sembrano mai costituire un’alternativa auspicabile rispetto alla dimensione della polis, così come testimoniano anche i Selvaggi di Ferecrate, commedia a cui lo stesso Platone, nel Protagora, significativamente fa riferimento.

Tale opera, rappresentata verosimilmente nel 420 a.C., descrive l’allontanamento dalla città da parte di un gruppo di ateniesi che, speranzosi di trovare quella pace e serenità che la loro terra gli nega, si recano in un luogo  lontano e remoto, abitato da una popolazione primitiva e selvaggia. Ben presto, tuttavia, le loro aspettative si dissolvono di fronte alla frugalità e alla povertà materiale e culturale di quel tipo di esistenza, lasciando il posto alla delusione e al rimpianto per il loro precedente modo di vita (cfr. fr. 9, 10, 13): “… l’uomo, che ti potrebbe sembrare il più ingiusto (adikotatos) tra quanti sono cresciuti nella società umana e in mezzo alle leggi, sarebbe invece giusto, addirittura un maestro di quest’arte, se si dovesse giudicarlo in confronto a uomini che non abbiano né educazione (paideia), né tribunali (dikasteria), né leggi (nomoi), né alcuna forma di coercizione (ananke) che li obblighi in ogni circostanza a curarsi della virtù, ma siano dei selvaggi (agrioi) proprio come quelli che il poeta Ferecrate mise in scena l’anno scorso in occasione delle Lenee. Non c’è dubbio che, trovandoti in mezzo a uomini di quel genere, come i misantropi di quel coro, saresti davvero felice di imbatterti in Euribate e Frinonda [individui dalla proverbiale empietà], e gemeresti rimpiangendo la malvagità (poneria) degli uomini di qui” (Prot. 327 c-e).

Per Ferecrate così come per Platone, pertanto, l’orizzonte della polis, nonostante i suoi elementi di decadenza e degenerazione, non risulta seriamente superabile o sostituibile da altre forme di organizzazione sociale, continuando così a costituire la sola dimensione in cui l’uomo possa condurre un’esistenza dignitosa e conforme alla sua essenza.

 

L’età dell’oro, in questo modo, con la sua abbondanza di risorse, ma anche con la sua assenza di elementi culturali e politici, costituisce una dimensione ambigua, sottoponibile a letture molto diverse tra loro. Ciò che resta comunque innegabile è che essa rappresenti un’epoca molto diversa e lontana da quella attuale. Per questo motivo, la definizione dell’uomo politico come “pastore di uomini” fornita dallo Straniero, più che errata, si rivela anacronistica, poiché non descrive le prerogative degli attuali governanti (uomini tra gli uomini), ma quelle dei demoni-pastori (divinità tra gli uomini) del tempo di Crono: “Interrogati sul re (basilea) e politico (politikon) che appartiene alla rotazione e al modo di generarsi attuali, noi abbiamo indicato il pastore del gregge umano di un tempo, quello che appartiene al ciclo inverso e perciò abbiamo indicato un dio invece che un mortale (theon anti thnetou): in questo senso siamo andati del tutto fuori strada” (274 e – 275 a; cfr. anche 275 b-c).

Tale definizione, tuttavia, benché incompleta e non sufficientemente chiara, contiene in sé anche una parte di verità (alethes); essa, infatti, dipingendo l’uomo politico come “colui che detiene un potere sul complesso della città” (275 a), contribuisce a chiarire quali siano le prerogative del governante, offrendo un’importante indicazione per il corretto proseguimento dell’indagine intrapresa (39) (275 a-b).          

Per fornire una definizione del politico maggiormente adeguata, pertanto, è necessario mettere tra parentesi l’età di Crono e la sua ambiguità di fondo e da essa risalire fino all’epoca attuale, ripercorrendo la serie di eventi cosmici e di drammatiche catastrofi naturali che separa l’età dell’oro dalla nostra.

 

 

 L’inversione cosmica e le catastrofi naturali: l’eterno ripetersi del ciclo

 

La divinità, come si è visto, dopo aver guidato direttamente il corso degli astri e la vita degli uomini, “quando le rotazioni (periodoi) hanno ormai raggiunto la misura del tempo (metron chronou) che gli spetta”, si mette da parte, lasciando che l’universo e l’uomo procedano in maniera indipendente (automaton, 269 c-d). Ha così inizio una nuova fase cosmica - l’età di Zeus (epi Dios) - che lo Straniero non esita a identificare con l’era in cui “ancora oggi noi viviamo” (272 b) (40).

Questo nuovo periodo si apre con una serie di mutamenti straordinari (metabolas megalas kai pollas) e drammatici; l’abbandono dell’universo da parte del dio e di tutte le divinità minori, infatti, non produce soltanto l’inversione del suo moto rotatorio, bensì importanti conseguenze per il mondo naturale e, in particolare, per la vita degli uomini (270 c). Innanzitutto, a seguito di questa metabole cosmica, come testimonia un’antichissima leggenda, si verifica un grande numero di terremoti (seismoi) e di distruzioni (phthorai), da cui solo un esiguo numero (oligon) di animali e di uomini riesce a sopravvivere (273 a). Il celebre episodio mitologico a cui Platone, in questa circostanza, implicitamente fa riferimento è quello del diluvio universale scatenato da Zeus contro l’empietà degli uomini, al quale sopravvivono solamente gli unici due individui giusti, Deucalione - figlio di Prometeo e Climene - e Pirra - sua moglie -, incaricati da Zeus stesso di ripopolare il mondo (cfr. Apollodoro, III, 8, 1; Ovidio, Metamorfosi I, 253-415; Pausania, VIII, 2, 1).

Un racconto di questo tipo, rielaborato e depurato dai suoi elementi più fantasiosi, ricorre più volte all’interno dell’opera platonica: Platone, infatti, in numerosi altri dialoghi (cfr. Timeo 22 c sgg.; Crizia 109 d sgg.; Leggi, III, 677 b sgg.), enuncia la teoria secondo la quale una serie di eventi catastrofici (terremoti, conflagrazioni, diluvi, inondazioni…), con cadenza periodica distrugge ogni forma di vita e ogni traccia di civiltà, cancellando così, allo stesso tempo, tutti i progressi - culturali, politici, tecnici…- fatti dal genere umano, insieme ai suoi elementi di decadenza e di dissoluzione. Questo ripetuto riferimento all’esistenza di una serie di cataclismi (41), al di là della sua ispirazione mitologica, nei diversi dialoghi viene così ad esercitare un’importante funzione teorica; attraverso questa concezione, infatti, Platone, posto di fronte all’impossibilità pratica di ricostruire in maniera oggettiva i più antichi avvenimenti del genere umano, risulta in grado di individuare una serie di punti di riferimento concreti all’interno del lungo percorso della “storia” dell’universo e dell’umanità, utilizzando la teoria del ciclico alternarsi delle catastrofi naturali per spiegare, allo stesso tempo, sia il processo di evoluzione sia quello di decadenza che contraddistinguono inevitabilmente lo svolgersi delle vicende umane.

Il Politico presenta un chiaro esempio di applicazione di questa strategia: secondo lo Straniero di Elea, infatti, dopo che il cosmo ha attraversato una fase di ordine e di apparente felicità sotto il diretto governo della divinità, una drammatica serie di catastrofi è destinata a colpire l’universo stesso e tutti i suoi abitanti. La violenza delle distruzioni associate a questi cataclismi, solo dopo aver provocato una grande strage tra gli animali e gli uomini, gradualmente si placa. Il cosmo, allo stesso modo, scosso dai grandi tumulti causati dall’inversione del suo moto (273 a), solo dopo un certo periodo di tempo, riprende ordinatamente la sua rotazione, assumendo il dominio (kratos) e la cura (epimeleia) di sé e di tutto ciò che si trova in sé. Esso, in un primo tempo (kat’archas), a piccola distanza dal ciclo precedente, esercita queste funzioni ricordando e imitando l’insegnamento (didache) della divinità stessa; alla fine (teleuton) però, compiute parecchie migliaia di rotazioni, l’universo, sempre più dimentico della sua origine divina, si lascia guidare unicamente dalla sua componente corporea (somatoeides, 273 b), sprofondando progressivamente nel “mare infinito della dissomiglianza” (ton tes anomoiotetos apeiron onta ponton) e del disordine (ataxia, anarmostia, 273 d).

A questo punto, la divinità, vedendo il cosmo in difficoltà (en aporiais) e temendo per una sua completa distruzione (diaphthora), decide di intervenire e di riprendere nuovamente la sua posizione di comando, ripristinando l’ordine e l’armonia originari: “per tale motivo, il dio (…) riprende posizione ai timoni del mondo e, rimesse in rotta le cose che si erano ammalate e scompaginate nella precedente rotazione autonoma del mondo, lo mette in ordine (kosmei) e lo raddrizza, rendendolo immortale (athanaton) ed esente da vecchiaia (ageron)” (273 e).

Il ritorno della divinità nel mondo sancisce così non soltanto la fine del regno di Zeus e dell’autogoverno dell’universo, ma anche l’avvento di una nuova età dell’oro (42). L’intero ciclo cosmico sembra, in questo modo, ricominciare da principio, per poi svolgersi, un numero infinito di volte, secondo le sue due tappe costitutive (269 d; 270 a) – l’età di Crono e l’età di Zeus (43) –, eternamente intramezzate da quella serie di catastrofi naturali che segna il passaggio da un’epoca a un’altra.

 

        

 La nascita delle tecniche e l’origine della civiltà: l’età di Zeus

 

 Per completare l’analisi del discorso dello Straniero, rimane ancora da esaminare quale fosse il modo di vita degli uomini durante l’età di Zeus. Che tipo di esistenza conducevano quei pochi uomini sopravissuti alle catastrofi naturali? Si trattava di una vita più o meno felice rispetto a quella dell’età di Crono? A quali espedienti facevano ricorso, una volta abbandonati dalla divinità, per sopravvivere?

 

La vita degli uomini, a seguito della metabole cosmica e delle catastrofi che ad essa sempre si accompagnano (273 d), aveva subito notevoli cambiamenti rispetto all’età precedente. Tali trasformazioni, secondo lo Straniero, avevano avuto luogo nel momento in cui i demoni-pastori che si occupavano di tutti gli aspetti della vita degli uomini, simultaneamente all’allontanamento dal cosmo da parte della divinità, avevano lasciato le diverse regioni a loro affidate, privandole così delle loro preziose attenzioni (272 e – 273 a). Le specie viventi, pertanto, abbandonate a se stesse, avevano dovuto assumersi tutta la responsabilità del proprio ciclo vitale e, in primo luogo, del concepimento (kyein) e della generazione (phyein). Uomini e animali, che nell’età di Crono nascevano direttamente dalla terra, in questa nuova epoca dovevano far ricorso all’unione sessuale per riprodursi; essi, inoltre, mentre prima venivano alla luce già canuti per poi ringiovanire progressivamente, ora, al contrario, invecchiavano e si indebolivano gradualmente, fino al momento della morte (274 a).

Gli uomini dell’epoca di Zeus poi, oltre a provvedere direttamente alla propria generazione, dovevano anche, tra grandi difficoltà, prendersi cura della loro nutrizione (trophe) e della loro protezione (274 c). La natura, infatti, da compagna generosa e benevola, si era trasformata in una realtà ostile, non più disposta a fornire spontaneamente (automaton) i suoi prodotti e sempre più popolata da animali che, invece di convivere pacificamente con gli uomini come durante l’età di Crono, si erano trasformati in fiere selvatiche (apagriothenton), pronte ad assalirli e a divorarli (274 b-c). Gli uomini, in questa situazione, completamente inermi (astheneis) e privi di protezione (aphylaktoi), non sapevano così né come procurarsi (porizesthai) il cibo né come difendersi dalle fiere; essi, inoltre, poiché in precedenza la necessità (chreia) non li aveva mai costretti, non conoscevano le tecniche (atechnoi) e non possedevano i mezzi (amechanoi) indispensabili alla propria sopravvivenza, rischiando così di estinguersi in maniera definitiva (274 b-c).

A questo punto la divinità, pur avendo abbandonato il mondo, aveva deciso di intervenire nuovamente, almeno nella misura necessaria a scongiurare il pericolo della scomparsa del genere umano; essa, infatti, non aveva nuovamente assunto il proprio ruolo direttivo nei confronti del cosmo, ma si era limitata a donare agli uomini i mezzi indispensabili alla loro sopravvivenza (274 c). Tra queste risorse, secondo lo Straniero - che si rifà ancora una volta alla tradizione mitologica - la più importante era senza dubbio quella rappresentata dal fuoco (pyr), l’elemento necessario sia per la cottura dei cibi sia per la lavorazione dei diversi materiali, risorsa che Prometeo, l’eroe civilizzatore per eccellenza (44), aveva provvidenzialmente donato agli uomini (274 c). Essi poi, oltre al fuoco, avevano ricevuto da Efesto e dalla sua compagna - Atena (cfr. Prot. 321 d-e) - anche il dono delle tecniche (technai) artigianali (metallurgia, tessitura etc.) e, infine, da altre imprecisate divinità (par’ allon) - probabilmente Demetra (cfr. Leg. VI, 782 b) -, le arti legate alla coltivazione della terra (cfr. stermata kai phyta, 274 c-d).

Dopo aver donato al genere umano queste tecniche e dopo avergli insegnato il corretto modo di utilizzarle (cfr. 274 c), la divinità aveva lasciato un’altra volta il mondo poiché, a questo punto, gli uomini erano perfettamente in grado di procurarsi il cibo e di difendersi in maniera autonoma.

Per tutte queste ragioni, è lecito ritenere che essi – e quindi anche gli uomini attuali che ancora vivono nell’età di Zeus – fossero superiori rispetto a quelli dell’epoca di Crono, dal momento che questi ultimi erano in possesso sì di abbondanti risorse, ma dediti ad una vita di tipo “animale”, dipendente sotto tutti gli aspetti dalla divinità e priva di qualsiasi tipo di conoscenza. Anche gli uomini dell’età di Zeus, a dire il vero, conducevano un’esistenza caratterizzata dall’assenza di qualsiasi dimensione culturale ed estetica; tuttavia, il possesso delle tecniche, oltre ad averli resi completamente autosufficienti e in grado di amministrarsi da soli (274 d), aveva posto anche le basi per un loro graduale perfezionamento e, quindi, per la nascita e lo sviluppo di forme di organizzazione culturali e sociali sempre più complesse (45): “E tutto ciò che ha concorso ad allestire il modo di vita degli uomini (anthropinon bion) è derivato da questi doni, giacché quando la cura da parte degli dei abbandonò gli uomini fu necessario che essi si amministrassero da soli e avessero cura di se stessi al pari del mondo nella sua totalità” (274 d).

Questa osservazione che, in modo significativo, chiude il racconto dello Straniero sembra suggerire l’idea che proprio la scoperta delle tecniche rappresenti per Platone il punto di partenza di quel lungo processo che ha condotto, in primo luogo, alla nascita della polis e alle attuali forme sociali e politiche e, in secondo luogo, alla costituzione del sapere filosofico. Ma come avviene tutto questo? Qual è il rapporto tra tecniche, polis e sapere filosofico?

Lo Straniero, in merito a queste questioni, non fornisce altre indicazioni, poiché il suo scopo non è mai stato quello di delineare una “genealogia della polis”, ma piuttosto quello di mostrare l’inadeguatezza della definizione del politico quale “pastore del gregge umano”. Il mythos da lui narrato, infatti, per sua stessa ammissione, è già andato molto al di là della sua iniziale finalità e non è lecito prolungarlo ulteriormente: “… per mettere in luce oltre che in fretta (tachy) anche in modo magnifico l’errore (amartema) contenuto nell’indagine precedente, convinti che per il re meriti scomodare grandi modelli (megala paradeigmata), abbiamo sollevato la straordinaria mole del mito (thaumaston onkon tou mythou) e siamo stati costretti a usarne una parte più grande del dovuto. Perciò abbiamo reso la dimostrazione piuttosto lunga e non abbiamo affatto dato compiutezza al mito” (277 b-c).

Altri personaggi, in altri dialoghi, come vedremo, avranno il compito di proseguire l’indagine portata avanti e poi interrotta dallo Straniero, cercando di dare una risposta soddisfacente a questi importanti interrogativi.

 


 

La nascita delle tecniche e l’origine della polis: il mito del Protagora

 

Il mythos narrato dal celebre sofista Protagora di Abdera (485 - 415 ca. a.C.) nel dialogo platonico che porta il suo nome, in modo significativo, sembra prendere inizio esattamente nel punto in cui il mito del Politico si era interrotto. Il racconto dello Straniero di Elea, infatti, benché lasciasse intendere una fondamentale relazione tra la scoperta delle tecniche e l’origine della polis, non ne chiariva i termini, lasciando aperti molti interrogativi.

Proprio Protagora, impegnato a confrontarsi con Socrate sul problema dell’insegnabilità della virtù, dà indirettamente una serie di interessanti risposte ai quesiti sollevati dal Politico, focalizzando l’attenzione sul ruolo e sull’importanza che le diverse tecniche - e, in particolare, la politike techne - rivestono per il genere umano. Egli, infatti, facendo ricorso al discorso mitico, prende posizione all’interno del dibattito – ampiamente diffuso tra il V e il IV secolo – sull’origine della società umana, esprimendo una serie di considerazioni che lo avvicinano, per alcuni aspetti, alla cultura sofistica e, per altri, al pensiero dell’atomista Democrito di Abdera.

Ma quali delle teorie espresse dal personaggio di Protagora rispecchiano fedelmente il pensiero del Protagora storico? Quali invece sono soltanto un’invenzione filosofico-letteraria di Platone? E ancora: qual è il reale rapporto delle dottrine espresse dal mythos protagoreo con il pensiero platonico?

Sebbene in maniera non definitiva, questa mia analisi intende fornire una risposta a questi e ad altri interrogativi, prendendo dettagliatamente in esame la teoria protagorea della Kulturgeschichte, in rapporto sia al Politico e alla Repubblica di Platone, sia ad altre importanti opere del V secolo.

 

 

 Il problema dell’insegnabilità della virtù

 

Il problema dell’insegnabilità della virtù, tema spesso ricorrente nei dialoghi platonici (cfr. per es. Menone 70 a sgg.), costituisce non solo il principale oggetto di discussione del Protagora (46), ma anche il pretesto per un serrato confronto con la cultura sofistica e, in particolare, con il nuovo metodo pedagogico da essa proposto e praticato.

Con il termine “sofisti” si intende indicare quel gruppo eterogeneo di intellettuali itineranti che, nella seconda parte del V secolo, era giunto ad Atene con l’intenzione di mettere a disposizione – dietro lauto compenso – la propria abilità e il proprio sapere a tutti quei giovani che aspiravano a ricoprire un ruolo di primo piano all’interno della città. Essi, infatti, si dichiaravano capaci di formare una nuova figura di uomo politico in grado, nel quadro della polis democratica, di indirizzare le masse e di influenzarne le decisioni attraverso il possesso dell’arte della persuasione, tecnica indispensabile per imporre il proprio punto di vista in ogni circostanza (47).

Proponendo una concezione della virtù (arete) non più come prerogativa ereditaria ed esclusiva di una classe da sempre destinata alla guida della città, ma come conoscenza tecnica trasmissibile e acquisibile da tutti – aristocratici e non –, i sofisti furono protagonisti di una rivoluzione culturale di grande portata; sotto questo profilo, la forma di insegnamento professata da Socrate, disinteressato maestro al centro di un circolo di giovani aristocratici, appare senza dubbio più tradizionale. E’ perciò comprensibile come l’attività dei sofisti, che non solo metteva in discussione le consuete forme di trasmissione del sapere, ma che intaccava anche le basi del privilegio politico, avesse potuto incontrare tanto un’opposizione accanita da parte degli intellettuali più conservatori - come per esempio Aristofane -, quanto un’entusiastica adesione da parte dei giovani più ambiziosi.

 

Al fascino esercitato dalla cultura sofistica non aveva potuto sottrarsi neppure un giovane benestante e dalle grandi doti naturali (Prot. 316 b-c) come Ippocrate; egli, infatti, secondo il racconto del Protagora, si era presentato già di buon’ora a casa di Socrate, insistendo perché questi lo accompagnasse presso l’abitazione di Callia, dove alcuni tra i più autorevoli sofisti - Ippia, Prodico e lo stesso Protagora - alloggiavano, impaziente com’era di assistere ad una dimostrazione pratica della loro abilità retorica (310 a – 311 a). Socrate, nonostante la sua diffidenza nei confronti dei sofisti e della loro arroganza intellettuale (48), solo dopo aver messo in guardia Ippocrate, aveva deciso di accettare la sua proposta, considerando l’incontro con questi presunti sapienti un’occasione importante per confrontarsi con il metodo e il contenuto del loro insegnamento (311 a – 314 c).

Egli, non appena venuto a colloquio con Protagora, non aveva esitato ad interrogarlo, chiedendogli quali vantaggi un giovane potesse trarre dalla sua frequentazione (318 a; d). Protagora, con molta prontezza, aveva risposto che la finalità del suo programma didattico era quella di formare buoni cittadini (poiein andras agathous politas), attraverso l’apprendimento dell’arte politica (politike techne, 319 a): “Oggetto (mathema) dell’insegnamento è la capacità di prendere decisioni accorte (euboulia) nelle questioni private – come possa cioè amministrare nel modo migliore la propria casa – e in quelle pubbliche – come possa cioè essere più idoneo a trattare gli affari dello stato con l’azione (prattein) e con la parola” (legein, 318 e – 319 a).

Socrate, a questo punto, adducendo diversi esempi tratti dalla prassi politica e pedagogica, aveva messo in dubbio il fatto che la virtù, e in particolar modo la virtù politica - oggetto privilegiato del programma didattico esposto da Protagora -, fosse insegnabile (ou didakton einai), invitando così il sofista a proporre argomenti di maggior valore a sostegno delle sue tesi (319 b – 320 c). Protagora, per raccogliere la sfida lanciata da Socrate e dimostrare la validità delle proprie affermazioni, ancor prima di far ricorso ad un’argomentazione di tipo razionale (logos), aveva preso la decisione di raccontare un mythos, considerando questa forma di discorso maggiormente gradevole:

 

“Preferite che io, come anziano che parla ai giovani (presbyteros neoterois), ve lo dimostri narrando un mito (mithon legon), oppure facendo un ragionamento (logo diexelthon)? […] Mi pare che sia più piacevole (chariesteron) narrarvi un mito (320 c).

 

Ancora una volta così, dopo lo Straniero di Elea, un altro importante personaggio platonico sceglie, al fine di sciogliere velocemente ed efficacemente un difficile nodo teorico, di far ricorso ad un mito che ricostruisce le prime fasi di vita del genere umano.

 

 

 Epimeteo e la sconsiderata distribuzione delle facoltà naturali: l’intervento di Prometeo

 

Secondo il racconto di Protagora, “vi fu un tempo (pote chronos) in cui gli dei (theoi) esistevano, ma non esistevano le specie mortali (thneta gene, 320 c)”; queste ultime, infatti, vennero alla luce solo in un secondo momento - una volta sopraggiunto il tempo predestinato per la loro nascita - ad opera degli stessi dei che “le modellarono dentro la terra (49), mescolando terra e fuoco e quanto con questi elementi si combina (kerannytai, 320 d)”. Poi, comportandosi come la divinità del Politico che aveva affidato la cura dei viventi ad una serie di demoni-pastori (Pol. 271 d), gli dei incaricarono (prosetaxan) Prometeo ed Epimeteo - entrambi figli di Iapeto e Climene - di prendersi cura e dare ordine (kosmesai) alle specie in procinto di venire alla luce, distribuendo (neimai) ad ognuna di esse le facoltà (dynameis) necessarie alla loro sopravvivenza (eis soterian, 320 d).

Epimeteo, il meno perspicace dei due fratelli (50), chiese ed ottenne da Prometeo il privilegio di provvedere da solo alla distribuzione delle varie dynameis; egli, pertanto, iniziò a spartire equamente tra le diverse specie forza, velocità, armi di difesa e di attacco, resistenza alle intemperie, grande o piccola prolificità e così via, facendo attenzione a prevenire sia la possibilità di una loro estinzione sia quella di un loro reciproco annientamento (allelophthoria). Epimeteo, tuttavia, non si era accorto di aver distribuito tutte le dynameis agli animali privi di ragione (ta aloga), dimenticandosi completamente degli uomini che, in questo modo, si trovavano nudi (gymnoi), con i piedi non protetti (anypodetoi), privi di copertura e di armi e, per queste ragioni, senza alcuna possibilità di sopravvivenza (320 d – 321 c).

La situazione del genere umano, a questo punto, era del tutto simile a quella descritta, nel Politico, dallo Straniero di Elea, all’inizio del ciclo di Zeus: anche qui gli uomini, infatti, subito dopo l’abbandono del mondo da parte della divinità, erano completamente inermi e privi di protezione e non sapevano né come procurarsi il cibo né come difendersi dalle fiere; essi, inoltre, poiché in precedenza la necessità non li aveva mai costretti, non conoscevano neppure le tecniche e non possedevano i mezzi indispensabili alla propria sopravvivenza, rischiando così di estinguersi in maniera definitiva (Pol. 274 a-c). Tale eventualità, tuttavia, tanto nel caso del Politico quanto in quello del Protagora, era stata scongiurata dal provvidenziale intervento del medesimo personaggio, vale a dire il titano Prometeo che, attraverso il furto del fuoco - didaskalos technes pases - perpetrato ai danni degli dei, aveva donato agli uomini tutte le risorse necessarie alla loro sopravvivenza (cfr. Prot. 321 c sgg.; Pol. 274 c).

Prometeo, unanimemente considerato dalla tradizione mitica come il benefattore dell’umanità, a dire il vero, è descritto da Esiodo come un personaggio ambiguo, che migliora sì la condizione dell’uomo attraverso il dono delle tecniche, ma che, con il suo furto, decreta anche la fine dell’età dell’oro, dell’epoca edenica caratterizzata sia dall’assenza di fatiche e sofferenze, sia dalla spontanea fecondità della terra (cfr. Le opere e i giorni, vv. 42-105). In Eschilo, invece, questa ambivalenza si dissolve completamente e Prometeo è descritto addirittura come il detentore di tutte le tecniche (pasai technai ek Prometheos) che, per “amore degli uomini”, garantisce ad essi - che all’inizio erano “come immagini in un sogno”, privi dei beni necessari alla sopravvivenza - tutti i benefici derivanti dalla conoscenza delle arti e dei mestieri (cfr. Prometeo incatenato, vv. 442 sgg.). Egli, attraverso il suo comportamento, oltre al benefattore per eccellenza dell’umanità, viene così a rappresentare anche il simbolo stesso del genere umano impegnato nel lungo e difficile cammino che va dalla condizione animale alla civiltà (51).

Un’immagine di Prometeo molto simile a quella eschilea è anche quella che emerge dal racconto di Protagora; secondo il sofista di Abdera, infatti, Prometeo, avvedutosi del grave errore commesso da Epimeteo e resosi conto che gli uomini - privi com’erano di qualsiasi mezzo - non avrebbero potuto sopravvivere, decise di intervenire a loro favore (321 c). Egli, per queste ragioni, stabilì di compiere un furto (kleptein) ai danni di Efesto ed Atena, sottraendo loro la sapienza tecnica (ten entechnon sophian) e l’elemento necessario alla sua fruizione, il fuoco (pyr), con l’intenzione di donare (doreitai) queste preziose risorse al genere umano (321 d). Prometeo riuscì con facilità a mettere a segno il colpo, penetrando di nascosto nell’officina di Efesto ed Atena (321 e), anche se, tuttavia, non ebbe la possibilità di raggiungere l’acropoli, dove Zeus e le sue due guardie - Kratos e Bia (cfr. Esiodo, Teogonia, vv. 385 sgg.) - custodivano scrupolosamente la sapienza politica (politike sophia, 321 d).

Punito in maniera brutale da Zeus per il furto commesso (322 a) (52), Prometeo, tuttavia, contribuì enormemente al miglioramento dell’esistenza dell’uomo, ora in possesso di abbondanti risorse vitali (euporia tou biou, 321 e – 322 a). La conoscenza tecnica, infatti, anche se ancora dissociata dal sapere politico, rese gli uomini in grado di costruire abitazioni (oikeseis), vestiti (esthetas), calzari (hypodeseis), coperte (stromnas) e di procurarsi il cibo attraverso la coltivazione della terra (322 a). Inoltre, i doni che Prometeo aveva fatto al genere umano istituirono una vera e propria parentela (syngeneia) degli uomini con gli dei e resero possibile - fatto unico tra gli esseri viventi (monon zoon) - sia la nascita della religione e del culto sia l’articolazione del linguaggio (322 a).

 

Il sapere tecnico, qui come nel Politico, sembrerebbe così rappresentare la condizione necessaria e sufficiente per la conservazione del genere umano e per la costituzione sia della vita associata (polis) sia delle prime forme culturali (religione, linguaggio). Tuttavia, il discorso di Protagora, a differenza di quello dello Straniero, non si conclude a questo punto, ma propone un’ulteriore serie di considerazioni che delineano uno scenario più complesso e alquanto diverso rispetto a quello prospettato dal mythos del Politico.

 

 

 L’intervento di Zeus e la nascita della polis

 

Il possesso della sapienza tecnica non aveva condotto, come poteva indurre a credere il racconto di Protagora, gli uomini a riunirsi in gruppi e a dar vita alle città (poleis ouk esan), dal momento che essi, secondo il sofista, continuavano a vivere isolati (okoun sporaden), in una condizione di assoluta inferiorità (pantache asthenesteroi) nei confronti degli altri animali, costantemente esposti ai loro micidiali attacchi (322 b; ma cfr. anche Pol. 274 b). La tecnica artigianale (demiourgike techne), infatti, benché fosse in grado di fornire loro un adeguato aiuto (ikane boethos) per il sostentamento (pros trophen), non poteva però contribuire a combattere e vincere le fiere, poiché gli uomini non conoscevano ancora l’arte bellica (polemike), che della tecnica politica (politike techne) rappresenta una parte (322 b). Essi, pertanto, per uscire da tale situazione, avevano sì deciso di unirsi (athroizesthai) e di fondare le prime città (ktizontes poleis), ma, ancora sprovvisti dell’arte politica, non erano in grado di convivere pacificamente. Ogni qualvolta si riunivano, infatti, essi finivano per commettere ingiustizie reciproche (edikoun allelous), dando così vita ad una dinamica conflittuale che metteva a repentaglio la vita di ciascuno. Per queste ragioni, gli uomini decisero di abbandonare la vita associata e di disperdersi nuovamente, esponendosi così ancora una volta agli assalti delle fiere (322 b).

Zeus, a questo punto, temendo che il genere umano andasse completamente distrutto (322 c), decise di intervenire, inviando Ermes tra gli uomini con il compito di distribuire loro rispetto e giustizia (aidos kai dike) (53), in modo tale sia da instaurare tra essi legami di amicizia e solidarietà (desmoi philias synagogoi) - mettendo così un freno alla loro aggressività - sia da porre le basi per una convivenza ordinata (poleon kosmoi, 322 c). Ermes, tuttavia, indeciso sul da farsi, chiese allo stesso Zeus in base a quale criterio dovesse distribuire aidos e dike: “Devo distribuirle nello stesso modo in cui sono state distribuite (nenementai) le tecniche? Queste sono state suddivise così: uno solo che possieda l’arte medica (iatriken) è sufficiente (ikanos) per molti profani (pollois idiotais), e lo stesso vale anche per gli altri artigiani (alloi demiourgoi). Devo dunque introdurre in questo modo tra gli uomini anche la giustizia e il rispetto, oppure devo dividerli tra tutti (epi pantas neimo)?” (322 c-d).

Zeus, senza esitazione, indicò che tutti dovessero essere partecipi (pantes metechonton) di aidos e dike, poiché nessuna forma di organizzazione politica avrebbe potuto nascere e conservarsi se soltanto pochi uomini avessero posseduto tali prerogative, come avviene per le altre tecniche. Zeus, pertanto, non solo rese ogni uomo partecipe di giustizia e rispetto - e quindi della virtù politica -, ma decretò anche che tutti coloro che ne fossero stati privi venissero uccisi (kteinein), in quanto causa di mali per la città (hos noson poleos, 322  d).

 

 

 Aidos e Dike: la superiorità della politica rispetto alle altre tecniche

 

Secondo Protagora, come si è visto, la “storia” dell’umanità si scandisce secondo tre momenti fondamentali che si succedono secondo una precisa sequenza cronologica:

                    a) la condizione naturale;

                    b) la scoperta delle tecniche artigianali;

                      c) l’acquisizione del sapere politico.

Ognuna di queste tre fasi risulta poi caratterizzata dall’intervento e dall’azione di un essere di natura sovraumana - rispettivamente, Epimeteo (a), Prometeo (b), Zeus (c) - che, di volta in volta, determina una diversa modalità di organizzazione della vita umana.

La prima fase descritta da Protagora (a), al di là della sua veste mitica (54), sottolinea in modo evidente l’insufficienza delle doti naturali ai fini della conservazione del genere umano; mentre l’ordine del mondo animale si realizza sulla base di un’equa e armonica distribuzione di una serie di doti fisico-organiche che si compensano e si integrano reciprocamente, la sopravvivenza del mondo umano non è garantita dal possesso di questo tipo di risorse.

Nemmeno le tecniche artigianali, tuttavia, che caratterizzano la seconda fase del racconto (b), sembrano in grado di assicurare la sopravvivenza agli uomini. Esse, come le doti naturali, non sono distribuite nella loro totalità a ciascun  individuo, ma ogni singolo possiede solamente una tecnica specifica, diversa e complementare rispetto a quelle degli altri uomini, in conformità ad una sorta di principio della divisione del lavoro: “uno solo che possieda l’arte medica è sufficiente per molti profani, e lo stesso vale anche per gli altri artigiani” (322 c). Anche la conoscenza tecnica, tuttavia, sebbene in grado di migliorare in modo parziale le condizioni di vita del genere umano, come le doti naturali, si rivela del tutto incapace sia di riunire gli uomini che vivono isolati in una sola comunità, sia di istituire tra essi una rete di scambi reciproci di servizi e di beni in eccedenza (55). Anche il possesso del sapere tecnico, pertanto, non si dimostra di per sé capace di superare né la condizione di individualismo e di isolamento, né la situazione di conflittualità caratteristiche dello “stato di natura” protagoreo. Senza una tecnica qualitativamente differente da quelle artigianali, infatti, ogni tentativo da parte degli uomini di dare vita a forme più complesse di aggregazione sociale – come ad esempio le poleis – è inevitabilmente destinato al fallimento (56) (cfr. 323 a; 324 d-e; 326 d).

Solo la tecnica politica (politike techne), infatti, nel corso della terza e ultima fase (c), risulta in grado sia di garantire una convivenza pacifica e ordinata sia di rendere più efficace la fruizione delle tecniche artigianali stesse, attraverso la creazione della polis, di quello spazio comune (koinon) capace di superare gli antagonismi tra i diversi gruppi (57). Tuttavia, affinché la comunità politica possa avere origine e conservarsi, è necessario che la virtù politica e le sue fondamentali componenti - aidos e dike, appunto - siano possedute da tutti gli appartenenti al gruppo umano, senza eccezione alcuna. Essa, infatti, pena la dissoluzione del genere umano stesso, a differenza delle altre tecniche, non è delegabile ad altri - ad una minoranza di individui capaci di impiegarla per l’utilità di tutti - ma deve essere posseduta ed esercitata da ciascun individuo in prima persona.

 

 

 La competenza generalizzata: Protagora e la democrazia ateniese

 

“E così, Socrate, per questo motivo gli ateniesi, come anche gli altri uomini, ritengono, quando il discorso verta sulla capacità di costruire (peri aretes tektonikes) o su qualche altra tecnica artigianale (demiourgikes), che a pochi (oligois) spetti di prendere parte alle deliberazioni (meteinai symboules), e se uno, che non sia compreso fra quei pochi, si mette a dar consigli, non lo permettono (ouk anechontai), come tu affermi - e a buon diritto (eikotos), affermo io -, quando invece si riuniscano per consultarsi sulla virtù politica (politikes aretes), che deve, di necessità, procedere interamente lungo il percorso della giustizia (dikaiosynes) e della saggezza (sophrosynes), è naturale che tollerino di ascoltare qualunque persona, nell’idea che è proprio di ognuno essere partecipe di questa virtù (tautes ge metechein tes aretes): non potrebbe altrimenti esistere città. Questa, Socrate, è la ragione” (322 e – 323 a).

 

Secondo Protagora, poiché tutti gli appartenenti al genere umano possiedono la tecnica politica, ciascuno di essi ha il diritto di prendere parte alle discussioni e alle deliberazioni che riguardano la polis. Attraverso queste considerazioni, come molti interpreti hanno giustamente rilevato (58), Protagora si rende interprete e portavoce dell’ideologia democratica; egli, infatti, ribadendo più volte il postulato della competenza generalizzata, fornisce una forte legittimazione all’assetto democratico caratteristico dell’Atene del V secolo. Il suo discorso, infatti, oltre ad esaltare la polis greca quale esito più alto del processo di civilizzazione, procura anche un importante fondamento teorico ad una prassi già da tempo consolidata ad Atene: la partecipazione generalizzata alla gestione degli affari pubblici (59). A partire da Solone, infatti, ad Atene si era verificato un progressivo allargamento del numero dei cittadini aventi diritto a prendere parte alle decisioni collettive, contemporaneamente ad un graduale restringimento delle prerogative e dei privilegi di quelle classi aristocratiche tradizionalmente impegnate nel governo della polis. Questo fenomeno di “democratizzazione” aveva poi raggiunto il suo culmine, nella seconda metà del V secolo, con Pericle, il quale aveva indirettamente favorito le classi più povere, suscitando inevitabilmente l’indignazione e le proteste sia da parte degli intellettuali più tradizionalisti (per es. Aristofane), sia da parte dei fautori del regime oligarchico (per es. Callicle e lo Pseudo-Senofonte ) (60).

Protagora, invece, legato a Pericle da un reciproco rapporto di stima e di amicizia (61), a differenza di molti suoi contemporanei, sembra non solo accettare il regime democratico, ma, come testimonia il mythos platonico, anche impegnarsi nel fornire ad esso una legittimazione teorica. Tale gesto, al di là del suo immediato significato politico, poteva avere, nelle intenzioni di Protagora, anche un’altra importante finalità: giustificare la necessità e il valore dell’impegno didattico ed intellettuale dei sofisti – e, quindi, in primo luogo di se stesso – nell’ambito della polis (62). Senza costituzione democratica, del resto, l’attività dei sofisti non avrebbe avuto né possibilità né ragione di esistere (63), poiché, in mancanza della partecipazione generalizzata alla gestione della polis, la virtù politica - l’oggetto principale del loro programma didattico -, anche se insegnabile, sarebbe risultata del tutto inutile. Al contrario, nella città democratica, sussistono tutte quelle condizioni che rendono possibile e decisiva l’attività pedagogica dei sofisti, attività che si identifica non tanto nell’insegnamento ex novo della virtù politica, quanto nella preparazione dei cittadini allo svolgimento dei principali compiti istituzionali, attraverso lo sviluppo e il perfezionamento di quell’abilità politica che ciascun individuo già possiede: “ma se vi è qualcuno che si distingua tra noi, anche di poco, nel fare avanzare nella virtù (probibasai eis areten), ci si deve accontentare. E io credo di essere uno di questi, e, più degli altri, di aiutare a diventare persone eccellenti, in modo degno del compenso che esigo e anche di uno maggiore, secondo la stima dello stesso discepolo” (328 a-b).

 

 

 Protagora di Abdera e il Protagora di Platone: l’autenticità del mythos

 

Molti elementi del mythos narrato da Protagora, come si è visto, sembrano rimandare allo stile di pensiero e alle dottrine del sofista di Abdera. Sulla base di queste analogie, molti studiosi hanno sostenuto che Platone, nell’ideazione di questo mito, abbia riprodotto fedelmente alcune teorie del Protagora storico, probabilmente contenute in una delle sue opere andate perdute (cfr. Diogene Laerzio, IX, 55), verosimilmente nel Peri tes en arche katastaseos (Intorno alla condizione originaria dell’umanità (64).

Tuttavia, la descrizione del passaggio degli uomini da una situazione primitiva alla nascita della civiltà, oltre a rappresentare l’oggetto del mythos e, con buona probabilità, del Peri tes en arche katastaseos di Protagora, costituiva un tema molto dibattuto dagli esponenti del movimento sofistico, così come testimoniano sia un frammento di Prodico di Ceo (DK 84 B 25), sia le affermazioni di uno dei sofisti più noti, Ippia di Elide che, nell’Ippia Maggiore, annovera le archaiologiai tra le sue principali occupazioni (Hipp. Ma. 285 d). Ma c’è di più. Esiste, infatti, un interessante passo di un altro sofista, l’Anonimo di Giamblico che, sebbene privo della cornice mitico-religiosa protagorea, descrive la condizione originaria dell’umanità secondo modalità per certi aspetti simili a quelle del mythos di Protagora. Come per il sofista di Abdera, infatti, anche per l’Anonimo gli uomini, benché in possesso delle risorse materiali indispensabili alla sopravvivenza, non risultano ancora in grado di dar vita all’aggregazione sociale, situazione quest’ultima realizzabile solamente in seguito all’istituzione delle leggi e della giustizia (65) (cfr. DK 89, 6.1).

La ricorrenza nell’opera di un altro sofista di una Kulturgeschichte simile a quella protagorea suggerisce a mio avviso che Platone, nella delineazione del mythos, non abbia voluto fare riferimento esclusivamente alle dottrine del Protagora storico, bensì, in maniera più generica, al movimento intellettuale - la sofistica, appunto - di cui egli costituiva una delle figure più rappresentative (66). Numerosi altri elementi del mythos, del resto - la grande capacità persuasiva che il personaggio di Protagora dimostra, il suo impegno nella legittimazione del governo democratico, la sua sollecitudine nella presentazione e nella giustificazione dell’attività dei sofisti -, non rimandano in maniera diretta al sofista di Abdera, ma piuttosto alle idee e alle posizioni proprie dell’ambiente sociale, politico e culturale al quale egli apparteneva.

E’ lecito supporre, pertanto, che Platone, qui come in altri casi, non si sia proposto di riprodurre con fedeltà storica e dossografica determinate concezioni di Protagora, ma che, in base alle proprie esigenze teoriche, si sia riservato la possibilità di modificare e rielaborare le concezioni del sofista di Abdera, vanificando così il tentativo degli interpreti di trovare sempre una perfetta corrispondenza tra personaggio dialogico e figura storica. Tuttavia, qui come nel Teeteto (cfr. 152 a sgg.), il processo di rielaborazione a cui Platone sottopone le teorie di Protagora non si dimostra totalmente indiscriminato, ma soggetto ad una precisa limitazione, l’obbedienza ad un vincolo di fedeltà che prevede la possibilità di riconoscere il personaggio dialogico da parte dei lettori del dialogo che avevano conosciuto direttamente o conservavano la memoria della figura storica.

Benché Platone non intendesse riprodurre in maniera dossografica le concezioni di Protagora, è tuttavia possibile che egli, nella delineazione del mythos, si sia ispirato a quello scritto Peri tes en arche katastaseos che, con buona probabilità, in linea con il contenuto del mito, ricostruiva il graduale sviluppo del genere umano a partire dalla sua condizione originaria. Tuttavia, a causa dell’impossibilità di conoscere in modo adeguato il contenuto di quest’opera, è impossibile stabilire una sua effettiva corrispondenza con il mito platonico, sebbene esso, sulla base dei frammenti delle opere di Protagora e delle testimonianze indirette, sembra sostanzialmente in linea con il pensiero del sofista (67). Fondamentalmente errata, al contrario, mi sembra la presa di posizione di quegli interpreti che considerano il mito di Protagora estraneo all’orizzonte concettuale del sofista, a causa della impossibilità di conciliare la sua nota dichiarazione di agnosticismo (cfr. DK 80 B 4) con l’importante ruolo che in tale racconto la divinità riveste (68). Come è stato giustamente sottolineato da molti studiosi (69), infatti, è perfettamente possibile che Protagora, senza contraddire il proprio agnosticismo e antropocentrismo (cfr. Theaet. 166 d), avesse dato al suo discorso un’impostazione mitico-religiosa allo scopo di renderlo sia maggiormente credibile e persuasivo - attraverso l’autorevolezza dei riferimenti religiosi -, sia comprensibile ad un numero più ampio di fruitori - attraverso la familiarità degli elementi mitologici -.

 

 

2.7  Protagora e Democrito

 

Una teoria sull’origine della civiltà per molti aspetti simile a quella di Protagora, sebbene priva della cornice mitico-religiosa protagorea, è riportata da una serie di fonti come Diodoro - che riassume a sua volta alcuni passi di Ecateo -, Tzetzes ed Ermippo. Questa Kulturgeschichte, che fino all’inizio del secolo scorso era considerata epicurea, è oggi quasi unanimemente attribuita all’atomista Democrito (70), filosofo e scienziato di Abdera. Anch’egli, pertanto, se questa attribuzione è corretta, deve essere annoverato nel numero di quegli intellettuali che, allo stesso modo di Protagora, Prodico (DK 84 B 25), Ippia (Hipp. Ma. 285 d), l’Anonimo di Giamblico (DK 89, 6.1), Empedocle (DK 31 A 72), Anassagora (DK 59 A I), il suo discepolo Archelao (DK 60 A I) (71), si erano interrogati sulle modalità che avevano condotto il genere umano dalla sua condizione originaria alla nascita della civiltà, delineando una teoria per molti aspetti simile a quella dello stesso Protagora (72).

Probabilmente Democrito, intorno a questi temi, aveva composto un’intera opera dal titolo Mikros Diakosmos (cfr. Diogene Laerzio, IX, 7, 39-40) che, secondo quanto è possibile ricostruire, conteneva una complessa teoria sulla storia delle origini e della formazione della civiltà umana, che precisava il posto e la funzione che il linguaggio, la religione e le tecniche avevano rivestito in ognuna delle fasi di questa “genealogia”. Abbandonando completamente la prospettiva pessimistico-regressiva di matrice esiodea e sviluppando una serie di linee presenti anche nelle opere dei naturalisti ionici, della scuola ippocratica e dei poeti tragici (73), Democrito aveva così delineato una Kulturgeschichte all’insegna dell’ottimismo e del progressivo miglioramento delle condizioni di vita da parte degli uomini, destinata a svolgere un ruolo paradigmatico nell’età antica (74).

Originariamente (ex arches), secondo Democrito, la vita degli uomini era priva di ordine e del tutto simile a quella degli animali (cfr. Diodoro, I, 8.1); essi, infatti - in linea con il mito del Politico e quello del Protagora (cfr. Pol. 274 b; Prot. 322 b) -, isolati e indifesi, soccombevano a causa dei violenti attacchi da parte delle fiere (cfr. I, 8.2). Il superamento di questa fase fu possibile solamente grazie all’insegnamento dell’utilità (hypo tou sumpherontos didaskomenous) e, soprattutto, della paura (phobos), che orientarono gli uomini non solo ad aiutarsi reciprocamente (allelois boethein), ma anche a riunirsi in gruppi sempre più numerosi (75) (cfr. I, 8.2).

In questa stessa fase poi, nacque anche la religione, generata dal timore per i fenomeni astronomici e atmosferici, che spinse gli uomini ad attribuire l’origine di questi eventi agli dei e a venerare la loro grande potenza (76) (cfr. Sesto Empirico, Contra Mathematicos, IX, 24). Oltre alla religione, inoltre, come per Protagora, in questo stesso periodo venne alla luce anche un altro importante prodotto culturale come il linguaggio, originato dall’acquisizione da parte degli uomini della capacità di articolare parole dotate di significato e di attribuire nomi convenzionali (tithentas symbola) agli oggetti (cfr. I,8.3).

Sebbene gli uomini, a differenza di quanto pensava Protagora, avessero già dato vita alle prime forme di organizzazione comunitaria e fossero già stati a conoscenza del linguaggio e della religione prima e indipendentemente dalla scoperta delle tecniche, tuttavia, la loro condizione continuava ad essere molto precaria; essi, infatti, senza il sapere tecnico e, pertanto, privi di vestiti e di abitazioni e incapaci di accumulare provviste, come per Protagora (cfr. Prot. 321 c- 322 a), erano destinati a morire (apollysthai) a causa delle intemperie e della fame (cfr. I,8.5-6). Solo in una fase successiva, gli uomini, ammaestrati dall’esperienza (peira), acquisirono la conoscenza del fuoco (pyr) e, con essa, la sapienza tecnica, migliorando così nettamente le loro condizioni di vita (cfr. I,8.7-8). Fu, infine, il bisogno (chreia) che, stimolando le capacità naturali dell’uomo, rese possibile “l’apprendimento di ogni cosa a quell’essere vivente ben dotato che ha per cooperatrici in ogni cosa le mani (cheiras), la ragione (logon) e la perspicacia dell’anima (psyches anchinoian, cfr. I,8.9)”, ponendo così le premesse per la nascita delle attuali forme di organizzazione politica, sociale e culturale (77).

 

 

 Protagora e Platone

 

Sebbene sia innegabile l’esistenza di una relazione tra la teoria sull’origine della civiltà di Protagora e quella di Democrito, risulta molto difficile avanzare ipotesi definitive sul loro rapporto, così come è problematico dimostrare la corrispondenza tra le dottrine espresse dal Protagora personaggio dialogico e quelle sostenute dal Protagora storico.

All’esatto opposto, invece, risulta piuttosto agevole affermare l’estraneità di alcune teorie protagoree (competenza generalizzata, legittimità del sistema democratico, indelegabilità della funzione politica etc.) rispetto al pensiero platonico (78). In primo luogo, totalmente incompatibile con le concezioni di Platone è l’idea del possesso del sapere politico da parte di tutti gli uomini, dal momento che egli, come emerge da molti dei suoi dialoghi (cfr. ad es. Resp. VI, 503 b-e; Pol. 311 a-b), si dimostra convinto che solo un numero molto limitato di individui possieda sia la competenza politica, sia le qualità etiche ed intellettuali necessarie al governo della polis, mentre la maggior parte degli uomini ne è del tutto priva e, quindi, inadatta all’esercizio di qualsiasi funzione politica. L’arte del governo, infatti, benché qualitativamente superiore alle altre tecniche, non si distingue da esse per la modalità della sua distribuzione; essa, infatti, a differenza di quanto pensava Protagora, è patrimonio di pochissimi individui che, allo stesso modo in cui i muratori costruiscono case per ogni cittadino e i contadini provvedono a nutrire l’intera collettività, la esercitano nell’interesse di tutta la comunità (Resp. IV, 428 e – 429 a).

E’ pertanto inammissibile che tutti gli uomini abbiano diritto a prendere parte alle decisioni comuni, così come Socrate, nel Protagora, nella parte immediatamente precedente alla narrazione del mythos, lascia intendere, mettendo in discussione il principio protagoreo della competenza generalizzata, presupposto fondamentale della democrazia ateniese: “Quando si debba deliberare sul modo di condurre gli affari della città, indifferentemente si leva a dare il suo consiglio un costruttore (tekton), un fabbro (chalkeus), un calzolaio (skytotomos), un commerciante (emporos), un marinaio (naukleros), un ricco (plousios), un povero (penes), chi è di nobile nascita (gennaios) e chi no lo è (agennes), e nessuno muove loro dei rimproveri […] perché cercano di dare consigli (symbouleuein) senza preparazione alcuna e senza aver avuto alcun maestro (Prot. 319 c-d)”.

La democrazia, pertanto, il sistema costituzionale che prevede la partecipazione di un ampio numero di cittadini alla gestione degli affari pubblici, non può che costituire una forma di governo totalmente negativa, anzi, la peggiore in assoluto dopo la tirannide: essa, infatti, affidando le decisioni collettive ad individui del tutto privi di capacità, è destinata a trasformarsi in una sorta di anarchia, caratterizzata da una libertà indiscriminata e da una totale mancanza di rispetto per ogni regola (79) (cfr. Resp. VIII, 557 b sgg.; Leg. III, 701 a-d). Senza dubbio migliore, secondo Platone, è, al contrario, un governo che, per quanto riguarda il suo assetto sociale, rimanga fondamentalmente aristocratico (80) (Resp. IV, 445 d), composto da coloro che, dopo un lungo processo di educazione e di selezione, si siano dimostrati dotati di eccezionali capacità intellettuali, psicologiche ed etiche (IV, 412 b sgg.; VII, 535 a sgg.; Leg. XII, 968 c sgg.). Solo il possesso di queste straordinarie qualità, infatti, è in grado di garantire sia un esercizio del potere nell’interesse dell’intera comunità, sia una gestione della polis estremamente assennata ed equilibrata (Resp. IV, 419 c sgg.), obbiettivi questi ultimi del tutto irraggiungibili per qualsiasi forma democratica di governo.

 

Considerazioni di questo tipo dimostrano così non solo come Platone prendesse nettamente le distanze dal governo democratico e dai suoi principi costitutivi, ma anche - in modo rilevante per la mia analisi - come egli non potesse condividere una genealogia della polis come quella espressa dal personaggio di Protagora, costruita e finalizzata proprio alla legittimazione del regime democratico e alla giustificazione del suo presupposto fondamentale, la competenza generalizzata.

Ma allora, se le concezioni di Platone sul tema della Kulturgeschichte non corrispondono a quelle di Protagora, quali sono le teorie platoniche sul processo che dalla scoperta delle tecniche ha condotto alla nascita della polis?

Cercherò di dare una risposta adeguata a questo interrogativo analizzando alcuni fondamentali passi tratti, in primo luogo, dal secondo libro della Repubblica (cap. 3) e, in un secondo tempo, dal terzo libro delle Leggi (cap. 5), brani nei quali Platone fornisce un quadro della nascita della città piuttosto diverso rispetto a quello che emerge dal mythos di Protagora.

 


 

Due modelli contrapposti sull’origine della polis: il II libro della Repubblica

 

Platone, nella Repubblica, ritorna ad interrogarsi sulle condizioni che rendono possibile la nascita della polis. Egli, infatti, nel tentativo di determinare la corretta definizione del concetto di giustizia, decide di prendere in considerazione il processo – di ordine più logico che storico – che dalla condizione primigenia dell’umanità conduce alla genesi della polis. Platone, in questo modo, si trova costretto a confrontarsi con una serie di interrogativi di carattere antropologico e “politico” che, tra il V e il IV secolo, avevano dato luogo ad un acceso dibattito: l’uomo è per natura una belva aggressiva che tenta senza interruzione di sopraffare i suoi simili? oppure è un animale sociale, spontaneamente vocato ad un’esistenza comunitaria? in che modo queste sue caratteristiche antropologiche condizionano il processo che porta alla nascita della città? quale ruolo rivestono le tecniche in questa dinamica? come erano organizzate le prime forme di aggregazione politica? possono queste essere considerate modelli positivi o meno?  

Il II libro della Repubblica, attraverso un procedimento di tipo dialettico, tenta di dare una risposta a questa serie di quesiti, analizzando non una, ma due teorie - l’una espressa da Glaucone, l’altra da Socrate -, per molti aspetti contrapposte e in competizione tra loro, sull’origine della polis. Solo un’indagine di questo tipo, infatti, benché piuttosto lunga e complessa, si dimostra in grado di evidenziare la vera origine e natura del concetto di giustizia.

 

 

 Il problema della definizione della giustizia

 

Il tema principale del I libro della Repubblica (81) consiste nel tentativo di definire in maniera adeguata il concetto di giustizia (to dikaion). Tutti gli sforzi in tal senso, tuttavia, risultano vani, poiché le definizioni proposte dai diversi interlocutori di Socrate si rivelano o inadeguate e concettualmente superficiali (Cefalo e Polemarco) o ben argomentate ma inaccettabili (Trasimaco e Clitofonte). Socrate, da parte sua, ha sì buon gioco nel confutare le definizioni di giustizia proposte da Cefalo e Polemarco - entrambi portavoce dei valori etici tradizionali -, ma si dimostra del tutto incapace di fronteggiare le tesi di Trasimaco, rappresentante del radicalismo etico–politico caratteristico del pensiero sofistico. Quest’ultimo, infatti, con un grande rigore argomentativo, sostiene la tesi secondo cui “la giustizia (to dikaion) non è altro che l’utile del più forte (to kreittonos xympheron, 338 c)” e che, pertanto, “la giustizia (dikaiosyne) ed il giusto sono in realtà un bene altrui (allotrion agathon) – l’utile di chi è più forte e ha il potere (archontos) -, ma invece un danno proprio (oikeia blabe) di chi obbedisce (peithomenou) ed è asservito (hyperetountos); al contrario, l’ingiustizia s’impone (archei) su chi è veramente ingenuo (euethikon) e giusto (82)” (343 c sgg.).

Il primo libro della Repubblica si chiude così con un’impasse filosofica (83), testimoniata sia dall’imbarazzo di Socrate di fronte alla forza retorica e al potenziale eversivo delle teorie trasimachee, sia dalla sua stessa dichiarazione di ignorare quale sia la corretta definizione di giustizia (354 b-c).

E’ a questo punto che Glaucone, fratello di Platone, all’inizio del secondo libro, decide di prendere la parola e di convincere Socrate a continuare la discussione, stimolandolo a confutare le tesi di Trasimaco e a fornire una diversa definizione del concetto di giustizia (II, 357 a sgg.). Egli, infatti, rappresentante, insieme al fratello Adimanto, di quella parte buona dell'aristocrazia (84) che, pur essendo notevolmente affascinata dalle teorie oligarchico-sofistiche, garantisce la propria fedeltà ai valori etico-politici tradizionali, desidera sentire da Socrate la dimostrazione definitiva della preferibilità della giustizia rispetto all’ingiustizia (358 d). Pertanto, a tale scopo, egli decide di sostenere e portare alle estreme conseguenze le affermazioni immoralistiche di stampo trasimacheo (85), in modo da rendere la confutazione socratica maggiormente completa: “E’ vero, Socrate, che io non la penso così, pure sono dubbioso (aporo), perché mi sento rintronare le orecchie delle parole di Trasimaco e di innumerevoli altri, mentre non ho ancora sentito dire della giustizia, come vorrei io, che è migliore (ameinon) dell’ingiustizia. E ora vorrei udire l’elogio (enkomiazomenon) della giustizia per se stessa (kath’ auto) e ho piena fiducia di poterlo ascoltare da te. Mi sforzerò quindi di cantare le lodi della vita ingiusta e così ti indicherò in che modo, a mia volta, voglio sentire da te il biasimo dell’ingiustizia e la lode della giustizia (adikian men psegontos, dikaiosyne de epainountos, 358 c-d)”.

Glaucone, pertanto, per portare a termine questo compito nel migliore dei modi, si impegna a fondare le tesi di Trasimaco in maniera più solida, in primo luogo dimostrando la loro conformità alle opinioni generalmente condivise (358 a), poi, in secondo luogo, procurando ad esse una forte legittimazione attraverso il riferimento alla condizione primigenia dell’umanità, lo “stato di natura”. Egli, infatti, percorrendo un cammino a ritroso che riporta alla situazione originaria del genere umano, intende mostrare quali siano le caratteristiche che gli uomini possiedono per natura e quale ruolo queste svolgano nel processo che conduce alla nascita della giustizia e della società.

 

 

 Lo stato di natura di Glaucone: il bellum  omnium  contra omnes e il contratto sociale

 

“Dicono che commettere ingiustizia è per natura un bene e subirla un male (to men adikein agathon, to de adikeisthai kakon) e che v’è più male a subirla che bene a commetterla (86). Sicché quando gli uomini si fanno reciprocamente ingiustizia (allelous adikosi te kai adikontai) e sperimentano entrambe le condizioni, coloro che non sono capaci di evitare l’uno e di ottenere l’altro ritengono vantaggioso venire ad un accordo (synthesthai), di non farsi a vicenda ingiustizia (allelois met’adikein met’adikeisthai). E così hanno cominciato a porre leggi e a fare patti tra loro; e a ciò che è stabilito dalla legge hanno dato nome di legalità e giustizia (nomimon te kai dikaion). Questa è dunque per essi l’origine e l’essenza della giustizia (genesin te kai ousian dikaiosynes, 358 e – 359 a)”.

 

Secondo Glaucone, come risulta evidente da queste considerazioni, esiste uno “stato di natura”, una condizione che precede qualsiasi regolamentazione etica e politica, caratterizzata sia dalla naturale propensione dell’uomo all’ingiustizia (adikein) e alla violenza (bia), sia dalla dinamica universale di aggressività e di sopraffazione (pleonexia) che contraddistingue i rapporti tra gli uomini.

Che lo “stato di natura” fosse caratterizzato da un vero e proprio bellum omnium contra omnes non era certo opinione del solo Glaucone, ma anche di altri importanti esponenti del movimento sofistico, rappresentanti lucidi e rigorosi di quel radicalismo etico e politico ampiamente diffuso nell’Atene tra V e IV secolo. Posizioni di questo genere, del resto, riecheggiano, attraverso il filtro della rielaborazione platonica, anche all’interno di altri dialoghi di Platone, come ad esempio il Protagora e il Gorgia.

Nel Protagora, come si è visto, proprio il sofista di Abdera aveva indicato nell’adikein la condizione normale dello stato pre-politico (Prot. 322 b); nel Gorgia, Callicle, allo stesso modo, aveva più volte ribadito la perfetta naturalità di ingiustizia (adikein) e sopraffazione (pleonektein, Gorg. 483 a sgg.). Oltre ad essi, inoltre, anche Tucidide, a testimonianza della grande diffusione di questo tipo di considerazioni, aveva espresso la propria convinzione nell’esistenza di una natura umana immutabile, caratterizzata sia dall’ambizione (philotimia), sia dalla propensione alla prevaricazione (pleonexia, 3.82.2,8).

Tutte queste analisi, sottolineando in maniera unanime la naturale tendenza degli uomini all’ingiustizia e alla sopraffazione, esprimono una precisa concezione antropologica in base alla quale l’uomo si comporta come una belva aggressiva nei confronti dei propri simili, allo stesso modo dell’homo homini lupus di cui Hobbes, circa venti secoli più tardi, parla nel De Cive. L’uomo, in questo modo, invece che identificarsi con l’“animale politico” (zoon politikon) descritto da Aristotele (Pol. I, 2, 1253 a), appare più simile ad un leone che, come sostiene Callicle nel Gorgia, malvolentieri accetta di tenere a freno il proprio desiderio di affermazione e di dominio (Gorg. 483 b sgg.). Egli, ben lungi dall’essere caratterizzato da una naturale propensione all’aggregazione, sembra piuttosto prediligere un’esistenza “atomistica (87)”, isolata e indipendente dagli altri individui (cfr. Prot. 322 b), dal momento che ogni qualvolta viene a contatto con un suo simile dà avvio ad una dinamica di aggressività e distruzione che mette sempre a repentaglio la sua stessa incolumità.

Ciò che distoglie l’uomo dal commettere ingiustizie, secondo Glaucone, è solo un calcolo utilitaristico, il quale evidenzia che i benefici provenienti dal commettere torti e sopraffazioni sono inferiori ai danni che comporta subirli, inducendo così gli uomini a sottoscrivere un patto (syntheke) di non aggressione reciproca e di mutua rinuncia all’esercizio dell’adikein. Tale accordo si dimostra così il presupposto necessario all’instaurazione della giustizia (to dikaion), situazione assolutamente inesistente nello stato di natura, che viene così a coincidere con il principio “non commettere né subire torti”, “condizione intermedia (metaxy) tra quella migliore – che consiste nel commettere ingiustizia senza pagarne la pena – e quella peggiore – che consiste nel ricevere ingiustizia senza potersi vendicare (359 a)”.

Questo patto, oltre a sancire la nascita della giustizia, pone anche le basi per l’origine dell’aggregazione politica che, pertanto, a differenza da quanto emerge dal mythos di Protagora (Prot. 322 c sgg.), non risulta essere tanto un dono da parte della divinità, quanto il prodotto totalmente umano di un “contratto sociale”, dettato non certo dalla naturale socievolezza dell’uomo, ma piuttosto, come afferma Hobbes, “dal reciproco timore e dallo scopo di perseguire la propria conservazione (88)” (De Cive, I 2).

Dal “contratto sociale”, secondo Glaucone che in questa circostanza sembra seguire Ippia (cfr. Xenoph. Mem. 4.4.13), deriva anche la legge (nomos) che sancisce, come rimedio alla violenza propria dello stato di natura, la rinuncia all’esercizio della pleonexia e l’accettazione dell’uguaglianza (to ison) tra gli uomini (359 c). Essi, infatti, pur percependo la situazione prodotta dal patto sociale come una costrizione innaturale, continuano ad accettarla a causa della loro debolezza (arrostia) e della loro incapacità di prevalere (89): “coloro che praticano la giustizia lo fanno malvolentieri (akon) e solo perché sono incapaci di commettere ingiustizia (adynamia tou adikein)”; infatti, se esistesse un uomo abbastanza forte da essere in grado di commettere un numero di ingiustizie maggiore di quante sarebbe costretto a subirne, egli si libererebbe dal patto di giustizia e, da vero uomo (alethos andra), tornerebbe all’uso dell’adikein (359 b).

 

 

L’ombra di Antifonte

 

Come si è visto, l’impianto concettuale della “genealogia della giustizia” di Glaucone si ispira in maniera diretta a una serie di dottrine ampiamente diffuse nell’ambito della cultura sofistica. Tuttavia, all’interno di esse, è possibile individuare un più preciso punto di riferimento per l’elaborazione delle argomentazioni di Glaucone nella persona di Antifonte (90), sofista, retore, logografo e uomo politico di tendenze oligarchiche (91).

Egli, infatti, seguendo un percorso teorico che anticipa quello di Glaucone, assume come punto di partenza della sua analisi l’opposizione tra nomos e physis – tratto, del resto, comune ad una parte del pensiero sofistico (92) -, la dicotomia cioè tra l’uguaglianza forzosa, l’ordine pacificato instaurato dal nomos e la disuguaglianza, la dinamica conflittuale che caratterizza le relazioni naturali tra gli uomini (DK B44 fr. IA col. II, col. IV). Egli poi, sviluppando la tematica dell’opposizione tra nomos e physis, delinea una teoria contrattualistica dell’origine della giustizia del tutto analoga a quella elaborata da Glaucone, in base alla quale il nomos, che si sovrappone in modo artificioso alle leggi di natura, deriva da una pattuizione (homologia) tra gli uomini (col. I); risultato di un tale tipo di accordo è che la giustizia viene a coincidere con il principio “non fare ingiustizia né danno e non subire ciò personalmente (93) (to meden adikein mede auton adikeisthai, fr. II col. II 19-21)”. Gli uomini, tuttavia, considerando intollerabile la costrizione (desmos) imposta dal nomos, non rinunciano comunque a realizzare la loro naturale tendenza all’adikein ma, al fine di evitare le punizioni, trasgrediscono le norme di giustizia di nascosto (94) (col. I).

Quest’ultima, del resto, è anche la conclusione del discorso di Glaucone che, rovesciando completamente l’assunto socratico secondo il quale nessun uomo compie il male volontariamente (Prot. 345 d-e), afferma: “nessuno è giusto di propria volontà (oudeis ekon dikaios), ma solo in quanto vi è costretto (anankazomenos): ciò perché nel suo intimo (idia) nessuno considera la giustizia un bene (agathou ontos), anzi ognuno, quando ritiene di poter commettere ingiustizia, la commette. Infatti, ognuno ritiene che l’ingiustizia sia molto più utile della giustizia” (360 c-d). Anche un uomo virtuoso, infatti, avendo la certezza della propria impunità, non esiterebbe a commettere azioni ingiuste; coma dimostra l’episodio di Gige (95), infatti, se si concedesse sia all’uomo giusto sia all’uomo ingiusto la possibilità di fare qualunque cosa essi desiderino, potremmo cogliere “l’uomo giusto percorrere la stessa strada dell’ingiusto, spinto dall’avidità (pleonexia), che tutti per natura ricercano come un bene e da cui s’astengono solo perché la legge (nomos) li costringe (bia paragetai) a rispettare l’uguaglianza (ison, 359 c)”.

        

Glaucone, attraverso queste considerazioni, lancia così a Socrate una sfida intellettuale estremamente insidiosa, sfida che condizionerà gran parte dello sviluppo argomentativo della Repubblica, obbligando Platone a delineare sia una complessa replica alle provocazioni lanciate da Glaucone sia un’adeguata confutazione delle posizioni immoralistiche di cui egli è portavoce.

Per raggiungere questi obbiettivi, Socrate è così costretto, per prima cosa, a confrontarsi con le concezioni di Glaucone, Antifonte, Trasimaco, Callicle, Protagora sulla condizione originaria dell’umanità, impegnandosi in questo modo a riscrivere da capo quella genealogia della giustizia e quella fenomenologia della società che, nell’ambito del pensiero sofistico, dimostravano, da un parte, la naturalità dell’ingiustizia e della violenza e, dall’altra, la convenzionalità e l’artificiosità della giustizia e della polis.

 

 

 La risposta di Socrate: una diversa teoria sull’origine della polis

 

Socrate si dichiara, in un primo tempo, del tutto incapace di rispondere sia alle efficaci argomentazioni di Glaucone (362 d), sia a quelle espresse più avanti da suo fratello Adimanto, il quale aveva ulteriormente sviluppato le considerazioni immoralistiche di stampo sofistico (96): “Sono in difficoltà (aporo) sulla via da seguire: perché non so come portare aiuto (boetho), mi sembra di esserne incapace (adynatos, 368 b)”.

 Poi Socrate, come egli stesso afferma, è colto da un’intuizione improvvisa (enenoesen) che lo induce a spostare il discorso dal livello della giustizia individuale (dikaiosyne andros henos) a quello della giustizia nella città, assegnando proprio a quest’ultimo ambito la priorità dell’indagine e condizionando così tutto il successivo sviluppo della discussione. La polis, infatti, è equiparata da Socrate ad un testo redatto a lettere grandi, più facilmente leggibile rispetto allo stesso testo composto in caratteri minuti (grammata smikra), rappresentato dall’anima (97). E’ dunque più agevole andare alla ricerca dell’essenza della giustizia nel testo della comunità politica - analizzando attraverso il discorso (logo) sia il processo di formazione della città (gignomenen polin) sia le sue condizioni strutturali - e da qui poi, in un momento successivo, tornare a quello più difficilmente decifrabile dell’individuo (368 d – 369 a).

Di nuovo Platone, pertanto, ancora una volta facendo significativamente ricorso all’affabulazione mitica (cfr. l’hosper en mutho muthologountes di 376 d), torna ad interrogarsi sulla condizione originaria dell’umanità - lo stato di natura - e, contemporaneamente, sulle condizioni che rendono possibile la nascita dell’aggregazione politica.

 

 

3.3.1  L’anankaiotate polis

 

“Secondo me la città nasce perché di fatto ciascuno di noi non è autosufficiente (autarkes), ma è carente di molte cose. […] Non accade dunque che un uomo se ne associ un altro in ordine a un bisogno, e un altro ancora per un altro bisogno, e che avendone molti, molti si raccolgono in un solo insediamento (oikesin) formando una comunità di reciproco aiuto (koinonous te kai boethous) – e a questo insediamento comunitario (synoikia) abbiamo dato il nome di città. Non è così?” (369 b-c) (98).

 

Secondo Socrate, gli uomini, a differenza di quanto pensavano Glaucone, Callicle, Protagora, non sono individui che lottano reciprocamente per sopraffarsi, ma bensì, come sosteneva Democrito (cfr. Diodoro I,8.9), entrano da subito in una mutua e pacifica relazione determinata dal bisogno (chreia). In questo modo, l’antropologia competitiva, “pleonektica” di Glaucone lascia il posto –  senza, tuttavia, essere confutata – a una concezione antropologica di tipo collaborativo e relazionale (99), per certi aspetti simile a quella aristotelica (Pol. I, 2, 1253 a), in base alla quale gli uomini sono spontaneamente socievoli e già da subito pronti ad unirsi e a dare vita alla polis. Il loro comportamento, infatti, secondo questa nuova prospettiva, non appare più determinato dall’istinto di sopraffazione e di affermazione egoistica, che rende difficoltosi i rapporti reciproci, ma dalla necessità vitale di soddisfare i bisogni primari, che spinge gli uomini all’unione e alla collaborazione reciproca (100).

A determinare l’aggregazione e, di conseguenza, a condurre alla fondazione della città, pertanto, non è un calcolo utilitaristico di costi e benefici, bensì una spontanea predisposizione degli uomini all’integrazione e alla socializzazione, che qualifica così la polis non come un’istituzione artificiale e in contrapposizione con la situazione dello stato di natura, ma come una possibilità radicata nella physis stessa. Essa, infatti, secondo Socrate, non ha origine né dalla debolezza (arrostia) – l’incapacità di commettere più ingiustizie di quante si è costretti a subirne – né dalla paura (phobos) – il timore per la propria incolumità -, ma dalla naturale mancanza di autosufficienza economica propria di tutti gli individui. Nessun uomo, infatti, risulta in grado di soddisfare in maniera adeguata tutti i suoi bisogni fondamentali quali la nutrizione (trophe), l’abitazione (oikesis), la protezione del corpo (esthes, 369 d). Queste esigenze specifiche, infatti, necessitano sia l’esistenza di una serie corrispondente di figure produttive - rispettivamente il contadino (georgos), il muratore (oikodomos), il tessitore (hyphantes) e il calzolaio (skytotomos, 369 d) -, sia la loro disponibilità alla collaborazione e all’istituzione di una rete di scambi (cfr. il metadidosi e il metalambanei di 369 c). Solo così, infatti, in questa sorta di “technological state of nature (101)”, questi pochi uomini, detentori ciascuno di una specifica tecnica, sono in grado di soddisfare i bisogni essenziali, dando in questo modo origine alla prima forma di aggregazione: “Così la città ridotta all’indispensabile (anankaiotate polis) risulterebbe formata da quattro o cinque uomini” (369 e).

Questa comunità esclusivamente economica (102), formata dal numero di technitai necessario a soddisfare i bisogni fondamentali, come Socrate lascia intendere, non si colloca nella storia, ma soltanto nel discorso (logos), dando così vita ad una vera e propria “city in speech” (cfr. 369 a, c); essa, infatti, risultato di un intenzionale processo di riduzione analitica, rappresenta soltanto una costruzione teorica, volta ad individuare non tanto le reali modalità attraverso le quali la polis ha origine, quanto le condizioni necessarie e sufficienti che rendono possibile la costituzione e il funzionamento di una città (103). Le considerazioni di Socrate, del resto, a differenza di quelle di Protagora, Glaucone e Democrito, non prendono in esame il passaggio degli uomini da un modo di vita primitivo ad uno civilizzato, ma, al contrario, descrivono i primi uomini come già in possesso delle tecniche e, quindi, già provvisti di abitazioni, vesti, calzari e alimenti coltivati. Questo fatto conferma così come tale fenomenologia, più che alla delineazione di una sequenza diacronica che ricostruisce le fasi della genesi della polis, sia piuttosto finalizzata all’individuazione del fondamento logico (arche) di ogni comunità umana, riconosciuto da Socrate, come si è detto, nella mancanza di autosufficienza economica propria di ciascun individuo. In questo modo, una volta applicato tale metodo di riduzione, Socrate può affermare che la prima forma comunitaria, la anankaiotate polis originata dal bisogno, risulta composta da un numero molto limitato di produttori e organizzata secondo una specifica modalità, la divisione del lavoro.

I suoi abitanti, infatti, per meglio provvedere alle esigenze comuni, decidono di abbandonare il modello autarchico di produzione, in base al quale ognuno si procura da sé tutto ciò di cui necessita. Essi, infatti, sulla base della loro spontanea tendenza alla collaborazione, mettono immediatamente a disposizione di tutti non solo i frutti del proprio lavoro, ma, prima ancora, anche il tempo (chronon) e la fatica (ponon) necessari alla loro produzione. Essi, in questa maniera, facendo riferimento alle naturali predisposizioni di ogni singolo, si dividono armonicamente i compiti (104), in modo tale che colui che si dimostra maggiormente predisposto per la coltivazione dei campi procura il cibo non solo per se stesso, ma per tutti gli abitanti della polis; allo stesso modo poi, sempre sulla base di questa logica di cooperazione e reciprocità, anche il muratore e il sarto costruiscono abitazione e confezionano abiti, in primo luogo, non per se stessi, ma per tutti i cittadini della polis (369 e – 370 a).

Un’organizzazione del lavoro di questo genere, benché maggiormente complessa rispetto al modello autarchico, oltre che del tutto coerente con l’antropologia relazionale sottesa alla fondazione della città, si dimostra anche estremamente efficace e razionale; risulta molto più proficuo, infatti, che ognuno impieghi tutte le energie alla produzione di un unico bene da destinare alla collettività piuttosto che ripartire le forze per procurarsi autonomamente tutti i beni necessari. Ogni individuo, del resto, è costitutivamente incapace di provvedere da solo a tutte le esigenze, poiché nessuno possiede una naturale propensione allo svolgimento di tutte le mansioni, ma, per natura (kata physin), ognuno è predestinato all’esercizio di una singola attività, diversa e complementare rispetto a quelle svolte dagli altri uomini (105) (370 a-b). La divisione del lavoro, pertanto, in base a queste premesse, risulta essere una forma di organizzazione del tutto naturale, non dettata né da un accordo utilitaristico né da una costrizione; in modo del tutto spontaneo, infatti, ciascun individuo da subito segue la propria attitudine naturale e per tutta la vita continua ad occuparsi di una sola mansione (ergon), accrescendo così non solo la propria efficienza e professionalità, ma anche il numero e la qualità (kallion) degli oggetti realizzati (106) (370 c; 374 b-c).

Una logica di questo tipo, basata sulla suddivisione delle mansioni e sull’equo scambio dei beni prodotti, permette così agli abitanti della polis di superare la strutturale contraddizione esistente tra la molteplicità dei bisogni e l’unilateralità delle capacità di ogni singolo soggetto (107), assicurando loro la soddisfazione di tutte le esigenze vitali e, contemporaneamente, instaurando tra essi reciproci legami di dipendenza e solidarietà. La divisione del lavoro, in questo modo, oltre a garantire un’eccezionale efficienza produttiva, rafforza anche l’unità e la coesione del corpo sociale (108), allontanando lo spettro di quella logica soprafattoria ed eversiva su cui i sofisti avevano tanto insistito. Secondo Platone, infatti, a differenza di Protagora, la nascita e lo sviluppo specialistico delle tecniche non alimentano ulteriormente quella dinamica conflittuale e autodistruttiva che solo l’intervento di Zeus era stato in grado di scongiurare (Prot. 322 b), ma, al contrario, contribuiscono in maniera significativa alla conservazione dell’iniziale condizione di pace e cooperazione.

 

 

L’inevitabile accrescimento dell’anankaiotate polis

 

Nonostante la propria armonia interna e la propria indipendenza economica, l’anankaiotate polis descritta da Socrate non può permanere nella sua condizione originaria, ma è costretta inevitabilmente ad espandersi, aumentando progressivamente il numero dei suoi abitanti, inizialmente stimato in quattro o cinque unità. La logica della divisione del lavoro, infatti, basata sull’assunto che più funzioni non possono essere svolte dallo stesso soggetto, implica necessariamente una dinamica espansiva che gradualmente porta alla comparsa sia di nuove tecniche sia di nuove figure professionali ad esse preposte, incrementando così progressivamente il grado di specializzazione. Se ciò non avvenisse, infatti, a causa della complessità della soddisfazione delle esigenze comuni, uno stesso individuo si troverebbe ad occuparsi di più mansioni, limitando così non solo la sua efficienza e la sua produttività, ma anche – in maniera più significativa - la sua capacità di soddisfare i bisogni di tutti i cittadini. Tuttavia, che un’eventualità simile non possa verificarsi è garantito dalla logica stessa della divisione del lavoro; in base ad essa, infatti, le tecniche fondamentali (agricoltura, edilizia etc.) determinano in maniera spontanea sia l’origine di altre tecniche finalizzate alla produzione degli strumenti necessari al loro lavoro (109), sia la nascita di nuove figure professionali ad esse preposte: “Occorrono, dunque, Adimanto, più di quattro o cinque cittadini per provvedere alle esigenze di cui parlavamo. Il contadino infatti, a quanto pare, non si costruirà da solo l’aratro se deve essere ben fatto (kalon), né la zappa, né gli altri strumenti (organa) utili all’agricoltura. E neppure il muratore: anche a lui ne occorrono molti. Lo stesso si dica per il tessitore e il calzolaio. […] Carpentieri (tektones) e fabbri (chalkes) e molti altri simili artigiani (demiourgoi), entrando dunque nella nostra piccola comunità cittadina, la renderanno numerosa” (370 c-d).

Anche bovari (boukolous), pecorai (poimenas) e altri pastori (nomeas), infatti, sempre sulla base di questa dinamica espansiva, verranno a far parte della polis, in quanto figure necessarie all’allevamento degli animali - risorse indispensabili sia per il contadino e il muratore (bestie da tiro e da soma), sia per il tessitore e il calzolaio (lana e pelli, cfr. 370 d-e) -, senza, tuttavia, essere ancora in grado né di soddisfare in modo adeguato tutte le esigenze legate al consumo né di porre fine al processo di articolazione della polis.

Infatti, dal momento che è impossibile fondare la città in un luogo che sia provvisto di tutte le risorse e che, pertanto, non richieda importazioni, saranno necessari altri individui che si occupino di esse, impegnandosi a portare dalle altre città tutto ciò che manca (370 e). Le importazioni (eisagein), tuttavia, a loro volta, implicano automaticamente le esportazioni (exagein), poiché “se l’inviato (diakonos) va a mani vuote, non portando nulla di quel che serve a coloro presso i quali i cittadini intendono approvvigionarsi di ciò di cui hanno bisogno, ritornerà a mani vuote” (370 e – 371 a). Pertanto, per fronteggiare queste nuove esigenze, sarà indispensabile un ulteriore allargamento della base produttiva, promuovendo l’afflusso non solo di altri contadini e artigiani, ma anche di figure specializzate nelle transazioni commerciali come i mercanti (emporoi, 371 a) e nelle arti marittime come i navigatori, nel caso in cui gli scambi si svolgano per mare (kata thalattan, 371 b).

La polis, in questo modo, da luogo chiuso ed autosufficiente si trasforma in uno spazio aperto, impegnata com’è a soddisfare non solo i bisogni dei propri abitanti, ma, in base alla logica dello scambio, anche quelli delle città confinanti. Essa, infatti, per potere ricevere da esse ciò di cui ha bisogno, dovrà produrre un surplus di oggetti non direttamente destinato al proprio consumo (110), ma bensì allo scambio, in modo tale che i mercanti possano disporre di quali (hoia) e quante (hosa) cose soddisfino le esigenze delle altre città (371 b).

Parallelamente alle transazioni con le altre città, inoltre, un’altra fondamentale pratica è destinata ad attestarsi all’interno della polis, quella della compra-vendita, che consiste nello scambiarsi reciprocamente gli oggetti che ciascuno produce, determinando in questo modo sia la nascita del mercato (agora) - luogo fisico dove gli scambi hanno luogo - sia l’istituzione della moneta (nomisma) - strumento simbolico in funzione dello scambio (symbolon tes allages heneka, 371 b) -. L’agora, infatti, verrà così a costituire non solo lo spazio urbano dove i cittadini confluiscono per scambiarsi reciprocamente gli oggetti prodotti, ma anche l’elemento distintivo della comunità politica stessa (111) e la manifestazione visibile della sua vocazione cooperativa. La moneta (nomisma), invece, istituita dalla polis per agevolare la circolazione dei beni, possiederà un valore solamente convenzionale (symbolon) - e quindi revocabile -, derivante dal riconoscimento ad essa fornito da parte della comunità stessa, non dalla preziosità del materiale (oro, argento, bronzo) di cui essa è costituita (112); solo in questo modo, infatti, essa sarà del tutto compatibile con un’economia non finalizzata al profitto e alla tesaurizzazione, ma al soddisfacimento dei bisogni fondamentali (113) quale è quella della polis descritta da Socrate.

L’istituzione del mercato e della moneta renderanno così indispensabile l’ingresso in città di un nuovo operatore, il commerciante al dettaglio (kapelos); egli avrà il compito di comprare contro denaro i beni prodotti dai contadini, dagli artigiani etc., per poi rivenderli, sempre contro denaro, a tutti coloro che ne avranno bisogno. Senza la presenza del kapelos, del resto, toccherebbe allo stesso produttore occuparsi di questa incombenza,  correndo così il rischio di stare seduto (kathemenos) nell’agora per molto tempo in attesa degli acquirenti, sottraendo tempo prezioso alla propria attività. Al contrario, se questa mansione (diakonia) fosse svolta da speciali figure professionali – i kapeloi appunto – reclutate tra coloro che sono deboli fisicamente e inadatti ad ogni altro lavoro, un inutile spreco di tempo sarebbe evitato, incrementando così ulteriormente la capacità da parte della comunità di soddisfare le esigenze comuni (371 c-d). Il kapelos, pertanto, promuovendo gli scambi e conferendo mobilità a quelle merci che nelle mani dei produttori giacerebbero immobili ed inutilizzate, verrà così a rappresentare l’operatore della reciprocità per eccellenza; egli, infatti, ben lungi dal servirsi della sua posizione per realizzare un guadagno personale a discapito di altri (114), si limiterà ad utilizzare la moneta per equiparare quantitativamente beni che sono qualitativamente diversi, assicurando in questo modo una riorganizzazione ottimale delle risorse all’interno della polis (115).

Per rendere completa (pleroma) la polis, tuttavia, ancora una figura professionale dovrà unirsi agli altri abitanti, assicurando il proprio contributo nel processo di riproduzione della comunità. Il salariato (misthotos), infatti, benché dotato di qualità intellettuali (dianoia) insufficienti per entrare a far parte della polis, sarà comunque accolto in città sulla base del possesso di una preziosa dote, la forza fisica (somatos hischyn), indispensabile per lo svolgimento dei lavori più faticosi (116) (ponous, 371 e). Egli, mettendo a disposizione della comunità il suo vigore fisico, andrà così ad affiancarsi agli altri abitanti della polis, rendendola finalmente perfetta (telea) e ponendo in questo modo fine a quella dinamica espansiva che la logica della divisione del lavoro aveva determinato.

 

A questo punto Socrate, considerando conclusa la propria fenomenologia della polis, ritiene opportuno ritornare ad occuparsi di quel problema - la questione della giustizia - che l’aveva indotto a fondare (cfr. oikizein, 379 a) una città attraverso il discorso, domandando ad Adimanto: “Dove dunque potrebbero esservi presenti sia la giustizia (dikaiosyne) sia l’ingiustizia (adikia)? E insieme con quale delle componenti che abbiamo esaminato vi si sarebbero ingenerate?” (371 e). Adimanto, che già aveva manifestato la sua incertezza sulla reale compiutezza della polis rispondendo con un dubbioso isos (371 e), anche di fronte a questo interrogativo non nasconde la propria perplessità: “Io non me ne avvedo, Socrate, a meno che non stiano in qualche loro reciproco bisogno (chreia tini te pros allelous, 372 a)”. Questa risposta, benché molto vaga, contiene tuttavia un’importante indicazione che anticipa, in modo ancora indeterminato, le successive modalità di sviluppo del dialogo: la giustizia è da ricercare nel principio della divisione del lavoro (ta hautou prattein) e in quell’integrazione reciproca delle qualità naturali che la polis richiede per assicurare la sua stessa conservazione. Il carattere esclusivamente economico della comunità delineata da Socrate, tuttavia, come dimostra l’incertezza della risposta di Adimanto (117), rende estremamente difficoltoso il tentativo di individuare l’origine e la presenza di concetti etico-politici come quelli di giustizia e ingiustizia; la polis socratica, infatti, data la stabilità e l’autosufficienza del circolo produzione-scambio-consumo, non possiede né leggi né istituzioni politiche, forme nelle quali la cultura di Adimanto è solita riconoscere la dimensione della giustizia.

Perché essa possa essere individuata, pertanto, è necessario un ulteriore proseguimento dell’indagine (372 a), che porterà da subito Socrate a prendere in esame il modo di vita (diaitesontai) degli abitanti della polis da lui stesso descritta, tornando in questo modo ad interrogarsi, come nel Politico, sulle forme di esistenza dei “primi uomini” e sulla reale auspicabilità di queste.

 

 

Il modo di vita degli abitanti della prote polis

 

Gli abitanti della città archetipo (prote polis) descritta da Socrate, sulla base della loro naturale operosità, impiegheranno le loro energie sia alla produzione di alimenti e vino, sia alla realizzazione di abiti (imatia), calzature (hypodemata) e abitazioni (oikias). D’estate, essi lavoreranno seminudi (gymnoi) e scalzi (anypodetoi), d’inverno, invece, per difendersi dai rigori stagionali, ben vestiti e provvisti di adeguate calzature (372 a).   

Essi, dopo essersi dedicati alle attività produttive, potranno così riposarsi, consumando un pasto caratterizzato dall’estrema frugalità (euetheia); essi, infatti, “si nutriranno di farine ricavate dall’orzo e dal frumento, ora cuocendole ora impastandole” (372 b). Orzo e frumento, sottoposti così all’“azione civilizzatrice del fuoco”, si trasformeranno in focacce genuine e pani, pietanze tanto semplici quanto consuete sulla tavola dei greci (118). Gli uomini, consumando questi prodotti ottenuti attraverso un preciso processo di lavorazione (coltivazione, raccolta, macinazione, impastazione, cottura), si allontaneranno così inequivocabilmente sia dalla condizione animale, caratterizzata dal consumo di alimenti crudi, sia dall’età dell’oro, dove il genere umano si nutriva con i frutti che la natura forniva spontaneamente (automatos).

Significativo e sempre improntato alla semplicità sarà anche il contesto in cui questi uomini consumeranno i loro pasti: focacce e pani, infatti, saranno serviti su canne o foglie pulite ed essi, “sdraiati su giacigli cosparsi di smilace e mirto, banchetteranno in compagnia dei propri figli, bevendoci sopra vino e cantando inghirlandati inni agli dei, lieti di stare insieme (hedeos synontes allelois, 372 b)”. Essi, immersi in un paesaggio dai tratti più agresti che urbani, coerentemente alla loro vocazione relazionale e pacifica, trascorreranno in compagnia e in serenità i loro momenti d’ozio; riuniti in allegria come in occasione di una festa campestre (119), infatti, berranno e canteranno insieme, senza però dimenticarsi di rendere omaggio agli dei.

Essi, inoltre, grazie alla loro saggezza e alla loro moderazione, “non metteranno al mondo più figli di quanto non ne consentano i loro mezzi (hyper ten ousian), per timore della povertà e della guerra” (372 b-c). Una numero di abitanti troppo elevato, infatti, turberebbe inevitabilmente l’equilibrio e la pace della polis (120), o aumentando oltre misura le sue esigenze di consumo, o rendendola molto ricca e, quindi, particolarmente soggetta ai tentativi di conquista da parte delle città confinanti (cfr. 373 d-e).

        

Glaucone, a questo punto, ripensando alla diaita che Socrate aveva attribuito agli abitanti della polis, interviene a segnalare la mancanza in essa del companatico (opson), sollecitando così Socrate ad integrare il loro regime alimentare: sale, olive, formaggio, cipolle e altre verdure bollite verranno aggiunti a focacce e pani, arricchendo così la loro dieta. Oltre a questi prodotti tipicamente coltivati e consumati nella campagna (en agrois) attica (121), essi gusteranno anche deliziosi dessert di fichi, ceci e fave e “abbrustoliranno al fuoco bacche di mirto e ghiande, bevendoci sopra con moderazione (metrios, 372 c-d)”.

Eludendo parzialmente la richiesta di Glaucone, Socrate attribuisce a questi uomini un regime alimentare esclusivamente vegetariano, simile per la sua frugalità alla diaita dei contadini (cfr. Aristofane, Pace, vv. 571 sgg., 1127 sgg.) e contrapposto all’alimentazione carnea e ricca di prelibatezze degli aristoi ateniesi, rappresentati qui dallo stesso Glaucone (122). Tuttavia, proprio perché estremamente povera e frugale, l’alimentazione vegetariana della prote polis si dimostra una delle condizioni indispensabili ad assicurare ai suoi abitanti un’esistenza sana e serena (123): “così passeranno la vita, come è naturale, in pace e buona salute (en eirene meta hygieias), moriranno in tarda età e trasmetteranno ai discendenti un sistema di vita simile a questo”  (372 d).

 

 

3.3.4   Glaucone e la città dei maiali

 

A questo punto Glaucone, facendo riferimento alla povertà dell’alimentazione della prote polis, equipara quest’ultima ad una città di maiali: “Se, o Socrate, avessi costituito una città di maiali (hyon polin), che cos’altro che questo avresti dato loro da mangiare?” (372 d).

In effetti, alimenti come fichi, ceci e ghiande, che Socrate aveva inserito nella dieta degli abitanti della prote polis, erano frequentemente utilizzati dagli allevatori per l’ingrassamento dei maiali (cfr. Historia animalium, 8.21 603b27-32). Le ghiande, poi, oltre a costituire il cibo suino per eccellenza (cfr. Odissea X, vv. 241-43), caratterizzavano anche la dieta delle popolazioni primitive come, ad esempio, i Selvaggi descritti da Ferecrate (fr. 10A) e gli Arcadi di cui parla Erodoto (I, 66.1).

L’affermazione di Glaucone, pertanto, unitamente alla sua osservazione sull’assenza dell’opson, non solo sottolinea la frugalità e l’austerità del regime alimentare della città descritta da Socrate, ma produce anche l’effetto di ricondurre il modo di vita dei suoi abitanti ad una condizione primigenia dell’umanità, caratterizzata da un’esistenza del tutto simile a quella degli animali. L’alimentazione vegetariana, l’assenza di guerre e povertà, di malattie del corpo e dell’anima, infatti, sembrano avvicinare lo stile di vita della prote polis alla situazione del genere umano durante l’età di Crono, epoca quest’ultima caratterizzata sì – a differenza della polis socratica – dalla spontanea abbondanza di risorse, ma anche da un’identica assenza della dimensione politica e culturale (124).

Glaucone, pertanto, attraverso il riferimento al maiale – animale peraltro noto per la sua proverbiale stupidità e ignoranza -, oltre a sottolineare la penia materiale degli abitanti della prote polis, mette in evidenza anche la loro estrema povertà intellettuale. Egli, attraverso questa metafora, sembra così esprimere quella stessa incertezza sul reale valore della polis socratica che Adimanto, in precedenza, aveva manifestato attraverso le sue dubbiose affermazioni sulla compiutezza della polis e sulla possibilità di individuare in essa la presenza di una fondamentale nozione etica come quella di giustizia (371 e – 372 a). La città-archetipo socratica, infatti, comunità esclusivamente economica, sebbene caratterizzata dalla mancanza di conflitti e dalla sanità del modo di vita dei suoi abitanti, appare del tutto priva di quell’insieme di valori che Aristotele indicherà come il tratto distintivo e il fondamento dell’aggregazione umana stessa: “Questo è infatti proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e degli altri valori il cui possesso comune costituisce la famiglia e la città” (Pol. I, 2, 1253a 16 sgg.).

Platone, in questo modo, attraverso le considerazioni di Glaucone e Adimanto, sembra non solo confermare il giudizio negativo che lo Straniero di Elea, nel Politico, aveva implicitamente espresso a proposito della condizione del genere umano durante l’età dell’oro (Pol. 272 b-d), ma anche liquidare sbrigativamente tutte quelle forme di nostalgia primitivistica che, come si è visto, circolavano nell’Atene tra il V e il IV secolo, anche all’interno del gruppo socratico.

 

 

 L’ambiguità della prote polis e il tentativo del suo superamento

 

Se nell’età dell’oro era l’abbondanza di risorse ad assicurare la pace e l’assenza di contese, nella prote polis, come si è visto, sono la povertà e l’austerità a garantire la mancanza di invidie e conflitti (125), condizione del tutto opposta a quella delle poleis greche tra V e IV secolo, funestate senza interruzione da guerre contro nemici interni (staseis) ed esterni (polemoi). Tale situazione di pace e serenità, resa possibile da un organizzazione sociale estremamente semplice e da regime di vita dal sapore primitivistico, risulta tuttavia inaccettabile per i rappresentanti delle classi più agiate, abituati alle comodità della civilizzazione e al consumo di oggetti materiali ed intellettuali di un livello nettamente più elevato.

Platone, pertanto, nella delineazione della città ideale, dovrà superare questa ambivalenza strutturale, garantendo alla polis non solo una condizione di pace e prosperità, ma anche la presenza di una dimensione estetica e culturale all’altezza delle aspettative dei giovani aristoi, immediati destinatari del progetto platonico di riforma della società. Solo una città di questo tipo, infatti, potrà suscitare il consenso e conquistare le simpatie di individui dalla cultura raffinata e dall’avidità di successi come Glaucone e Adimanto (126).

 

 

La polis tryphosa

 

Glaucone stesso, dopo aver criticato la patina di primitivismo che caratterizza la prote polis, indica a Socrate le modalità attraverso le quali migliorare il tenore di vita dei suoi abitanti: “Per non sentirsi a disagio, dovranno stare sdraiati su letti, credo, e prendere i loro pasti a tavola, con quelle pietanze carnee (opsa) e quei dolci (tragemata) che oggi sono consueti (372 e)”.   

Di fronte a queste rivendicazioni, Socrate, in maniera significativa, non tenta né di opporre resistenza né di difendere il modello di città da lui stesso presentato; egli, al contrario, pur ribadendo la veridicità (alethine) e la sanità (hygies) della prote polis, accetta immediatamente di abbandonare tale modello e di delinearne un altro, maggiormente funzionale all’individuazione di come giustizia e ingiustizia si originano nella polis (372 e).

Egli, pertanto, stimolato da Glaucone, acconsente ad esaminare come si origina una città che vive nel lusso (polis tryphosa), non più caratterizzata dalla produzione e dal consumo di beni di prima necessità, ma dalla diffusione di quelle sciccherie e di quei conforts non immediatamente indispensabili a cui gli aristoi ateniesi erano abituati (127) (373 b).

La fenomenologia di Platone sembra così nuovamente intraprendere quello stesso percorso teorico che anche Democrito aveva seguito nella delineazione della sua Kulturgeschichte; anch’egli, infatti, dopo aver descritto tutte le scoperte che il genere umano aveva fatto sotto la spinta della necessità (chreia), era passato ad elencare tutte quelle innovazioni (per es. la musica e l’architettura) non direttamente funzionali al soddisfacimento di esigenze primarie, ma finalizzate all’appagamento di desideri sempre più numerosi e complessi (cfr. DK 68 B 144).

Anche per Platone, l’inevitabile accrescimento e complicazione delle ambizioni degli uomini, determina il passaggio dalla città del bisogno - l’anankaiotate polis - alla città del lusso - la polis tryphosa (128) -; infatti, proprio perché l’austero modo di vita della prote polis non soddisferà molti, “letti, tavole e altre suppellettili, e carni e incensi e profumi ed etére e torte, e ciascuna di queste cose in grande varietà (129)” (373 a) dovranno fare il loro ingresso in città, determinando così la definitiva scomparsa di quel regime di vita basato sulla semplicità e sulla moderazione. L’alimentazione frugale e lo scenario agreste della prote polis, infatti, lasceranno il posto ad un menù ricco e prelibato e ad un’ambientazione di tipo urbano, così come la semplicità e la sobrietà delle feste campestri saranno sostituite dal fasto e dal lusso dei simposi cittadini, luoghi per eccellenza dell’eccesso alimentare ed erotico.

Finalizzata alla soddisfazione di desideri sempre più raffinati, la città, pertanto, non potrà più, come l’anankaiotate polis, fornire soltanto le risorse strettamente indispensabili (tanankaia) - case, vestiti, calzature -, ma dovrà “mobilitare la pittura (zographia) e il ricamo colorato (poikilia) e procurarsi oro (chruson), avorio (elephanta) e ogni altra cosa simile (130)” (373 a), accogliendo al suo interno un gran numero di nuovi produttori - i technitai del superfluo -, destinati ad occuparsi dei rinnovati bisogni alimentari ed estetici. Essi, in questo modo, accresceranno notevolmente il numero dei suoi abitanti, riempiendola “di una massa di gente la cui presenza non è più imposta dalla necessità come, ad esempio, i vari tipi di cacciatori (thereutai), gli imitatori (mimetai), i molti che si occupano di figure (schemata) e di colori (chromata) e di musica (mousiken), poeti (poietai) con i loro assistenti (hyperetai), rapsodi (rapsodoi), attori (hypocritai), coreuti (choreutai), impresari (ergolaboi), fabbricanti (demiourgoi) di ogni sorta di oggetti, tra i quali quelli destinati alla cosmetica femminile (gynaikeion kosmon, 373 b)”.

Queste nuove figure professionali, più che dedicarsi alle attività produttive, si occuperanno del riempimento dei sempre più numerosi momenti di ozio, impegnandosi nell’organizzazione e nell’animazione di opulenti spettacoli, simili non tanto alle frugali feste campestri riecheggiate da Socrate nella descrizione della prote polis, quanto alle feste cittadine frequentemente organizzate ad Atene (131). Esse, caratterizzate dalla presenza di cibi succulenti (cacciagione e uccellagione), rapsodie, musiche, rappresentazioni teatrali etc., si dilateranno progressivamente nella pluralità degli spazi e dei momenti civici, diventando così la principale preoccupazione degli abitanti della città.

Per questo motivo, infatti, per soddisfare cioè le sempre più numerose e complicate esigenze del corpo cittadino, oltre ad un maggior numero di produttori, anche una serie di nuovi inservienti (diakonon) come “pedagoghi (paidagogon), balie (titthos), governanti (trophon), cameriere (kommotrion), acconciatrici (koureon)” dovrà fare il suo ingresso in città. L’inserimento nella dieta dell’alimentazione carnea, inoltre, renderà necessaria la presenza, oltre ovviamente a quella di un gran numero di animali (boskematon), di cuochi (opsopoion), macellai (mageiron) e allevatori di maiali (syboton, 373 c) che si prendano cura di questo nuovo bisogno, assente nella prote polis a causa della sua diaita esclusivamente vegetariana.

 Sebbene maggiormente ricca e raffinata, la polis tryphosa è destinata così a perdere inevitabilmente quella condizione di salute propria della prote polis, diventando sempre più rigonfia (phlegmainousa) e malata, a causa sia dell’innaturale ampliamento delle esigenze di consumo, sia della graduale dilatazione del numero dei relativi operatori; essa, dominata non più dalla logica della chreia, ma da quella della pleonexia - del desiderio di avere sempre di più – perderà così anche quella razionalità organizzativa che aveva caratterizzato la prote polis, aggravando ulteriormente la sua condizione patologica.

Ammalati ed indeboliti a causa del nuovo modo di vita (diaitomenoi), i suoi abitanti avranno così sempre più bisogno dei medici (hiatron, 373 d) che, come sottolinea Socrate nel Gorgia, dovranno rimediare ai mali causati da osti, cuochi, panettieri etc.: “individui capaci soltanto di servire i desideri, essi possono riempire e ingrassare i corpi degli uomini, ottenendone elogi, ma ne mandano in rovina le carni, in origine sane” (Gorg. 518 c).

Soggetti ad una patologia simile, del resto, sono anche gli abitanti dell’Atene dei tempi di Platone, a causa non solo dell’adulazione (kolakeia) esercitata su di loro dai technitai del lusso, ma anche della demagogia degli uomini politici ateniesi che, allo stesso modo dei cuochi (opsopoioi), “hanno rimpinzato (euochountes) i nostri cittadini di tutto quello che desideravano. Ecco perché dicono ch’essi hanno fatto grande la città, mentre non si accorgono che essa è malsanamente bolsa (hypoulos), per colpa di certi uomini politici del passato (132) [Temistocle, Milziade, Cimone, Pericle, cfr. Gorg. 515 d]” (Gorg. 518 e – 519 a).

 

Oltre che malata, la polis tryphosa, allo stesso modo dell’Atene di Platone, si troverà costretta a convivere con “la più grande fonte di mali pubblici e privati per le città”: la guerra (polemos, 373 e). Infatti, poiché il territorio (chora) che prima era sufficiente a nutrire gli abitanti della prote polis diverrà troppo piccolo a soddisfare tutte le nuove esigenze alimentari, la città sarà costretta ad entrare in guerra con le poleis confinanti, allo scopo di annettere una parte dei loro territori. Oltre a predisporre una strategia offensiva, poi, essa dovrà anche difendersi dai tentativi di conquista da parte delle poleis vicine che, verosimilmente, saranno caratterizzate dalla stessa bramosia verso un’illimitata accumulazione di ricchezze (epi chrematon ktesin apeiron), che oltrepassa il limite di quanto è strettamente indispensabile (ton ton anankaion oron, 373 d).

La polis, pertanto, per la realizzazione di queste manovre offensive e difensive, dovrà necessariamente provvedere all’istituzione di un corpo guerriero specializzato (stratopedon) (133) che, sempre in base al principio della divisione del lavoro, sarà libero da qualsiasi altro impegno e si dedicherà a tempo pieno all’addestramento militare e alle attività belliche (373 e sgg.). La sua comparsa viene così a segnare non solo un’ulteriore ampliamento del numero degli abitanti della polis, ma anche l’estrema degenerazione della città del lusso e la definitiva fine di quel clima di pace e collaborazione inaugurato dalla prote polis. Guidati non più dalla chreia, ma dalla pleonexia, i cittadini non aspireranno più a possedere soltanto le risorse strettamente necessarie, ma desidereranno beni sempre più numerosi e ricercati, suscitando cosi invidie e conflitti sia all’interno sia all’esterno della città.

La polis tryphosa, pertanto, benché caratterizzata da uno stile di vita molto più ricco e raffinato rispetto a quello della prote polis, non potrà costituire un modello desiderabile; la sua opulenza, infatti, implicherà necessariamente il risorgere di quell’ingiustizia e di quelle dinamiche conflittuali che Glaucone aveva indicato come condizioni naturali del genere umano. Nessuno dei due modelli presi in considerazione, pertanto, a causa della presenza al loro interno di una pluralità di elementi ambivalenti, potrà essere considerato completamente positivo, né quello della prote polis - contraddistinto sì da una situazione di pace e salute, ma anche da un’intollerabile patina di primitivismo - né quello della polis tryphosa - caratterizzato sì da una grande ricchezza alimentare ed estetica, ma anche dalla proliferazione del desiderio (epithymia) e di tutti quegli aspetti negativi che, a livello etico e psicologico, esso comporta -.

Nemmeno la città di Atene, a cui tutti gli elementi della polis tryphosa rimandano, può pertanto costituire un modello desiderabile agli occhi di Platone; essa, infatti, affetta dalla stessa patologia della città del lusso, necessita con urgenza l’intervento terapeutico (cfr. Resp. III, 399 e) di una nuova figura intellettuale e politica, il re-filosofo: “a meno che i filosofi (philosophoi) non regnino negli stati (basileusosin en tais polesin) o coloro che oggi sono detti re (basileis) e signori (dynastai) non facciano genuina e valida filosofia, […] non ci può essere, caro Glaucone, una tregua dei mali per gli stati e, credo, nemmeno per il genere umano” (Resp. V, 473 c-d).

 

 

Kallipolis

 

Dopo aver preso in considerazione l’ultima tappa del processo degenerativo che costringe la polis tryphosa ad imbracciare le armi, Socrate muta notevolmente il tono del suo discorso; esso, infatti, da un livello fenomenologico e descrittivo passa repentinamente ad un livello progettuale e normativo (134), segnalando così il punto di partenza di quel tentativo di delineare un modello politico giusto e virtuoso (kallipolis) che caratterizza tutta la parte centrale della Repubblica e che, in modo significativo, prende avvio dalla riflessione critica sulle caratteristiche della città del lusso.

Proprio la rieducazione di quel ceto militare che della polis tryphosa rappresentava l’estrema degenerazione, infatti, verrà a costituire la condizione insostituibile per la formazione di un nuovo gruppo politico-militare (phylakes), dotato della forza necessaria a realizzare quella riforma generale della società delineata dai re-filosofi. La città, in questo modo, sottoposta all’efficace azione terapeutica da parte dell’episteme filosofica e governata in maniera eccellente dai nuovi archontes (135), potrà non solo riconquistare quella condizione di salute e di giustizia che gli era originariamente connaturata, ma anche offrire un regime di vita adeguato alle esigenze e alle caratteristiche di tutti i suoi abitanti.

La kallipolis sarà così finalmente in grado di sciogliere dialetticamente le ambiguità e le tensioni esistenti tra la dimensione edenica, ma ancora troppo primitiva dell’età dell’oro e lo spazio storico della città malata, caratterizzato sì da una grande ricchezza, ma anche dalla pleonexia e dall’ingiustizia; essa, infatti, potrà conservare l’assenza di conflitti, l’armonia e la pace della prima senza rinunciare agli importanti esiti culturali ed estetici della seconda (136). In questo modo, il “paradiso animale” del Politico e la “città dei maiali” della Repubblica lasceranno il posto ad un modello politico e sociale desiderabile che, sebbene destinato a sua volta a corrompersi e a decadere (137), sarà indiscutibilmente capace di conquistare l’approvazione e il consenso di due aristoi dai raffinati gusti estetici e dalle elevate pretese culturali come Glaucone e Adimanto.

Essi, così come gli altri lettori della Repubblica, infine, posti di fronte ad una città sana e giusta dove ognuno svolge quella funzione alla quale è naturalmente destinato (ta hautou prattein, IV, 433 a sgg.) (138), non avranno difficoltà ad individuare l’essenza della giustizia che, se sino ad ora era stata solo parzialmente visibile, adesso si manifesta con tutta chiarezza proprio nel principio gerarchico dell’oikeiopragia.


 

 

4. L’antica Atene e la realizzazione storica di kallipolis: il mito del Timeo e del Crizia

 

Nel prologo del Timeo, attraverso una serie di rimandi precisi unitamente ad un’intenzionale strategia mistificatoria, Platone fa riferimento, prendendone in un certo senso le distanze, all’importante discussione peri politeias avvenuta a casa di Cefalo, discussione che, come è noto, costituisce il dialogo narrato nella Repubblica. Socrate, tuttavia, manifestando la sua insoddisfazione a causa della paradigmatica immobilità del modello politico delineato in quell’occasione, invita i suoi nuovi interlocutori a compiere un ulteriore passo in avanti, dimostrando la capacità di kallipolis di superare una serie di prove di carattere pratico.

Crizia, a questo punto, ricordandosi di un antico racconto che i sacerdoti egiziani avevano rivelato a Solone, descrive in maniera particolareggiata, nel Timeo e poi ancora nel Crizia, il genere di esistenza degli abitanti dell’Atene di novemila anni prima. In maniera del tutto sorprendente, il loro modo di vita, la loro costituzione e la loro organizzazione sociale, fatta eccezione per una rilevante differenza nella classe di governo, erano del tutto simili a quelli della polis che Socrate il giorno prima aveva descritto hos en mytho. Immersa in un paesaggio idilliaco e costantemente protetta dalla divinità, essa non assomigliava per nulla ad una forma primitiva di associazione umana, ma, oltre che di un’eccezionale virtù e valore - che l’avevano portata a respingere l’attacco della potente Atlantide -, essa era già in possesso di quella dimensione culturale, estetica e politica che separa il mondo umano da quello animale.

Modello di virtù e di efficienza organizzativa molto lontano dalla corruzione etica e politica dell’Atene del IV secolo, essa rappresenta così non solo l’esempio visibile della validità del modello di kallipolis, ma anche l’eccellente testimonianza della sua praticabilità, alla condizione però di introdurre alcune importanti modifiche nel suo progetto originario.

 

 

4.1  Il prologo del Timeo

 

Socrate, nel giorno della celebrazione delle Panatenee, massima festività pubblica in onore di Atena (139), si incontra con Timeo - astronomo, matematico e uomo politico di Locri che dà il nome al dialogo -, Crizia - oligarca ateniese vicino al movimento sofistico - ed Ermocrate - generale siracusano e tiranno di Selinunte -, per continuare con essi la discussione “intorno allo stato” (peri politeias, 17 c) incominciata il giorno prima (chthes). Egli, chiamato in causa da Timeo, accoglie di buon grado il suo invito a riassumere i punti salienti che la discussione del giorno precedente aveva toccato (17 c – 19 b): la necessità della rigorosa divisione del corpo sociale in tre classi (cfr. Resp. II, 369 e; 374 e), dell’unicità della professione svolta da ciascun individuo (II, 369 e sgg.; IV, 423 d), della presenza di un corpo specializzato di difensori (II, 375 c; III, 414 b; 415 d-e); l’importanza dell’educazione ginnico-musicale (II, 376 e sgg.; III, 403 c sgg.; 410 c sgg.) e dell’abolizione della proprietà privata e della famiglia (III, 416 d sgg.; V, 464 b sgg.), sostituite dal possesso comune delle donne e dei figli (V, 451 c sgg.; 457 d sgg.; 466 c-d); l’opportunità dell’attuazione di pratiche eugenetiche volte a migliorare la qualità dei nascituri (V, 460 a sgg.) etc.

Tutte queste tematiche, come fin dall’antichità è apparso evidente (cfr. ad esempio il commento di Proclo, 28. 14 sgg.), rappresentano alcune tra le più importanti proposte di riforma generale della società avanzate da Socrate nella Repubblica, in particolare, nei libri che vanno dal II al V; molti altri temi trattati in quel dialogo, al contrario - come ad esempio la tripartizione dell’anima e il governo dei filosofi -, sono completamente ignorati dal riassunto di Socrate che, tuttavia, in maniera sorprendente, viene definito da lui stesso e da Timeo esauriente ed esente da dimenticanze (19 a-b) (140). Ma solo poco più avanti, la completezza di questo resoconto viene messa in discussione da Crizia, il quale afferma significativamente che, mentre le cose apprese da ragazzo gli sono rimaste bene impresse nella memoria, “di quello che ho ascoltato ieri (ha chthes ekousa) non so se potrei richiamare tutto alla memoria (26 b)”; egli, in questo modo, sembra ironicamente fare riferimento alla conversazione del giorno prima che Socrate, attraverso il parziale riassunto da lui stesso fornito, dimostra di avere in parte dimenticato. Ma le ambiguità non finiscono qui.

La discussione della Repubblica, infatti, contrariamente alle indicazioni del Timeo, non si era svolta né il giorno prima, né era stata condotta da gli interlocutori menzionati da Socrate. Essa, infatti, come lo stesso incipit della Repubblica suggerisce chiaramente, non si era tenuta in occasione delle Panatenee, ma della Bendidie, festa in onore della dea tracia Bendis (I, 327 a), corrispondente al 19 di Targelione (maggio-giugno), quindi, circa un mese e mezzo prima delle Panatenee (141); gli interlocutori di Socrate, inoltre, in questa occasione, non erano stati Timeo, Crizia ed Ermocrate, ma bensì Cefalo, Polemarco, Trasimaco, Glaucone, Adimanto, Clitofonte, Lisia, Nicerato. Come si possono spiegare tutte queste incongruenze?

Molte ipotesi sono state avanzate a questo proposito dagli studiosi. Secondo alcuni, queste incongruenze dimostrano come Platone, nel Timeo, non si stia riferendo alla Repubblica, o meglio, alla versione che noi oggi possediamo di tale dialogo, ma ad una stesura precedente e ridotta (142); tale ipotesi, tuttavia, si rivela altamente improbabile, sia per il fatto che il Timeo è un’opera sicuramente posteriore alla definitiva redazione della Repubblica, sia dal momento che anche le Leggi (V, 739 b sgg.), l’ultimo dialogo platonico, presentano un riassunto della Repubblica del tutto analogo a quello del Timeo.

Secondo altri, invece, gli elementi di discontinuità che il Timeo presenta sono talmente espliciti e numerosi che non possono che segnalare la completa indipendenza del Crizia e del Timeo rispetto alla Repubblica (143); questa tesi, sebbene suffragata da diversi indizi, si dimostra tuttavia del tutto incapace di spiegare in maniera soddisfacente il rapporto di continuità, ugualmente esplicito,  che il prologo del Timeo instaura tra questi dialoghi, rapporto che, nell’antichità, aveva convinto Trasillo di Mende – astronomo e filologo egiziano del I secolo d.C. – ad inserire il Timeo e il Crizia, insieme allo spurio Clitofonte, nella stessa - precisamente la VII - tetralogia della Repubblica.

Altri studiosi, per dare conto di questi elementi di ambiguità, affermano che Socrate, parlando della discussione tenuta “ieri” (chthes), non intenda indicare, in maniera letterale, un incontro avvenuto il “giorno prima”, ma, in modo retorico, una conversazione risalente a “qualche tempo fa”. Questa soluzione, sebbene abbia il merito di spiegare lo iato cronologico esistente tra i due momenti dialogici, non risulta però in grado di giustificare il radicale cambiamento degli interlocutori di Socrate. Questo mutamento, a dire il vero, sebbene non direttamente spiegato, è implicitamente segnalato da Platone all’inizio dello stesso Timeo; egli, infatti, in apertura del dialogo, mette in evidenza l’assenza - a causa di una certa indisposizione (astheneia tis) - di una quarta persona (tetartos) presente il giorno prima (144), simbolo, a mio avviso, dell’assenza dell’intera società dialogica della Repubblica, qui sostituita da altri personaggi che dovranno così “fare anche la parte dell’assente (17 a)”.

Al contrario, è possibile - anche se poco probabile - che Timeo, Crizia ed Ermocrate, sebbene non nominati all’inizio della Repubblica, fossero presenti, insieme agli altri, alla discussione a casa di Cefalo e che solo essi, poiché ritenuti più idonei, fossero stati poi invitati da Socrate il giorno successivo - in un luogo imprecisato - per approfondire e completare tale conversazione. Ma per quale ragione Platone nella Repubblica avrebbe dovuto passare sotto silenzio la presenza di questi personaggi?

 Ancora più improbabile poi, è l’ipotesi che Timeo, Crizia ed Ermocrate non fossero presenti a casa di Cefalo, ma che Socrate, in un’altra occasione, avesse ripetuto esattamente insieme ad essi la stessa discussione della Repubblica.

La soluzione più convincente, tuttavia, mi sembra un’altra (145). La Repubblica, come è noto a tutti, è un dialogo raccontato e il suo narratore è Socrate stesso, come si deduce facilmente dal suo stesso incipit: “Discesi ieri al Pireo con Glaucone, figlio di Aristone, per rivolgere la mia preghiera alla dea…” (I, 327 a); egli, tuttavia, non specifica i nomi di coloro ai quali sta raccontando di questo incontro avvenuto il giorno prima al Pireo e dei discorsi fatti in casa di Cefalo. Non è possibile che i destinatari di questo racconto, così come sembra suggerire il Timeo, siano proprio Timeo, Crizia ed Ermocrate? In effetti, le reiterate dichiarazioni da parte di Socrate di aver già portato a termine il proprio compito e i suoi ripetuti inviti agli altri interlocutori a “contraccambiare l’ospitalità (antapodosein)” prendendo loro stessi la parola (17 b-c; 20 b-c; 26 e; 27 b), sembrano indicare sia come il giorno prima non avesse avuto luogo uno scambio dialettico, ma soltanto Socrate avesse parlato (cfr. ton hyp’emou rethenton logon, 17 c), sia come i suoi interlocutori si fossero limitati ad ascoltarlo in silenzio, non partecipando attivamente alla seduta dialogica. Ciò sembra suggerire come Socrate, sulla base della sua prassi abituale e della sua contrarietà teorica all’esposizione monologica, non possa che aver raccontato ad essi un dialogo già avvenuto in precedenza che, appunto, secondo le indicazioni del Timeo, deve essere identificato proprio con la Repubblica (146).

Questa ipotesi implica così una precisa sequenza cronologica costituita da tre momenti distinti (T1, T2, T3):

 

T1) 

la conversazione “peri politeias” in casa di Cefalo al Pireo, in compagnia di Polemarco, Trasimaco, Glaucone etc. (narrata dalla Repubblica);

T2)

la narrazione di tale conversazione a Timeo, Crizia ed Ermocrate (la Repubblica stessa) e l’impegno - non esplicitato - di rincontrarsi il giorno successivo per continuare la discussione;

T3)

la discussione tra Socrate, Timeo, Crizia ed Ermocrate (il Timeo e il Crizia) che integra e completa la conversazione del giorno prima.

 

 

 

Una soluzione di questo tipo, benché si dimostri in grado di risolvere ragionevolmente alcuni problemi, non è però in grado di cancellare completamente le ambiguità e le incongruenze del testo. Si ha la sensazione, infatti, che Platone, pur sottolineando l’esistenza di una certa continuità tra la Repubblica, il Timeo e il Crizia, attraverso un’intenzionale strategia mistificatoria(147), voglia in qualche modo avvertire i lettori della considerevole distanza cronologica e tematica che divide queste opere.

In effetti, notevole è il divario che separa la composizione della Repubblica, iniziata probabilmente già intorno al 390 a.C., da quella del Timeo e del Crizia, verosimilmente redatti - insieme al Sofista, al Politico, al Filebo e alle Leggi - nell’ultimo ventennio della vita di Platone, quindi, tra il 367 e il 347 a.C. (148) Altrettanto considerevole, del resto, è anche la distanza che separa il contesto drammatico e il clima intellettuale della Repubblica da quello del Timeo e del Crizia, così come testimoniano gli stessi protagonisti di queste due ultime opere; Crizia (149), infatti, non solo si era impegnato in prima persona nel rovesciamento di quell’ordinamento democratico che aveva fatto da sfondo alla discussione a casa di Cefalo, ma era anche stato l’indiretto responsabile della morte di Polemarco (cfr. Lisia, Contro Eratostene, 16-19), interlocutore di Socrate nella Repubblica. Ermocrate, inoltre, alla testa della città di Siracusa, aveva notevolmente ridimensionato le mire espansionistiche ateniesi (414 a.C.), contribuendo così al declino dell’egemonia marittima dell’Atene periclea rappresentata nella Repubblica (cfr. Tucidide, Storie, IV 58 sgg., VI 32 sgg., VIII, 39-45). Timeo (150), poi, che nel dialogo che porta il suo nome riveste il ruolo di assoluto protagonista, segna sia l’apertura della cultura ateniese a nuove esperienze intellettuali, sia lo sforzo di Platone di rifondare il suo stesso pensiero attraverso l’assimilazione di alcuni concetti base del pitagorismo. Socrate, infine, personaggio principale della Repubblica, nel Timeo e nel Crizia è relegato ad un ruolo marginale; egli, infatti, in maniera volontaria, si chiama fuori scena, dichiarando la propria incapacità di dedicare un enkomion ad una città diversa dalla kallipolis della Repubblica e affidando questo compito a uomini più indicati per natura ed educazione (physei kai trophe), vale a dire Crizia, Timeo ed Ermocrate (19 d – 20 a).

La società dialogica del Timeo, in questo modo, viene a sostituire, come destinataria e insieme artefice dei nuovi sviluppi teorici e pratici (ergo kai logo), il mondo ateniese della Repubblica, così come l’aristocratico gruppo dei suoi protagonisti è costretto a lasciare definitivamente il posto ad una nuova classe dirigente (genos), un’oligarchia più vicina all’esperienza storica, formata non più da giovani - come per es. Glaucone e Adimanto - dotati di buone qualità che aspirano a diventare archontes e philosophoi, ma da uomini maturi che politici e filosofi lo sono già (cfr. 20 a-b); caratterizzati da nuove e più concrete attese politiche, essi, a differenza della società dialogica della Repubblica, si dimostrano da subito non tanto interessati alla delineazione (legomenon) di un modello ideale di città, quanto alla ricerca di una qualche manifestazione storica (prachthen, 21 a) di tale paradigma.

 

 

 L’antica Atene e la sua corrispondenza con kallipolis

 

Dopo aver riassunto la conversazione peri politeias del giorno prima e dopo aver dichiarato la completezza di tale resoconto, Socrate manifesta ai suoi interlocutori sia la sua insoddisfazione per l’immobilità del modello politico da lui stesso delineato, sia il suo vivo desiderio di vedere finalmente in azione la kallipolis della Repubblica: “Ascoltate allora la mia impressione (pathos) riguardo allo Stato che abbiamo descritto. A me sembra simile all’impressione di chi veda esseri viventi belli, dipinti oppure veri, ma immobili, e desideri vederli muoversi (kinoumena) e cimentarsi in una gara che si addica alla natura dei loro corpi: ecco l’impressione che provo anch’io riguardo alla città che abbiamo descritto” (19 b-c).

La kallipolis della Repubblica, infatti, nonostante la sua perfezione e la sua  esemplarità, non sembra più in grado di soddisfare le mutate attese politiche di Socrate e dei suoi nuovi interlocutori, caratterizzati dal desiderio di confrontarsi con un modello politico immediatamente praticabile. Platone, pertanto, per non deludere le aspettative di Timeo, Crizia ed Ermocrate senza tuttavia abbandonare completamente il modello politico delineato nella Repubblica, è così costretto a mettere da parte la paradigmatica immobilità di kallipolis e a saggiare le sue qualità attraverso una serie di prove di carattere pratico. Infatti, come solo un universo dotato di vita (zon) e di movimento (kinethen) è in grado di soddisfare il proprio artefice (demiourgos, 37 c), così anche kallipolis, per persuadere definitivamente Socrate e i suoi interlocutori della propria positività, deve dimostrare di essere capace di “affrontare le prove che una città affronta, scendendo in gara (agonizomenen) con altre città, giungendo ben preparata (prepontos) in guerra e, nel combattere, dando prove conformi all’istruzione (paideia) e all’educazione (trophe) ricevute sia nel suo comportamento pratico (en tois ergois praxeis), sia nelle trattative con ciascuna delle altre città” (19 c).

Ma come sottoporre ad una serie di prove di questo tipo una città che nell’immediatezza del presente sembra non esistere in nessun luogo (151)?

Il solo modo possibile per portare a termine questa verifica empirica sembra quello di rivolgersi ad un lontano passato, terra di confine tra storia e mito, dove ricercare qualche indizio dell’esistenza di una polis dalla caratteristiche analoghe alla kallipolis della Repubblica; poi, una volta rinvenuta una comunità politica di questo genere, analizzarne il comportamento in pace così come in guerra.

Platone, in effetti, già nella Repubblica, aveva adombrato la possibilità che in un remoto passato kallipolis fosse esistita, difendendosi così dall’accusa di aver costituito soltanto “castelli in aria” (euchai, 499 c): “[…] nell’infinito tempo che è trascorso (en to apeiro to parelelythoti chrono), sia che anche ora accada in qualche luogo barbarico lontano e al di fuori della nostra vista, sia che ciò debba accadere in futuro (epeita), noi siamo pronti a difendere col ragionamento (to logo diamachesthai) questa tesi: che la costituzione di cui abbiamo parlato c’è stata, c’è e ci sarà (genomen he eiremene politeia kai estin kai genesetai) […]” (Resp. VI, 499 c-d).

Ora, nel Timeo, Platone affida proprio a Crizia il compito di dimostrare come questa possibilità prospettata dalla Repubblica si sia realmente verificata in un tempo antichissimo, vivo solamente grazie alla tradizione orale che ne conserva e rinnova la memoria. Crizia stesso, infatti, dopo aver ascoltato la descrizione di kallipolis da parte di Socrate, ricorda di aver sentito parlare suo nonno, Crizia il Vecchio, dell’esistenza di un’antica città - l’Atene di un tempo remotissimo, risalente a circa novemila anni prima (cfr. Tim. 23 e; Cri. 108 e, 111 a) - organizzata secondo modalità del tutto analoghe (cfr. Tim. 25 e – 26 a; 26 c-d). Concordemente invitato da Ermocrate, Timeo e Socrate, Crizia decide così di raccontare da principio ed in modo particolareggiato ciò che ricorda a proposito delle caratteristiche di questa polis e delle grandi e straordinarie imprese da essa anticamente compiute (20 e – 21 a).

 

 

4.2.1  Il viaggio in Egitto di Solone

 

“Ascolta dunque, Socrate, un racconto piuttosto strano, ma assolutamente vero (logou mala men atopou pantapasi ge men alethous) (152), come disse una volta Solone, il più sapiente dei Sette [Sapienti]. Egli era parente ed intimo amico del nostro bisnonno Dropide (153), come ricorda lui stesso nei suoi versi. A mio nonno Crizia raccontò dunque, e il vecchio a sua volta narrò a noi, che grandi e straordinarie imprese compiute anticamente da questa città erano state cancellate dal tempo e dalla morte degli uomini (hypo chronou kai phthoras anthropon); e fra quelle ce n’è una, la più grande di tutte, che forse è giusto ricordare per contraccambiare te e per elogiare (enkomiazein) in modo veramente degno la dea nel giorno della sua festa pubblica come cantando un inno” (20 e – 21 a).

 

Crizia inizia così a riferire di quel racconto (logon) fondato su un’antica tradizione (20 d) che aveva sentito pronunciare da suo nonno, a quel tempo vicino ai novant’anni, in occasione delle Apaturie (154) (21 a-b), descrivendo tutti i particolari del famoso viaggio di Solone in Egitto (155), viaggio durante il quale egli era venuto a conoscenza della “impresa più importante e più degna di diventare famosa che la nostra città avesse mai compiuto …” (21 d).

 

Solone, non appena giunto nella regione Saitica posta sul delta del Nilo, fu cordialmente accolto dagli abitanti della sua capitale, Sais, città da cui proveniva il re Amasi (156) - sovrano legato ai Greci da un solido rapporto di amicizia (cfr. Erodoto II, 161), e che si diceva fosse stata fondata dalla dea egizia Neith, esatto corrispondente della dea greca Atena (cfr. Erodoto II, 59) - (21 e; 23 d). Uniti da una antica parentela e da un reciproco legame di stima, i più dotti sacerdoti (tous malista ton hiereon empeirous) del luogo avevano accettato di discorrere con Solone riguardo alla remota storia dell’umanità (ta palaia). Egli, tenendo insieme ad essi questo genere di discorsi, era così venuto a sapere che tutti quegli accadimenti che i Greci reputavano i più antichi (ta archaiotata), altro non erano che fatti appartenenti ad un passato non molto remoto, ben distante dagli eventi originari di cui soltanto gli Egizi conservavano memoria (22 a): “Solone, Solone, voi Greci siete sempre ragazzi (paides), un vecchio (geron) tra i Greci non esiste! […] Siete tutti spiritualmente giovani, perché nelle vostre menti non avete nessuna antica opinione formatasi per lunga tradizione e nessuna conoscenza incanutita dal tempo (22 b)”.

Foroneo, infatti, il personaggio mitologico che i Greci consideravano in assoluto il “primo uomo”, in realtà era vissuto molte centinaia di anni dopo la comparsa del genere umano, così come il leggendario diluvio al quale sopravvissero soltanto Deucalione e Pirra (157) (22 a-b) non era stato il primo, ma solamente uno dei numerosi cataclismi che anticamente avevano sconvolto l’umanità (158) (23 b).

Solone, a questo punto, sempre più incuriosito dalle sorprendenti affermazioni dei sacerdoti, li invitò a raccontare tutto ciò che sapevano su questi remotissimi eventi, del tutto sconosciuti a qualsiasi greco, a causa delle molteplici catastrofi naturali che ne avevano cancellato il ricordo.

 

 

Le cicliche catastrofi naturali e la perdita della memoria degli antichi eventi

 

“Avvennero (gegonasin) e avverranno (esontai) ancora per l’umanità molte distruzioni (phthorai) in molti modi, le più grandi con il fuoco (pyri) e con l’acqua (hydati), e altre minori per infinite altre cause” (22 c).

In questa occasione, attraverso le parole dei sacerdoti egiziani, Platone riformula quella teoria già enunciata nel Politico (cfr. 273 a sgg.), in base alla quale una serie di eventi catastrofici (terremoti, conflagrazioni, diluvi, inondazioni) periodicamente distrugge ogni forma di vita e ogni traccia di civiltà, cancellando così, allo stesso tempo, tutti i progressi (culturali, politici, tecnici) fatti dal genere umano, insieme ai suoi elementi di decadenza e di dissoluzione. Egli, tuttavia, a differenza del Politico, qui nel Timeo così come nel Crizia, non si limita soltanto ad un breve riferimento, ma enuncia con dovizia di particolari questa concezione.

Come spiegano i sacerdoti, infatti, esistono due tipi principali di catastrofi che, con cadenza periodica, portano alla quasi completa distruzione di ogni forma vivente. In primo luogo, esistono le deflagrazioni che, in occasione della deviazione (parallaxis) del moto dei corpi celesti (159), producono la combustione delle regioni terrestri a causa della sovrabbondanza di fuoco, provocando la morte di tutti coloro che abitano sui monti o nei luoghi alti e aridi e risparmiando solo coloro che risiedono presso i fiumi e i mari  (22 d). Anche i Greci, a dire il vero, sebbene con un minor grado di consapevolezza, erano a conoscenza del verificarsi di questo genere di eventi catastrofici, così come testimonia la diffusone presso di essi di un racconto mitico che ha per protagonista Fetonte, figlio di Elios (cfr. Esiodo, fr. 199 R.; Apollodoro, I, 4,5; Ovidio, Metamorfosi I, 253-415; Pausania, VIII, 2, 1): egli, infatti, non essendo  in grado di guidare il cocchio del padre lungo la corretta rotta, si avvicinò troppo alla terra, provocando la combustione delle sue regioni e rimanendo lui stesso ucciso (22 c-d).

Oltre che dalle deflagrazioni poi, il genere umano è sconvolto anche dalle inondazioni e dai diluvi che gli dèi periodicamente determinano allo scopo di purificare la terra attraverso l’acqua (hydasi kathairontes) (160). Tutte le città ubicate nelle pianure e nei fondovalle, pertanto, travolte da queste eccezionali ondate di piena, vengono completamente cancellate, mentre, contrariamente a quanto accade in occasione delle distruzioni provocate dal fuoco, solamente i pastori e i mandriani (boukoloi nomes te) che abitano sui monti o che in questi luoghi si rifugiano riescono a sopravvivere a queste terribili catastrofi (22 d-e; Criti. 109 d).

Gli abitanti dell’Egitto, al contrario, grazie alla presenza del Nilo e al clima temperato della loro terra, sono in grado di sopravvivere alla furia distruttiva di questi cataclismi, conservando così non solo le proprie tradizioni, ma anche la memoria di tutti i più importanti e insoliti avvenimenti accaduti in tempi antichissimi (22 d - 23 a). Tutte le altre poleis, invece, colpite mortalmente dalla periodica serie di catastrofi, perdono di volta in volta non solo le proprie acquisizioni teoriche e pratiche, ma anche il ricordo del proprio passato, poiché “non appena organizzate un poco le cose con la scrittura (grammasi) e con quanto occorre alle città, ecco che di nuovo, a intervalli regolari, come una malattia (hosper nosema) si abbatte su di voi [non Egiziani] un diluvio (reuma) dal cielo, e lascia sopravvivere solo quelli di voi che sono analfabeti e privi di cultura (tous agrammatous te kai amousous), sicché ogni volta ritornate da capo giovani, per così dire, senza sapere nulla di quanto avvenne anticamente (en tois palaiois chronois) né qui né fra voi” (23 a-b).

I pochi in grado di sopravvivere a questi cataclismi poi, oltre ad essere del tutto illetterati, si trovano anche in una situazione molto precaria, simile a quella descritta dal Politico e dal Protagora (cfr. Pol. 274 a-c; Prot. 321 b-c), sprovvisti come sono dei mezzi necessari (en aporia ton anankaion) alla propria sopravvivenza; essi, pertanto, costretti a dedicare tutto il loro tempo a soddisfare i bisogni più elementari, devono necessariamente trascurare la trasmissione e lo studio degli avvenimenti dei tempi remoti (Criti. 109 d sgg.): “il racconto dei miti e la ricerca accurata degli eventi della storia antica (mythologia gar anazetesis te ton palaion), infatti, subentrarono nelle città quando si poté constatare che almeno alcuni avevano soddisfatto gli indispensabili bisogni della vita (tou biou tanankaia); prima, infatti, non avrebbero potuto” (Criti. 110 a).

Per queste ragioni, anche gli Ateniesi - così come tutti gli altri popoli ad eccezione degli Egizi -, colpiti nel passato da numerose e devastanti catastrofi, oggi hanno del tutto perduto la memoria del loro glorioso passato, fatta eccezione per alcuni nomi (Cecrope, Eretteo, Erittonio, Erisittone) dei loro illustri antenati (Criti. 109 d; 110 a-b). Al di là di questo modesto ricordo, tuttavia, essi ignorano completamente che “… la razza umana più bella e migliore (kalliston kai ariston genos) visse proprio fra voi [Ateniesi], nella vostra terra, e da essa discendete tu [Solone] e tutta la vostra cittadinanza attuale, essendone rimasto allora un piccolo seme (spermatos bracheos); ma tutto questo vi sfugge, perché per molte generazioni i sopravissuti sono morti senza avere conosciuto la scrittura (grammasin aphonous, 23 b-c)”.

Ma quali sono questi avvenimenti remoti di cui è conservata memoria nei templi egiziani e che, in base alle affermazioni dei sacerdoti, sembrano riguardare proprio la città di Atene?

 

 

L’antica città di Atene e la sua struttura sociale

 

“Allora infatti, Solone, prima della distruzione grandissima provocata dalle acque (hyper ten megisten phthoran hydasin), la città che ora si chiama Atene era fortissima nelle armi come in tutto il resto, e straordinariamente ben governata (eunomotate); ecco perché si dice che da essa provennero le più belle imprese e i migliori ordinamenti (kallista erga kai politeiai kallistai) fra tutti quelli di cui sotto il cielo noi abbiamo notizia” (23 c).

 

L’eccellenza della città di Atene, come ricorda Crizia, risiedeva in primo luogo nella sua privilegiata posizione geografica; essa, infatti, era stata fondata dalla divinità nella regione che oggi è chiamata Attica, terra che un tempo era molto più estesa e notevolmente più fertile (pamphoron) di quanto lo sia attualmente. Provvista di montagne e pianure capaci di produrre frutti in abbondanza (pamplethe) e di ottima qualità e contraddistinta da un clima straordinariamente temperato (horas metriotata), essa era in grado di fornire ai suoi abitanti un gran numero di beni e di risorse (ricchi pascoli per le greggi, pregiati legnami per la fabbricazione delle case, abbondanti corsi d’acqua, Criti. 111 c-e).

In secondo luogo, oltre alla spontanea ricchezza della propria regione, Atene poteva anche vantare un’origine divina del tutto eccezionale; in un tempo antichissimo risalente a circa novemila anni fa, infatti, periodo in cui gli dèi guidavano e governavano il genere umano (agontes to thneton pan ekybernon) così come oggi i pastori si prendono cura delle greggi (161), non una, ma addirittura due divinità, Efesto ed Atena, ottennero in affidamento (eilechaton) un’unica regione, l’Attica appunto (Criti. 109 b-c). Essi, in questo modo, prendendosi sollecitamente cura del suo sostentamento (trophe) e della sua istruzione (paideia, Tim. 24 d), la resero ancora più ricca, popolandola di uomini non solo fisicamente molto avvenenti (somaton kalle), ma anche notevolmente intelligenti (phronimotatous) e virtuosi (agathous): “la dea [Atena] … scelse per la fondazione della vostra città il luogo in cui voi nasceste, notando che il felice equilibrio delle sue stagioni avrebbe generato uomini assai saggi (162)”  (Tim. 24 c).

Efesto ed Atena, inoltre, sulla base del loro amore per il sapere (philosophia) e per le tecniche (philotechnia, Criti. 109 c) insegnarono agli abitanti di quella regione tutte le conoscenze utili al genere umano, come ad esempio l’arte divinatoria (mantike), la medicina (hiatrike) e la tecnica militare (polemike); Atena, infatti, dea philopolemos, li portò a conoscenza di tutti i segreti riguardanti l’arte bellica, rendendo il loro esercito più forte e meglio equipaggiato di qualunque altro (Tim. 24 b-d), tanto è vero che esso riuscì nell’impresa di arrestare le mire espansionistiche della città di Atlantide, la più grande potenza che fino ad allora fosse mai esistita (24 e).

“Uomini divini” (andres theioi), poi, per accrescere ulteriormente l’abilità e la preparazione del corpo militare (machimon genos), in base al noto principio dell’oikeiopragia enunciato nella Repubblica (II, 369 e sgg.), pensarono intelligentemente di dispensare i guerrieri dallo svolgimento di qualsiasi altra attività (Tim. 24 b); grazie anche alla grande fertilità della regione, i phylakes potevano così permettersi di tralasciare tutti i lavori agricoli, dedicandosi a tempo pieno alle occupazioni belliche e ricevendo il necessario per vivere (hikanes trophes) dagli altri cittadini (Criti. 110 c-e). Essi, come nella Repubblica (II, 374 a sgg.; III, 415 d sgg.; Tim. 17 c - 18 a [riassunto Repubblica]), costituivano così  un corpo specializzato, separato da tutti gli altri cittadini (aphoristhen), destinato a risiedere in alloggi comuni (oikias koinas) posti nella parte alta dell’Acropoli, proprio nei pressi del tempio di Atena ed Efesto (Criti. 112 b). Di questo gruppo, inoltre, sempre in conformità alle indicazioni della Repubblica (V, 451 d sgg.; Tim. 18 c [r. R.]), facevano parte anche numerose donne che, sottoposte allo stesso addestramento degli uomini, venivano così chiamate a svolgere un insieme di mansioni tradizionalmente riservate al sesso maschile (163) (Criti. 110 b-c).

Del tutto in contraddizione con la realtà storica greca era anche il divieto di possedere qualsiasi bene privato (idion men auton oudeis ouden kektemenos) che i guerrieri dovevano rispettare; essi, infatti, come i phylakes della Repubblica (III, 416 d sgg.; V, 464 b sgg.; Tim. 18 b [r. R.]), non potevano avere né oro né argento, ma dovevano considerare tutti i beni della polis come un possesso comune (apanta de panton koina nomizontes auton, Criti. 110 c-d). Essi, in questo modo, nell’impossibilità di possedere un patrimonio personale, non aspiravano ad arricchirsi, ma preferivano ricercare quella “giusta misura (to meson) fra l’abbondanza eccessiva e la miseria” che contraddistingue da sempre il cittadino sophron. Essi, infatti, caratterizzati da una semplicità (euetheia) e da una moderazione (metriotes) del tutto simile a quella dei cittadini della prote polis della Repubblica (cfr. Resp. II, 372 b-d; Tim. 18 b [r. R.]), badando “soprattutto che il numero degli uomini e delle donne già in età da soldato o ancora in età da soldato, rimanesse sempre costante, vale a dire sulle ventimila unità” (Criti. 112 d-e), si accontentavano di “vivere in case decorose, nelle quali essi con i rispettivi nipoti rimanevano fino all’età della vecchiaia, per poi tramandarle ad altri uomini della medesima indole” (Criti. 112 c).

Questi difensori poi, sempre secondo le indicazioni del Crizia, oltre che delle incombenze militari, dovevano occuparsi anche del governo della polis; essi, infatti, in assenza di un gruppo di governo specializzato, “difensori dei loro cittadini (ton auton politon phylakes) e guide (hegemones) ben accette agli altri greci […] amministravano l’Ellade e la loro città secondo giustizia (dike dioikountes)” (112 d-e).

Né il Timeo né il Crizia, infatti, analogamente alla prima parte della Repubblica, accennano all’ipotesi di una direzione della polis da parte di un gruppo specifico e, tanto meno, da parte di un ceto filosofico; Platone, infatti, solo a partire dalla sezione conclusiva del libro III della Repubblica, introduce una distinzione tra gli individui incaricati di difendere la città - gli epikouroi - e quelli destinati alla sua direzione politica - gli archontes – (cfr. 414 b sgg.) e, solo a partire dalla fine del libro V, prende in considerazione la proposta di affidare il governo della città ad un gruppo di re-filosofi (cfr. 473 b sgg.). I libri centrali della Repubblica in cui Platone esamina diffusamente questi punti, del resto, non sono quasi del tutto presi in considerazione nel resoconto del “discorso peri politeias del giorno prima” che Socrate opera all’inizio del Timeo (17 c – 19 b). Tale riassunto, infatti, si limita ad accennare in maniera generica alla direzione della polis da parte del gruppo dei phylakes (17 d – 18 a), tralasciando completamente le considerazioni fatte da Socrate nella Repubblica intorno alla necessità di affidare il governo della città ai filosofi (164). Ma non è tutto. Nel Timeo, infatti, in maniera abbastanza sorprendente, per colmare il vuoto lasciato dal gruppo dei re-filosofi, è introdotta una casta sacerdotale (hiereon genos), nettamente distinta dalle altre (Tim. 24 a), ma della quale non vengono precisate le funzioni. Come è possibile spiegare questo ulteriore elemento di manipolazione della memoria della Repubblica? E ancora: quale può essere la ragione dell’introduzione di questa casta sacerdotale e, allo stesso tempo, dell’intenzionale omissione da parte di Platone di tutto ciò che riguarda il governo dei filosofi (165)?

 

La scelta di Platone di introdurre una casta sacerdotale appare meno  sorprendente se si considera, in primo luogo, la particolare ambientazione del meta-dialogo, interno al Timeo e al Crizia, che ha la finalità di gettare luce sul glorioso passato dell’antica Atene. Esso, infatti, non solo è ambientato in Egitto, terra dove la casta sacerdotale esercitava da sempre un grande potere temporale, ma è anche interamente dominato proprio dalla presenza di un gruppo di sacerdoti egiziani, depositari sia della memoria storica degli avvenimenti del passato, sia di una antica sapienza direttamente proveniente dalla divinità (166). E’ possibile, pertanto, che l’inconsueta, ma non casuale ambientazione di questo meta-dialogo in terra egizia influenzi la scelta di Platone di introdurre nella gerarchia sociale dell’Atene antica una casta sacerdotale (cfr. Tim. 24 a), probabilmente destinata ad esercitare quella funzione direttiva che nella Repubblica era svolta dai re-filosofi.

 Tuttavia, è possibile ipotizzare l’esistenza di una ragione più profonda che spinge Platone a modificare il modello sociale della Repubblica, introducendo in esso un nuovo gruppo (genos) di governo. Può infatti darsi che egli, nel Timeo, introduca una casta di sacerdoti al fine di reperire una classe dirigente non certo più capace, ma maggiormente vicina alla realtà storica rispetto a quella del tutto atopica rappresentata dai filosofi-governanti della Repubblica (167). Platone, del resto, verosimilmente disilluso dal fallimento dei ripetuti tentativi di instaurare un governo a base filosofica a Siracusa ed estenuato dalle critiche che molti membri dell’Accademia avevano portato al suo sistema teorico e ai suoi progetti politici, sembra impegnarsi, nell’ultima parte della sua vita, in un lavoro di autocritica che coinvolge alcuni dei principali nodi teorici della Repubblica (168) stessa. Egli, in particolare, per quanto riguarda più direttamente il versante politico, qui nel Timeo e poi più diffusamente nelle Leggi, sembra andare alla ricerca di un nuovo gruppo dirigente e di una nuova forma costituzionale, non soltanto maggiormente praticabili rispetto al genos filosofico e alla kallipolis della Repubblica, ma anche in grado di conquistare l’assenso sia degli interlocutori sia dei fruitori dei suoi ultimi dialoghi.

Ecco perché, proprio nel Timeo, Platone accenna per la prima volta a quel ceto burocratico-sacerdotale e, di conseguenza, a quella politeia teocratica che nelle Leggi, cioè nell’ultima delle sue opere, prenderanno definitivamente il posto dei re-filosofi e di kallipolis. Nelle Leggi, infatti, Platone, senza negare l’inscindibile nesso fra sapere e potere, presenterà un nuovo organo direttivo - il Consiglio Notturno - che, nell’ambito della nuova polis, sarà chiamato a svolgere tutte quelle funzioni che nella kallipolis erano esercitate dai re-filosofi, come ad esempio la salvaguardia delle leggi e della stabilità dello stato e il controllo del processo educativo (cfr. Leg. XII, 951 d sgg.; 961 a sgg.). Esso, in linea con il nuovo orientamento di  Platone, dovrà essere composto per una buona parte proprio da sacerdoti (951 d) (169), individui dotati sì delle stesse qualità etiche dei governanti della Repubblica, ma non più caratterizzati dal possesso di un sapere di tipo dialettico e matematico, quanto da una conoscenza di carattere teologico e astronomico (966 c sgg.).

L’astronomia, infatti, nelle Leggi ma già anche nel Timeo, diventa la scienza suprema, dal momento che si occupa degli astri che, a motivo della loro eternità e dell’immutabile regolarità del loro movimento, secondo l’ultimo Platone, rappresentano vere e proprie divinità (cfr. Tim. 40 b; Leg. X, 886 d; 899 b sgg.; Epinom. 983 e sgg., 986 a sgg.). Coloro che si dimostrano in grado di comprendere le loro orbite, le loro relazioni e la loro natura, pertanto, in quanto capaci di decifrare l’ordine provvidenziale che le divinità astrali rappresentano e attuano nel mondo (cfr. Leg. XII, 966 c sgg.), dovranno esercitare le più alte cariche all’interno della polis, traendo dalla proprie conoscenze astronomiche le corrispondenti indicazioni in termini di condotta morale e politica. 

L’astronomia e la teologia, in questo modo, modelli di sapere più antichi e dotati di maggiore credibilità rispetto alla conoscenza filosofica, diventano così le condizioni necessarie per l’accesso ai ruoli di comando all’interno della polis, come, del resto, da sempre voleva la tradizione aristocratica. Conoscenze trasmesse direttamente dalla divinità ad un numero molto limitato di individui, esse determinavano, così come dimostrano le eccellenti testimonianze di Parmenide, Eraclito, Pitagora etc., non solo la superiorità intellettuale di coloro che le possedevano, ma anche la loro idoneità alla partecipazione al governo della polis.

Proprio i pitagorici, del resto, rivendicando il possesso di un sapere di origine divina  nettamente superiore a quello degli altri uomini, si erano insediati al potere in molte città della Magna Grecia, luogo dal quale anche lo stesso Timeo proviene. Egli, infatti, grande esperto di astronomia (astronomikotaton, Tim. 27 a) e uomo politico eccellente per ousia e genos che nella città di Locri aveva rivestito le più importanti magistrature (tas megistas archas te kai timas ton en te polei metakecheiristai), rappresenta il prototipo vivente di questa nuova figura intellettuale e politica. Egli, “partecipe per natura (physei) ed educazione (trophe) di entrambi gli elementi, della filosofia e della politica” (19 e), è così chiamato a prendere il posto dei re-filosofi, impegnandosi in prima persona nell’instaurazione di quella nuova forma costituzionale che, probabilmente, proprio nella città di Locri - polis non a caso definita la meglio governata d’Italia (eunomotates hon poleos tes en Italia, 20 a; cfr. anche Leg. I, 638 b) - aveva trovato un’applicazione molto simile a quella prospettata da Platone (170).

 

 

4.2.4  Il modo di vita degli abitanti dell’antica Atene

 

Oltre ai difensori e alla casta sacerdotale di cui si è parlato, la struttura sociale dell’antica Atene, sempre sulla base del modello della Repubblica, prevedeva al suo interno anche la presenza della classe dei produttori, classe della quale facevano parte tutti coloro - artigiani (demiourgoi), pastori (nomees), cacciatori (thereutai), contadini (georgoi) - che avevano il compito di procurare i beni di consumo necessari al sostentamento dell’intera comunità (Tim. 24 a-b; Criti. 110 c). Essi, come nella Repubblica (II, 370 d sgg.), costituivano una classe autonoma (171), non costretta, a differenza di quella dei phylakes, a rinunciare alla proprietà privata; impegnati nel difficile compito di provvedere alla trophe della polis, essi risiedevano direttamente nei pressi dei luoghi dove lavoravano, vale a dire nella zona esterna, ai piedi dell’Acropoli (Criti. 112 b).

 

Abitanti di una terra straordinariamente fertile, i produttori così come tutti gli appartenenti alle altre classi, vivevano in un modo molto simile agli uomini “figli di dei” (cfr. gennemata theon, Tim. 24 d) dell’età dell’oro. Essi, tuttavia, benché costantemente protetti dalla divinità e immersi in una natura amica, a differenza degli uomini dell’età di Crono, non vivevano nell’ozio consumando passivamente i prodotti che la terra spontaneamente offriva, ma erano costretti sia a lavorare duramente per procurarsi i beni necessari alla loro sopravvivenza, sia ad organizzarsi autonomamente per fronteggiare gli attacchi esterni.

La loro esistenza, inoltre, non era negativamente caratterizzata dall’assenza della dimensione politica e dalla mancanza di quegli elementi estetici e culturali che nella Repubblica avevano costituito motivo di scherno da parte di Glaucone (cfr. II, 372 d). Gli abitanti dell’antica Atene, infatti, a differenza degli uomini dell’età dell’oro, conoscevano già la dimensione politica ed erano perfettamente in grado di convivere pacificamente, poiché Atena ed Efesto avevano già ispirato nelle loro menti l’ordine politico (ten tes politeias taxin, Criti. 109 c-d), comportandosi così in modo del tutto simile a Zeus, loro padre, che, secondo il racconto di Protagora, aveva donato agli uomini aidos e dike per porre rimedio alla dinamica conflittuale che stava portando la razza umana alla distruzione (Prot. 322 c sgg.).

Essi, in quanto figli prediletti di Atena - dea definita philosophos (Tim. 24 c) - erano non solo spontaneamente predisposti alla coltivazione del sapere, ma anche già in possesso del gusto per il bello (philokalon, Criti. 111 e), qualità proprie di una comunità politica culturalmente ed esteticamente all’avanguardia, molto diversa dalla forma di aggregazione descritta dal Politico (271 e sgg.) e dalla prote polis della Repubblica (II, 369 b sgg.), entrambe irrimediabilmente contraddistinte da un’intollerabile patina di primitivismo.

 Per queste ragioni, l’antica città di Atene descritta da Crizia prima nel Timeo e poi anche nel Crizia, più che ai modelli regressivo-primitivistici vagheggiati da molti contemporanei di Platone, sembra assomigliare alla kallipolis delineata nella Repubblica e ricordata all’inizio dello stesso Timeo. Essa, infatti, modello politico in grado di assicurare ai suoi abitanti una convivenza pacifica, senza tuttavia sacrificare la dimensione estetica e culturale, “per un puro caso provvidenziale” (hos daimonios ek tinos tyches, Tim. 25 e), sembra identificarsi perfettamente con kallipolis (172), fatta eccezione per la presenza di quello hiereon genos di cui si è parlato.

Il lungo discorso di Crizia dimostra così come la città che Socrate il giorno prima aveva descritto “come in una finzione” (hos en mytho, Tim. 26 c-d; cfr. anche il mythologein di Resp. II, 376 d), è realmente (talethes) esistita (173) in un tempo antichissimo e che, pertanto, essa non rappresenta soltanto un modello utopico (cfr. euche, 499 c), ma, al contrario, un progetto politico realizzabile anche nel presente, alla condizione però di introdurre in esso una serie di importanti modifiche, come Platone illustra e chiarisce nelle Leggi.

Egli, infatti, nel suo ultimo dialogo, pur ribadendo la validità del modello di kallipolis, dichiara tuttavia la sua maggior conformità ad una comunità “di dèi o di figli di dèi”, piuttosto che ad una di uomini (cfr. Leg. V, 739 d). Richiedendo qualità morali che eccedono (meizon) quelle in possesso degli uomini che ora (nun) esistono (740 a), quello di kallipolis si dimostra un progetto politico e sociale difficile da realizzare, se non addirittura impossibile (adynaton, 746 c). Tuttavia, apportando una serie di correzioni al paradeigma politeias della Repubblica e mettendo tra parentesi - senza tuttavia negarne mai il valore (cfr. 739 a sgg.) - tutte quelle proposte rivoluzionarie (abolizione dell’oikos, equiparazione psico-fisica della donna all’uomo, governo dei filosofi) che rendevano molto difficile una sua realizzazione concreta, Platone delinea un nuovo progetto politico più facilmente realizzabile, senza peraltro allontanarsi eccessivamente dal modello di kallipolis (174): “Quindi non si tratta di ispirarsi ad un altro modello di Stato (paradeigma politeias) preso chissà dove, ma di attenersi a questo cercandone soprattutto uno che sia il più possibile simile. Ora, quella costituzione che andiamo elaborando, posto che si realizzi, sarebbe appunto la più prossima a tale modello immortale, e quindi sarà seconda quanto a valore (timia deuteros, V, 739 e)”. 

La validità di kallipolis, del resto, oltre che nel libro V delle Leggi, è ribadita anche nel Timeo e nel Crizia. La possibilità di individuare – anche se in un periodo storico molto remoto – un concreto esempio dell’esistenza di kallipolis, infatti, non solo legittima ulteriormente il modello politico della Repubblica, ma orienta e rafforza anche l’intenzionalità progettuale dei fruitori dei dialoghi platonici, spingendoli così ad impegnarsi in prima persona alla trasformazione della realtà politica contemporanea (175), avvertita, a seguito dell’impietoso confronto con la prosperità e la virtù dell’antica Atena, come del tutto insoddisfacente. A confronto del suo splendore e della sua armonia, infatti, l’Atene attuale, proprio come la polis tryphosa descritta nella Repubblica (II, 372 e sgg.), assomiglia piuttosto ad un corpo indebolito e malato (nosesantos somatos, Criti. 111 b), che necessita con urgenza l’intervento terapeutico di quel nuovo ceto intellettuale e politico - lo hiereon genos - che nel Timeo fa la sua prima apparizione.

Se non sottoposta ad una tempestiva riforma politica e morale, infatti, essa, ormai completamente dimentica di quella virtù e saggezza che in un tempo antichissimo la distinguevano sopra le altre poleis, è destinata a fare la stessa fine di Atlantide, città che, nonostante la sua grandissima ricchezza e lo straordinario valore dei suoi abitanti, aveva subito un irreversibile processo degenerativo che ne aveva determinato la definitiva scomparsa.

 

 

4.2.5  La vittoriosa guerra contro Atlantide

 

“Molte dunque e grandi sono le imprese registrate qui che di voi si ammirano; ma ce n’è una che le supera tutte per importanza e valore (megethei kai arete). Dicono infatti i nostri testi che la vostra città arrestò un enorme esercito, che con prepotenza (hybrei) stava avanzando contro tutta l’Europa e l’Asia insieme, proveniente da fuori, dal mare Atlantico” (Tim. 24 d-e).

 

Crizia, per portare a termine il compito che Socrate gli aveva affidato e dimostrare la capacità della polis descritta il giorno prima di “affrontare le prove che una città affronta, scendendo in gara (agonizomenen) con altre città, giungendo ben preparata (prepontos) in guerra e, nel combattere, dando prove conformi all’istruzione (paideia) e all’educazione (trophe) ricevute” (Tim. 19 c), decide di descrivere (diaperainein, Criti. 108 e) la più grande e più gloriosa impresa che, sempre secondo i sacerdoti egiziani, l’antica Atene avesse mai compiuto: la vittoriosa guerra contro Atlantide.

 

In un tempo risalente a circa novemila anni prima di Solone, al di là delle Colonne d’Ercole, esisteva una potente e ricchissima isola dal nome di Atlantide (176), le cui dimensioni erano superiori (meizon) a quelle di Libia ed Asia messe insieme (Tim. 24 e; Criti. 108 e). Su quest’isola si era formata una grande e straordinaria monarchia (megale kai thaumaste dynamis basileon) che non solo dominava (kratousa/erchon)  tutte le isole e i territori al di là dallo stretto, ma anche molte regioni al di qua da esso, come la Libia - fino all’Egitto - e l’Europa - fino alla Tirrenia - (Tim. 25 a-b; Criti. 114 c).

Atlantide, ad un certo momento, spinta dal desiderio di avere di più (cfr. pleonexias, Criti. 121 b) e dalla sua tracotanza (cfr. hybrei, Tim. 24 e), dopo aver concentrato tutte le sue forze, aveva tentato di asservire (doulousthai) quelle terre al di qua dello stretto che non erano ancora sotto il suo potere e, prime tra tutte, proprio l’Egitto e l’Ellade. Essa, tuttavia, pur essendo a capo di una potentissima coalizione che comprendeva tutte le terre al di là delle colonne d’Ercole, non aveva considerato nella giusta misura il valore e la forza (arete te kai rome) dell’antica Atene che “sopravanzando tutti quanti nella generosità (eupsychia) e nelle arti belliche (technais kata polemon), prima a capo dei Greci (Hellenon egoumene), poi inevitabilmente da sola (monotheisa), perché gli altri si erano ritirati, pur essendo giunta all’estremo pericolo riuscì a sconfiggere (kratesasa) gli invasori e a trionfare (tropaion estesen) su di loro, e impedì che fossero fatti schiavi coloro che non erano mai stati asserviti, mentre diede generosamente la libertà (aphthonos eleutherosen) a tutti noi, che abitiamo al di qua dei confini di Ercole” (Tim. 25 b-c; cfr. anche Criti. 108 e).

 

Un polemos dalle caratteristiche molto simili a quello descritto da Crizia, come buona parte dei commentatori ha opportunamente sottolineato (177), era stato realmente combattuto da Atene che, nella prima parte del V secolo, si era per due volte scontrata con una monarchia forte e ricca quanto quella di Atlantide: l’impero persiano. Quest’ultimo, infatti, già in possesso di numerosi territori in Asia Minore, in un modo molto simile ad Atlantide, spinto dal proprio insaziabile desiderio di dominio, si era lanciato alla conquista non solo della Grecia, ma addirittura dell’Europa intera (cfr. Leg. III, 698 b; Menex. 239 d). Prima Dario (490 a.C.) e poi suo figlio Serse (480 a.C.), tuttavia, sebbene al comando di un esercito e di una flotta numericamente nettamente superiori a quelli ateniesi (cfr. Leg. III, 698 b, 699 a-b; Menex. 240 a, 241 b; Erodoto, VII, 54-104; Eschilo, Persiani, vv. 337-347), sottovalutandone fatalmente il valore, furono da essi sorprendentemente sconfitti. Gli ateniesi, in questo modo, similmente a quanto secondo i sacerdoti egiziani avevano fatto i loro illustri progenitori, prima con la cooperazione delle altre città elleniche e poi da soli (cfr. Leg. III, 692 e – 693 a; 699 a), vinsero un esercito molto più potente del loro, allontanando così da essi e dalle altre poleis greche la minaccia della schiavitù (cfr. Menex. 240 e; Erodoto VII, 139).

Più che una vittoria da parte di Atene, tuttavia, come Eschilo sottolinea chiaramente nei Persiani (178), si trattò di una sconfitta da parte dell’impero persiano, determinata non tanto dagli errori strategici dei suoi comandanti, quanto dalla loro corruzione morale, perfettamente esemplificata dal comportamento tracotante e presuntuoso del suo stesso sovrano, vale a dire Serse. Egli, infatti, capo supremo della spedizione contro Atene, dimenticando quali fossero i limiti che l’uomo non deve superare, aveva fatto costruire un imponente ponte di navi sull’Ellesponto, al fine di consentire un agevole passaggio alle innumerevoli schiere che egli aveva arruolato (cfr. vv. 739 sgg; ma cfr. anche Erodoto VII, 35; Leg. III, 699 a). Egli, che “mortale, credeva di essere più potente degli dei” (v. 749), a causa del suo accecamento (ate, cfr. v. 98, 822, 1007 etc.) e della sua tracotanza (hybris, cfr. v. 808, 821 etc.), era andato così incontro all’inevitabile punizione da parte degli dei (cfr. vv. 532-33), rendendosi responsabile non solo della sconfitta, ma anche della completa distruzione dell’esercito persiano.

Anche secondo Platone, del resto, come testimoniano il III libro delle Leggi e l’excursus storico del Menesseno, la sconfitta dei Persiani non era stata determinata tanto dalla loro inferiorità bellica e strategica, quanto dalla mancanza di valore, di spirito di solidarietà e di amicizia nelle file del loro esercito. Pur avendo conosciuto un’epoca d’oro sotto il regno di Ciro (694 a-b) - abile monarca che era stato capace di attuare una giusta sintesi tra schiavitù e libertà (to metrion douleias te kai eleutherias, 694 a) -, i costumi e le condizioni di vita dei persiani, prima sotto il regno di Cambise (694 c - 695 c) e poi ancora sotto quello di Serse (695 d-e; 698 e), erano andati via via peggiorando, a causa della condizione di totale schiavitù (douleia) in cui questi sovrani avevano ridotto i loro sudditi. Essi, infatti, togliendo troppa libertà al popolo ed esercitando un potere dispotico oltre ogni limite, avevano finito per soffocare ogni spirito di solidarietà e di amicizia tra i cittadini (to philon apolesan kai to koinon en te polei, 697 c). Interessati solamente ad accrescere il loro potere (arche) e la loro ricchezza, essi avevano condotto così inesorabilmente i loro sudditi alla dissennatezza, preciso segnale morale dell’imminente declino militare e politico del loro impero (697 d – 698 a). Dotati di un gran numero di soldati, ma privi di quello spirito di collaborazione che spinge ad affrontare con coraggio i pericoli della guerra (697 d), essi erano stati così sconfitti dall’esercito ateniese, senza dubbio molto meno cospicuo, ma forte dell’indissolubile vincolo di amicizia (sphodra philia, 698 c) e del grandissimo senso dell’onore (aidos) dei suo guerrieri (699 c).

 

Del tutto in linea con il III libro delle Leggi, anche la sconfitta di Atlantide, così come la parte finale del Crizia sembra suggerire, non era stata causata tanto dalla forza militare degli ateniesi, quanto dal graduale processo di corruzione morale che aveva irrimediabilmente colpito i suoi abitanti e che, come per Eschilo, aveva determinato l’inevitabile punizione da parte di Zeus e di tutti gli altri dei (cfr. 121 b-c). Essi, infatti, benché avessero a disposizione un territorio estremamente fertile e potessero godere della protezione di un’importante divinità come Poseidone (113 c sgg.), erano col tempo degenerati (121 b), a causa dall’ambizione e della brama di ricchezza che si erano progressivamente impossessate di loro. Essi, infatti, mentre un tempo erano in grado di gestire con disinvoltura “la gran massa d’oro e delle altre ricchezze che possedevano, come si porterebbe un peso, senza lasciarsi ubriacare dal lusso (hypo tryphes) e senza perdere il controllo di sé a causa della ricchezza (dia plouton, 121 a)”, poi persero gradualmente questa capacità, a causa dell’affievolimento della loro natura divina (physeos theias, 121 a). Essi, infatti, “fintanto che la natura del dio ebbe presso di loro la preminenza, furono ossequienti alle leggi (katekooi te esan ton nomon, 120 e)”, ma poi, una volta che la componente umana (to anthropinon ethos) della loro anima – vale a dire quella irrazionale – aveva assunto il sopravvento (epekratei) su quella divina (he tou theou moira) – cioè la parte razionale (cfr. Leg. I, 644 d sgg.; V, 726 a sgg.), degenerarono, perdendo la capacità di dominare la ricchezza e diventando avidi di potere e di beni, senza nessuna remora di giustizia (pleonexias adikou kai dynameos empiplamenoi, 121 b). Spinti dal desiderio di conquistare altri territori e di accumulare nuove ricchezze alle già molte che possedevano, essi affrontarono così la coalizione delle poleis al di qua delle Colonne d’Ercole capeggiata da Atene, venendo superati dalla virtù e dal valore di quest’ultima, prima ancora che dalla forza del suo esercito.

 

Descritto in questi termini, il racconto del polemos tra l’antica Atene e Atlantide, benché monito universale diretto alle città e agli uomini di ogni tempo che si lasciano guidare più dai desideri e dalle passioni piuttosto che dalla ragione (179), appare indirizzato, in modo particolare, all’ammonizione del comportamento etico e politico di una polis ben precisa; alcuni fondamentali elementi del testo platonico, infatti, sembrano indicare abbastanza chiaramente che la principale destinataria di questo mythos dal forte valore gnomico fosse proprio la città di Atene. Essa, infatti, protagonista in un tempo antichissimo della vittoria su Atlantide e in un anni più recenti del duplice successo sull’impero persiano, alla fine del V secolo, ormai completamente dimentica della sua antica arete, più cha alla leggendaria città descritta dai sacerdoti egizi, sembrava assomigliare ad Atlantide.

Atene, infatti, nel periodo immediatamente successivo alle guerre persiane, aveva assunto a livello internazionale un comportamento di tipo tirannico del tutto simile a quello di Atlantide e dell’impero persiano, come, del resto, non avevano esitato ad ammettere né il suo leader più carismatico, Pericle, il quale aveva definito il suo potere come una tyrannis che “è ingiusto forse conservare, ma pericoloso perdere” (Tucidide, II, 63, 2), né uno dei suoi acerrimi nemici, il generale siracusano Ermocrate, protagonista del Timeo e del Crizia, che, in maniera significativa, aveva chiamato Atene la “nuova Persia” (cfr. Tucidide VI, 76, 3-4).

Atene, infatti, a causa della mancanza di discernimento da parte della classe dirigente del V secolo (cfr. Gorg. 515 d sgg.), dopo le guerre persiane, si era trasformata in una superpotenza marittima, caratterizzata da una struttura urbanistica finalizzata all’attacco e alla difesa attraverso il mare (cfr. Tucidide II, 13-14) del tutto simile a quella di Atlantide (cfr. 115 c sgg.) (180). I più importanti uomini politici del V secolo - Pericle, Cimone, Milziade e Temistocle (cfr. 515 d) -, infatti, invece che preoccuparsi di rendere migliori i cittadini (cfr. beltious epoiei tous politas, 515 d), si erano diffusamente impegnati a procurare (ekporizein) alla città navi (naus), mura (teiche), arsenali (neoria, 517 c) e, senza temperanza e senza giustizia (aneu soprodynes kai dikaiosynes), a riempirla (empeplekasi) di porti (limenon) e di tributi (phoron, 519 a), rendendo così Atene una vera e propria potenza navale (thalassokratia).

Costretta ad annettere sempre nuovi territori per far fronte alle enormi spese che la politica imperialistica determinava e a prendere parte a sanguinose campagne militari, essa si era così trasformata in una tyrannis invisa sia a tante poleis del Mediterraneo, sia a molti dei suoi più eccellenti abitanti (181). Essa, infatti, architettonicamente ed economicamente sempre più ricca, ma spiritualmente sempre più povera a causa della libertà senza limiti (panteles eleutheria) e del gusto di prevaricare ogni regola (paranomia) che aveva pervaso i suoi abitanti (cfr. Leg. III, 701 a-c), in modo del tutto opposto all’antica Atene e similmente ad Atlantide, aveva iniziato un graduale processo di decadenza etica e politica (182) che, dalla gloriosa vittoria nelle guerre persiane, l’aveva portata all’inaspettato insuccesso della spedizione in Sicilia (413 a.C.), all’umiliante sconfitta nella guerra del Peloponneso (183) (404 a.C.) e alla inusitata violenza dei due golpe oligarchici (411, 404 a.C.), il secondo dei quali aveva visto come protagonista lo stesso Crizia (cfr. Menex. 242 e sgg.). Egli, infatti, oligarca e leader dei cosiddetti Trenta Tiranni, dopo aver rovesciato il governo democratico e preso il potere, si era macchiato di innumerevoli e orrendi delitti (cfr. Epistola VII 324 c-d; Lisia, Contro Eratostene 5 sgg.) (184), contribuendo ulteriormente a peggiorare la condizione già precaria dell’Atene di fine V secolo e portandola poi a compiere il più ingiusto di tutti i suoi atti: la condanna a morte e l’uccisione di Socrate (399 a.C.), “l’uomo senza dubbio più giusto (dikaiotaton) del suo tempo” (cfr. Epist. VII, 324 e sgg.) (185).

 

Per tutti questi motivi, l’Atene dei tempi di Platone, oltre che del tutto lontana dalla prosperità e dalla virtù dell’antica Atene - e, dunque, anche di kallipolis -, si dimostra anche affetta da una grave malattia etica e politica e, pertanto, più che mai bisognosa di essere al più presto sottoposta ad una terapia che, anche se non la migliore in senso assoluto, sia immediatamente praticabile ed efficace, pena la sua stessa scomparsa, sulla falsariga di quanto era avvenuto alla città di Atlantide. Quest’ultima, infatti, a causa di una serie di “immensi terremoti e cataclismi (seismon exaision kai kataklysmon)” che avevano tragicamente colpito il genere umano, nel volgere di un giorno e di una notte, era scomparsa per sempre inabissandosi nel mare (Tim. 25 d; Criti. 108 e – 109 a).

L’antica e gloriosa Atene, al contrario, sebbene anch’essa drammaticamente colpita da questa catastrofe, non era stata completamente annientata, dal momento che alcuni uomini – lo spermatos bracheos di Tim. 23 b  -, erano riusciti a salvarsi, diventando così non solo i più eccellenti testimoni della validità e della realizzabilità di kallipolis, ma anche i futuri protagonisti della rinascita tecnica, morale e politica dell’umanità stessa (cfr. Leg. III, 677 a sgg.).

 

 

Una nuova immagine dell’origine del genere umano e dell’età dell’oro: il III e il IV libro delle Leggi

 

Nel III libro delle Leggi, prima di intraprendere il discorso sulla miglior forma costituzionale da attribuire alla nuova polis che i tre protagonisti del dialogo si stanno accingendo a “fondare attraverso il discorso”, Platone ritorna ad interrogarsi sulla situazione originaria del genere umano e sulle modalità attraverso le quali esso è giunto alle odierne forme di organizzazione politiche e sociali. Egli, in particolare, riprendendo la teoria delle cicliche catastrofi naturali delineata nel Politico e nel Crizia, analizza in maniera approfondita l’ipotesi della scomparsa di tutte le conoscenze e di tutti gli strumenti tecnici a causa di uno straordinario diluvio, al quale solo un ristretto numero di pastori era riuscito a sopravvivere.

La condizione di questi pochi superstiti, tuttavia, non era così drammatica e precaria come quella descritta da Platone nel Politico e nel Protagora; essi, infatti, benché in possesso di un numero limitato di risorse, erano in grado di procurarsi il necessario per vivere senza troppe difficoltà, colmando la loro povertà tecnica e materiale grazie alla loro eccezionale virtù che, a differenza degli uomini attuali, li aveva resi non solo spontaneamente socievoli, ma anche in perfetta armonia con gli dei.

Essi, proprio sulla base del loro rispetto per i dogmi della religione, nel contesto di un’opera dal forte carattere teologico come le Leggi, diventano così modello di virtù per tutti i cittadini della nuova città, così come, allo stesso modo, il governo che la divinità in un tempo antichissimo – l’età di Crono – aveva realizzato nel mondo umano, nel libro IV diventa il paradigma stesso a cui il legislatore, sulla base della sua superiore conoscenza teologica e astronomica, deve assolutamente fare riferimento nella delineazione della nuova forma costituzionale.

 

 

 Il prologo alla fondazione della colonia cretese: il libro III

 

Un anonimo personaggio proveniente da Atene (186), lo spartano Megillo e il cretese Clinia, nelle Leggi, si incontrano sulla via che da Cnosso porta alla grotta (antron) del monte Ida (I, 625 b), luogo sacro (hieron) e meta di pellegrinaggio dove, secondo la tradizione mitologica, Rea aveva nascosto il figlio Zeus appena nato per evitare che il padre Crono lo uccidesse, in quanto a conoscenza del fatto che proprio uno dei suoi figli lo avrebbe spodestato (cfr., in particolare, Esiodo, Teogonia, vv. 477 sgg.). L’Ateniese, l’assoluto protagonista delle Leggi (187), considerando la lunghezza del tragitto, la loro età ormai avanzata e la calura quasi insopportabile, propone a Clinia e a Megillo di effettuare frequenti soste nelle zone d’ombra ai margini della strada (625 b) e di intraprendere insieme ad essi un’importante discussione (diatribe) “intorno alla costituzione delle città e alle leggi (peri te politeias kai nomon, 625 a)”.

L’Ateniese, ancor prima di dare inizio a questa indagine, si compiace della presenza di due persone accorte e competenti come Clinia e Megillo (cfr. anche III, 702 b-c), convinto che essi, a motivo della loro eccellente provenienza ed educazione, sapranno portare un determinante contributo nella discussione intorno alle politeiai e ai nomoi; essi, infatti, formati da prestigiose consuetudini e leggi (cfr. ethesi tethraphthe nomikois, I, 625 a) quali quelle di Creta e di Sparta, rappresentano due importanti e antichissime tradizioni costituzionali che, unanimemente fatte risalire a due figure mitiche e semi-divine come Minosse e Licurgo (cfr. 630 d; 632 d), ad Atene come in altre città greche erano oggetto di apprezzamento da parte di molti intellettuali (cfr. 631 b; Minosse 318 c-d). La politeia cretese, infatti, secondo la tradizione mitologica donata da Zeus al figlio Minosse - ottimo sovrano e uomo giustissimo (cfr. Omero, Odissea, XI, 568-71; XIX, vv. 178-79; Esiodo, fr. 103 Rzach) - proprio nell’antro ai piedi del monte Ida (cfr. Minosse, 319 e), rappresentava un eccellente modello legislativo per tutti i greci (188) e, in particolare, per gli spartani che, nonostante il loro proverbiale “orgoglio nazionale”, facevano derivare la loro stessa costituzione da quella cretese (cfr. Erodoto, Storie, I 65, Senofonte, Costituzione degli Spartani, V, 2 e, Minosse, 318 c sgg.). La costituzione spartana, invece, secondo il mito donata da Apollo a Licurgo (cfr. Senofonte, I; Erodoto, I, 65; Leg. I, 632 d) garanzia non solo di coesione interna, ma anche di stabilità delle istituzioni, tra la fine del V e l’inizio del IV secolo aveva trovato un consistente numero di ammiratori nella stessa Atene che, come dimostrano la Costituzione di Sparta di Crizia e quella di Senofonte, idealizzava sia il suo programma educativo (agoge), sia la sua stessa forma di governo (eunomia) (189).

 

Proprio partendo dall’analisi della politeia cretese e di quella spartana, l’Ateniese invita così Clinia e Megillo a riflettere in maniera generale sulle leggi e sulle costituzioni e, in particolare, ad interrogarsi sulle finalità che queste devono perseguire, individuando il loro telos nel raggiungimento e nel mantenimento della pace e della concordia civile (eirene pros allelous ama kai philophrosyne) per quanto riguarda le città (628 c) e della pienezza della virtù (sympasa arete) per quanto riguarda i cittadini (630 b sgg.).

La discussione intorno alle modalità attraverso cui le diverse costituzioni possono raggiungere queste finalità (libri I-II), del resto, al di là della sua indiscutibile rilevanza teorica, si rivela anche particolarmente utile in vista del compito istituzionale che l’Ateniese stesso si sta accingendo a svolgere; egli, infatti, nella parte finale del libro III, rivela di aver ricevuto dagli abitanti di Cnosso l’incarico, insieme ad altre nove persone, di redigere la costituzione (nomous tithesthai) di una nuova colonia che i cretesi hanno intenzione di fondare (apoikian poiesasthai), inserendo “leggi patrie, nella misura in cui ci soddisfano, oppure anche quelle leggi straniere che ci sembrano migliori (beltious) senza troppo badare al fatto che non siano nostre” (III, 702 c).

Egli, a questo proposito, sottolineando la casuale (cfr. kata tychen, 702 b) conformità del discorso intrapreso all’incarico costituzionale da lui stesso ricevuto, in modo del tutto analogo a quanto aveva fatto Socrate nella Repubblica (cfr., ad esempio, l’oikizomene polei di III, 403 b), invita così Clinia e Megillo a collaborare con lui nella fondazione teorica di una città (cfr. to logo systesometha polin), quasi costruendola dalle fondamenta (hoion ex arches katoikizontes, 702 d; ma cfr. anche il logo katoikizein ten polin di 702 e; il dianoethenai ten polin di 704 a); “in questo modo, infatti, noi avremo l’opportunità di approfondire l’oggetto della nostra ricerca ed io, da parte mia, avrò la possibilità di sfruttare la struttura politica che uscirà dalla nostra indagine per la città che sono in procinto di costruire (eis ten mellousan polin taute te systasei, 702 d)”.

L’Ateniese, Clinia e Megillo, tuttavia, prima di cimentarsi nella delineazione della miglior forma di politeia possibile - seconda in quanto a valore solo alla kallipolis della Repubblica (cfr. V, 739 a sgg.) -, ritengono opportuno condurre un’indagine critica sia su alcune delle più importanti forme costituzionali del passato - a partire da quella di Troia (III, 682 b sgg.) fino ad arrivare a quella dell’Atene democratica di inizio IV secolo (700 d sgg.) -, sia sul rispettivo modo di vita degli abitanti di queste poleis (190). Essi, in questo modo, seguendo “l’evoluzione delle città sia quando progrediscono nel senso della virtù, sia quando regrediscono nella direzione del vizio” (676 a, ma cfr. anche 686 b-c), intendono comprendere quali caratteristiche una buona costituzione debba possedere - libertà (eleutheria), concordia civile (philia), intelligenza (nous, 693 d; 701 d) - e quali, al contrario, evitare - ignoranza (amathia, 688 e) eccesso di libertà (pasa eleutheria) e di dispotismo (pasa bouleia, 698 a-b; 699 e; 701 e) -, al fine di garantire non solo la prosperità della città (cfr. l’eudaimona polin di 683 b), ma anche il benessere dei suoi abitanti. L’Ateniese stesso, infatti, nella parte finale del libro III, riassumendo i risultati raggiunti dall’analisi delle politeiai del passato, afferma: “Orbene, questi temi sono stati dibattuti per stabilire a che condizioni una città possa essere amministrata nella maniera più perfetta e, nell’ambito della sfera privata (idia), come un singolo cittadino possa condurre la miglior vita possibile (702 a-b)”. (191)

 

Il modo di vita e l’assetto politico attuali, tuttavia, al di là del loro rapporto con le politeiai del recente passato, si rivelano essere il prodotto di un lunghissimo e graduale (cfr. kata smikron en pampollo tini chrono, 678 b; ma cfr. anche 683 a) “processo storico” che, dalla condizione originaria del genere umano (677 e) attraverso il patriarcato (dynasteia, 680 b sgg.), la polis aristocratica (680 e sgg.), lo Stato monarchico (681 d sgg.), la monarchia assoluta (694 a sgg.) e la politeia democratica (698 a sgg.), ha portato alle forme costituzionali del IV secolo (192) (cfr. 678 a-b). Pertanto, ancor prima di indagare sul recente passato, è necessario interrogarsi sulla primigenia situazione dell’umanità e sulle modalità attraverso le quali gli uomini sono giunti all’attuale stadio (678 b) di sviluppo tecnico, culturale e politico.

Platone, in questo modo, anche nelle Leggi, nell’ultimo dei suoi dialoghi (193), torna a prendere in considerazione la problematica della Kulturgeschichte, offrendo un quadro, per molti aspetti, simile a quello prospettato dalle altre sue opere prese in considerazione (Politico, Protagora, Repubblica, Timeo, Crizia), ma con anche qualche differenza di non poco conto.    

 

 

 La nascita della polis e la difficoltà della sua indagine

 

Secondo l’Ateniese, un numero immenso ed incalcolabile (apleton kai amechanon, 676 b) di anni è trascorso dal momento in cui le città ebbero origine e gli uomini incominciarono a vivere nelle comunità politiche (anthropoi politeuomenoi, 676 b). Nell’intervallo di tempo che separa questo fondamentale momento della “storia” del genere umano dall’epoca attuale, infatti, “migliaia e migliaia (myriai epi myriais) furono le poleis che vennero alla luce (gegonasi) e altrettante, neppure una di meno, quelle che si dissolsero (ephtharmenai). E non hanno forse avuto più volte e in più luoghi tutte le possibili costituzioni, diventando da piccole grandi e da grandi piccole, peggiori da migliori che erano, e da peggiori migliori? (194)” (676 b-c).

Pertanto, a causa del lunghissimo periodo di tempo trascorso e delle innumerevoli trasformazioni (apo chronou mekous te kai apeirias kai ton metabolon, 676 a-b) a cui le diverse politeiai sono state soggette, risulta molto difficile ricostruire le originarie modalità che determinarono la nascita  (gegonenai, 676 a) delle poleis (195); disperso nella “notte dei tempi”, il ricordo del processo che ha portato alla loro origine, infatti, è quasi completamente svanito, a causa soprattutto di quelle terribili distruzioni (phthoras) - inondazioni (kataklysmois), malattie (nosois) ed altre ancora (allois pollois), cfr. 677 a) - che, in occasione dei mutamenti cosmici di cui parla il Politico (cfr. 270 c) e che qui sono ricordati dal metabolon di 676 b, periodicamente colpiscono l’umanità, riducendo il genere umano ad un esiguo numero di individui (brachy ti ton anthropon genos, 677 a; cfr. anche lo spermatos bracheos di Tim. 23 b) e cancellando ogni memoria del passato (cfr. Pol. 270 c sgg.; Timeo 22 c sgg.; Crizia 109 d sgg.).

A causa di tutti questi fattori, pertanto, risulta impossibile ricostruire oggettivamente il processo che, dalla condizione originaria dell’umanità, ha portato alla nascita delle città (ten proten politeion genesin, 676 e), ma ci si deve accontentare di una conoscenza solo approssimativa di tali eventi (cfr. pithanon di 677 a; eikos di 677 b, ma anche 691 d) - in particolare di quelli immediatamente successivi ai vari cataclismi -, affidandosi così nuovamente alle straordinarie potenzialità evocative e descrittive del mythos: “Proseguiamo allora nell’esposizione di questo mito che ora prende la nostra attenzione, perché ho l’impressione che da esso verranno altre indicazioni utili per il nostro progetto di ricerca (682 a, ma cfr. anche 680 d; 683 d)”.

L’ipotesi stessa della ciclica distruzione del genere umano da parte di terribili catastrofi (pollas anthropon phthoras, 677 a), del resto, non può essere direttamente verificata, ma deve essere accolta come un postulato della cui validità sono garanti quegli antichi racconti (palaioi logoi) che, sopravvissuti nel tempo e giunti fino a noi, descrivono in maniera verosimile (aletheian echein tina, 677 a) quei tragici avvenimenti. Strutturalmente impossibile, inoltre, è anche l’esame dettagliato di tutte le migliaia di catastrofi che si sono verificate nei secoli e delle importanti conseguenze che ciascuna di esse ha determinato per il genere umano; molto più semplice e vantaggioso, al contrario, adottando un processo di riduzione analitica simile a quello che Socrate aveva utilizzato nella Repubblica (II, 369 b-c), è prendere in considerazione solo uno dei tanti cataclismi (cfr. 677 a) che hanno avuto luogo e, servendosene come di un modello matematico e ipotizzando che anche in occasione delle altre catastrofi si siano verificati eventi del tutto simili, partire da esso per ricostruire in maniera ragionevole le condizioni e il comportamento di quei pochi superstiti.

Platone, del resto, già nel Timeo, aveva messo in atto una strategia di semplificazione di questo genere, non prendendo in considerazione tutte le catastrofi naturali (come ad es. terremoti, epidemie etc.) che nell’arco dei secoli si erano abbattute sul genere umano, ma soltanto le due più rilevanti e ricorrenti: le distruzioni causate dal fuoco (pyri) e dall’acqua (hydati, cfr. Tim. 22 c sgg.). Qui nelle Leggi poi, così come già nel Crizia (109 d sgg.), Platone compie un ulteriore passo in avanti, decidendo di non sviluppare ulteriormente anche il discorso su quelle deflagrazioni che, in occasione della deviazione (parallaxis) del moto dei corpi celesti (cfr. Pol. 269 b sgg.; Tim. 22 d), provocano la combustione delle regioni terrestri e la morte di tutti coloro che abitano sui monti o nei luoghi alti e aridi (Tim. 22 d). Egli, al contrario, decide qui di considerare solamente il secondo tipo di cataclismi di cui parla il Timeo, quelli cioè provocati dalle inondazioni e dai diluvi (cfr. kataklysmo, 677 a) che, contrariamente a quanto accade in occasione delle distruzioni provocate dal fuoco, colpiscono le città ubicate nelle pianure e sulle sponde del mare (677 c), risparmiando solamente i pastori e i mandriani che abitano sui monti o che in questi luoghi riescono a rifugiarsi (cfr. Tim. 22 d-e; Criti. 109 d): “Possiamo ipotizzare (cfr. dianoethentes, 677 a) che i sopravvissuti fossero dei pastori d’alta montagna che trovarono scampo sulle vette dei monti (en koryphais) e che per questo furono destinati a diventare fiammelle dell’umanità (smikra zopyra tou ton anthropon genous, 677 b)”.

Come si deve dunque pensare che fossero organizzati questi pochi superstiti scampati (periphygontes, 677 a) all’impeto delle inondazioni? Che tipo di vita essi conducevano? Quali espedienti avevano adottato per garantire la propria sopravvivenza?

 

 

 Le forme di organizzazione messe in atto dai sopravvissuti al diluvio

 

Coerentemente all’ipotesi del diluvio, bisogna immaginare che i pochi superstiti si fossero trovati di fronte un paesaggio avvilente, caratterizzato dalla presenza di deserti sconfinati (ges aphthonou), pieni di carcasse di animali di ogni genere (677 e). Immersi in un paesaggio dai tratti apocalittici e spettrali ben diverso da quello idilliaco dell’età dell’oro, essi vivevano in una condizione contraddistinta non solo da un’immensa e paurosa solitudine, ma anche dalla dimenticanza di tutte quelle arti (cfr. ton allon apeirous einai technon, 677 b) e di tutte quelle scoperte tecniche (ti technes) che il genere umano aveva conquistato a prezzo di grandi fatiche (677 c).

Tutte le più importanti nozioni tecniche, infatti, in linea con quanto riporta la tradizione mitologica, non erano in possesso del genere umano già dai suoi primordi (677 c), ma vennero scoperte in modo graduale nei tempi successivi e poi, a causa dell’infinito ripetersi delle catastrofi naturali, di nuovo perse e di nuovo riportate alla luce dall’uomo per migliaia di volte (196) (myriakis, 677 d). Invenzioni come quelle di Dedalo, Orfeo, Palamede, Marsia, Olimpo, Anfione (677 d) ed Epimenide (197) (677 e), infatti, ben lungi dall’essere state fatte in un tempo antichissimo, risalgono tutte ad un periodo relativamente recente, se è vero che esse, secondo quanto afferma la tradizione, non datano più di mille o duemila anni (677 d).

Scoperte quali la musica (677 d), le lettere, l’architettura, del resto, rivolte più al diletto e alla decorazione che alla produzione dei mezzi necessari alla conservazione del genere umano, del tutto in linea con le indicazioni del Crizia (109 d sgg.), non avrebbero potuto trovare spazio nella vita di uomini interamente dediti a procurarsi le risorse necessarie alla sopravvivenza quali erano i pochi superstiti al diluvio. Per questo stesso motivo, infatti, invenzioni come la musica, la pittura, la poesia non avevano trovato posto all’interno di una comunità interamente finalizzata al soddisfacimento dei bisogni primari come l’anankaiotate polis della Repubblica (cfr. II, 369 b sgg.) o come la prima forma comunitaria descritta da Democrito (cfr. Diodoro, 2,16.1); discipline ed attività di questo genere, infatti, sono destinate a fare la loro apparizione solamente in tempi più recenti, all’interno di quelle città che, come la polis tryphosa della Repubblica (II, 372 e sgg.), sono in grado di provvedere in maniera stabile alla trophe dei loro abitanti.

 

Del tutto lontana da queste condizioni, invece, è la situazione di quei pochi superstiti di cui parlano le Leggi; essi, infatti, oltre ad essere completamente ignari di tutte le invenzioni di cui si è detto, a causa del diluvio avevano perduto anche tutti gli strumenti tecnici (677 c) o, nella migliore delle ipotesi, “se pure un qualche strumento sui monti si era salvato, consumandosi con l’uso, in breve era diventato inservibile, senza la possibilità di essere sostituito” (678 d). Questi uomini, infatti, non erano in grado né di produrre né di riparare gli organa utili alla vita quotidiana (678 e), dal momento che non erano ancora in possesso di una tecnica fondamentale quale quella della fusione dei metalli (678 d); tutti i metalli (panta ta metalleia), del resto, ferro (sideros) e bronzo (chalkos) compresi, “erano scomparsi, confusi in una specie di magma (syncechymena) che rendeva difficile estrarli in maniera pura (anakathairesthai), tenuto anche conto dell’esigua disponibilità di alberi da taglio (druotomias spanin, 678 c-d)”.

 

Ma allora, se queste erano le condizioni di quei pochi superstiti al diluvio, in che modo potevano essi sopravvivere, sprovvisti com’erano degli strumenti e delle tecniche più importanti? Quale genere di risorse avevano a loro disposizione per assicurare la propria conservazione?

L’Ateniese, in modo abbastanza sorprendente, afferma che quegli uomini non avevano grossi problemi nel procurarsi i mezzi necessari alla propria sopravvivenza (198). Da quei pochi buoi e capre che per puro caso erano scampati al diluvio, essi, infatti, nei momenti immediatamente successivi alla catastrofe, avevano tratto il necessario per sopravvivere (677 e – 678 a). Sfruttando la preziosa presenza di questi animali unitamente a quella di numerosi luoghi adatti al pascolo (nomes ouk spanis), essi si erano così presi cura dell’allevamento di questi armenti, facendo del latte e della carne che essi offrivano in abbondanza la loro principale fonte di sostentamento (to pleiston diezon, 679 a) (199). Oltre ad avvalersi di questa fondamentale risorsa poi, essi erano anche in grado di andare a caccia (thereuontes), procurandosi così cibo non solo qualitativamente ottimo, ma anche quantitativamente abbandonante (679 a) (200).

Quei pochi superstiti, inoltre, non erano del tutto privi di mezzi, ma, in una condizione del tutto simile a quella descritta nel Protagora a seguito dell’intervento di Prometeo (cfr. Prot. 322 a), essi potevano ampiamente disporre di vestiti (ampechones), coperte (stromnes), abitazioni (oikeseon), stoviglie da cucina e vasi (201) (skeuon empyron te kai apyron, 678 a). Essi, infatti, sebbene del tutto ignari della tecnica della fusione dei metalli e di quella della coltivazione della terra, possedevano l’arte della tessitura (plektikai) e della lavorazione della ceramica (plastikai), dal momento che un’imprecisata divinità (202), comportandosi in modo simile a Prometeo, Atena ed Efesto (cfr. Pol. 274 c sgg.; Prot. 321 c sgg.; Tim. 24 c sgg.; Criti. 109 b sgg.), aveva donato loro queste tecniche, procurando così al genere umano le risorse necessarie sia a superare i momenti critici (aporian) determinati dalla catastrofi, sia a continuare il proprio processo di  crescita e di sviluppo (679 a-b).

 

La situazione originaria del genere umano, pertanto, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, non era poi così precaria e drammatica come quella descritta dal Politico (274 b-c) e dal Protagora (321 c; 322 b-c); l’umanità, infatti, secondo il quadro delineato dall’Ateniese, benché inevitabilmente ridotta a poche unità, non aveva mai corso un vero e proprio pericolo di estinzione, né a causa degli assalti degli altri animali, né a causa dei conflitti che tra gli uomini stessi erano sorti. I pochi superstiti al diluvio, infatti, dal momento che possedevano da subito tutte le risorse necessarie alla loro conservazione e poiché “non erano del tutto poveri (penetes) e la povertà non li aveva ancora resi ostili gli uni agli altri (679 b)”, non avevano dato vita a quella universale dinamica conflittuale che Glaucone, nella Repubblica (cfr. II, 358 e sgg.), aveva indicato come la condizione naturale del genere umano.

Tali uomini, infatti, dal momento che il cibo non costituiva motivo di  contesa, similmente agli abitanti della prote polis descritta da Socrate nella Repubblica (cfr. l’hedeos synontes allelois di II, 372 b), erano legati fra loro da affetto e da amicizia (egapon kai ephilophronounto allelous, 678 e); essi, inoltre, benché il ricordo dell’alluvione incutesse ancora in loro la paura (phobos) di scendere dai luoghi elevati verso le pianure, erano divenuti particolarmente desiderosi di incontrarsi (678 c). A quel tempo, infatti, a causa della scarsità stessa di uomini (dia oligoteta) e della perdita di tutti i mezzi di trasporto, c’erano talmente poche opportunità di associarsi (symmisgein allelois) che quei loro sporadici incontri diventavano ancora più piacevoli (678 c).

Né troppo poveri (penetes) - perché in possesso di tutte le risorse vitali -, né troppo ricchi (plousioi) - perché privi di oro e di argento -, essi, inoltre, non conoscevano alcuna forma di violenza (hybris) e di ingiustizia (adikia), né tra essi sorgeva alcun tipo di rivalità (zeloi) ed invidia (phthonoi, 679 b-c). A causa del diluvio, infatti, insieme alle arti e alle conoscenze tecniche, erano scomparse non solo tutte quante quelle “macchinazioni che gli uomini delle città escogitano gli uni ai danni degli altri, mossi dal desiderio di prevaricazione (pleonexias) e dall’ambizione (philonikias), ma anche tutte quante quelle altre malvagità (kakourgemata) che essi si arrecano l’un l’altro” (677 b).

In molti luoghi e durante quel periodo, pertanto, in modo del tutto simile a quanto era avvenuto nel corso dell’età di Crono (cfr. Pol. 271 e), non vi fu traccia né di guerre (polemos) né di sedizioni (stasis, 678 e), di tutti quei grandi mali cioè che, tra la fine del V secolo e l’inizio del IV secolo, avevano arrecato gravi danni alle città greche e, in particolare, ad Atene.

 

 

5.4  L’assenza della politica e del sapere: un’altra “comunità di maiali”?

 

Coerentemente all’ipotesi del diluvio, bisogna anche pensare che i pochi superstiti, oltre agli strumenti (organa) e alle conoscenze tecniche (technai), avessero perduto anche “tutte le istituzioni politiche (politikes) e ogni forma di sapere (sophias tinos eteras, 677 c)”; è ragionevole ipotizzare, infatti, che essi avessero completamente perso ogni memoria delle città, delle costituzioni (politeiai) e di tutte le forme di legislazione (nomoi) che prima del diluvio caratterizzavano l’esistenza degli uomini (678 a).

Il loro numero esiguo, la relativa abbondanza dei beni a loro disposizione, la loro spontanea socievolezza, del resto, non rendevano necessaria (cfr. l’out’edeonto di 680 a) né la fondazione delle città né la nascita della legislazione. Essi, infatti, poiché non avevano grossi problemi nel procurarsi da sé tutte le risorse indispensabili alla propria sopravvivenza, non avevano bisogno di dare vita ad una “comunità di produzione e di scambio di beni” come l’anankaiotate polis della Repubblica (cfr. II, 369 b sgg.). In secondo luogo poi, dal momento che la loro condizione intermedia tra la povertà e la ricchezza garantiva l’eccellenza dei loro costumi (679 b), essi si comportavano naturalmente secondo giustizia, senza bisogno di alcuna imposizione esterna.

Costretti a lavorare per sfruttare al meglio quelle poche, ma preziose tecniche che avevano a disposizione (allevamento, caccia, tessitura etc.), quei pochi sopravvissuti, più che agli opulenti ed oziosi uomini dell’età di Crono (cfr. Pol. 271 e sgg.), assomigliano ai morigerati e operosi abitanti della prote polis della Repubblica (II, 372 a-d) o dell’antica Atene di cui parla il Crizia (100 c-d; 112 c-e). Essi, infatti, in modo del tutto simile a questi ultimi, benché ancora all’oscuro di ogni forma politica e legislativa, trascorrevano una vita serena all’insegna di quella euetheia (203) e di quel metrios (cfr. 679 c) che da sempre, nel mondo greco, erano sinonimo di virtù e di sapienza, del tutto all’oscuro, al contrario, di quella hybris e di quella pleonexia che caratterizzano gli uomini del giorno d’oggi (cfr. 677 b).

Essi, infatti, del tutto privi di oro, di argento e di qualsiasi altra ricchezza, non desideravano accumulare nuovi beni, ma si accontentavano di possedere le risorse strettamente necessarie alla loro sopravvivenza; inoltre, a causa della loro semplicità e bontà d’animo (cfr. l’agathoi di 679 c), non prendevano lontanamente in considerazione la possibilità né di ordire inganni gli uni a danno degli altri, né di pronunciare il falso; essi, al contrario, “ciò che sentivano definire come buono (kala) o cattivo (aischra) lo tenevano per vero e ad esso si conformavano, per il fatto che, a differenza di ciò che accade ai nostri giorni (hosper ta nyn), nessuno con malizia sospettava di poter essere ingannato (679 c)”.

 

Questi uomini, pertanto, “pur essendo meno progrediti (atechnoteroi) di quelli che vissero prima del diluvio e di quelli che vivono attualmente e anche meno esperti (amathesteroi) in tutte le arti che si sarebbero formate (679 d)”, sotto il profilo della virtù, si dimostrano nettamente superiori agli uomini di oggi che, a causa del graduale processo di corruzione morale che li ha colpiti, sono arrivati non solo a non fidarsi più dei stessi loro simili, ma anche ad escogitare tutti i mezzi possibili per arrecare loro danno e ingiustizia (679 d-e). Benché maggiormente esperti delle arti che riguardano la guerra (pros tas polemikas), essi, tuttavia, non hanno imparato solo quelle tecniche che servono a combattere i nemici per terra e per mare, ma anche quelle che, all’interno della città, permettono di danneggiare gravemente, attraverso la parola e con i fatti (logois ergois te), i loro stessi concittadini, trascinandoli nei tribunali (dikai) e dando vita alle guerre civili (staseis, 679 d).

Essi, infatti, del tutto in linea con le osservazioni fatte da Glaucone e Adimanto nel II libro della Repubblica (II, 358 e sgg.), ritenendo l’ingiustizia più vantaggiosa, “più forte (ischyroteron), nobile (eleutherioteron), autorevole (despotikoteron) della giustizia” (cfr. Resp. I, 344 c), sembrano perfettamente a conoscenza non solo di tutti quei mezzi attraverso i quali danneggiare i loro stessi concittadini, ma anche di tutte quelle strategie - il ricorso alle congiure (synomosiai), alle consorterie (hetairiai), all’abilità dei maestri di persuasione (peithous didaskaloi, 365 d) e alla violenza (bia, 361 b) - che permettono di commettere ingiustizie senza doverne pagare la pena.

Oltre a provare piacere nel procurare danno ai propri concittadini, a causa del loro phthonos, hybris e pleonexia, gli uomini attuali hanno anche perso ogni fiducia non solo nei loro stessi simili, ma - cosa ancor più grave - anche negli dèi. Mentre i pochi superstiti non osavano mettere in discussione né le parole degli uomini né i dogmi relativi agli dèi (peri theon te kai anthropon ta legomena alethe nomizontes, 679 c), gli uomini di oggi, al contrario, temendo di essere ingannati, non solo non prestano più fede ai discorsi dei propri simili, ma hanno anche perduto ogni forma di rispetto nei confronti degli dei e della religione.

Anche gli ateniesi, del resto, un tempo caratterizzati da costumi del tutto simili a quelli dei superstiti al diluvio o a quelli dei loro antichi progenitori di cui parla il Crizia, al tempo di Platone, come la parte finale del III libro lascia inequivocabilmente intendere, erano stati colpiti da un graduale processo di corruzione etica e politica che, dal fasto della vittoria nelle guerre persiane (490 e 480 a.C.), li aveva condotti all’umiliazione della sconfitta nella guerra del Peloponneso (404 a.C.). Essi, infatti, dopo aver dato prova di grande valore, ossequio alle leggi (tois nomois douleusai, 698 c; 699 c; 700 a), senso di reciproca amicizia (sphodra philia, 698 c; 699 c) e fiducia negli dei (cfr. 699 b) ai tempi delle guerre persiane, nel corso del V secolo erano degenerati, a causa della hybris e della pleonexia – che li aveva spinti a trasformare la città in una potenza marittima costantemente impegnata in sanguinose guerre (polemoi) – e a causa dell’adikia e dello phthonos – che per due volte (411, 404 a.C.) li aveva condotti alla guerra civile (stasis). Essi, infatti, caratterizzati da una libertà senza limite (panteles eleutheria, 698 a; 701 a, b) e dalla perdita di quel senso di riverenza (aidos, 698 b; 699 c; 701 a) che all’inizio del V secolo li aveva resi modello di virtù per tutti i greci, erano arrivati a rifiutarsi di obbedire non solo a propri genitori (patros kai metros), ma anche alle loro stesse leggi (701 b), non rispettando più i giuramenti fatti, dimenticandosi degli impegni sottoscritti e, cosa ancora più grave, disinteressandosi completamente degli dèi (horkon kai pisteon kai to parapan theon me phrontizein, 701 c) (204).

Per tutti questi motivi, pertanto, essi, benché in possesso di forme politiche e culturali all’avanguardia, sotto il profilo morale appaiono nettamente inferiori ai pochi superstiti al diluvio; contraddistinti non solo da una spontanea semplicità e bontà d’animo, ma anche da un indiscutibile rispetto per i dogmi della religione, infatti, quegli uomini e tutte “le molte generazioni (pollai geneai) che vissero in questo modo (679 d) […] furono certamente non solo più morigerati (euethesteroi) e valorosi (andreioteroi), ma anche più temperanti (sophronesteroi) e giusti (dikaioteroi, 679 e)”.

Sebbene all’oscuro, oltre naturalmente dei grandi mali, anche di quei grandi beni che oggi le città offrono (678 b), la loro indole e il loro modo di vita sono apertamente elogiati dall’Ateniese che, nonostante essi - a causa dei tempi in cui vissero - non abbiano potuto raggiungere un’esperienza completa della virtù e del vizio (teleous pros areten e pros kakian, 678 b), non li descrive utilizzando quei termini ambigui che lo Straniero di Elea aveva riservato agli uomini dell’età dell’oro (cfr. Pol. 272 b-d). I pochi sopravvissuti al diluvio, infatti, sebbene privi di quella sophia che - insieme alla dikaiosyne, alla sophrosyne e all’andreia (III, 679 e) - costituisce la virtù (arete) nella sua pienezza (I, 629 b), a differenza degli abitanti della prote polis della Repubblica, non sono definiti ironicamente una “comunità di maiali” (cfr. II, 372 d), ma il ritratto che di essi l’Ateniese offre è totalmente positivo.

La presenza o l’assenza della dimensione culturale e, in modo particolare, della filosofia, del resto, criterio discriminante per il giudizio sul valore degli uomini dell’età di Crono e degli abitanti della prote polis, qui nelle Leggi non costituisce più un elemento così decisivo (205), mentre, al contrario, diventano fondamentali il rispetto dei dogmi della religione e la fede negli dèi, qualità che, del tutto trascurate dagli uomini che vivono attualmente, contraddistinguevano senza alcun dubbio l’esistenza di quei pochi superstiti al diluvio.

Come si può spiegare questo significativo mutamento di prospettiva da parte di Platone? Per quale motivo la religione riveste un ruolo così importante nelle Leggi?

Per dare una risposta soddisfacente a questi interrogativi si rende necessario analizzare nei dettagli il nuovo quadro teorico che Platone delinea nelle Leggi, focalizzando l’attenzione sul fondamento teocratico che egli assegna all’ordine etico-politico della colonia cretese.

 

 

5.5  L’importanza della religione e la difesa dei dogmi tradizionali

 

La religione, che nella Repubblica rivestiva un ruolo solamente marginale, nelle Leggi, come il loro incipit preannuncia (cfr. I, 624 a), diventa il fondamento stesso del nuovo ordine politico della colonia cretese (206). Nella Repubblica, infatti, la validità dell’assetto sociale, etico e politico di kallipolis era stata dimostrata da Platone in maniera del tutto autonoma rispetto ai tradizionali dettami della religione greca, facendo riferimento unicamente alla conoscenza noetica di quei paradigmi metafisici rappresentati dalle idee e dal Bene. La religione tradizionale, del resto, sottoposta ad una penetrante critica da parte di Adimanto (Resp. II, 364 b sgg.), si era rivelata del tutto incapace sia di offrire un’adeguata protezione all’obbligo morale della giustizia sia di dimostrare la sua auspicabilità. Platone, pertanto, al fine di confermare la validità dell’orizzonte dei valori legati alla dikaiosyne - insieme di valori su cui la kallipolis della Repubblica è interamente fondata -, era stato costretto a mettere da parte tutte quelle argomentazioni di carattere religioso che esortano alla giustizia e a dimostrare la sua desiderabilità in maniera autonoma (cfr., ad esempio il lanthanon theous di II, 366 e; 367 e), facendo riferimento solamente alla struttura psichica che caratterizza tutti gli uomini (IV, 444 d–e).

Procedendo in questo modo, pur non sottovalutando la capacità del discorso religioso di determinare la condotta degli uomini (207), Platone aveva costruito una stato essenzialmente “laico”, basato interamente sulla conoscenza del mondo delle Idee e perfettamente capace di realizzare la virtù e la felicità dei suoi abitanti senza bisogno di fare riferimento alle tradizionali prescrizioni della teologia greca. Nelle Leggi, al contrario, la religione e i suoi dogmi non solo tornano a svolgere la loro tradizionale funzione di protezione degli obblighi morali, ma, “migliore e più bello di tutti i proemi alle leggi” (apanton ton nomon kalliston te kai ariston prooimion, X, 887 b-c), diventano anche il fondamento dell’ordine politico della polis cretese (208).

La conoscenza delle idee e del Bene, infatti, sapere che nella Repubblica legittimava sia la validità della nuova organizzazione statale sia il diritto-dovere del filosofi ad assumere il governo della polis, nelle Leggi non trova quasi mai spazio (209); qui, infatti, la condizione necessaria per l’accesso ai ruoli di comando all’interno della polis e per la strutturazione di un nuovo ordine socio-politico non sembra tanto il possesso della sophia dialettico-matematica dei philosophoi, quanto quello di un sapere di tipo teologico e astronomico, non certo teoricamente superiore a quello filosofico, ma senza dubbio più fruibile in vista della realizzazione di un sistema di carattere teocratico quale quello della nuova colonia cretese.

Già nel Timeo, del resto, Platone, descrivendo la struttura sociale dell’antica Atene - proiezione in un lontano passato della stessa kallipolis -, aveva sostituito il gruppo dei re-filosofi della Repubblica con un non meglio precisato hiereon genos (Tim. 24 a), probabilmente il prototipo di quella casta burocratico-sacerdotale che, nelle Leggi, è chiamata a svolgere tutti i più importanti incarichi istituzionali. Nella parte finale di quest’opera, infatti, Platone, senza mai negare l’inscindibile nesso fra sapere e potere, presenta un nuovo organo direttivo - il Consiglio Notturno (210) - che, nell’ambito della nuova polis, è chiamato ad esercitare tutte quelle funzioni che nella kallipolis erano svolte dai re-filosofi, come ad esempio la salvaguardia delle leggi e della stabilità dello stato, il controllo del processo educativo etc. (cfr. Leg. XII, 951 d sgg.; 961 a sgg.). Esso, in linea con il nuovo orientamento di  Platone, deve essere composto per una buona parte proprio da sacerdoti (951 d), individui dotati sì delle stesse qualità etiche dei governanti della Repubblica, ma non più caratterizzati tanto dal possesso di un sapere di tipo filosofico, quanto da una conoscenza di carattere teologico e astronomico (966 c sgg.).

L’astronomia, infatti, modello di sapere più antico e dotato di maggiore credibilità rispetto alla conoscenza filosofica, nelle Leggi così come nell’Epinomide (211), diventa la scienza suprema, dal momento che si occupa degli astri che, a motivo della loro eternità e dell’immutabile regolarità del loro movimento, secondo l’ultimo Platone, rappresentano vere e proprie divinità (cfr. Tim. 40 b; Leg. X, 886 d; 899 b sgg.; Epinom. 983 e sgg.; 986 a sgg.). Coloro che si dimostrano in grado di comprendere le loro orbite, le loro relazioni e la loro natura, pertanto, in quanto capaci di decifrare l’ordine provvidenziale che le divinità astrali rappresentano e attuano nel mondo (cfr. Leg. VII, 821 a; XII, 966 c-d; 968 d – 969 a), sono chiamati ad esercitare le più alte cariche all’interno della polis, traendo dalla proprie conoscenze astronomiche le corrispondenti indicazioni in termini di condotta morale e politica.

In possesso di un grado superiore di istruzione (akribestera paideia), essi devono così prendersi cura non solo dell’applicazione delle leggi della nuova colonia, ma anche della punizione di tutti coloro che trasgrediscono tali nomoi (IX, 855 c) e, in particolare, in considerazione del fondamento religioso del nuovo ordine etico e politico, di coloro che, con le parole o con le azioni (logois kai ergois, X, 907 e; 909 d), mettono in discussione la validità dei tre fondamentali postulati della teologia greca (212) (cfr. X, 885 b; 907 b, ma anche Epinom. 980 d):

gli dèi esistono;

gli dèi si occupano del mondo e della vita degli uomini;

le decisioni degli dèi non possono essere modificate dalle

      offerte e dai sacrifici da parte degli uomini.

 

Nella nuova colonia cretese, infatti, la negazione di uno di questi tre postulati non costituisce soltanto un affronto nei confronti della religione, ma anche un vero e proprio attacco all’ordine stesso su cui lo Stato si fonda (cfr. X, 909 b; 910 b); i crimini commessi contro la divinità, infatti, all’interno del nuovo codice penale che Platone delinea nella parte finale delle Leggi (213) - a partire cioè dal libro IX fino al libro XII -, risultano essere i reati più gravi in assoluto (X, 884 a; 907 d sgg.), poiché essi non violano soltanto una delle tante leggi della nuova città platonica, bensì il principio stesso su cui essa si fonda: “la divinità è per noi la misura di tutte le cose (ho de theos hemin panton chrematon metron, IV, 716 c)”, “detentrice del principio, del mezzo e della fine di tutti gli esseri” (archen te kai teleuten kai mesa ton onton apanton echon, 715 e – 716 a).

I governanti della nuova città, pertanto, servitori allo stesso tempo degli dèi e delle leggi (hyperetai ton theon/tois nomois, IV, 715 c), oltre ad impegnarsi in modo scrupoloso a persuadere i cittadini (X, 885 c sgg.) e, in particolare, i giovani (cfr. 888 a sgg.) della validità dei principi religiosi tradizionali (214), devono anche prendersi cura di punire in maniera esemplare chi si macchia di asebeia, tenendo conto sia del tipo di verità teologica violata sia dell’atteggiamento assunto dal trasgressore (215) (907 d sgg.). Quanti non sono intrinsecamente malvagi (aneu kakes orges) e possono essere ricondotti sulla retta via, infatti, saranno detenuti per un periodo di cinque anni in un’apposita casa di correzione - il sophronisterion - dove riceveranno una periodica visita da parte dei membri del Consiglio Notturno, incaricati dell’importante compito di salvare le loro anime (te tes phyches soteria homilountes, 909 a). Quanti, invece, sono subdoli e impostori (eironikoi, 908 e) - categoria nella quale secondo Platone rientrano sofisti (sophistai), tiranni (tyrannoi), maghi (manganeutai), demagoghi (demegoroi) e indovini (manteis) etc. (cfr. 908 d) - e “vanno plagiando l’anima di molti uomini, vantandosi di poter evocare gli spiriti dei morti e promettendo di influenzare gli dèi (theous hypischnoumenoi peithein) raggirandoli e catturandone la volontà con preghiere e sacrifici vari (909 b)”, dovranno passare tutta la loro vita in un carcere posto lontano dalla polis (en to desmoterio) senza poter avere alcun contatto con i cittadini e, una volta morti, il loro cadavere dovrà essere gettato oltre le mura della città e qui lasciato insepolto (ataphon, 909 c). Quanti, infine, ricorrono a “forme di culto non legalmente autorizzate (909 d)”, “edificando templi ed altari (hiera te kai bomous) nelle case private (en idias oikias) nell’illusione di impietosire nel segreto delle loro abitazioni gli dèi con sacrifici e preghiere (thysiais te kai euchais, 910 b)”, dovranno senz’altro essere condannati alla pena capitale (216) (910 c-d).

 

L’idea di poter influenzare il giudizio degli dèi attraverso sacrifici e riti e, quindi, di potersi procurare la loro benevolenza anche dopo aver compiuto azioni ingiuste, del resto, sulla base della testimonianza di Adimanto (Resp. II, 364 b sgg.), era largamente diffusa ad Atene. Le opere stesse dei poeti genealogici (genealogesanton poietai), infatti, insieme alle pratiche rituali tradizionali, dimostravano come fosse possibile agire ingiustamente ed ottenere poi il perdono degli dèi, “piegandoli e attirandoli (paragesthai) attraverso sacrifici (thysiais), preghiere propiziatorie (eucholais aganesi) e offerte votive (anathemasi, 365 e)”; Omero stesso, del resto, nell’Iliade, sottolineando in maniera esplicita la possibilità da parte degli uomini di influenzare il giudizio degli dei, aveva affermato: “si lasciano placare perfino gli dèi/ e con sacrifici e amabili preghiere, con libagioni e il grasso delle vittime gli uomini li placano/ pregandoli, quando trasgrediscono la legge e commettono una colpa” (Iliade IX, vv. 497-501; Resp. II, 364 d-e).

Oltre alle opere dei poeti genealogici, nella Grecia del IV secolo erano largamente diffuse altre pratiche purificatrici che, sebbene estranee alla sfera della religiosità tradizionale, confermavano ulteriormente l’idea della possibilità di modificare il giudizio degli dèi. Nella stessa Atene, infatti, secondo le parole di Adimanto, operavano molti sacerdoti itineranti e indovini (agyrtai te kai manteis, 364 b, ma cfr. anche Leg. X, 885 d) che, veri e propri professionisti della purificazione, si dichiaravano in grado di assolvere dalle colpe dell’ingiustizia (adikematon) sia singoli individui (idiotas) che intere città (poleis), sia i vivi (zosin) che i morti (teleutesasin, 365 a). Essi, infatti, si dicevano capaci di persuadere i cittadini benestanti di aver ottenuto dagli dèi (ek theon porizomene), attraverso sacrifici (thysiai) ed incantesimi (epoidai), la capacità (dynamis) di eliminare gli effetti delle ingiustizie – commesse da loro stessi o dai loro antenati – mediante la celebrazione di appositi rituali (364 b-c). Essi stessi poi, oltre al potere di purificazione, si dichiaravano anche in grado di convincere (peizontes) gli dèi, mediante determinate evocazioni (epagogais tisi) e formule magiche (katasdemoi) (217), a nuocere (blapsein) - dietro tenue compenso - a chi il committente desiderasse (364 c), confermando così la possibilità di un utilizzo immoralistico della religione e delle pratiche ad essa connesse.

Lo stesso Adimanto, infatti, avvalendosi di tutte queste posizioni, aveva dimostrato non solo la possibilità, ma anche l’estrema vantaggiosità di commettere ingiustizie e, attraverso i riti purificatori e le offerte, di evitare il castigo da parte degli dèi: “se bisogna crederci dobbiamo commettere ingiustizie e fare sacrifici con i suoi proventi. Se saremo giusti sfuggiremo al castigo degli dèi, ma perderemo i guadagni derivanti dall’ingiustizia; se invece saremo ingiusti guadagneremo e, pur continuando a trasgredire le leggi e a commettere colpe, con preghiere persuaderemo gli dèi ad assolverci (peithontes autous azemioi apallaxomen, 365 e – 366 a; cfr. anche Leg. X, 906 b-c)”. Egli, in questo modo, del tutto in linea con le affermazioni di Trasimaco (Resp. I, 344 c) e Glaucone (II, 362 b-d), era arrivato a dimostrare la superiorità dell’ingiustizia rispetto alla giustizia e, in maniera eticamente pericolosa, a invitare indirettamente i cittadini alla segreta trasgressione delle leggi: “Perché, dunque, preferire la giustizia all’ingiustizia somma (megistes adikias) se, acquistandola con una falsa apparenza di virtù, tutto ci andrà per il meglio in vita ed in morte da parte degli dèi (para theois) e da parte degli uomini (para anthropois), così come dicono le persone qualsiasi e gli individui più autorevoli?” (366 b, ma cfr. anche 365 a-b).

Platone, per evitare un’ulteriore diffusione di questo tipo di idee, già nella Repubblica, ma soprattutto nelle Leggi, prende decisamente posizione contro tutte quelle figure che, a partire da Omero fino ad arrivare ai sacerdoti orfici, affermavano la possibilità di piegare la volontà degli dèi attraverso l’utilizzo di pratiche rituali, dimostrando la totale infondatezza di questa teoria. Egli, infatti, nella Repubblica, nell’ambito della ridefinizione dei contenuti culturali e religiosi dei libri II e III, si era impegnato a riaffermare il dogma dell’assoluta immutabilità della divinità (II, 380 d sgg.) e, quindi, dell’impossibilità da parte degli uomini di modificarne le decisioni. Nelle Leggi poi, allo stesso modo, descrivendo gli dèi come assolutamente saggi, giusti e virtuosi, Platone nega in maniera categorica la possibilità che essi assolvano, attraverso il ricorso a qualsivoglia pratica purificatrice, chi si sia reso colpevole di azioni ingiuste (X, 905 c – 907 a), proponendo, al contrario, una serie di pene molto severe nei confronti di chi pratica tali riti: “Se uno viene ritenuto colpevole d’aver eseguito fatture (katadesesin) o incantesimi (epagogais), o magie varie (tisin epodais), oppure altre pratiche riconducibili a questo tipo di venefici, se un indovino (mantis) o un aruspice (teratoskopos) sia messo a morte (tethnato, Leg. XI, 933 d-e)”.

 

Oltre a negare la possibilità da parte degli uomini di influenzare le decisioni degli dèi, Platone, sempre nelle Leggi, prende posizione contro altre insidiose teorie che, largamente presenti all’interno della cultura greca, mettevano anch’esse in discussione i fondamentali postulati della religione tradizionale (218): la tesi della non esistenza degli dèi e quella del loro disinteresse nei confronti delle vicende umane. Idee di questo genere, del resto, soprattutto in seguito alle cruente vicende della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) e alla catastrofica epidemia del 430/29 a.C., si erano progressivamente diffuse ad Atene (219), ad opera non solo di figure eccentriche come Diagora di Melo (noto per la sua parodia dei misteri eleusini e per il suo coinvolgimento nella mutilazione delle Erme) e Cinesia (autore di ditirambi e fondatore di un “club degli atei”), ma anche di un celebre sofista come Prodico e di un influente uomo politico come Crizia. Prodico (cfr. Sesto Empirico, Contro i matematici, IX, 18), infatti, si era fatto portavoce di una teoria naturalistica della religione, in base alla quale gli dèi non esistono da sempre e in maniera autonoma, ma hanno avuto origine dal processo di divinizzazione che gli uomini in passato hanno compiuto degli astri e degli elementi naturali (sole, luna, fiumi…), delle cose utili (cibi, bevande…) e dei lori inventori (Demetra, Dioniso…). Crizia, nel Sisifo, in linea con Prodico, riteneva che gli dèi non fossero altro che un’invenzione degli uomini, più precisamente dei governanti che, non potendo colpire con la loro diretta oppressione ogni atto dei loro sottoposti, li hanno indotti a credere nell’esistenza di una divinità invisibile che conosce e punisce i comportamenti proibiti dalle leggi imposte da chi governa: “io credo che un uomo astuto e saggio nella mente inventò per gli uomini il timore degli dèi, perché i cattivi temessero anche per quello che in modo occulto compievano e pensavano… Così, penso, in principio qualcuno persuase gli uomini che gli dèi esistono” (DK B25). Lo stesso Aristotele, del resto, nel IV secolo, pur ammettendo l’esistenza di un nucleo di verità nelle credenze religiose – la fede cioè nella divinità degli astri –, nella Metafisica, in modo del tutto simile a Crizia, aveva affermato che “il resto è stato aggiunto dopo, sempre miticamente, per persuadere i più ed è stato impiegato per imporre l’obbedienza alla legge e per ragioni di utilità” (Met. XII, 8, 1074b 3-5).

Oltre a queste forme di ateismo poi, ad Atene così come in altre poleis greche, erano diffuse anche concezioni di carattere agnostico, con buona probabilità sempre per opera dei sofisti e, in particolare, di Protagora che, nel suo scritto Sugli dei, aveva affermato: “Riguardo agli dèi, non ho la possibilità di accertare né che sono, né che non sono, opponendosi a ciò molte cose: l’oscurità dell’argomento e la brevità della vita umana” (DK B4). Egli stesso, del resto, nell’impossibilità di determinare l’esistenza o meno degli dèi, in maniera del tutto incompatibile con il nuovo ordine teocratico della colonia cretese (cfr. l’accenno polemico di IV, 716 c), aveva posto l’uomo come punto di riferimento assoluto, dichiarando: “Di tutte le cose misura (metron) è l’uomo (anthropos): di quelle che sono, per ciò che sono, di quelle che non sono, per ciò che non sono” (DK  B1).

 

Platone, rendendosi perfettamente conto dell’estrema pericolosità di tutte queste teorie sugli dèi, nelle Leggi, ancor prima di accingersi a dimostrare la loro erroneità, ritiene indispensabile prendere in considerazione la loro comune origine teorica, vale a dire quella concezione materialistica che alcuni non meglio identificati “sophoi andres” (886 d; 888 e; 890 a) avevano elaborato e diffuso (cfr. X, 889 b sgg.) (220). Questi ultimi, infatti, partendo dal presupposto che il sole (helios), la luna (selene) e gli altri pianeti (astra) non sono altro che corpi privi di anima (apsycha somata, 889 b) (221), andavano affermando che “gli dèi sono soltanto un’invenzione dell’arte umana, che non esistono in natura, ma solo perché imposti da certe leggi (theous einai techne, ou physei alla tisin nomois), e che sono diversi da luogo a luogo, non per altro, ma perché così hanno voluto quelli che fissarono le leggi (synomologesan nomothetoumenoi, 889 e)”.

Gli dèi, infatti, così come qualsiasi altro principio intelligente (nous), a loro parere, non svolgono alcun ruolo nella costituzione e nel governo del cosmo (889 c), dal momento che quest’ultimo risulta generato dal casuale incontro-scontro di elementi esclusivamente materiali e del tutto privi di anima: “Ebbene, questi elementi [il fuoco, l’acqua, la terra, l’aria] mossi a caso in ragione delle loro specifiche forze, incontrandosi in una certa maniera particolare – ossia il caldo col freddo, il secco con l’umido, il molle col duro, e così via per tutti quegli altri esseri che, al seguito della casuale combinazione dei contrari, non potevano non prendere corpo – proprio in tale modo e per tale motivo diedero forma (gegennekenai) al cielo (ouranon) nel suo complesso, e a quanto sta sotto il cielo, cioè al regno animale (zoa) e a quello vegetale (phyta, 889 b-c)”.

L’universo, pertanto, governato non da un principio d’ordine razionale, ma da forze esclusivamente irrazionali, si rivela del tutto incapace di fornire un modello stabile in base al quale ordinare il microcosmo della polis. Coloro ai quali è affidato il governo delle città, in questo modo, al fine di dar vita ad un insieme di regole in grado di garantire una corretta gestione della comunità politica stessa, non hanno la possibilità di fare riferimento ad un preteso quanto inesistente paradigma cosmico e divino, ma, al contrario, si vedono costretti a fare ricorso unicamente all’arte politica (politike techne). Essa, tuttavia, così come tutte le altre tecniche e le altre scienze, non potendo disporre di un fondamento di tipo naturale, si dimostra non essere altro che una tardiva creazione umana (technen thneten ek thneton hustera gegennekenai), una specie di gioco senza alcun rapporto con la verità (paidias tinas, aletheias ou sphodra metechousas, 889 c).

Anche le leggi (nomoi) e la giustizia (ta dikaia), di conseguenza, in quanto prodotti della politike techne, risultano essere mere convenzioni (222) che, a differenza di quelle realtà che – come per esempio i corpi celesti – hanno origine o dalla natura o dal caso (physei kai tyche, 889 b), non possiedono né alcun rapporto con la natura né, pertanto, alcun fondamento di verità (889 e). Esse, infatti, identificandosi con ciò che di volta in volta prevale nelle continue dispute che gli uomini hanno tra di loro (889 e), a differenza delle realtà naturali, non risultano essere definite e sempre uguali a se stesse, ma, al contrario, del tutto arbitrarie e inaffidabili (223).

Invitando così i giovani a non prestare fede a queste convenzioni, ma a orientare il loro comportamento in base a quelle regole universali inscritte nella natura stessa, i “cattivi maestri” insegnano loro che, in verità, “la cosa più giusta è vincere commettendo violenza” e li incoraggiano a “promuovere staseis al fine di vivere una vita corretta secondo natura (pros ton kata physin orthon bion), cioè dominando gli altri e non servendoli secondo la legge (890 a)”.

 

Platone, ravvisando in teorie di questo tipo non solo l’origine di tutte le errate concezioni sulla divinità, ma anche il fondamento di quel relativismo dei valori responsabile del disorientamento morale dei giovani (890 a-b) e della corruzione etica degli uomini del giorno d’oggi (III, 677 b sgg.), ritiene indispensabile negare la validità di queste idee, attaccando in modo energico il loro stesso presupposto: la concezione materialista del cosmo. Secondo Platone, infatti, l’universo, ben lungi dall’essere il prodotto dello scontro casuale di forze puramente materiali, è il risultato dell’azione di un principio spirituale (psyche) che, sulla base della sua natura divina ed intelligente (nous), garantisce al cosmo una struttura perfettamente ordinata e razionale (X, 892 a; XII, 966 e sgg.). La divinità stessa, pertanto, identificandosi con il principio (arche) motore e ordinatore di tutte le realtà celesti ed umane (X, 896 e; 899 b), non è per nulla un’invenzione da parte degli uomini; gli dèi, infatti, come la stessa perfezione del moto degli astri dimostra (XII, 966 e sgg.), non solo esistono (893 a – 899 d) e “sono realissimi (887 e)” (224), ma, “per il fatto di essere buoni e assolutamente virtuosi (hos agathoi ge ontes pasan areten), hanno anche cura di ogni aspetto (ten ton panton epimeleian, 900 d)” dell’universo, piccolo o grande che sia, e, di conseguenza, anche degli uomini (899 d – 905 c).

Gli stessi dèi, inoltre, in quanto esseri dalla natura intelligente e assolutamente giusta, sono anche i garanti dell’esistenza di nomoi dikaioi - conformi cioè a quell’ordine razionale che caratterizza il cosmo intero (cfr. IV, 714 a) - e, pertanto, attraverso la mediazione del legislatore (nomothetes), della possibilità di costruire una polis giusta. Le leggi della nuova città, infatti, delineate dal nomothetes sulla base della sua superiore conoscenza astronomica e teologica, non risulteranno essere, a differenza di quanto sostengono i “cattivi maestri”, mere convenzioni senza alcun rapporto con la realtà, ma, al contrario, regole perfettamente naturali che riproducono quell’ordine e quell’armonia di origine divina che esiste da sempre nell’universo (X, 890 d) e che, in un tempo antichissimo, ad opera della divinità, esisteva anche nel mondo umano (cfr. IV, 713 a sgg.).

        

 

5.6  La nuova immagine dell’età dell’oro

 

“Si racconta (legetai) che prima della formazione (synoikeseis) di quelle poleis di cui abbiamo parlato, anzi, molto tempo prima (protera pampoly), durante l’età di Crono (epi Kronou), ci fosse una forma di governo (arche) e di amministrazione (oikesis) perfettamente felice (mal’ eudaimon), di cui le migliori specie dei nostri giorni non sono altro che un’imitazione (mimema, IV, 713 a-b)”.

 

In un tempo antichissimo la cui memoria sopravvive solo grazie ai racconti mitici (cfr. mytho di 713 a, c), era la divinità stessa ad esercitare la sovranità sugli uomini (despozontos theou, 713 a), assicurando ad essi un’esistenza beata (makarias zoes, 713 c). Lo stesso Crono, infatti, sulla base della sua saggezza, essendosi reso conto (dianooumenos) della naturale incapacità da parte degli uomini di dare vita ad una forma statale stabilmente caratterizzata dalla concordia civile e dalla giustizia (713 c), aveva deciso di assegnare il governo delle città non ad individui mortali (ouk anthropous), ma bensì ad “un genere di essenza più divina e perfetta (713 d)”. Egli, infatti, spinto dall’amore per l’umanità (philanthropos hon, 713 d), comportandosi come l’uomo fa “con le greggi e con le mandrie degli animali domestici” (713 d), aveva ordinato ad una serie di demoni di prendersi cura nei minimi particolari del genere umano, non solo procurando spontaneamente ed abbondantemente ad esso ogni genere di bene (aphthona te kai automata panta, 713 c), ma anche dando vita ad una vera e propria forma di governo (arche).

Mentre nel mito dell’età di Crono del Politico la dimensione politica era del tutto assente (cfr. Pol. 271 e), nelle Leggi, al contrario, essa caratterizza totalmente l’immagine dell’età dell’oro; gli stessi demoni, infatti, a differenza di quanto prospettato da Platone nel Politico (271 d-e) e nel Crizia (109 b-c; 113 b-c), secondo le Leggi non si limitavano a svolgere il generico compito di “pastori del gregge umano”, ma, in maniera più specifica, esercitavano la funzione di “re e governanti delle città” (basileas te kai archontas tais polesin, 713 c), procurando così agli uomini “pace (eirene), dignità (aidos), buone leggi (eunomia) e giustizia (dike) senza limiti (225)” (713 e).

La pace e la ricchezza di quell’epoca, in questo modo, a differenza del mito dell’età dell’oro del Politico e de Le opere e i giorni di Esiodo, qui nelle Leggi non sembrano direttamente derivare né dalla presenza di abbondanti risorse, né dalla non necessità di lavorare (cfr. Pol. 272 a; Le opere e i giorni, vv. 112-120), ma piuttosto dalla sapiente forma di governo messa in atto dagli stessi demoni che, prendendosi cura senza troppa difficoltà del genere umano (713 d), avevano non solo allontanato il pericolo delle guerre civili, ma anche procurato ad esso una piena felicità (astasiasta kai eudaimona ta ton anthropon apergazeto gen, 713 e).

 

Descritta in questi termini, l’età dell’oro non presenta più quelle ambivalenze e quei motivi di ambiguità che nel Politico la rendevano una specie di “paradiso animale”, ma, qui nelle Leggi, indipendentemente dalla presenza o meno della filosofia, essa diviene un modello di riferimento completamente positivo e auspicabile (226). L’età di Crono, infatti, mentre nel Politico rappresentava più che altro un momento di evasione dalla decadenza etico-politica della propria epoca o una nostalgica proiezione nel passato di un ordine ideale contrapposto a quello presente, qui nelle Leggi, al contrario, allo stesso modo dell’antica Atene di cui parlano il Timeo e il Crizia (cfr. Tim. 23 c sgg.; Criti. 108 e sgg.) (227), assume la funzione di un vero e proprio paradigma che tutte le città della storia dovrebbero imitare (228), istaurando quell’ordine di origine divina che è garanzia di pace e prosperità.

Il governo della divinità, infatti, in quanto diretta espressione di quella razionalità (nous) che pervade tutto l’universo, diventa qui il paradigma stesso a cui il legislatore deve fare riferimento nella delineazione della costituzione della nuova città. In base al suo superiore coefficiente di sapere, egli, infatti, attraverso le leggi (nomoi), si deve impegnare a tradurre nel mondo umano quell’ordine razionale (nou dianome, 714 a) che caratterizza l’intera realtà (229), cercando con ogni mezzo (pase mechane) di farsi seguace del dio (716 b) e di imitare (mimeisthai) la forma di vita dei tempi di Crono (ton epi tou Kronou bion, 713 e) (230), ben sapendo al contrario che, come “ancora oggi questo racconto (logos) non senza verità (aletheia chromenos) ci insegna, una città retta da un mortale e non da un dio non può trovare scampo (anaphyxis) né dai mali (kakon) né dalle sofferenze (ponon, 713 e)”.

Ogni singolo cittadino, pertanto, in assenza di un diretto governo da parte della divinità, dovrà impegnarsi ad “amministrare (dioikein) le poleis e le famiglie (oikeseis) con quella parte di noi che è immortale, facendo ad essa affidamento (peizomenous) sia negli affari pubblici (demosia) che in quelli privati (idia, 714 a)” e allontanando così quel desiderio di avere di più e quel gusto di danneggiare i propri simili (cfr. hybris e adikia in 713 c; ma anche 714 a; 715 a-b; 716 a) che, totalmente estranei al modo di vita dei pochi superstiti al diluvio, caratterizzavano in maniera inequivocabile l’Atene dei tempi di Platone (III, 677 b sgg.; 701 b-c), mettendone in pericolo la sua stessa sopravvivenza (715 d; 716 b).

 

 

 

Conclusione

 

Prima di terminare questo saggio, ritengo utile presentare un riassunto schematico del contenuto dei diversi mythoi platonici che, come si è visto, prendono in esame sia le caratteristiche antropologiche e le condizioni di vita dei “primi uomini”, sia le particolari modalità attraverso cui essi stessi hanno dato anticamente vita alle prime forme di organizzazione sociale e alle prime realizzazioni tecniche e culturali.

Con l’intenzione di rendere maggiormente apprezzabili le analogie e le differenze presenti all’interno dei diversi miti platonici considerati, ho costruito una tabella sinottica (tab. 1) che utilizza come sue coordinate di riferimento, da una parte, l’indicazione dei dialoghi in cui questi racconti sono contenuti, dall’altra, una selezione di elementi qualitativi che li caratterizzano in maniera significativa.

Per quanto riguarda il Politico, la Repubblica e le Leggi, inoltre, sulla base dell’esistenza all’interno di ciascuno di questi dialoghi di due distinti resoconti che ricostruiscono in maniera diversa le condizioni originarie del genere umano e il processo che conduce alla nascita dell’aggregazione sociale e politica, ho ritenuto opportuno esaminare singolarmente e in maniera separata le principali caratteristiche di ognuna di queste complesse “fenomenologie”.

Per quanto concerne invece gli elementi fondamentali che contraddistinguono la totalità dei mythoi “archeologici”, ho individuato alcune categorie generali (condizioni iniziali di vita degli uomini; genere di rapporti tra gli uomini; presenza o assenza di forme culturali; ruolo rivestito dalle tecniche; importanza dell’intervento della divinità; processo di  nascita e di sviluppo della polis) che permettono una rapida ed efficace operazione di raffronto e di valutazione incrociata.

Inoltre, per non trascurare la dimensione storico-evolutiva che accompagna la maggior parte dei racconti presi in considerazione, all’interno della tabella ho dedicato uno spazio anche all’esame delle modalità attraverso cui i modelli proposti, ben lungi dall’essere destinati a permanere immutati ed immutabili nel tempo, sono soggetti a un’inevitabile processo di decadenza e di trasformazione che, attraverso la negazione dialettica delle loro condizioni iniziali, porta ad una nuova ed inaspettata situazione.

In ultima istanza, anche se questa operazione si rileva nella maggior parte dei casi problematica, ho cercato di individuare quale sia il giudizio (esplicito o implicito) che Platone, attraverso le parole e l’atteggiamento dei vari personaggi dialogici, esprime a proposito dei modelli che in maniera sempre originale e diversa ricostruiscono le condizioni originarie del genere umano.


 

 

 

Tabella 1

 

CONDIZIONI INIZIALI DI VITA DEGLI UOMINI

GENERE DI

RAPPORTI TRA GLI

UOMINI

PRESENZA 

O ASSENZA

DI FORME CULTURALI

RUOLO RIVESTITO DALLE TECNICHE

IMPORTANZA DELL’ INTERVENTO DELLA DIVINITA’

PROCESSO DI  NASCITA E DI SVILUPPO

DELLA POLIS

DECADENZA

E CRISI DELLE CONDIZIONI INIZIALI

EVENTUALE

GIUDIZIO ESPLICITO

O IMPLICITO

 

POLITICO

(1) età di Crono

perfetta armonia con dei e natura; cibo abbondante senza lavorare

pacifici; uomini convivono senza problemi tra loro e con gli animali

 

assente

nessuno, non ce n’è  alcun bisogno

gli dei donano da subito agli uomini ogni genere di  risorse

non ne esiste la necessità; uomini vivono bene senza la polis 

violente catastrofi mettono fine all’età dell’oro

implicitamente negativo; presenza di molti tratti ambigui

 

POLITICO

(2) età di Zeus

difficoltà nel procurarsi il cibo e nel difendersi dalle fiere

Non vengono presi in considerazione

assente, ma si  intravede la possibilità della

sua nascita

insostituibile; le tecniche procurano tutte le risorse vitali

decisivo, perché consente al genere umano di non estinguersi

sembra essere un prodotto del graduale sviluppo tecnico

fine e ritorno ad età dell’oro dopo una nuova serie di cataclismi

implicitamente positivo, tappa indispensabile in “storia” umana

 

PROTAGORA

 

problemi nel procurarsi il cibo e nel difendersi dagli animali 

conflittuali, caratterizzati da pleonexia e adikia

 

assente

importante per migliorare la vita degli uomini, ma non decisivo

decisivo, ma non sufficiente a dare origine alla vita comunitaria

prodotto di un ulteriore intervento della divinità

assestamento generale solo dopo la nascita della polis

implicitamente positivo (ma è giudizio di Protagora)

 

REPUBBLICA

(1) Glaucone

precarie a causa del bellum omnium contra omnes

pleonexia, bia, adikia; la vita di ogni singolo è in pericolo

 

assente

non si parla di tecniche in senso proprio

assente; sono gli uomini stessi a dare vita al contratto sociale

insieme alla legge e alla giustizia è frutto del patto sociale

l’adikia è dato naturale; essa  riemerge dove la legge non arriva

cauto, perché può giustificare tesi radicali e filo-tiranniche

 

REPUBBLICA

(2) Socrate

non precarie, perché da subito gli uomini sono ben organizzati

assolutamente non conflittuali, ma pacifici e collaborativi

assente nella prote polis; appare nella p.

tryphosa

fondamentale; le tecniche danno origine ad un sistema efficiente

assente; le tecniche sono sufficienti alla conservazione

non esiste; le tecniche bastano a regolare i rapporti  umani

logica della specializzazione, sempre maggior complicazione

presenta molte caratteristiche ambigue, risolte solo da kallipolis

 

TIMEO
CRIZIA

 

non difficili, abbondanza di cibo e facilità nel procurarselo

Non conflittuali, ma collaborativi

assente, ma c’è predisposizione al sapere e alla filosofia

importante per  il miglioramento delle condizioni di vita

la protezione e l’aiuto degli dei sono fondamentali

nasce per una predisposizione naturale da parte degli  uomini

distruzione a causa di cicliche catastrofi naturali

esplicitamente positivo, in contrap-
posizione all’Atene di Plat.

 

LEGGI

(1) libro III

né facili, né proibitive; uomo si organizza gradualmente

pacifici, solidali e collaborativi

 

assente

essenziale per la sopravvivenza e lo sviluppo della società umana

decisivo per il miglioramento delle condizioni di vita

non c’è un iniziale bisogno; c’è dopo aumen- to demografico

sviluppo di città e loro ricchezza portano guerre e corruzione

esplicitamente positivo, in contrap-
posizione all’Atene storica

 

LEGGI

(2) libro IV

ottime; i demoni hanno cura di tutti i bisogni umani

pacifici, non c’è ombra di guerre o di  invidie

 

assente

inutile, la divinità si prende cura di tutti gli aspetti della vita umana

gli uomini dipendono totalmente dalla divinità

è presente da subito per diretta opera degli dei (Crono)

fine di ciclo cosmico; l’uomo diventa indipen-dente dagli dei

esplicitamente positivo; è il modello politico di riferimento


 

 


Note

 

(*) Questo lavoro è il prodotto dell’attività di perfezionamento post-laurea da me svolta tra il 2001 e il 2002, in parte presso l’Università degli Studi di Pavia ed in parte presso la Oxford University (U.K.). Per questo motivo, mi sembra doveroso ringraziare tutti coloro che, in Italia e nel Regno Unito, hanno seguito la genesi e lo sviluppo di questo mio saggio, a partire naturalmente dal Prof. Mario Vegetti (Università di Pavia), che ha dedicato una costante attenzione ad ogni fase di questo lavoro, rivelandosi un insostituibile punto di riferimento. Inoltre, devo la mia riconoscenza alla Prof.ssa Silvia Gastaldi (Università di Messina), che ha fornito molte interessanti indicazioni nel corso della fase di ultimazione di questo saggio. Infine, un sentito ringraziamento va al Prof. Michael Frede (Oxford University) che, durante tutto il mio soggiorno in Inghilterra, ha sempre saputo offrire una serie di suggerimenti preziosi per la stesura di questo lavoro. Back

 

 

(1) Il termine mythos può assumere diversi significati sulla base dei differenti contesti in cui esso è inserito; per questo motivo, nei casi in cui non riporto il termine nella forma traslitterata, traduco mythos a volte con “mito”, altre con  racconto (ingl. tale), discorso (speech) o storia (story). Sui diversi valori semantici del termine mythos con particolare riferimento ai dialoghi platonici si rimanda a L. Brisson, Platon les mots et les mythes, Paris, 1982, pp. 107-73 e a R. Zaslavsky, Platonic Myth and Platonic Writing, Washington, 1981, pp. 11-19.  Back

(2) Sul carattere intermedio sia delle vicende umane sia di quella forma mitologica che di esse si occupa si veda K. Gaiser, La metafisica della storia in Platone, Milano, 1988, pp. 173-79, secondo il quale “poiché il mito ha come suo oggetto il mondo dei fenomeni e dunque è esso stesso una riproduzione, ad esso risulta strettamente connesso in maniera necessaria qualcosa di giocoso e non vincolante” (p. 174). Back

(3) Per un’analisi del rapporto che nei dialoghi platonici intercorre tra mythos e mimesis si veda J.P. Vernant, Image et apparence dans la théorie platonicienne de la mimesis, Journal de psychologie normale et pathologique, 2, 1975, pp. 133-160. Back

(4) Rischiano di non comprendere la ricchezza dei diversi miti coloro che, come ad esempio L. Robin, Platone, Milano, 1971, pp. 133-35, considerano la dimensione temporale che contraddistingue i mythoi platonici come un mezzo di carattere puramente formale e retorico. Benché la cornice “storica” non sia finalizzata a riprodurre in maniera esatta ed oggettiva gli accadimenti del passato, essa rappresenta comunque un elemento fondamentale e insostituibile, senza la quale gli stessi miti perderebbero parte del loro originale significato. Back

(5) Sull’importanza del passaggio dall’oralità alla scrittura nell’ambito del mondo greco si vedano E.A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura: da Omero a Platone, Roma-Bari, 1973, E.G. Turner, I libri nell’Atene del V e del IV secolo a.C., in G. Cavallo (a cura di), Libri, editori e pubblico nel mondo antico: guida storica e critica, Roma-Bari, 1977, pp. 3-24 e B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Roma-Bari, 1989, pp. 53 sgg. Back

(6) Sul rapporto di complementarietà esistente tra mythos e logos si veda J.F. Callahan, Dialectic, Myth and History in the Philosophy of Plato, in A.A.V.V., Interpretations of Plato, A Swarthmore Symposium, ed. by H.F. North, “Mnemosyne”, Suppl. 50, Leyden, 1977, pp. 64-85; inoltre, sempre sulla stessa tematica, sono interessanti D. Sabbatucci, Aspetti del rapporto mythos-logos nella cultura greca, in Il mito greco, Atti del Convegno internazionale di Urbino, 7-12 maggio 1973, a cura di B. Gentili e G. Paioni, Roma, 1977, pp. 57-62 e L. Ceccarini, Il mito in Platone, Genova, 1991. All’esatto opposto, continuando erroneamente a seguire la tradizione romantica e la lezione hegeliana (cfr. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, trad. it. di E. Codignola e G. Sanna, Firenze, vol. II, pp. 171 sgg.), J.A. Stewart, The myths of Plato, London, 1905, pp. 51 sgg., considera il mito come l’espressione di una forma di pensiero non ancora matura, incapace di esprimere i suoi contenuti in maniera concettuale e di slegarsi definitivamente dalla necessità di fare ricorso alle rappresentazioni sensibili. Back

(7) Sul mito come forma intermedia a causa della piacevolezza della sua forma e della serietà del suo contenuto si veda J.E. Smith, Plato’s Myths as “Likely Accounts”, Worthy of Belief, Apeiron 19, 1985, pp. 24-42. Back

(8) Sull’importanza della comunicazione attraverso l’immediatezza delle immagini, oltre che attraverso la mediazione dei concetti, si vedano le interessanti considerazioni di G. Reale, Platone. Tutti gli scritti, Milano, 1991, pp. XXXI-XXXIV, secondo il quale “per intendere il senso filosofico del mito platonico, bisogna capire che la ragione umana non si esprime solamente per concetti, ma anche per immagini, in modo non accidentale, ma strutturale” (p. XXXII). Back

(9) Sulla capacità incantatoria e coinvolgente del mito cfr. L. Brisson, op. cit., pp. 93-105. Per un’interessante analisi delle potenzialità psico-pedagogiche del mythos si rimanda a G. Cerri, Platone sociologo della comunicazione, Milano, 1991 – ottima anche la prefazione di B. Gentili -, secondo il quale il mito esercita un’influenza determinante sulla formazione del carattere dei giovani, inducendoli in maniera inconsapevole ad interiorizzare una serie di schemi mentali (typoi), modelli di comportamento e scale di valori. Back

(10) Platone, come è stato recentemente messo in evidenza da molti commentatori, nella Repubblica non critica tanto le forme tradizionali che caratterizzavano la formazione dei giovani, quanto i contenuti della paideia ateniese e greca. Secondo Platone, infatti, i componimenti poetici e le opere teatrali sui quali una buona parte del processo educativo era basato, a causa della loro eccezionale capacità coinvolgente e formativa, non devono essere sostituiti, ma, una volta emendato il loro contenuto, sfruttati sino in fondo nell’ambito dell’iter pedagogico della nuova polis cha egli stesso delinea, dando vita ad un vero e proprio “sistema di affabulazione” politicamente ed eticamente programmato. Sul significato della riforma culturale di cui  Platone parla nel II e nel III libro della Repubblica sono interessanti M. Detienne, L’invenzione della mitologia, Torino, 1983, pp. 104-27 e G. Cerri, Dalla dialettica all’epos: Platone, Repubblica X, Timeo, Crizia, in G. Casertano (a cura di), La struttura del dialogo platonico, Napoli, 2000, pp. 7-34. Anche lo stesso Aristotele, del resto, nella Metafisica, riconosce al mito un’importante e precisa funzione sociale, mettendo in evidenza non solo il suo valore paradigmatico, ma anche la sua capacità di coinvolgere emotivamente i suoi fruitori (cfr. Met. L, 8, 1074 a-b). Back

(11) La successione cronologica dei dialoghi platonici qui direttamente presi in considerazione, sulla base delle indicazioni fornite dalla maggior parte degli studiosi, è quasi certamente la seguente: Protagora (cap. 2), Repubblica (cap. 3), Politico (cap. 1), Timeo e Crizia (cap. 4), Leggi (cap. 5). Per una rassegna dei principali studi sulla cronologia dei dialoghi di Platone si veda L. Brandwood, The Cronology of Plato’s Dialogues, Cambridge, 1990. Back

(12) Secondo la maggior parte degli studiosi, il Politico, insieme al Teeteto e al Sofista, deve essere collocato circa vent’anni dopo la composizione della Repubblica, nel periodo che intercorre tra il secondo (367 a.C.) e il terzo viaggio (361 a.C.) di Platone a Siracusa presso Dionisio II. Sulla collocazione del Politico nell’ultima produzione platonica cfr. C.H. Kahn, The place of the “Statesman” in Plato’s Later Works, in C.J. Rowe (a cura di), Reading the “Statesman”, Sankt Augustin, 1995, pp. 49-60. Back

(13) Per quanto riguarda la delineazione e l’utilizzo del metodo della divisione  nel Politico si veda G.M. Pinotti, Autour de la distinction entre “eidos” et “meros” dans le “Politique” de Platon, in C.J. Rowe (a cura di), op. cit., pp. 155-161. Back

(14) Lo Straniero di Elea, qui come nel Sofista, sostituisce Socrate - protagonista principale della maggior parte dei dialoghi platonici – nel ruolo di conduttore del discorso. Sulla reale identità di questo misterioso personaggio esistono diverse ipotesi (un seguace di Parmenide, la voce dello stesso Platone, il giovane Aristotele…), rese possibili dall’indeterminazione e dall’ambiguità sia psicologica sia concettuale con cui Platone caratterizza questa figura. Per una recente messa a punto di questa problematica si veda F.J. Gonzalez, The Eleatic Stranger: His Master’s Voice?, pp. 161-181, in G.A. Press (a cura di), Who speaks for Plato?: studies in Platonic anonymity, Lanham, 2000. Back

(15) Sulle caratteristiche della religione greca e della sua mitologia si veda M. Vegetti, L’uomo e gli dei, in J.P. Vernant (a cura di), L’uomo greco, Roma-Bari, 1991, pp. 257-87.  Back

(16) A seguito della maledizione lanciata da Ermes sul genos di Pelope, colpevole di avere ucciso suo figlio Mirtilo, nella casa di Atreo, figlio di Pelope, era nato un agnello dal vello d’oro. Alla morte di Pelope, Atreo aveva interpretato questo evento come il segno della preferenza divina per la sua ascesa al trono di Micene; suo fratello Tieste, tuttavia, attraverso l’inganno, era riuscito a sedurre la cognata, facendosi consegnare l’agnello. Era stato allora che Zeus  aveva deciso di intervenire in favore di Atreo, provocando l’inversione della direzione del moto del sole e degli astri. Sulla vicenda di Atreo e Tieste cfr. anche Euripide, Elettra, 699-730; Oreste, 996-1012); sull’inversione del corso degli astri si veda Erodoto II, 142,4 e Tim. 22 d. Back

(17) Il dio che nel Politico è preposto al governo del cosmo ricorda, per molti aspetti, il Demiurgo del Timeo, ma, mentre nel Politico Platone non fornisce ulteriori informazioni sulla sua attività, nel Timeo egli descrive in modo dettagliato le modalità attraverso cui il Demiurgo plasma l’universo: egli, infatti, “includendo la ragione nell’anima e l’anima nel corpo, compose l’universo, in modo che fosse il più bello possibile…” (Tim. 30 b sgg.). Per un’analisi del rapporto tra lo theos del Politico e il demiourgos del Timeo si rimanda a K. Gaiser, La metafisica della storia in Platone, Milano, 1988, pp. 51-54 e a L. Brisson, op. cit., pp. 354-55. Back

(18) Per una dettagliata analisi della concezione cosmologica e astronomica che emerge dal mito del Politico, in relazione sia agli altri dialoghi platonici sia ai più importanti cosmologi del tempo di Platone, si rimanda a J.B. Skemp, Plato’s Statesman, London, 1962, pp. 85-103. Back

(19) Secondo Schuhl, Sur le mythe du “Politique”, in Id., La fabulation platonicienne, Paris, 1947, è possibile che Platone avesse presente un modellino meccanico del mondo, costituito da una sfera dotata al polo inferiore di un perno (il “piede piccolissimo” di 270 a) e al polo superiore di un anello, mediante il quale la sfera può essere sospesa con un filo. Se con una mano si imprime un moto alla sfera, il filo si torce e, quando si smette di imprimere il moto, il movimento tende in un  primo tempo a estinguersi, per riprendere poi nel verso contrario a causa dello srotolamento del filo (pp. 81-84). Back

(20) Ecco, rappresentata in maniera schematica, l’intera argomentazione dello Straniero (269 d – 270 a):

il moto più perfetto in assoluto è quello circolare uniforme, poiché non è soggetto al mutamento (cfr. anche Tim. 34 a e 43 b);

esso “compete solo agli oggetti che sono i più divini di tutti (tois panton theiotatois monois)”;

ma l’universo non è uno di questi oggetti, perché esso è composto anche di materia;

pertanto, il suo moto non può essere del tutto esente da mutamento;

tuttavia, il cosmo, in quanto prodotto del dio, ha una natura, oltre che corporea, anche divina;

pertanto, il suo mutamento, benché necessario, è il più piccolo possibile;

la variazione più piccola possibile del suo movimento consiste nell’inversione della direzione della propria rotazione;

pertanto, il cosmo, quando la divinità lo abbandona, inverte la direzione della propria rotazione.

Del tutto incompatibili con la natura dello theos-demiourgos sono, invece, le ipotesi α) che il cosmo si volga (strephein) da sé (269 e); β) che il dio possa causare direttamente l’inversione del corso degli astri (269 e – 270 a); γ) che due diverse divinità lo conducano in direzioni contrarie (270 a). Su questi problemi si veda F. Ferrari, Theologia, in M. Vegetti (a cura di), La Repubblica, traduzione e commento, Napoli, 1998, vol. II, pp. 403-25 (pp. 418-21). Back

(21) Sulla spartizione delle diverse regioni da parte dei daimones e sull’analogia del loro governo con l’arte della pastorizia cfr. anche Criti. 109 b-c; 113 b-c e Leg. IV, 713 d. Back

(22) La credenza della nascita degli uomini dalla terra rappresenta un tema costante nella letteratura greca del V e IV secolo, spesso utilizzato per rivendicare l’autoctonia di un popolo. Secondo modalità diverse, infatti, ne fanno uso, ad esempio, Aristofane (Nuvole v. 853), Tucidide (II, 36), Isocrate (Paneg. 24, 63; Panath. 124-25), Lisia (Epitaph. 17) etc. Sull’importanza di questo concetto per  il mondo greco – in particolare per la città di Atene - si vedano N. Loraux, L’autochtonie: une topique athénienne. Le mythe dans l’espace civique e Idée athéniennes sur la citoyenneté et la division des sexes, in Les enfants d’Athéna, Paris, 1981 e F. Calabi, La nobile menzogna, in M. Vegetti (a cura di), op. cit., vol. II, pp. 445-457, in particolare, pp. 448-50. E’ interessante ricordare come lo stesso Platone, in diverse occasioni, faccia riferimento al celebre episodio degli uomini nati dalla terra, modellando il racconto mitico in base alle sue esigenze teoriche: cfr., a questo proposito, Menex. 237 d - 238 b; Resp. III, 414 c-e; Soph. 247 c; Tim. 24 c; Criti. 109 d etc. Back

(23) Le informazioni più antiche su Crono sono contenute, oltre che nei poemi omerici, nella Teogonia di Esiodo (cfr. vv. 337 sgg.), opera che descrive in modo dettagliato la generazione, la genealogia e il conflitto tra Titani ed Olimpici. Per un accurato commento di questo poema esiodeo si rimanda a Hesiod, Theogony. Edited with Prolegomena and Commentary by M.L. West, Oxford, 1966. Back

(24) E’ verosimile che Esiodo, nella delineazione del ritratto dell’età di Crono, non abbia fatto riferimento soltanto alla sua fantasia creativa, ma abbia anche utilizzato un materiale mitologico a lui preesistente; su questo tema e sul problema dell’origine del topos dell’età dell’oro è fondamentale H.C. Baldry, Who invented the Golden Age?, Classical Quarterly, 2, 1952, pp. 83-92. Back

(25) Per una dettagliata analisi del mito delle razze di Esiodo (Le opere e i giorni, vv. 106-201) - al quale Platone fa largamente riferimento per la descrizione dell’età dell’oro - si rimanda a J.P. Vernant, Mito e pensiero presso i greci, Torino, 1970, pp. 13-38. Per un esame di analogie e differenze nelle due descrizioni dell’età dell’oro si veda invece F. Solmsen, Entretiens sur l’antiquite classique, vol. 7: Hesiode et son influence, Geneve, 1960, pp. 173-211. Back

(26) Sul modo ambivalente con cui Platone descrive l’età dell’oro nel Politico si rimanda a P. Vidal Naquet, Le mythe platonicien du Politique, les ambiguitès de l’âge d’or, in id., Le chasseur noir, Maspero, Paris, 1981, pp. 361-380, G. Cambiano, Platone e le tecniche, Roma-Bari, 1991, pp. 201-203, F. Solmsen, op. cit., pp. 186-188 e H.R. Scodel, Diaeresis and Myth in Plato’s Statesman, Gottingen, 1987, pp. 74-89. Back

(27) Sulla concezione della filosofia come ricomposizione armonica di una serie di elementi conflittuali si veda M. Vegetti, L’etica degli antichi, Roma-Bari, 1989, pp. 109-58, in riferimento al cap. V, Conflitto e ricomposizione: il progetto dell’anima e della città in Platone. Back

(28) Sull’importanza culturale e politica del nomos all’interno del pensiero e della società greca - si ricordi a titolo di esempio il discorso di Socrate nel Critone (Crit. 53 a sgg.) - si rimanda a J. De Romilly, La loi dans la pensée grecque des origines à Aristote,  Paris, 1971. Back    

(29) Non mi sembra condivisibile l’ipotesi di E.A. Havelock, The Liberal Temper in Greek Politics, New Heaven, 1957, p. 31, pp. 43-44, secondo cui Platone, nel Politico, considererebbe l’età dell’oro un paradigma positivo e auspicabile, in contrapposizione alla fase di assoluto regresso corrispondente all’epoca attuale. Un diverso discorso merita invece la descrizione dell’età dell’oro nel libro quarto delle Leggi (713 a sgg.), per un’analisi della quale si rimanda a 5.6. Back

(30) Anche Glaucone, nel II libro della Repubblica, esprime un’analoga valutazione sulla città-archetipo (prote polis) descritta da Socrate. Essa, infatti, caratterizzata dalla stessa patina di primitivismo propria dell’età dell’oro, non sembra per nulla differire da una “città di maiali” (Resp. II, 372 d). Per una dettagliata analisi delle considerazioni di Glaucone e della loro importanza per lo sviluppo dell’intero dialogo si veda 3.3.4. Back

(31) Una vita dedita al solo piacere, come dimostra il Filebo, rappresenta un bene molto minore di una vita consacrata all’attività intellettuale e alla filosofia (Phil. 66 a sgg. etc.). Allo stesso modo, secondo la Repubblica, il dominio dell’elemento concupiscibile all’interno della psyche costituisce una condizione patogena, che non può che determinare un’esistenza infelice (come per es. quella del tiranno). Sulla tripartizione dell’anima da parte di Platone in tre centri motivazionali (logistikon, thymoeides, epithymetikon, Resp. IV, 439 d-e) e sul loro corretto rapporto gerarchico si veda M. Vegetti (a cura di), Repubblica, traduzione e commento, vol. III, Napoli, 1998. Back

(32) Secondo E. Zeller, Die Philosophie der Griechen, II, 1, Lipsia, 1889, p. 324, n. 5, la descrizione del modo di vita degli uomini dell’età dell’oro deve essere interpretata come una critica ironica da parte di Platone alla filosofia naturalistica di Antistene. Back

(33) Eracle e i Ciclopi, secondo la tradizione greca, rappresentano i simboli di un modo di vita selvaggio e semplice, in contrapposizione alla dimensione civilizzata della polis. I Ciclopi, in particolare, lungo un asse che va da Omero a Euripide, sono descritti come individui mostruosi che vivono al di fuori dalle canoniche forme di aggregazione sociale e politica, partecipi di un’esistenza che ha i toni dell’età dell’oro, “ignari come sono della fatica e fiduciosi negli dei immortali” (cfr. Omero, Od. IX, vv. 107 sgg., ma anche Euripide, Cicl. vv. 122  sgg.).  Back

(34) Per un approfondimento sulla figura di Antistene e sul suo pensiero si rimanda a G. Giannantoni, Antistene fondatore della scuola cinica?, in M.-O. Goulet-Cazé (a cura di), Le Cynisme ancien et ses prolongements, Paris, 1993, pp. 15-34 e a F. De Luise – G. Farinetti, Felicità socratica: immagini di Socrate e modelli antropologici ideali nella filosofia antica, Hidelsheim, 1997, pp. 34-86. Su Diogene e sul suo scritto Politeia, invece, si vedano T. Dorandi, La Politeia di Diogène de Sinope et quelques remrques sur sa pensèe politique, sempre in M.-O. Goulet-Cazé (a cura di), op. cit., pp. 57-68 e, ancora una volta, F. De Luise – G. Farinetti, op. cit., pp. 87-105. Back

(35) Per la messa a punto di questo fondamentale concetto si veda D. Lanza – M. Vegetti, L’ideologia della città, in A.A.V.V., L’ideologia della città, Napoli, 1977, pp. 13-27. Per un quadro della “crisi dell’ideologia della città” si veda, inoltre, anche M. Vegetti, L’etica degli antichi, op. cit., pp. 37-72, in riferimento al cap. 3, La morale politicizzata: apogeo e crisi. Back

(36) Sebbene risulti molto difficile ricostruire gli intrecci e le tematiche presenti all’interno di queste opere comiche, è possibile, in base soprattutto alle testimonianze indirette – in particolare a quella di Ateneo (Deipnosophistai, 267 e - 270 a) –, affermare che negli ultimi tre decenni del V secolo il tema dell’evasione dalla città e del ritorno all’archaios bios - il più delle volte presentato in chiave ironica – costituisse un luogo comune all’interno della produzione comica. Per un approfondimento su questo tema si rimanda a H.C. Baldry, The Idler’s Paradise in Attic Comedy, in Greece and Rome 22, 1953, pp. 49-60. Back

(37) E’ interessante notare come, nel linguaggio stesso della commedia, l’aggettivo kronikos non fosse utilizzato tanto per far riferimento ai primordi della storia umana, quanto per indicare una pratica antiquata e fuori moda (cfr. Aristofane, Nuvole, v. 929; Pluto, v. 581; Vespe, v. 1480). Platone stesso, del resto, in alcuni dei suoi dialoghi (cfr. Eutidemo 287 b; Cratilo 396 b), utilizza ironicamente il nome Kronos con il significato di “vecchio scimunito”. Back

(38) Sulla connessione tra la crisi della”ideologia della città” e il ricorso a modelli alternativi di convivenza da parte di molti intellettuali ateniesi è indispensabile F. Turato, La crisi della città e l’ideologia del selvaggio nell’Atene del V sec. a.C., Roma, 1979, in particolare pp. 56-63 e pp. 89-104. Back

(39) Sull’importante contributo che il mito del Politico offre nella ricerca della corretta definizione del governante si vedano M. Migliori, Arte politica e metretica assiologica: commentario storico-filosofico al Politico di Platone, Milano, 1996, pp. 96-102 e S. Rosen, Plato’s Statesman: the Web of Politics, New Haven and London, 1995, pp. 37-66. Back

(40) L. Brisson, Interpretation du mythe du Politique, in C.J. Rowe (a cura di), Reading the “Statesman”, op. cit., pp. 349-63, riflettendo sull’articolazione del mito del Politico, afferma l’esistenza di una terza epoca cosmica, intermedia e del tutto autonoma rispetto a quella di Crono e a quella di Zeus, caratterizzata dall’autogoverno da parte dell’universo e dalla completa indipendenza rispetto a qualsiasi tipo di intervento da parte della divinità. A mio avviso, al contrario, questa terza fase, più che costituire un periodo a sé stante, rappresenta solamente un momento di passaggio tra le due vere e proprie fasi cosmiche. Per una discussione di queste due prospettive si veda M.S. Lane, Method and Politics in Plato’s Statesman, Cambridge, 1998, pp. 99-136. Back

(41) La “teoria delle catastrofi”, già presente in autori come Senofane (21 A 33 Diels-Kranz) e il pitagorico Filolao (44 A 18 Diels-Kranz), faceva probabilmente parte del patrimonio dottrinale ormai consolidato dell’Accademia; oltre che in Platone, infatti, essa è più volte presente anche in Aristotele e, in particolare, in Met., L 8, 1074 b 1-14. E’ interessante ricordare, inoltre, che ancora all’inizio dell’800, uno scienziato come G. Cuvier (1769 – 1832), per spiegare la scomparsa di tutti i viventi di una determinata regione, facesse riferimento ad una teoria del periodico ripetersi di improvvise e violente catastrofi molto simile a quella più volte espressa da Platone. Back

(42) Oltre alla tradizionale interpretazione diacronica, il mythos del Politico può essere letto anche secondo una prospettiva sincronica. In base ad essa, le due età descritte dallo Straniero non si susseguirebbero nel tempo, ma esprimerebbero due aspetti appartenenti ad un medesimo intervallo temporale (“coordinate dimensions of human life”). L’esposizione di tipo diacronico sarebbe, pertanto, soltanto un mezzo retorico-formale, utilizzato da Platone per meglio mettere in evidenza e contrapporre due diversi punti di vista facenti, tuttavia, parte di un’unica complessa fenomenologia. Per una lettura di questo genere si veda S. Rosen, Plato’s Myth of the Reversed Cosmos, “Review of Metaphysics”, 1979-1980 e J. Bollack, Empédocle, I, Introduction à l’ancienne physique, Paris, 1965, pp. 133-35. Back

(43) Una concezione ciclica molto simile a quella platonica era stata espressa in precedenza da Empedocle. Anche secondo quest’ultimo, infatti, due età - l’una descritta con i tratti dell’età dell’oro e caratterizzata da una situazione di ordine e di omogeneità (philotes), l’altra dall’assenza di forma e dalla disgregazione (neikos) - si susseguono senza fine, causando rispettivamente la generazione e la corruzione delle diverse specie di esseri viventi (cfr. Diels-Kranz 31 B 17; 26; 35; 128; 130). Per un’analisi di questa dottrina empedoclea si rimanda a D. O’Brien, Empedocles’ Cosmic Cycle, Cambridge, 1969 e a E.L. Minar Jr., Cosmic Periods in the Philosophy of Empedocles, “Phronesis”, 8, 1963, pp. 127-45. Back

(44) Sulla figura di Prometeo e sui diversi episodi mitologici di cui egli è protagonista si rimanda all’analisi condotta in  2.2. Back

(45) L’andamento ciclico e l’eterno alternarsi di due fasi cosmiche non escludono la possibilità di uno sviluppo progressivo di tipo rettilineo, sebbene limitato alle vicende dell’epoca di Zeus. Platone, in questo modo, conciliando una prospettiva ciclico-regressiva con una storico-evolutiva, introduce una concezione di tipo spiraliforme, in grado di dar conto sia dell’eterno ripetersi di fenomeni ed eventi sia del loro sviluppo verso forme sempre più complesse. Sulla connessione tra ciclo ed evoluzione progressiva si veda K. Gaiser, La metafisica della storia in Platone, op. cit., pp. 61-70. Back

(46) Il Protagora è considerato quasi unanimemente un’opera della prima fase dell’attività di Platone; si è addirittura supposto che esso sia stato scritto prima della morte di Socrate (399 a.C.) e che abbia costituito la prima opera di Platone in senso assoluto. Per la cronologia di questo dialogo si rimanda sempre a L. Brandwood, The Cronology of Plato’s Dialogues, Cambridge, 1990. Per la discussione, invece, sull’epoca in cui Platone immagina lo svolgimento del dialogo – presumibilmente tra il 430 e il 420 a.C. – si veda J. Walsh, The dramatic date of Plato’s Protagoras and the lesson of  “arete”, “Classical Quarterly”, 34, 1984. Back

(47) Per un’attenta ricostruzione del pensiero e delle opere dei diversi sofisti è indispensabile G.B. Kerferd, I Sofisti, Bologna, 1988; sull’importanza e sul ruolo dei sofisti come educatori, invece, si veda H.I. Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità, Roma, 1971, pp. 47 sgg. Back

(48) Platone, qui come in altri dialoghi, presenta - in chiave esplicitamente ironica – il sofista come colui che sa sempre tutto e che nessuno può eguagliare in quanto sapienza (cfr. Ippia minore 366 c-d; 364 a); nessuna domanda, infatti, può coglierlo impreparato o metterlo in difficoltà (cfr. Gorgia 448 a), poiché egli è capace non solo di rispondere all’avversario meglio di chiunque altro (cfr. Protagora 334 e; Gorgia 449 c), ma anche di rendere inconfutabile chi lo frequenta (cfr. Ippia maggiore 287 b). Back

 (49) Anche secondo il Protagora, in linea con il Politico (cfr. 272 a) e con la tradizione mitologica, tutte le specie mortali - e quindi anche gli uomini - nascono dalla terra, sebbene anche altri elementi (fuoco etc.) contribuiscono alla loro generazione. Per una dettagliata analisi della genesis di tutti i corpi materiali a partire dai quattro elementi fondamentali (aria, acqua, terra, fuoco), si vedano le considerazioni di Timeo 42 e sgg. Back

(50) Platone, più avanti, definisce Epimeteo - il cui nome già di per sé significa “colui che comprende tardi” – ou pany ti sophos (321 c), mettendo così in evidenza la sua mancanza di discernimento. Anche secondo la tradizione mitologica, del resto, egli aveva dato prova della sua scarsa saggezza accettando, dimentico del consiglio di suo fratello Prometeo – “colui che comprende in anticipo” -, il dono di Zeus, Pandora, la donna creata al fine di punire gli uomini (per questo episodio cfr. Esiodo, Le opere e i giorni, vv. 83-105). Back

(51) Sull’importanza della figura di Prometeo all’interno della cultura greca si rimanda a J.P. Vernant, Mito e pensiero presso i greci, Torino, 1970, pp. 165-74 e, sempre dello stesso autore, Mito e società nell’antica Grecia, Torino, 1981, pp. 173 sgg. Sulla valenza politica del Prometeo incatenato eschileo - con particolare riferimento al discorso di Prometeo (vv. 436 sgg.) - si rimanda invece ad O. Longo, Il significato politico del Prometeo di Eschilo, Atti dell’Istituto Veneto, 120, 1962, pp. 243-73. Back

(52) Prometeo, secondo la tradizione mitologica, a causa del furto del fuoco, fu incatenato ad una roccia del Caucaso, dove un’aquila inviata da Zeus gli rodeva senza sosta il fegato (cfr. Esiodo, Teogonia, vv. 521-534; Eschilo, Prometeo incatenato, vv. 3 sgg.). Secondo il repertorio mitico, a dire il vero, il furto di Prometeo non fu causato dall’errata distribuzione delle dynameis alle diverse specie umane da parte di Epimeteo (questa parte del mythos è probabilmente un’invenzione di Protagora-Platone).Tale furto fu invece l’indiretta conseguenza di un precedente inganno che Prometeo ordì ai danni di Zeus; egli, infatti, durante un banchetto comune tra uomini e dei, aveva fatto in modo che la parte migliore di un’animale sacrificale andasse agli uomini, lasciando al dio soltanto le ossa e la pelle. Zeus, adirato a causa di questo affronto, non concesse più il fuoco agli uomini, costringendo così Prometeo a rubare al Sole – e, quindi, non a Efesto e Atena – i semi del fuoco, per poi donarli all’umanità (cfr. Teogonia, vv. 535-569). Back

(53) Mentre dike è facilmente traducibile con il termine “giustizia”, aidos non ha un preciso corrispondente in italiano, anche se il vocabolo che più si avvicina al suo significato è “rispetto”. Non bisogna dimenticare come questi due valori, secondo la tradizione greca, avessero una forte valenza religiosa, essendo personificati in due precise divinità, entrambe strettamente legate a Zeus (per Dike cfr. Esiodo, Teogonia, 901-903; per Aidos cfr. Sofocle, Edipo a Colono, 1268). Aidos e Dike, anche secondo il discorso di Protagora, in quanto doni che Zeus assegna al genere umano, continuano a mantenere il loro originario significato religioso anche se, tuttavia, in questo contesto, vengono investiti di una nuova funzione di tipo politico, in quanto insostituibili condizioni morali dell’ordine sociale. Sul significato e l’importanza di questi termini si rimanda a S. Geragotis, Justice et pudeur chez Protagoras, in “Revue de Philosophie ancienne”, 13, 1995, pp. 187-97 e L. Brisson, Le mythe de Protagoras. Essai d’analyse structurale, “Quaderni urbinati di cultura classica”, 1975, n. 20, pp. 7-37, in particolare n. 68, pp. 20-21. Back

(54) Sulla possibilità di una lettura analitica del mito di Protagora si rimanda a A. Kleingünther, “Protos eurethes”, Philologus, Suppl. 26.1, 1933, pp. 105-106 e T. Cole, Democritus and the Sources of Greek Anthropology, Ann Arbor, 1967, p. 51. Secondo Cole, infatti, “Protagoras’ presentation, though it has a historical setting, is basically analytic. The politike techne and demiourgike techne which men acquire in successive stages represent simply a convenient way of classifying those skills which men must have if the species is to survive”. Back

(55) Per una dettagliata analisi del mito del Protagora con particolare attenzione al rapporto tra la nascita delle tecniche e l’origine della polis si veda G. Cambiano, Platone e le tecniche, Roma-Bari, 1991, pp. 3-13. Back

(56) Anche nell’Antigone di Sofocle (vv. 365 sgg.), rappresentata nel 442/1 a.C., il possesso della sapienza tecnica (cfr. sophon ti to machanoen) non sembra costituire una condizione sufficiente per decretare l’integrazione (hypsipolis) di un individuo nella comunità politica; per far parte della polis, infatti, gli uomini devono possedere una qualità assiologicamente superiore a quella puramente tecnico-produttiva, vale a dire quel rispetto delle leggi e della giustizia che, anche secondo il mythos del Protagora, costituisce il fondamento della politike techne. Back

(57) Il mito di Protagora, senza dubbio, tra le altre cose, si propone di dimostrare la differenza qualitativa e la superiorità della tecnica politica rispetto alle altre tecniche. Per una lettura di questo tipo del mito si rimanda ad A. Lami, Il mito del Protagora e il primato della politica, “Critica storica”, XII, 1975, pp. 1-45. Back

(58) Tra i numerosi autori che considerano il Protagora platonico un fautore della democrazia periclea si ricordano, in particolare, I. Lana, Protagora, “Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia di Torino”, vol. II, fasc. 4, 1950, pp. 18-21 e C. Farrar, The Origins of Democratic Thinking, Cambridge, 1988, pp. 44-98. Back

(59) Sul duplice significato del mito di Protagora quale manifesto dell’ideologia democratica e quale testimonianza della “politicizzazione primaria” della cultura greca si veda M. Vegetti, L’etica degli antichi, Roma-Bari, 1989, pp. 37-38. Back

(60) Per una ricostruzione dell’evoluzione della democrazia ateniese da Solone a Pericle si rimanda a S. Gastaldi, Storia del pensiero politico antico, Roma-Bari, 1998, pp. 33-73 e a V. Ehrenberg, From Solon to Socrates, London, 1973. Back

(61) Secondo Diogene Laerzio (IX, 50) – che in questo caso fa riferimento ad Eraclide Pontico –, Pericle, avendo grande stima delle capacità di Protagora, incaricò il sofista di redigere la costituzione della colonia panellenica di Turi (444 a.C.). Plutarco, inoltre, riferisce come Pericle si fosse intrattenuto con Protagora un’intera giornata, discutendo intorno ad una questione di diritto (Pericles 36) e come il sofista avesse lodato il dominio di sé che lo statista ateniese aveva dimostrato in occasione dell’annuncio della morte dei suoi due figli (Consol. ad Apoll., 33). Back

(62) Come sottolinea G.B. Kerferd, Protagoras’ Doctrine of Justice and Virtue in the Protagoras of Plato, in “Journal of Hellenic Studies”, 73, 1953, pp. 42-45, infatti, se la virtù non fosse insegnabile, non solo “the theory of Athenian democracy is false”, ma anche la stessa professione di Protagora non sarebbe altro che un inganno (fraud, p. 42). Secondo Schuhl, Essai sur la formation de la pensée grecque. Introduction historique à une étude de la pensée platonicienne, Paris, 1949, p. 350, inoltre, la finalità del mito di Protagora, più che quella di legittimare il regime democratico, sarebbe quella di giustificare la presenza e l’attività didattica dei sofisti nell’ambito della polis. Back

(63) Non è un caso, infatti, che la cultura sofistica raggiunga il suo apice nella seconda metà del V secolo,  contemporaneamente all’apogeo della polis democratica, e che essa tramonti inesorabilmente nel corso del IV secolo, parallelamente al declino delle stesse istituzioni democratiche. Per una presentazione complessiva del rapporto tra la polis democratica e il movimento sofistico si veda W.K.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy, vol. III, parte I, Cambridge, 1969. Back

(64) Tra coloro che sostengono questa ipotesi si ricordano I. Lana, Protagora, op. cit., p. 76, W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, Firenze, 1961, p. 276 e J. Adam – A.M. Adam, Plato’s Protagoras, Cambridge, 1971, p. XX; secondo M. Untersteiner, I Sofisti, Torino, 1949, p. 23, p. 96, invece, è più probabile che il mythos fosse contenuto in un altro scritto protagoreo, l’Aletheia. Back

(65) L’evidente analogia tra queste affermazioni dell’Anonimo di Giamblico e il mythos di Protagora ha condotto alcuni studiosi, soprattutto in passato (cfr. per es. H. Gompertz, Sophistik und Rhetorik, Leipzig, 1912, p. 86), ad affermare la dipendenza dello stesso Anonimo dal sofista di Abdera. Un’ipotesi di questo tipo, tuttavia, si rivela difficilmente sostenibile, non solo per la mancanza di informazioni basilari, ma anche per la complessità del discorso dell’Anonimo che, oltre ad elementi protagorei, contiene argomentazioni non direttamente riportabili al pensiero di Protagora. Back

(66) Per un’ipotesi di questo tipo si veda T. Cole, op. cit., p. 8, secondo il quale “it is reasonable to assume a Sophistic origin for the basic idea which accounts for its inclusion in the dialogue...”. Back

(67) Sulla non contraddittorietà tra il mythos platonico e quanto è possibile ricostruire del pensiero di Protagora si rimanda a I. Lana, Protagora, op. cit., pp. 3-31 e a C.C.W. Taylor, Plato’s Protagoras, translated with notes, Oxford, 1991, pp. 78-79. Per una rassegna delle diverse ipotesi sulla paternità di questo mito si vedano M. Untersteiner, I Sofisti, op. cit., p. 76, n. 24 e E.A. Havelock, The Liberal Temper in Greek Politics, New Heaven, 1957, pp. 407-409. Back

(68) Tra coloro che condividono questo punto di vista si vedano E.A. Havelock, op. cit., pp. 93-94 e A. Levi, Storia della Sofistica, a cura di D. Pesce, Napoli, 1966, p. 87, n. 10. Back

(69) Sulla funzione puramente strumentale esercitata dagli elementi mitico-religiosi si vedano, a titolo di esempio, le considerazioni di L. Brisson, Le mythe de Protagoras. Essai d’analyse structurale, op. cit., p. 8-9, n. 10. Back

(70) Il primo studioso ad aver ipotizzato l’origine democritea delle dottrine riportate da Diodoro I, 7-8, Tzetzes, Schol. In Hesiod. ed Ermippo, De Astrol. II, 1 - tutte raccolte in DK 68 B 5 - è stato K. Reinhardt, Hekataios von Abdera und Demokrit, “Hermes”, XLVII, 1912, pp. 492-513; la sua ipotesi è stata poi accettata ed approfondita da molti studiosi come, per esempio, E.A. Havelock, The Liberal Temper in Greek Politics, New Heaven, 1957, pp. 73-86 e, in particolare, T. Cole, op. cit., pp. 15 sgg. Una posizione critica sull’ipotesi di Reinhardt è sostenuta, invece, da L. Bertelli, Per le fonti dell’antropologia di Democrito (68 B 5 DK),  in “Quaderni di storia”, n. 11, 1980, pp. 231-66. Back

(71) Per una dettagliata analisi delle diverse teorie sull’origine dell’uomo e della civiltà si vedano W.K.C. Guthrie, In the Beginning. Some Greek Views on the Origins of Life and the Early State of Men, London, 1957 e, con particolare riferimento al ruolo esercitato dalle tecniche, G. Cambiano, Platone e le tecniche, op. cit., pp. 15-60. Back

(72) Sulle analogie e sulle differenze delle analisi di Democrito e Protagora si vedano G. Cambiano, Platone e le tecniche, op. cit., pp. 49-50 e, soprattutto, I. Lana, Le dottrine di Protagora e di Democrito intorno all’origine dello stato, in Id., Studi sul pensiero politico classico, Napoli, 1973, pp. 157-94. Secondo Lana, benché Democrito accordi il primato alla dimensione della tecnica e Protagora a quello della politica, è possibile ipotizzare l’esistenza di un rapporto di dipendenza tra queste due concezioni. Esaminando le considerazioni di diversi studiosi, Lana conclude che, per ragioni soprattutto cronologiche, è più probabile che Democrito avesse conosciuto e rielaborato le dottrine del sofista di Abdera, piuttosto che il contrario (cfr. pp. 180-94). Sulla priorità, oltre che cronologica, anche concettuale di Protagora si veda, inoltre, A. Levi, Storia della Sofistica, op. cit., p. 87, n. 9. Back

(73) L’idea di un graduale progresso delle attività umane – in particolare del sapere e delle tecniche - è già presente, sebbene implicitamente, nelle opere dei naturalisti ionici e degli esponenti della medicina ippocratica. Tuttavia, le prime esplicite formulazioni di “ideologie progressiste” risalgono alla prima metà del V secolo, ad opera di due celeberrimi poeti tragici come Eschilo (cfr. Prometeo incatenato, vv. 442 sgg.) e Sofocle (cfr. Antigone, vv. 356 sgg.). Per un’analisi dell’origine e della diffusione dell’idea dello sviluppo progressivo delle attività umane e, quindi, della storia – history as progress – nella Grecia del periodo classico si vedano L. Edelstein, L’idea di progresso nell’antichità classica, Bologna, 1987 e E.A. Havelock, The Liberal Temper in Greek Politics, op. cit., pp. 52-86. Con particolare riferimento alle opere dei poeti tragici, inoltre, si veda R. Cantarella, L’incivilimento umano dal Prometeo all’Antigone, in Id., Scritti minori sul teatro greco, Brescia, 1970, pp. 267-93. Back

(74) Per un dettagliato esame dell’influenza esercitata dalle dottrine antropologiche e sociologiche democritee su diversi pensatori dell’antichità (ad es. Platone, Aristotele, Dicearco, Posidonio, Lucrezio, Vitruvio etc.) si veda T. Cole, op. cit., pp. 131-73. Back

(75) Questa teoria di Democrito sull’origine dell’aggregazione sociale ricorda le considerazioni espresse, nel secondo libro della Repubblica, da Glaucone. Anche per quest’ultimo, infatti, è la paura che, unitamente alla debolezza caratteristica di ogni singolo individuo, spinge gli uomini ad istituire un patto di non aggressione reciproca, condizione indispensabile alla costituzione della società umana (Resp. II, 358 e sgg.). Per un’analisi dettagliata della teoria di Glaucone si rimanda a 3.2. Back

(76) Secondo Democrito, la religione risulta essere un fenomeno psicologico spontaneo che induce gli uomini a divinizzare tutti i fenomeni naturali che incutono in loro timore. Anche per Prodico di Ceo (cfr. Sesto Empirico, Contra Mathematicos, IX, 18), in linea con la concezione democritea, l’origine della religione è determinata dall’attribuzione da parte degli uomini di uno statuto divino agli elementi naturali e alle risorse vitali ad essi indispensabili (ad es. il sole, i fiumi, i cibi, le bevande…) e dall’estensione, in un secondo momento, di tale prerogativa anche ai lori inventori (Demetra, Dioniso…). Per una ricostruzione delle dottrine presocratiche sull’origine della religione è utile W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, op. cit., pp. 271-99. Back

(77) Sull’importanza del nesso tra il bisogno e la nascita della polis si rimanda alle considerazioni espresse, sempre nel secondo libro della Repubblica, da Socrate (Resp. II, 369 b sgg.), qui analizzate in 3.3. Back

(78) Sull’incompatibilità di alcune tesi espresse dal personaggio di Protagora con le corrispondenti concezioni platoniche si vedano G. Cambiano, Platone e le tecniche, op. cit., pp. 158-59 e L. Brisson, Le mythe de Protagoras. Essai d’analyse structurale, op. cit., pp. 7-37 (pp. 32-37). Secondo Brisson, in particolare, « le mythe de Protagoras exprime une doctrine éthique et politique très élaborée, qui s’oppose radicalement à celle de Platon, dont le «Protagoras» présente une ébauche de synthèse» (p. 8). Back

(79) Platone, del resto, aveva potuto fare diretta esperienza della negatività e dell’iniquità del regime democratico. La democrazia ateniese, infatti, nella sua versione restaurata di inizio IV secolo, si era macchiata del delitto di Socrate, “un mio amico più vecchio di me, un uomo che io non esito a definire il più giusto del suo tempo” (Epist. VII, 324 e), persuadendo così Platone a prenderne definitivamente le distanze. Sull’influenza che la condanna a morte di Socrate può aver esercitato sulle scelte politiche di Platone si veda S.S. Monoson, Plato’s entanglements: Athenian politics and the practice of philosophy, Princeton, 2000, pp. 118-122. Back

(80) Per una discussione intorno all’innegabile matrice aristocratica e anti-democratica del pensiero platonico si rimanda a J.T. Roberts, Athens on Trial: the Antidemocratic Tradition in Western Thought, Princetown, 1994, pp. 84-86. Back

(81) La composizione della Repubblica, senza dubbio, richiese una gestazione molto lunga e un complesso lavoro di scrittura e di rielaborazione, probabilmente iniziato intorno al 390 a.C. e sostanzialmente terminato 10-15 anni più tardi. Per una discussione intorno alle diverse ipotesi sulla cronologia di tale dialogo si vedano L. Brandwood, The Cronology of Plato’s Dialogues, Cambridge, 1990 e H. Thesleff, Studies on Platonic Chronology, Helsinki, 1982. Back

(82) Per una dettagliata analisi di queste due affermazioni di Trasimaco e del loro rapporto di implicazione – di tipo retorico-politico più che logico - si rimanda a M. Vegetti, Trasimaco, in Id. (a cura di), La Repubblica, traduzione e commento, Napoli, 1998, vol. I, pp. 233-56. Back

(83) Questo fatto ha portato molti studiosi - tra cui Dummler, Wilamowitz, Adorno, Giannantoni etc. - ad affermare l’autonomia compositiva del I libro rispetto al resto dell’opera e ad avvicinarlo, per il fatto di possedere caratteristiche analoghe, ai cosiddetti “dialoghi aporetici”, come il Carmide, il Liside, il Lachete, l’Eutifrone etc. Con molta probabilità, il I libro - forse con il titolo di Trasimaco - fu composto da Platone separatamente, un certo numero di anni prima degli altri (intorno al 390 a.C.), per assumere in seguito una funzione proemiale. Sull’argomento si veda G. Giannantoni, Il libro I della Repubblica di Platone, “Rivista critica di storia della filosofia”, 1957, pp. 123-45. Back

(84) Al pari dei fratelli Glaucone e Adimanto, anche Platone fa senza dubbio parte del numero degli aristoi ben intenzionati; egli, infatti, come lui stesso racconta nell’Epistola VII, pur essendo stato attratto dalle tesi radicali espresse dal pensiero sofistico, aveva rifiutato l’invito di Crizia – maggior esponente della fazione oligarchica ateniese, nonché zio di Platone stesso – a partecipare al governo golpista dei Trenta tiranni (404 a.C.), indignato dalla loro politica terroristica e sopraffattoria (Epist. VII, 324 d sgg.). Per un approfondimento del rapporto tra Platone e il radicalismo etico-politico del suo tempo si veda M. Mazzoni, Platone immoralista (tesi di laurea), Università degli Studi di Pavia, anno accademico 1998-99, in particolare pp. 81-110. Back

(85) Glaucone, pur manifestando la propria dipendenza intellettuale dalla figura di Trasimaco, espone una serie di dottrine concettualmente autonome e spesso molto diverse da quelle espresse dallo stesso Trasimaco. Per un’analisi delle differenze tra l’assetto teorico del discorso di Glaucone e quello di Trasimaco si veda A. Masaracchia, Per l’interpretazione del II libro della Repubblica, in R. Pretagostini (a cura di), Tradizione e innovazione nella cultura greca da Omero all’età ellenistica. Scritti in onore di B. Gentili, Roma, 1993, vol. II, pp. 877-86, p. 882. Back

(86) Si ricordi che proprio questa tesi, espressa prima da Polo (Gorg. 472 d sgg.) e poi da Callicle (482 d sgg.), aveva costituito uno dei nodi maggiormente problematici della discussione del Gorgia; il tentativo da parte di Socrate di confutare tale affermazione, infatti, aveva condizionato tutto lo sviluppo argomentativo del dialogo. Per una puntuale analisi di esso si rimanda a E.R. Dodds, Plato’s Gorgias, A Revised Text with Introduction and Commentary, London, 1959. Back

(87) Secondo D. A. Hyland, Republic, Book II, and the Origins of Political Philosophy, “Interpretation”, 2, 1988-89, pp. 247-61, la genealogia della giustizia di Glaucone sottende una ben precisa teoria antropologica di tipo “atomistico”, secondo la quale “a human being is naturally an autonomous, indipendent, radically self-intersted monad or atom...” (p. 250). Back

(88) Glaucone, attraverso il suo discorso, esprime una delle prime e più rigorose formulazioni di una teoria contrattualistica dell’origine della società che, per molti aspetti, ricorda quella formulata in tempi moderni da Hobbes (cfr. Leviatano XIII). Glaucone, al contrario, si differenzia piuttosto nettamente da altri esponenti moderni del contrattualismo come Locke e Rousseau, poiché essi non concepiscono lo stato di natura come violenza. Sulla teoria contrattualistica di Glaucone e sul suo rapporto con Hobbes si vedano, in particolare, R.E. Allen, The Speech of Glaucon: on Contract and Common Good, in S. Panagiotou (ed.), Justice, Law and Method in Plato and Aristotle, Edmonton, 1987, pp. 51-62 e B. Williams, Plato against the Immoralist, in O. Höffe (hsg.), Platon. Politeia, Berlin, 1997, pp. 55-67. Back

(89) Glaucone, in questo modo, si discosta parzialmente dalla teoria sull’origine del nomos espressa da Callicle nel Gorgia. Callicle, infatti, pur condividendo la tesi di Glaucone secondo cui le leggi nascono da una situazione di debolezza (arrostia), non considera quest’ultima una caratteristica propria di tutti gli uomini, bensì solo della maggior parte di essi. Secondo Callicle, infatti, esiste un ristretto numero di individui che per natura sono in possesso della forza di prevalere sui più deboli; questi ultimi, tuttavia, per evitare di essere ridotti in schiavitù dai più capaci, si accordano e istituiscono il nomos, quell’insieme di regole cioè che biasima come una cosa riprovevole il tentativo dei più forti di prevalere sugli altri (pleonektein), lodando al contrario l’uguaglianza (to ison) tra gli uomini (Gorg. 483 b-c). Sulle analogie e le differenze tra le posizioni di Glaucone e Callicle si veda M. Ostwald, Plato on Law and Nature, in H.F. North, (ed.), Interpretations of Plato, “Mnemosyne”, suppl. 50, 1977, pp. 41-63. Back

(90) Glaucone, nel delineare la sua “genealogia della giustizia”, non si limita a sviluppare tesi già sostenute da Antifonte; molte delle sue affermazioni, infatti, come ha messo in evidenza M. Vegetti, Glaucone, in Id. (a cura di), La Repubblica, traduzione e commento, op. cit., vol. II, pp. 151-72, pp. 163-69, riprendono letteralmente alcuni passi antifontei, dimostrando come Platone, nel costruire l’argomento di Glaucone, li avesse immediatamente presenti. Back

(91) Mi sembra ragionevole la proposta di lasciare cadere la distinzione tra l’Antifonte promotore del colpo di stato oligarchico del 411 a.C. e l’Antifonte sofista, optando per una comprensione unitaria di questa complessa figura di intellettuale e politico del V secolo. A questo proposito si veda F. Decleva Caizzi, “Hysteron Proteron”: la nature de la loi selon Antiphon et Platon, “Revue de Métaphysique et de Morale”, 91, 1986, pp. 291-310. Back

(92) Sul tema dell’opposizione tra nomos e physis si rimanda al celebre studio di F. Heinimann, Nomos und Physis, Basel, 1965 e a G. Casertano, Natura e istituzioni umane nelle dottrine dei sofisti, Napoli, 1971. Per la presenza di questa tematica nei dialoghi platonici si confrontino i discorsi di Callicle (Gorg. 482 e sgg.), di Ippia (Prot. 337 c sgg.) e dei “cattivi maestri” delle Leggi (Leg. X, 889 e-890 a). Back

(93) Per un’analisi approfondita delle dottrine antifontee si rimanda a M. Ostwald, Nomos and Physis in Antiphon’s Peri Aletheias, in M. Griffith – D.J. Mastronarde (eds.), Cabinet of the Muses, Scholars Press, 1990, pp. 293-306. Back

(94) Antifonte applica personalmente questo principio, animando le iniziative delle eterìe oligarchiche e organizzando il rovesciamento del governo democratico ateniese nel 411 a.C. (per il racconto di queste vicende cfr. Tucidide 8.65 sgg.). Per un esame dettagliato del colpo di stato del 411 si veda L. Canfora, Storia di oligarchi, Palermo, 1983, pp. 35 sgg. Back

(95) Glaucone si propone di chiarire queste sue affermazioni attingendo dal repertorio mitico l’apologo di Gige, il pastore lidio che, dove aver ritrovato un anello magico in grado di rendere invisibile chi lo porta al dito, essendo grazie ad esso certo della propria impunità, si macchia di turpi delitti ed azioni efferate che culminano con l’uccisione del re e la presa del potere (359 c sgg.); “se, pertanto, esistessero due anelli di questo tipo e l’uno se lo infilasse al dito l’uomo giusto e l’altro l’uomo ingiusto, credo che nessuno sarebbe tanto costante da persistere nella giustizia ed avere la forza di astenersi dai beni altrui, malgrado la possibilità di prendere al mercato ciò che volesse […] e di fare tutto quanto lo rendesse tra gli uomini simile ad un dio” (360 b-c). Per un’attenta analisi di questo apologo si veda F. Calabi, Gige, in M. Vegetti, (a cura di), La Repubblica, traduzione e commento, op. cit., vol. II, pp. 173-88. Back

(96) Adimanto, intervenendo al termine del discorso di Glaucone (362 e), aveva completato le argomentazioni del fratello, ponendosi dal punto di vista non dei detrattori, ma dei sostenitori della giustizia e mettendo in evidenza l’inconsistenza delle posizioni di coloro che considerano la giustizia un bene e l’ingiustizia un male in relazione alle conseguenze che da essa derivano (cfr. 365 c). Sul personaggio di Adimanto e sul suo discorso si veda M. Vegetti, Adimanto, in Id. (a cura di), La Repubblica, traduzione e commento, op. cit., vol. II, pp. 221-32. Back

(97) L’omologia di contenuto tra i due testi, in realtà, non viene mai dimostrata, ma è considerata come un postulato, una verità di per sé evidente che non ha bisogno di dimostrazione. Tuttavia, il passaggio dal piano individuale a quello politico che la metafora grafica dovrebbe garantire era già stato implicitamente realizzato da Trasimaco, attraverso il suo intervento nel I libro della Repubblica (338 c sgg.). Su questi temi si veda M. Vegetti, Grammata, in Id. (a cura di), La Repubblica, traduzione e commento, op. cit., vol. II, pp. 281-84. Back

(98) Un’analisi ed un commento estremamente dettagliati al discorso di Socrate sull’origine della città è quello di S. Campese- L.L. Canino, La genesi della polis, in M. Vegetti (a cura di), La Repubblica di Platone, traduzione e commento, op. cit., vol. II, pp. 285-332. Su questo stesso tema, inoltre, si veda anche D.T. Devereux, Socrates’ First City in the Republic, “Apeiron”, 13.1, 1979. Back

(99) Secondo D. A. Hyland, op. cit., pp. 250-51, la teoria antropologica presupposta dal discorso di Socrate dipinge gli uomini come esseri “relational and not alienated”, in esplicita contrapposizione all’immagine di essi  “atomistic and alienated” che Glaucone in precedenza aveva fornito (358 e). Socrate, infatti, come afferma D.T. Devereux, op. cit., pp. 36 sgg., sottolinea la naturale propensione degli uomini alla cooperazione, lasciando intendere l’estraneità della componente conflittuale rispetto allo stato di natura. Back

(100) Anche secondo l’Anonimo di Giamblico è la necessità (chreia) che spinge gli uomini ad abbandonare l’esistenza isolata e ad unirsi in gruppi sempre più numerosi. A questo proposito mi sembra interessante riportare per intero il passo dell’Anonimo (DK 89, 6.1) che descrive l’origine della civiltà, dal momento che esso, oltre a considerazione simili a quelle di Socrate (l’impossibilità per gli uomini di un’esistenza “atomistica”; la centralità della chreia) riprende anche una serie di elementi presenti sia nella descrizione di Protagora (l’importanza delle tecniche; la necessità della giustizia e della legge per l’origine dell’aggregazione sociale) sia in quella di Glaucone (l’utilità e la preferibilità della condizione politica): “Siccome gli uomini si mostrarono per natura incapaci di vivere individualmente e si raccolsero in reciproca unione sotto la pressione della necessità (chreia), di modo che in vista di questa fu da essi trovato tutto ciò che riguarda il vivere civile con le invenzioni pratiche e poiché dall’altra parte non sarebbero possibili rapporti sociali e un’esistenza ove leggi non abbiano vigore (infatti in questo caso ne verrebbe agli uomini un danno maggiore di quell’esistenza nell’isolamento dei singoli): orbene, per tutte queste ragioni inesorabili il principio giuridico e la norma del giusto regnano fra gli uomini e in nessun modo potrebbero essere abbattuti: questi principi, infatti, costituiscono un saldo ordinamento determinato dalla natura”. Back

(101) Per il significato dell’espressione “technological state of nature” si rimanda a A.O. Lovejoy – G. Boas, Primitivism and related ideas in the antiquity, Baltimore, 1935, pp. 14-15. Back

(102) E’ interessante sottolineare come Aristotele, pur non sottovalutando l’importanza della dimensione economica (Pol. I, 2, 1252b 28 sgg.), critichi la prote polis platonica a causa della sua mancanza di una delle principali caratteristiche strutturali della polis greca, l’autonomia politico-militare (Pol. IV, 4, 1291a 10 sgg.). La presenza di governanti, di amministratori della giustizia e di guerrieri, infatti, si rivela una condizione indispensabile alla realizzazione di una comunità finalizzata non solo a soddisfare i bisogni vitali, ma anche e soprattutto a procurare una vita felice ai suoi abitanti. Back

(103) Sul carattere non storico, ma logico-normativo della descrizione della polis effettuata da Socrate si vedano R.C. Cross– A.D. Woozley, Plato’s Repubblic. A Phylosophical Commentary, London, 1964, pp. 81 sgg. (“Plato pursues not the historical order of development, but the logical order”, p. 81) e R.L. Nettleship, Lectures on the Republic of Plato, London, 1964, pp. 69 sgg. (“there is nothing in the text to suggest that Plato was claming to write history”, p. 69). Secondo P. Frutiger, Le mythes de Platon, Paris, 1930, pp. 190-92, la fenomenologia socratica della polis rappresenta un mito genetico-simbolico, “parce que le devenir qui s’y trouve dessiné correspond à un ordre logique et non pas à succession temporelle...” (p. 191). Back

(104) Platone, nella descrizione delle modalità di organizzazione dell’anankaiotate polis, delinea un modello di economia non primitiva, ma già sviluppata nella direzione della divisione del lavoro come, del resto, quella ateniese. Su queste tematiche si rimanda alla dettagliata analisi di G. Cambiano, Platone e le tecniche, op. cit., pp. 145-65. Riserve sull’applicabilità della formula “divisione del lavoro” al mondo antico, al contrario, sono avanzate da J.P. Vernant, Lavoro e natura nella Grecia antica, in Id., Mito e pensiero presso i greci, Torino, 1970, pp. 186 sgg. Back

(105) Platone qui introduce senza argomentarlo l’importante assunto in base al quale la natura, in maniera “provvidenziale”, distribuisce equamente a ciascun individuo la capacità di svolgere una determinata funzione. La physis, in questo modo, esercita una funzione che tradizionalmente veniva svolta dalla divinità che, secondo Omero, si prendeva cura della distribuzione armonica delle diverse tecniche agli uomini (cfr. Il. XI, 514-15; XIII, 730-34). Tale principio, nella sua trasposizione in ambito etico e psicologico, è destinato a svolgere un ruolo decisivo nello sviluppo dell’intero dialogo. Su queste tematiche si veda E.N. Lee, Plato’s Theory of Social Justice in Republic II-IV, in J.P. Anton - A. Preus (eds.), Essays in Ancient Greek Philosophy III: Plato, Albany, 1989, pp. 117-40. Back

(106) Anche Senofonte, nella Ciropedia, analogamente a Socrate, sottolinea sia l’impossibilità che una sola persona possa eseguire ad alto livello molti lavori, sia la maggiore efficienza di una città organizzata secondo la modalità della divisione del lavoro piuttosto che secondo un modello autarchico (cfr. Ciropedia II, 1,21; VIII, 2,5). E’ del resto possibile che Senofonte, al di là della diversità del contesto, si sia ispirato alla Repubblica di Platone, opera cronologicamente anteriore a quella senofontea (cfr. Diogene Laerzio III, 34). Secondo Senofonte, tuttavia, la specializzazione non deriva, come per Platone, da una dinamica strutturalmente connaturata agli esseri umani, ma è il prodotto della grande estensione della domanda che si verifica soltanto nelle città più grandi (cfr. J. Luccioni, Les idées politiques et sociales de Xénophon, Paris, 1948, p. 242). Back

(107) Cfr. a questo proposito, le analoghe affermazioni di K. Marx, Il Capitale, trad. it. di D. Cantimori, vol. I, Roma, 1964, p. 409. Back

(108) E’ interessante notare come un sociologo dell’Ottocento del calibro di E. Durkheim, in una delle sue opere del 1893 (cfr. La divisione del lavoro sociale, trad. it. di F. Airoldi Namer, Milano, 1962), esprima una teoria sull’importanza della specializzazione del tutto analoga a quella di Platone (cfr. p. 84). Back

(109) E’ interessante notare come, all’interno del processo di trasformazione dei materiali necessario alla realizzazione dell’oggetto, la produzione dell’organon, dell’elemento indispensabile alla trasformazione stessa, assuma una funzione autonoma, dando origine ad una nuova tecnica dotata dello stesso valore delle altre. Platone, al contrario, nel Politico, distingue in maniera più netta le tecniche primarie - che producono direttamente gli oggetti - dalle tecniche secondarie - che forniscono solamente gli strumenti per la fabbricazione degli oggetti - (cfr. Pol. 281 d-e). Sul rapporto tra tecniche primarie e secondarie si rimanda a O. Longo, L’artigiano ateniese: organizzazione del lavoro e rapporti di produzione, in La storia La terra Gli uomini, Venezia, 1987, pp. 92 sgg. Back

(110) Platone, nelle Leggi, formulando una rigida regolamentazione delle pratiche commerciali, proibisce di vendere alle altre città quanto è strettamente necessario a soddisfare le esigenze interne della polis, limitando le esportazioni solamente a quei prodotti che la città ha prodotto in eccesso (cfr. Leg. VIII, 847 b-c). Sull’opportunità di esportare i beni che la polis possiede in abbondanza si vedano anche le considerazioni di Aristotele in Pol. I, 9, 1257a 32-34. Back

(111) Secondo Pausania, la presenza dell’agora - unitamente agli edifici governativi, al teatro, al ginnasio, all’acquedotto – distingue e separa la polis da un semplice insediamento di uomini come un grosso villaggio (10.4.1). Back

(112) Più che nella Repubblica, è nelle Leggi che Platone enuncia, probabilmente per la prima volta nella storia, una concezione convenzionale e “non metallista” del valore della moneta (cfr., a questo proposito, B. Gordon, Economic Analysis before Adam Smith. From Hesiod to Lessius, London, 1975, p. 43); nel libro V, infatti, l’Ateniese sottolinea come la moneta, resa indispensabile dagli scambi quotidiani e dalla necessità del pagamento dei salariati, dovrà avere validità (entimon) solo all’interno della polis, perdendo completamente il proprio valore (adokimon) al suo esterno (cfr. Leg. V, 742 a). Aristotele, invece, nella Politica, oltre ad una valenza convenzionale (cfr. Eth. Nic. 1133a 30 sgg.), riconosce alla moneta anche un valore “metallista”, derivante dalla materia di cui essa è costituita (cfr. Pol. I, 9, 1257a 34 sgg.). Back

(113) Platone, descrivendo le modalità attraverso cui la polis si procura le risorse materiali necessarie alla sua riproduzione, contribuisce a chiarire quale fosse il ruolo dell’economia nel mondo antico. Essa per i greci, a differenza di quanto avviene ai giorni nostri, era finalizzata in primo luogo al consumo e alla sussistenza dell’oikos, non allo scambio e al conseguimento di un profitto; le pratiche commerciali, inoltre, considerate dagli “uomini liberi” attività vergognose e del tutto marginali, erano affidate alle persone moralmente più squalificate all’interno della polis. Per una dettagliata analisi delle caratteristiche dell’economia del mondo antico e delle sue differenze rispetto a quella attuale è fondamentale M. I. Finley, L’economia degli antichi e dei moderni, Roma-Bari, 1974. Back

(114) Aristotele individua nel sovrapprezzo con cui i commercianti rivendono le merci acquistate dai produttori un esempio di crematistica innaturale, ovvero di quella pratica finalizzata all’accumulazione di ricchezza e non al soddisfacimento delle esigenze primarie (Pol. I, 10, 1258b2 sgg.). Sul concetto di crematistica in Aristotele si veda S. Campese, Polis ed economia in Aristotele, in A.A.V.V., Aristotele e la crisi della politica, Napoli, 1977, pp. 13-60. Back

(115) Platone, nelle Leggi, descrive la kapeleia come un’attività fondamentale per la città grazie alla sua capacità di rendere quantitativamente omogenei (homaloteta tais ousiais) beni qualitativamente asimmetrici e disuguali: “Come non può essere benemerita quell’attività che rende proporzionato (homalen) e ben distribuito (symmetron) ogni genere di ricchezza che di per sé tenderebbe allo squilibrio (asymmetron) e alla sproporzione (anomalon)?” (Leg. XI, 918 b). Sulla centralità della funzione di redistribuzione delle risorse svolta dalla kapeleia cfr. anche le considerazioni di Platone in Pol. 289 e. Back

(116) Anche per Aristotele, i salariati (misthotoi), coloro cioè che sono privi di qualsiasi capacità e dotati della sola forza fisica, sono destinati a svolgere quei lavori manuali che, all’interno della polis, costituiscono le attività più servili (doulikotatai) e ignobili, in quanto non richiedono per nulla il possesso di capacità spirituali (Pol. I, 10, 1258b20 sgg.). Back

(117) Sull’incertezza della risposta di Adimanto quale segnale della difficoltà di individuare una nozione di giustizia in una polis dal carattere esclusivamente economico si veda R.C. Cross– A.D. Woozley, Plato’s Repubblic. A Phylosophical Commentary, op. cit., pp. 83-93. Solo in una città in cui è presente la dimensione etica e politica, infatti, il problema della giustizia può essere posto e risolto (cfr. Resp. IV, 427 e sgg.). Back

(118) Sul ruolo fondamentale esercitato, nell’alimentazione dei greci, da ingredienti come il grano e l’orzo si veda L. Gallo, Alimentazione e demografia della Grecia antica, Salerno, 1984, pp. 23 sgg. Back

(119) Molti elementi di questo quadro delineato da Socrate rimandano alle antiche feste agresti che in Grecia rappresentavano un appuntamento consueto. Sulle modalità di organizzazione e di svolgimento di queste antiche feste campestri si veda L. Gernet, Sagre antiche, in Id., Antropologia della Grecia antica, Milano, 1983, pp. 15-84. Il contesto festivo, inoltre, come le successive affermazioni di Socrate (372 b-c) sembrerebbero suggerire, era anche un’importante occasione di conoscenza tra i giovani e tra le loro famiglie, allo scopo sia dell’unione sessuale, sia della stipulazione dei contratti matrimoniali (cfr. Leg. VI, 771 e sgg.). Su queste problematiche si veda L. Gernet-A. Boulanger, Le génie grec dans la religion, Paris, 1970, pp. 40 sgg. Back

(120) Anche nella polis che Platone delineerà nel prosieguo della Repubblica, i governanti dovranno adottare speciali criteri per mantenere stabile il numero degli abitanti, non rendendo la città né troppo grande né troppo piccola (Resp. V, 460 a). Oltre alla quantità, inoltre, essi controlleranno anche la qualità degli abitanti, programmando i loro accoppiamenti in base ad un criterio eugenetico (V, 458 e sgg.). Back

(121) Sul paesaggio agrario e sui principali prodotti (cereali, legumi, ortaggi etc.) dell’Attica antica si veda L. Gallo, Alimentazione urbana e alimentazione contadina nell’Atene classica, in O. Longo-P. Scarpi (a cura di), Homo Edens, Verona, 1989, pp. 225 sgg. Back

(122) Glaucone, sottolineando la mancanza del companatico nel regime alimentare della prote polis, intende alludere all’assenza in esso di alimenti animali, pietanze da sempre riservate alle classi più elevate. Socrate, al contrario, sfruttando la polisemia del termine opson – companatico in senso generico e cibo animale in senso stretto -, integra la dieta con un contorno esclusivamente vegetale, caratteristico dell’alimentazione dei ceti più poveri e delle civiltà primitive. Sul gioco di parole utilizzato da Socrate si veda D.A. Dombrowski, Two Vegetarian Puns at Republic 372, “Ancient Philosophy”, 9, 1989, pp. 167-71. Back

(123) L’associazione tra dieta vegetariana e purezza di anima e corpo rimanda allo stile di vita degli adepti delle sette orfiche e pitagoriche. Essi, infatti, oltre ad astenersi dal nutrimento carneo, si rifiutavano anche di offrire esseri viventi in sacrificio agli dei, poiché col loro sangue questi avrebbero causato una contaminazione degli altari (cfr. Leg. VI, 782 b-d). Sul rifiuto orfico e pitagorico delle tradizionali pratiche sacrificali si veda M. Detienne, La chemins de la déviance: orphisme, dionysisme et pythagorisme, in Orfismo in Magna Grecia, Atti del XIV Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Napoli, 1975, pp. 47-79. L’alimentazione vegetariana, inoltre, sempre per orfici e pitagorici, costituiva sia un importante veicolo per la ricreazione dell’armonia originaria con il divino, sia un’insostituibile strumento ascetico per la repressione di tutti gli istinti animali presenti nell’uomo (cfr. Giamblico, Vita di Pitagora, 106-108). Sulla tematica del vegetarianismo in Platone si rimanda a G. Cambiano- L. Repici, Cibi e forme di sussistenza in Platone, Aristotele e Dicearco, in O. Longo-P. Scarpi (a cura di), op. cit., pp. 81 sgg. Back

(124) Sebbene l’esistenza della città socratica si basi sul lavoro e sulla collaborazione dei detentori delle diverse tecniche, molti elementi del quadro delineato da Socrate rimandano al modo di vita degli uomini dell’età dell’oro. Sulla possibilità e sui limiti di questo accostamento si veda G.A. Seeck, Platons “Schweinestaat”, “Gymnasium”, 101, 1994, pp. 101 sgg. Back

(125) Sia nel caso in cui tutti gli uomini siano ricchi, sia in quello in cui essi siano tutti poveri, non si originano invidie e conflitti. Questi, infatti, come lo stesso Platone suggerisce, nascono solo laddove esiste una ripartizione disuguale di beni e ricchezze (cfr. Resp. IV, 422 e – 423 a; 464 d-e; Leg. III, 679 c), come nel caso delle poleis del suo tempo, dove pochi individui possedevano gran parte delle risorse, suscitando le invidie e le rivendicazioni da parte degli altri cittadini. Back

(126) Per un profilo delle figure di Glaucone e Adimanto che mette in evidenza la loro philonikia e philotimia si veda L.H. Craig, The War Lover, A Study of Plato’s Republic, Toronto, 1994, pp. 112-25. Sulla rilevanza delle osservazioni di Glaucone e Adimanto per il successivo sviluppo del dialogo, invece, si veda M. Vegetti, Società dialogica e strategie argomentative nella Repubblica, in G. Casertano (a cura di), La struttura del dialogo platonico, Napoli, 2000, pp. 74-85, in particolare pp. 78-80. Back

(127) Secondo Tucidide furono proprio gli ateniesi i primi tra i greci a deporre le armi e a darsi ad una forma di vita più confortevole e lussuosa (trypheroteron, I, 6.3). Questa testimonianza, unitamente a molti altri elementi del testo platonico (vd. sotto), sembra suggerire che la polis tryphosa ricalchi le caratteristiche dell’Atene periclea di fine V secolo. Back

(128) Sulla necessità della transizione dalla città frugale e sana a quella rigonfia e malata si rimanda a M.M. Sassi, Natura e Storia in Platone, “Histoire de l’Histographie”, IX, 1986, pp. 104-28. Oltre che da un punto di vista  esclusivamente diacronico, è possibile interpretare il passaggio dalla prote polis alla polis tryphosa anche secondo una prospettiva sincronica, in base alla quale la transizione tra le due poleis altro non è che un espediente formale finalizzato a mettere in evidenza aspetti contrapposti (ambiente agrario e urbano; produzione e consumo etc.) che coesistono nel medesimo spazio sociale. Back

(129) Platone, nell’elencare i cibi e i conforts che arricchiscono il regime di vita degli abitanti della polis, sembra ispirarsi alla descrizione del banchetto negli Acarnesi di Aristofane; esso, infatti, in maniera significativa contempla tutti gli elementi nominati da Socrate: “il resto è tutto pronto: letti, tavole, cuscini, tappeti, corone, profumi, biscotti. Ci sono naturalmente le prostitute, pasticcini, focacce, sesamelle, paste, splendide ballerine e canzonette” (Ach. vv. 1090-92). Back

(130) Gli elementi e gli operatori che secondo Socrate hanno la funzione di rendere la polis esteticamente apprezzabile sono gli stessi di cui Pericle, secondo la testimonianza di Plutarco, si era servito nel suo sforzo di abbellire Atene: “Furono usati come materiali le pietre, il bronzo, l’avorio, l’oro, l’ebano, il cipresso; furono impiegate le arti che li trattano e li lavorano, cioè falegnami, scultori, fabbri, scalpellini, tintori, modellatori d’oro e d’avorio, pittori, arazzieri, intagliatori, per non dire di coloro che importarono e trasportarono tutte queste merci: armatori, marinai e piloti in mare, carradori, allevatori, conducenti, cordai, tessitori, cuoiai, terrazzieri e minatori” (Per. 12). La polis tryphosa appare quindi modellata sull’Atene periclea nel suo massimo momento di splendore, periodo storico peraltro nel quale la stessa Repubblica è ambientata. Il termine poikilia, inoltre, rimanda all’analisi negativa della democrazia che Platone effettua dell’VIII libro della Repubblica (Resp. VIII, 557 b sgg.). Sul valore metaforico del termine poikilia si veda S. Campese- L.L. Canino, La genesi della polis, op. cit., p. 252. Back

(131) Sull’alto numero di feste organizzate ad Atene si vedano le interessanti considerazioni dello Pseudo-Senofonte (Costituzione degli Ateniesi, 3.8). Sulla loro modalità di svolgimento e sul loro significato etico-politico si rimanda a S. Campese- S. Gastaldi, La festa e l’educazione del cittadino, in E. Becchi (a cura di), Storia dell’educazione, Firenze, 1987, pp. 107-46. Back

(132) Sulla corrispondenza tra la kolakeia dei corpi esercitata dai cuochi e quella intellettuale praticata dagli uomini politici si vedano le considerazioni di J. Andreadis, Les maléfices de la cuisine dans le “Gorgias” de Platon, “Quaderni di storia”, 26, 1987, pp. 146 sgg. Back

(133) L’esistenza di un corpo militare separato, così come segnalato anche da Glaucone (374 a), rappresenta un dato inusuale per le poleis greche, nelle quali era tradizionalmente l’intero corpo dei cittadini a costituire l’esercito. Nella polis descritta da Socrate, invece, la necessità di efficienza correlata al principio della divisione del lavoro, impone l’istituzione di un esercito professionistico, composto da individui che si dedichino esclusivamente alle pratiche belliche. Per un’analisi dell’organizzazione bellica delle città greche si veda Y. Garlan, L’uomo e la guerra, in in J.P. Vernant (a cura di), L’uomo greco, Roma-Bari, 1991, pp. 55-86. Back

(134) Sul significato e sull’importanza di questa transizione si veda D. Clay, Reading the Republic, in C.L. Griswold (a cura di), Platonic Writings Platonic Readings, New York-London, 1988, pp. 19-33. Back

(135) Sia l’azione dei re-filosofi dei libri V-VI, sia quella dei phylakes dei libri II-IV si dimostrano determinanti nel processo di costituzione della kallipolis. Mentre i re-filosofi esercitano la funzione di delineare un nuovo ordine costituzionale operando una profonda trasformazione (cfr. metaballein, V, 473 b-c) della realtà socio-politica, i phylakes hanno il compito, in un primo tempo, di contribuire alla realizzazione pratica di questo progetto riformistico e, in un secondo momento, di provvedere all’amministrazione del nuovo Stato (cfr. IV, 421 e sgg.). Tuttavia, al di là della sequenza del testo, la funzione esercitata dai re-filosofi possiede una priorità logico-cronologica, in quanto essa rappresenta la condizione necessaria sia alla rieducazione e all’avvento al potere degli archontes, sia all’avvio del processo di formazione della kallipolis; è lecito supporre che il loro impegno politico e pedagogico, una volta raggiunti gli obbiettivi prefissati, sia destinato ad esaurirsi. Sulla funzione strumentale e condizionale dei re-filosofi si veda L. Strauss, The city and the man, Chicago-London, 1964, pp. 122 sgg. Back

(136) Secondo O. Hoffe, Zur Analogie von Individuum und Polis (Buch II 367 a – 374 d), in Id. (hsg.), Platon Politeia, op. cit., pp. 69-93, il processo logico di costruzione della polis si scandisce secondo i tre momenti caratteristici della triade dialettica hegeliana. La prote polis, infatti, con la sua innocenza pre-politica e la sua assenza di qualsiasi elemento di conflittualità, costituisce la tesi; la polis tryphosa, la città storica affetta dal morbo della pleonexia, l’antitesi; la kallipolis, priva di conflitti, ma dotata anche della dimensione politica, la sintesi. Back

(137) Nello stesso modo in cui una serie di violenti cataclismi mette fine all’età dell’oro del Politico e all’antica Atene del Timeo-Crizia, un altro evento catastrofico è destinato a decretare la dissoluzione della più perfetta forma di comunità politica (kallipolis) che, in quanto realizzazione pratica di un ideale intelligibile, rimane pur sempre inscritta nel mondo umano e, per questo motivo, soggetta all’inderogabile legge della corruzione (Resp. VIII, 546 a). La causa scatenante del suo inevitabile processo di decadenza sembra configurarsi come una sorta di rivalsa della dimensione naturale e biologica sulle regole razionali riguardanti le unioni sessuali imposte dagli archontes (cfr. Resp. V, 458 c sgg.). Le norme eugenetiche che regolano capillarmente gli accoppiamenti all’interno di kallipolis, infatti, sono destinate ad essere gradualmente disattese, causando non solo la corruzione fisica ed intellettuale del gruppo dei governanti, ma anche la rottura di quell’assetto gerarchico che garantiva il rispetto della giustizia e la stabilità della comunità politica (cfr. Resp. VIII, 546 b sgg.). Back

(138) Per persuadere ciascuno della correttezza della propria collocazione all’interno della comunità, Platone narrerà un nuovo mythos, una “nobile menzogna” in base alla quale ogni individuo nasce direttamente dalla terra con specifiche prerogative, tali da renderlo idoneo a uno dei tre diversi ruoli che caratterizzano l’assetto sociale della kallipolis: “Il dio, quando vi ha plasmato, nella generazione di quelli tra voi che sono capaci di esercitare il potere ha mescolato dell’oro, perciò sono i più pregevoli; in quella delle guardie, argento; ferro e bronzo nei contadini e negli altri artigiani” (Resp. III, 415 a). Questo racconto, che si richiama sia al mito esiodeo delle razze sia ai miti di autoctonia, ha la funzione non solo di rafforzare la coesione sociale e il legame di fratellanza tra i cittadini dovuto all’origine comune, ma anche di generare consenso riguardo all’assetto gerarchico della città. Per un’analisi di questo mythos si veda F. Calabi, La nobile menzogna, in M. Vegetti (a cura di), La Repubblica, traduzione e commento, op. cit., vol. II, pp. 445-57. Back

(139) La più importante festa in onore di Atena, dea protettrice della città di Atene, erano le Panatenee che cadevano il 28 del mese di Ecatombeone (giugno-luglio). Sulle modalità di organizzazione e di svolgimento di questa importante occasione festiva ateniese si rimanda a S. Campese - S. Gastaldi, La festa e l’educazione del cittadino, in E. Becchi (a cura di), Storia dell’educazione, Firenze, 1987, pp. 107-46, in particolare pp. 125-144. Back

(140) Questa palese incoerenza, non evidenziata dai commentatori antichi, è stata messa per la prima volta in luce da C. Ritter, Neue platonische Untersuchungen, Leipzig, 1910, p. 174, determinando così l’apertura del moderno dibattito sul rapporto Timeo-Repubblica. Back

(141) Alcuni commentatori antichi e moderni, per risolvere questa incongruenza, hanno ipotizzato che la festa in onore di Atena a cui Platone fa riferimento nel Timeo (cfr. 21 a; 26 e) non siano tanto le Grandi Panatenee, quanto le Panatenee Minori (cfr. per es. Procli Diadochi in Platonis Timaeum Commentarium, 26. 10-20) o le Plinterie (cfr. G. Fraccaroli, Platone. Il Timeo, Torino, 1906, pp. 6-7), cronologicamente più vicine alle Bendidie, occasione festiva in cui la discussione narrata dalla Repubblica è immaginata. Tuttavia, al di là di queste ipotesi, peraltro poco probabili, rimane indubbio che la festa per eccellenza dedicata ad Atena erano le Panatenee. Back

(142) D. Clay, The Plan of Plato’s Critias, in T. Calvo –L. Brisson (a cura di), Interpreting the Timaeus-Critias, Proceedings of the IV Symposium Platonicum, Sankt Augustin, 1997, pp. 49-54, ha recentemente negato che il Timeo possa davvero riferirsi alla Repubblica. L’ipotesi che il riassunto del Timeo si riferisca ad una versione provvisoria e ridotta della Repubblica è sostenuta da H. Thesleff, The early Version of Plato’s Republic, “Arctos” 31, 1997, pp. 149-74. Del tutto priva di fondamento – e quindi non presa nemmeno in considerazione – è invece l’ipotesi in base alla quale il Timeo si riferisca ad un altro dialogo platonico non altrimenti noto, misteriosamente perduto senza aver lasciato la benché minima traccia nella tradizione antica. Back

(143) Questa è l’opinione, per esempio, di F.M. Cornford, Plato’s Cosmology. The Timaeus of Plato translated with a running commentary, London, 1937, pp. 1-6. Back

(144) Sull’identità di questo misterioso personaggio sono state avanzate diverse ipotese. Alcuni, per esempio, lo hanno identificato con Platone stesso, sulla base dell’analogia con il Fedone; egli, infatti, nel giorno in cui aveva avuto luogo il dialogo narrato nel Fedone, in modo del tutto simile al quarto interlocutore del Timeo, era assente a causa di una malattia (esthenei, 59 b). Altri, invece, preferiscono identificarlo con l’anonimo ascoltatore del dialogo narrato da Socrate che costituisce la Repubblica, altri ancora con Filebo. Per un’analisi di queste ipotesi si rimanda a Platone, Clitofonte, Repubblica, Timeo, Crizia, traduzioni a cura di F. Sartori e C. Giarratano, vol. VI, Roma-Bari, 1991, p. 361, n. 1. Back

(145) Tra i numerosi studiosi che sostengono questa ipotesi si vedano A.E. Taylor, A commentary on Plato’s Timaeus, Oxford, 1928, p. 13 e R. Zaslavsky, Platonic Myth and Platonic Writing, Washington, 1981, pp. 141 sgg. Back

(146) Questa interessante tesi è sostenuta, in particolare, da G. Cerri, Dalla dialettica all’epos: Platone, Repubblica X, Timeo, Crizia, in G. Casertano (a cura di), La struttura del dialogo platonico, Napoli, 2000, pp. 7-34 (pp. 8-11). Back

(147) Secondo H. Thesleff, Studies on Platonic Chronology, Helsinki, 1982, infatti, tutto il prologo del Timeo costituisce una “deliberata mistificazione” da parte di Platone (pp. 102 sgg.). Allo stesso modo, secondo M. Vegetti, Società dialogica e strategie argomentative nella Repubblica, in G. Casertano (a cura di), La struttura del dialogo platonico, Napoli, 2000, pp. 73-85 (pp. 81-83), Platone, nel prologo del Timeo, mette in scena “una strategia di manipolazione rispetto alla memoria della Repubblica e alla propria stessa continuità autoriale” (p. 83). Back

(148) Secondo la maggior parte degli studiosi, il Timeo e il Crizia sono due opere che risalgono all’ultima parte della vita di Platone. La seconda, in particolare, sembra essere stata composta negli stessi anni delle Leggi e, proprio a causa della grande mole di lavoro richiesta da questo dialogo, lasciata incompiuta (cfr. M.L. Silvestre, La première politique de Platon: modèles géographiques et lieux de l’utopie, in S. Gely (a cura di), Sens et pouvoir de la nomination dans le cultures hellénique et romaine, volume II, Montpellier, 1992, pp. 181-199 (p. 195). Il Timeo, invece, è stato probabilmente composto negli stessi anni del Filebo, dal momento che essi presentano molte consonanze e reciproci rimandi pressoché letterali; tuttavia, risulta molto difficile individuare la priorità cronologica dell’uno o dell’altro. Per un’analisi delle diversi ipotesi cronologiche su questi dialoghi si rimanda sempre a L. Brandwood, The Cronology of Plato’s Dialogues, Cambridge, 1990. Molti studiosi, a dire il vero, a motivo della continuità tematica e strutturale di Timeo e Crizia (presenza degli stessi personaggi, racconto del medesimo mito sull’antica Atene e su Atlantide, il fatto che il monologo di Timeo iniziato nel Timeo si concluda nella parte iniziale del Crizia), hanno ipotizzato che questi due dialoghi inizialmente costituissero un’unica opera. Per una discussione di questa ipotesi si veda W. Welliver, Character, Plot and Thought in Plato’s Timaeus-Critias, Leiden, 1977, pp. 58-61. Back

(149) Nonostante l’ambiguità e la stringatezza con cui Platone descrive il personaggio di Crizia (cfr. Tim. 20 a), è a mio avviso più ragionevole identificare tale personaggio con il Crizia oligarca e capo dei Trenta Tiranni, piuttosto che con il suo omonimo nonno. Allo stesso modo, cfr. D. Clay, art. cit., p. 52, nota 6 e L. Brisson (a cura di), Platon. Timée/Critias, Paris, 1992, pp. 331 sgg. Al contrario, W. Welliver, op. cit., pp. 50-57, propone di identificare il personaggio di Crizia con il nonno del tiranno. Back

(150) Al di là della testimonianza platonica, non si possiede alcuna notizia di Timeo; il breve trattato Sulla natura del cosmo e dell’anima a lui attribuito, infatti, non è che un falso di età ellenistica – probabilmente risalente ad un periodo compreso tra il III e il II secolo a.C. - che sintetizza il Timeo platonico con alcune aggiunte di coloritura aristotelica. Il fatto che il suo nome sia stato inserito dai commentatori antichi nell’elenco dei filosofi pitagorici, inoltre, non dipende da una sua reale appartenenza a tale movimento, ma dall’abilità nelle speculazioni matematiche e astronomiche che Platone gli attribuisce; questo dato, sebbene non possa essere direttamente desunto dal testo platonico, non è tuttavia inverosimile, se si tiene conto che il pitagorismo si era sviluppato proprio nella Magna Grecia, terra da cui il personaggio platonico proviene. F.M. Cornford, op. cit., p. 5, infatti, sulla base della sua provenienza e delle dottrine da lui enunciate, lo ritiene un personaggio di invenzione platonica, dietro al quale potrebbe esserci Archita, filosofo pitagorico e uomo politico della Magna Grecia. Back

(151) Su questo problema e sull’interpretazione della soluzione prospettata da Platone si rimanda a E. David, The Problem of Representing Plato’s Ideal State in Action, “Rivista di filologia e di Istruzione Classica”, 112, 1984, 33-53. Back

(152) Platone, nell’introdurre il racconto di Crizia, insiste ripetutamente nel sottolineare la sua veridicità (cfr. anche il prachthen ontos e l’alethos di 21 a, l’alethe diakekoos di 21 d, il talethes di 26 c e l’alethinon logon di 26 e); egli verosimilmente, anticipando la possibile reazione scettica dei lettori, dichiara l’assoluta validità del mythos che Crizia sta per narrare, nonostante la presenza in esso di molti elementi atopici, mettendo così in atto un’abile strategia di autenticazione della propria invenzione letteraria. Per un’analisi di questo tipo di procedimento da parte di Platone si rimanda a R. Weil, L’archéologie de Platon, Paris, 1959, pp. 18-26. Una tecnica retorica del tutto simile, del resto, era stata utilizzata anche da Erodoto che, nelle Storie, nell’introdurre la celebre discussione ambientata in Persia sulla migliore forma costituzionale, aveva affermato: “… furono pronunciati discorsi incredibili (logoi apistoi) per alcuni dei Greci, ma pure furono pronunciati” (III 80,1). Back

(153) Diogene Laerzio fornisce una serie di interessanti informazioni su questa genealogia: “Dropide era fratello di Solone ed era padre di Crizia (1), del quale era figlio Callescro. Di Callescro furono figli Crizia (2), che fu uno dei Trenta, e Glaucone. Glaucone fu padre di Carmide e Perictione. Da Perictione e da Aristone nacque Platone (Aristocle)” (Vite dei filosofi, III 1). Anche Platone, pertanto, nipote di Carmide e di Crizia, condivide con essi la stessa genealogia e, come loro, discende dal grande legislatore ateniese Solone (cfr. anche Carmide, 157 e – 158 a). Secondo Diogene Laerzio, inoltre, a differenza di quanto afferma Crizia nel Timeo, Dropide non era solamente “parente ed amico intimo” di Solone, ma addirittura suo fratello; tuttavia, come sottolineato da molti studiosi, è possibile ipotizzare che “fratello” non si usato da Diogene in senso specifico, ma nel senso generico di “amico fraterno”, in linea quindi con le indicazioni del Timeo. Oltre a ciò poi, è interessante sottolineare l’evidente impossibilità che quattro sole generazioni abbiano potuto coprire una distanza cronologica di circa 160 anni, tempo che intercorre tra la nascita di Dropide (620 a.C. ca.) e quella di Crizia il Tiranno (460 a.C. ca.); verosimilmente, come ipotizzato da J.K. Davies, Athenian Propertied Families, Oxford, 1971, pp. 325-26 e da L. Brisson, Platon le mots et le mythes, Paris, 1982, pp. 32-38, né Platone né Diogene accennano all’esistenza di due generazioni intermedie tra Dropide e Crizia (1), probabilmente rappresentate da un altro Crizia (cfr. Solone, fr. 22 W.) e da un certo Leaides (cfr. ostraka 608, 609 Lang). Infine, è dubbio che Glaucone, padre di Carmide e Perictione, fosse figlio di Callescro, mentre è molto più probabile che egli fosse suo fratello, figlio anch’egli di Crizia (1). Back

(154) Le Apaturie costituivano un’altra delle tante feste del calendario ateniese, cadevano nel mese di Pianepsione (ottobre-novembre) ed avevano una durata di tre giorni. Esse rivestivano un particolare significato politico, poiché, durante il loro svolgimento, i ragazzi e le ragazze venivano ufficialmente iscritti nelle fratrie, ovvero nelle tribù cittadine. In particolare, durante il terzo giorno - il giorno Cureotide richiamato da Tim. 21 b -, i fanciulli dovevano sia partecipare ad un rituale iniziatico come il taglio dei capelli, sia prendere parte ad una serie di prove di carattere non solo atletico, ma anche poetico (athla rapsodias). Proprio la lettura di alcuni componimenti di Solone (ta poiemata Solonos) nel giorno Cureotide, del resto, costituisce il pretesto di cui Platone si serve per elogiare la grande abilità poetica del legislatore ateniese e per fare riferimento al suo poema - lasciato incompiuto a causa dei suoi molteplici impegni politici - intorno al suo straordinario viaggio in Egitto (Tim. 21 b-d; Criti. 113 a). Back

(155) Che Solone si fosse realmente recato in viaggio in Egitto, oltre che da Platone, è riportato anche da Erodoto (I, 30), Aristotele (Costituzione degli Ateniesi, 11, 1) e Plutarco (Solone 26, 1), il quale, evidentemente influenzato dal racconto del Timeo, riferisce anche del tentativo da parte di Solone di mettere in versi la storia di Atlantide (Solone 31, 19). Come ha dimostrato J.-F. Pradeau, Le monde de la politique: sur le récit atlante de Platon, Timee (17-27) et Critias, Sankt Augustin, 1997, pp. 157-183, tuttavia, sono le Storie di Erodoto a costituire il punto di riferimento privilegiato che Platone utilizza per la ricostruzione delle vicende dell’Antica Atene e, in particolare, il libro II, in cui Erodoto descrive la conformazione geografica dell’Egitto e gli usi e costumi dei suoi abitanti. Back

(156) Amasi, sovrano egiziano della XXVI dinastia, regnò per un lungo periodo, dal 569 a.C. al 526 a.C. Back

(157) Foroneo, figlio di Inaco e padre di Niobe, veniva considerato da un’antica tradizione mitologica non solo il primo uomo, ma anche colui che costruì il primo altare in onore di Era e che riunì in un solo luogo l’umanità dispersa (cfr. Igino, Fabulae 143; 274 e Apollodoro, II, 1). Su Deucalione e Pirra, invece, si veda quanto già detto in 1.5. Back

(158) Secondo le indicazioni di Criti. 112 a, prima ancora del terribile diluvio dei tempi di Deucalione, almeno tre  fenomeni alluvionali avevano arrecato gravissimi danni al genere umano. Tenendo inoltre conto anche dei cataclismi prodotti dal fuoco, risulta evidente che quello di Deucalione non era stata la prima, ma soltanto una delle numerose catastrofi che anticamente aveva sconvolto l’umanità. Per un tentativo – peraltro discutibile – di ricostruire cronologicamente, sulla base delle indicazioni fornite dal Timeo e dal Crizia, la successione dei cataclismi e dei diversi “periodi storici” che da questi hanno origine si rimanda a K. Gaiser, La metafisica della storia in Platone, Milano, 1988, pp. 136-144. Back

(159) Anche nel Politico, Platone aveva associato l’inversione della direzione di rotazione dei corpi celesti con il verificarsi di tremendi cataclismi (cfr. Pol. 269 b sgg.). Per un’analisi di questi passi del Politico si rimanda a quanto detto in 1.4. Back

(160) Tutte le tematiche trattate in Timeo 22 c sgg. e in Crizia 109 b sgg. sono quasi letteralmente riprese da Platone nel III libro delle Leggi (677 a sgg.); per una dettagliata analisi di questo libro si rimanda al cap. 5. Back

(161) Nel Crizia, Platone torna a descrivere quella situazione originaria dell’umanità che egli aveva già presentato nel Politico; secondo entrambi i dialoghi, infatti, in un periodo molto remoto, una serie di divinità, dopo essersi spartita le diverse regioni del mondo, si occupava premurosamente del genere umano (cfr. Pol. 271 d sgg.). Tra di esse, come sottolineato dal Timeo e dal Crizia, un ruolo fondamentale era stato rivestito da due divinità come Efesto ed Atena, entrambi benefattori dell’umanità attraverso il volontario dono delle tecniche artigianali e belliche (cfr. Pol. 274 c-d; Menex. 238 b) o indirettamente mediante il furto che ai loro danni Prometeo aveva perpetrato (cfr. Prot. 321 d). Back

(162) Anche nel Menesseno, attraverso l’orazione funebre pronunciata da Aspasia in occasione dell’annuale celebrazione dei caduti per la patria (epitafia), Platone esalta l’eccellenza dell’Attica, terra “prediletta dagli dèi”, caratterizzata non solo dalla sua spontanea fertilità (237 c sgg.), ma anche dalle straordinarie doti intellettuali e fisiche dei suoi abitanti: “… il nostro paese risultò improduttivo e privo di bestie selvagge, ma scelse tra i viventi e generò l’uomo che supera gli altri per intelligenza e, unico, riconosce la giustizia e gli dèi” (237 d). Nel Menesseno (237 b sgg.) così come nel Timeo, egli, pertanto, oltre all’esaltazione dell’Attica e alla consueta rivendicazione dell’autoctonia degli ateniesi (cfr. anche l’autochthonas di Criti. 109 d), sembra stabilire un preciso rapporto tra le caratteristiche climatiche e geologiche di un luogo e le qualità dei suoi abitanti (cfr. anche Leg. V, 747 d; Epinom. 986 e sgg.), in modo del tutto analogo a quanto postulato dallo scritto ippocratico De aere, acquis et locis, opera che con buona probabilità Platone conosceva. Back

(163) Platone, nel Crizia, oltre a ribadire la possibilità della partecipazione delle donne all’addestramento e alle spedizioni militari, fa anche ricorso alla medesima argomentazione della Repubblica (cfr. V, 451 d-e) per dimostrare la legittimità teorica di tale situazione: “Questa usanza è legittimata dal fatto che tutti gli animali maschi di una stessa razza, e le loro femmine, sono per natura capaci di assolvere in comune i compiti specifici delle loro specie” (Criti. 110 b-c). Una proposta di questo genere, tuttavia, sebbene fondata teoricamente, non poteva non costituire una presa di posizione del tutto scandalosa e rivoluzionaria per il mondo greco, così come lo stesso Platone non esita a riconoscere (cfr. Resp. V, 451 a-b). La donna, infatti, nella società greca, aveva una posizione del tutto subordinata per quanto riguarda il profilo giuridico e politico: sottoposta nella casa all’autorità prima del padre e poi del marito, essa non aveva né la facoltà di partecipare alle pubbliche assemblee, né tantomeno quella di prendere parte alle operazioni militari. Platone, attraverso le proposte della Repubblica  - poi ribadite anche nel Crizia -, rappresenta così il primo e l’unico pensatore del mondo geco a proporre un radicale rovesciamento di questo vetusto ed indiscusso stato di cose. Sul significato di questa proposta platonica nel contesto dell’abolizione dell’oikos e sulla condizione generale della donna nell’Atene del V e del IV secolo si veda S. Campese, La cittadina impossibile: la donna nell’Atene dei filosofi, Palermo, 1997. Back

(164) E’ interessante notare che anche Aristotele, nel libro II della Politica, discutendo del modello politico e sociale proposto da Platone nella Repubblica, non prenda in considerazione la proposta platonica di affidare la direzione della polis ai filosofi. Egli, infatti, prendendo atto della non casuale operazione compiuta da Platone nel Timeo-Crizia e, successivamente, nelle Leggi, tralascia l’esame dei libri centrali della Repubblica (V-VII), libri nei quali Platone parla del governo dei filosofi e dell’educazioni che essi devono ricevere. Su questa scelta e, in generale, sulla critica di Aristotele a Platone si rimanda a R.F. Stalley, Aristotle’s Criticism of Plato’s Republic, in D. Keyt- F.D. Miller (eds.), A Companion to Aristotle’s Politics, Cambridge, 1991, pp. 182-99. Back

(165) Su questo problema si interroga, senza tuttavia giungere ad una soluzione a mio avviso accettabile, C. Rowe, Why is the Ideal Athens of the Timaeus-Critias not ruled by Philosophers?, “Methexis” X, 1997, pp. 51-57. Back

(166) Il grande prestigio e l’eccezionale potere di cui la casta sacerdotale godeva all’interno della gerarchia sociale dell’antico Egitto erano stati sottolineati sia da Erodoto (II, 35 sgg. 164 sgg.), sia da Isocrate nel Busiride. Sulla forte influenza esercitata dalla religione e dalla cultura egiziana su Platone – cfr., ad esempio, il mito di Theuth nel Fedro (274 c sgg.) e i ripetuti apprezzamenti per le leggi egiziane in Leg. II, 656 d sgg.; VII, 799 a sgg. - e su numerosi altri autori greci si rimanda a C. Froidefond, Le mirage égyptien dans la littérature grecque d’Homère à Aristote, Publications universitaries des Lettres et Scieces humaines d’Aix en Provence, 1971. Back

(167) Platone stesso si dimostra estremamente consapevole della paradossalità e stravaganza della proposta di affidare il governo ad un ceto filosofico; egli, infatti, nella Repubblica, attraverso le parole di Glaucone, rappresenta l’inevitabile reazione della maggior parte degli uomini di fronte ad un progetto di questo genere: “Caro Socrate, tu ci hai buttato addosso tali parole, un tale discorso, che il solo fatto di dirlo – e la cosa non poteva sfuggirti – ti attirerà l’ira di molta gente che conta. Già li vedo gettarsi alle spalle il mantello, nudi raccogliere la prima arma che capita e correre contro di te per conciarti per le feste. Questa volta credo che se tu non ti difenderai con la forza degli argomenti e non riuscirai a sfuggire alla loro presa, veramente ti toccherà pagare il danno e le beffe” (Resp. V, 473 e - 474 a). Platone, pertanto, a partire proprio dalla parte conclusiva del libro V fino al libro VII della Repubblica, è costretto ad impegnarsi a modificare la tradizionale immagine del filosofo come individuo bizzarro e del tutto inutile alla collettività (cfr. le osservazioni di Adimanto in Resp. VI, 489 a sgg. e di Callicle in Gorg. 485 a sgg.), sottolineando, al contrario, la sua superiorità sotto il profilo intellettuale ed etico-politico. Per un approfondimento di tutti questi temi si rimanda a M. Vegetti, Il regno filosofico, in Id. (a cura di), La Repubblica, traduzione e commento, vol. IV, Napoli, 2001, pp. 335-64, in particolare pp. 338 sgg. Back

(168) Per una dettagliata analisi dell’autocritica platonica si veda M. Vegetti, L’autocritica di Platone: il Timeo e le Leggi, in M. Vegetti – M. Abbate (a cura di), La Repubblica di Platone nella tradizione antica, Napoli, 1999, pp. 13-27. Back

(169) Sulle funzioni e sulla composizione del Consiglio Notturno è indispensabile G. Klosko, The Nocturnal Council in Plato’s Laws, Political Studies 36, 1988, pp. 74-88. Back

(170) Su questo cfr. A.E. Taylor, A Commentary on Plato’s Timaeus, Oxford, 1928, p. 49. Tuttavia, se è vero che Filippo di Opunte, esperto di astrologia, anagrapheus del vecchio Platone, redattore delle Leggi e probabile autore dell’Epinomide, proveniva da Medna, nella Locride occidentale (cfr. F. Lassere, De Léodamas de Thasos à Philippe d’Oponte, Napoli, 1987), è possibile che proprio egli avesse suggerito a Platone non solo il personaggio di Timeo, ma anche la figura del nuovo governante a cui affidare la redazione della costituzione e la direzione della polis. Per questa ipotesi si veda M. Vegetti, L’autocritica di Platone: il Timeo e le Leggi, op. cit., p. 16, p. 21. Back

(171) Platone, a dire il vero, nel Timeo e nel Crizia, sembra parlare di due classi distinte destinate a provvedere alla trophe della polis, quella dei contadini e quella degli artigiani (cfr. Tim. 24 a-b; Criti. 110 c). Tuttavia, rispetto alla Repubblica, ciò che rimane costante è la suddivisione del corpo sociale in tre nuclei fondamentali, il primo destinato all’amministrazione della polis, il secondo alla sua difesa e il terzo alla produzione dei beni necessari alla sua sussistenza. Back

(172) Al di là dell’ironia platonica, secondo G. Naddaf, Plato and the “peri physeos” Tradition, in T. Calvo –L. Brisson (a cura di), op. cit., pp. 27-36, è chiaro che “Primitive Athens is nothing less than a perfect reflection of the intelligible model, a moving like-ness of eternity...” (pp. 34-35). Allo stesso modo, secondo T. Calvo –L. Brisson, El Timeo-Critias. Contenido y cuestiones hermenéuticas, in Id. (a cura di), op. cit., pp. 11-24, “Platòn pretende conferir una base natural a la constituciòn descrita en la Repubblica mostrando còmo la antigua Atenas, más acorde con aquel modelo de la Atenas actual, permitía al ser humano una realizaciòn más cabal de sus fines” (p. 11). Back

(173) Sul rapporto mythos-talethes che Platone istituisce tra Repubblica, Timeo e Crizia, si rimanda a M. Erler, La cornice dialogica del Timeo e del Crizia e la Poetica di Aristotele, “Elenchos” XIX, 1998, pp. 5-28. Back

(174) Sulla validità di kallipolis e sulla possibilità di una sua realizzazione in base alla nuova prospettiva delle Leggi si veda A. Laks, Legislation and Demiurgy: on the Relationship Between Plato’s Republic and Laws, “Classical Antiquity” 9, 2, 1990, pp. 209-29. Back

(175) Secondo K. Gaiser, op. cit., “L’accenno alla virtù precedentemente raggiunta spinge in maniera particolarmente efficace alla fondazione del buon ordine nel proprio tempo. Nella buona costituzione dello Stato originariamente fondato dagli antenati il Bene diventa visibile in una maniera evidente e, inoltre, nella virtù degli antenati sta la garanzia della convinzione che il Bene possa venire realizzato anche ora” (p. 167). Back

(176) Secondo Platone, il nome Atlantide deriva da Atlante, il primo dei dieci figli che Poseidone, dio degli abissi, e Clito, una donna mortale, avevano generato. Atlante, in quanto primogenito del dio, ebbe anche l’onore di diventare il primo sovrano dell’isola, dando il suo nome non solo ad essa, ma anche al grande mare - l’Atlantico - che anticamente la circondava (Criti. 114 a-b). Back

(177) A questo proposito cfr., ad esempio, Welliver, op. cit., pp. 39-49 e E. David, op. cit., n. 2, p. 45. Del resto, non si dimentichi, proprio nel corso delle Panatenee – occasione festiva in cui la discussione del Timeo-Crizia è immaginata –, Atene celebrava la gloriosa vittoria sui persiani e commemorava il valore dei caduti in battaglia. L’indubbio riferimento di Platone a questo importante avvenimento della storia ateniese, tuttavia, non esclude che egli possa aver mutuato alcuni degli elementi che compongono il mythos di Atlantide da altri eventi storici riguardanti poleis quali per es. Elice e Bura o isole come Creta e la Sardegna che, un tempo detentrici di un grande potere nel Mediterraneo, in un breve periodo e in un modo alquanto misterioso erano uscite di scena senza quasi lasciare traccia. Tutte queste suggestioni, unitamente all’insistenza con cui Crizia afferma la veridicità del proprio racconto, hanno indotto un numero sorprendentemente alto di studiosi, a partire da Crantore (cfr. Proclo, In Platonis Timaeum comm. I 24 A sgg.) fino ad arrivare ai giorni nostri, a interpretare il mythos di Atlantide come una relazione concernente effettivi eventi storici. Per una rassegna critica dei diversi tentativi di verificare storicamente ed archeologicamente il mito platonico di Atlantide si veda E.S. Ramage, Atlantis. Fact or Fiction?, Bloomington, 1978. Back

(178) I Persiani di Eschilo, oltre che uno dei più alti esempi della poesia tragica ateniese, rappresentano anche un importante documento storico, in quanto verosimilmente scritti e rappresentati (472 a.C.) negli anni immediatamente successivi alla conclusione delle guerre persiane. Per un’approfondita analisi di questo testo si rimanda ad Aeschylus, Persians, Edited with an Introduction, Translation and Commentary by E. Hall, Warminster, 1996. Back

(179) La verità del mito più volte dichiarata da Crizia, pertanto, secondo una prospettiva di questo genere, più che nel suo diretto riferimento a realtà e ad avvenimenti storici, andrebbe ricercata nel suo contenuto filosofico-morale. Tra i numerosi studiosi che considerano il mito di Atlantide un’invenzione letteraria dal forte valore etico si ricordano P. Vidal-Naquet, L’Athène et l’Atlantide. Structure et signification d’un mythe platonicien, «Revue des études grecques », 1964, L. Brisson, De la philosophie politique à l’épopée. Le Critias de Platon, « Revue de métaphysique et de morale, 1970, pp. 402-38, C. Gill, The genre of the Atlantis Story, « Classical Philology », 72, 1977, pp. 287-304 e, sempre del medesimo autore, Plato’s Atlantis Story and the Birth of Fiction, “Philosophy and Literature”, 3, 1979, pp. 64-78. Back

(180) Sulla corrispondenza tra Atlantide e l’Atene dell’impero marittimo si veda S. Dusanic, Plato’s Atlantis, “L’Antiquitè Classique”, 51, 1982, pp. 25-52. Lo stesso Dusanic, inoltre, in riferimento al valore etico-politico del mito di Atlantide, interpreta quest’ultimo come una presa di posizione cifrata da parte di Platone sul fallimento dell’imperialismo ateniese e siracusano. Back

(181) Molti degli intellettuali del tempo di Platone, come ad esempio Isocrate (cfr., in particolare, La Pace), lo Pseudo-Senofonte (cfr. Costituzione degli Ateniesi, 1,2 sgg.) e Aristofane, consideravano la talassocrazia come la principale causa della degenerazione morale e politica di Atene; anche Platone, del resto, nel Gorgia così come in altri dialoghi, sembra prendere posizione contro la talassocrazia ateniese e contro tutte le conseguenze sociali ed economiche che essa aveva determinato. Nelle Leggi (cfr. IV, 704 d sgg.), ad esempio, l’Ateniese consiglia che la nuova città che egli si sta accingendo a fondare non sia troppo vicina al mare, poiché “avere il mare a portata di mano può essere utile nella vita di tutti i giorni però, a lungo andare, rischia di rivelarsi come una vicinanza veramente salata e aspra (almyron kai pikron), perché, riempiendo la città di traffici e negozi dovuti al commercio (emporias gar kai chrematismou dia kapeleias), suscita nelle anime abitudini improntate alla slealtà e all’incostanza (palimbola kai apista), col risultato di rendere ogni Stato infido e conflittuale (apiston kai aphilon), tanto nella sua vita sociale, quanto nei rapporti con gli altri popoli” (IV, 705 a). Nell’Alcibiade, inoltre, Socrate, facendo polemicamente riferimento alla talassocrazia ateniese e ripetendo in maniera quasi letteralmente le osservazioni del Gorgia (cfr. 517 c; 519 a), afferma che “le città non hanno bisogno né di mura (teichon), né di triremi (trieron), né di arsenali (neorion), per essere felici, né di popolazione numerosa, né di grandezza, senza virtù” (Alcibiade I, 134 b). Sull’ostilità degli intellettuali greci nei confronti dell’impero marittimo ateniese e sulla loro preferenza dell’Atene oplitica di inizio V secolo, si rimanda a A. Momigliano, Sea Power in Greek Thought, in Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma, 1960, pp. 57-67. Back

(182) Secondo questo punto di vista, il mito di Atlantide sembra perseguire la stessa finalità non solo di altri celebri passi platonici – ad esempio la parte finale del libro III delle Leggi (cfr. 698 a – 701 c) o l’excursus storico del Menesseno (cfr. 239 a – 246 a) -, ma anche di uno scritto di un acerrimo rivale dell’Accademia come l’Aeropagitico di Isocrate: far riflettere i fruitori di queste opere sulla decadenza morale e politica dell’Atene del loro tempo così come sulla necessità di una sua riforma generale. Per un’analisi di questa prospettiva si rimanda a J.-F. Pradeau, op. cit., pp. 102-104, 156, secondo il quale “… la fiction atlante permettait à Platon de proposer une réflexione politique et une représentation du comportement d’Athénes au Vème siécle. L’Atlantide peut donc de nouveau être considérée comme un double imaginaire de la thalassocratie athénienne engagée dans la guerre du Péloponnèse” (pp. 102-103) e a P. Léveque - P. Vidal-Naquet, Clisthéne l’Athénien. Sur la représentation de l’espace et du temps en Gréce de la fin du VIe siécle à la mort de Platon, Annales littéraires de l’université de Besançon, 1964, p. 138. Back

(183) Secondo il Menesseno, le sconfitte che Atene aveva subito nell’ultima parte del V secolo, allo stesso modo di quelle di Atlantide e dell’impero persiano, non erano dovute tanto alla superiorità bellica dei suoi avversari, quanto alla sua stessa corruzione morale; infatti, “noi [ateniesi] fummo vinti (ekratethemen) dalla nostra discordia (diaphora), non certo dagli altri. Anche ora restiamo invitti da parte loro, mentre noi stessi abbiamo vinto (enikesamen) noi e da noi stessi ci siamo procurati la sconfitta” (Menex. 243 d). Back

(184) E’ interessante notare come Platone, ambientando il Timeo e il Crizia prima della presa del potere da parte dei Trenta Tiranni (404 a.C.) – presumibilmente intorno al 410 a.C. –, offra, in un certo senso, un’opportunità di “riabilitazione” a Crizia, suggerendo tra le righe un possibile sviluppo della storia ateniese molto diverso da quello che i fruitori dei dialoghi platonici conoscevano. Crizia, infatti, se dopo aver preso il potere non si fosse macchiato di efferati delitti, ma, al contrario, avesse sfruttato questa occasione per attuare una riforma generale della società sulla base del modello dell’antica Atene di cui suo nonno gli aveva parlato, avrebbe potuto realizzare storicamente la kallipolis di cui il Timeo e il Crizia parlano, risolvendo così molti dei problemi che affliggevano Atene tra la fine del V e l’inizio del IV secolo. Back

(185) Secondo un’opinione diffusa tra gli antichi così come tra i moderni, la vera ragione della condanna a morte di Socrate deve essere ricercata non tanto nelle sue inusuali credenze religiose, quanto nel rapporto di reciproca stima e amicizia che lo aveva legato a figure anti-democratiche e anti-ateniesi come quelle di Crizia e Alcibiade (cfr., in particolare, Eschine, Contro Timarco 173, ma anche Senofonte, Memorabili 1.2. 12-16). Per un’accurata analisi di questa ipotesi si rimanda a T.C. Brickhouse – N.D. Smith, Socrates on Trial, Oxford and Princetown, 1989, pp. 68-87. Back

(186) L’Ateniese, uomo di età avanzata e dalle collaudate capacità intellettuali e politiche, nelle Leggi è chiamato a sostituire il personaggio di Socrate, presente - sebbene non sempre in un ruolo di primo piano - in tutti gli altri dialoghi platonici, ma protagonista non credibile di un dialogo ambientato lontano da Atene e, per di più, in un periodo verosimilmente posteriore alla morte dello stesso Socrate (399 a.C.) come appunto le Leggi. Sulla misteriosa identità dell’Ateniese sono state formulate diverse ipotesi – una specie di Socrate proiettato nel IV secolo (cfr. Aristotele, Pol. II, 6, 1265a 11)?, un anziano e illustre membro dell’Accademia? -, ma la maggior parte dei commentatori, a partire da Cicerone (cfr. De Legibus I V 15) fino ad arrivare ai nostri giorni, ravvisa in esso il diretto portavoce di Platone. Per una analisi delle diverse ipotesi su questo personaggio e sul suo ruolo all’interno delle Leggi si rimanda a G.R. Morrow, Plato’s Cretan City: A Historical Interpretation of the Laws, Princeton, 1960, pp. 74-75. Back

(187) Insieme a Socrate e ad Atene, solidali protagonisti dei dialoghi platonici, scompare quasi completamente anche quel confronto problematico di opinioni, punti di vista ed idee che aveva caratterizzato tutte le altre opere di Platone. L’interscambio dei discorsi, infatti, lascia qui il posto ad una esposizione monologica e pressoché continua da parte dell’Ateniese, relegando i suoi due interlocutori, Clinia e Megillo, come sottolinea E. Barker, Greek Political Theory. Plato’s and his precedessors, London, 1947, p. 359, al ruolo di “pazienti e ben educati ascoltatori”. Il dialogo e la dialettica, infatti, scompaiono quasi del tutto, lasciando così il posto ad un vero e proprio trattato che, caratterizzato da un inconsueto tono assertorio e definitivo, non sembra ammettere repliche (cfr., ad esempio, i libri V-VI). Sulla particolarità dell’ambientazione e della struttura delle Leggi si veda G. Klosko, The Development of Plato’s Political Theory, New York and London, 1986, pp. 198-241 (p. 198). Back

(188) Per quanto Creta non avesse rivestito un ruolo preponderante nello sviluppo del pensiero filosofico dei greci, la sua legislazione fu ritenuta un modello eccellente da molti intellettuali, tanto è vero che anche Platone, nelle Leggi così come in altri dialoghi (cfr. Critone 52 e; Protagora, 342 a-d; Resp. VIII, 544 c), dimostra per essa una particolare ammirazione. Sulla esemplarità della costituzione cretese e sulla costante influenza da essa esercitata sul mondo greco è interessante G.R. Morrow, op. cit., pp. 17-39. Back

(189) Sulla presenza in Atene di una vera e propria corrente filo-laconica si veda F. Ollier, Le mirage spartiate, Paris, 1933-43. Anche Platone, del resto, nelle Leggi come in altri dialoghi (cfr. Critone 52 e; Protagora, 342 a-d; Resp. VIII, 544 c sgg. etc.), dimostra una forte ammirazione per la costituzione spartana, in quanto assoluta garanzia di buon governo (eunomia). Egli, tuttavia, pur essendo annoverabile nel numero degli estimatori della politeia di Sparta (cfr. anche Erodoto VII, 104; Tucidide I, 18), come le Leggi stesse dimostrano, non si esime dal criticare la sua unilateralità (cfr. 628 c sgg.), determinata dall’eccessiva importanza attribuita al coraggio (andreia) e dalla dimenticanza delle altre tre componenti – intelligenza (phronesis), moderazione (sophrosyne) e giustizia (dikaiosyne) – che insieme costituiscono la virtù nella sua pienezza (sympasa arete). Sulla discussione critica del sistema costituzionale ed educativo spartano condotta da Platone nei prime tre libri delle Leggi si veda G.R. Morrow, op. cit., pp. 40-73; sull’influenza che l’organizzazione economica, sociale e pedagogica di Sparta esercita nella delineazione delle caratteristiche della nuova città delle Leggi, invece, si rimanda a G. Klosko, op. cit., pp. 206-211. Back

(190) Sulla funzione proemiale che il III libro svolge in relazione alla discussione - che occupa i restanti nove libri delle Leggi - sulle caratteristiche che la nuova colonia cretese deve possedere si veda R.F. Stalley, Introduction to Plato’s Laws, Oxford, 1983, p. 6, 71. Back

(191) Sulla finalità etico-politica dell’excursus storico del III libro si vedano R. Schaerer, L’itinéraire dialectique des Lois de Platon et sa signification philosophique, Revue philosophique, 143, 1953, pp. 379-412 (p. 392 e p. 409) e S. Gastaldi, Storia del pensiero politico antico, Roma-Bari, 1998, pp. 148-149. Back

(192) Platone, nel III libro delle Leggi, più che alla delineazione di un modello logico di successione delle diverse forme costituzionali (cfr. VIII e IX libro della Repubblica), si dimostra interessato alla ricostruzione storica delle vicende del passato. Egli, infatti, nelle Leggi, come ha dimostrato efficacemente R. Weil, L’archéologie de Platon, Paris, 1959, pp. 7-54 (pp. 34-54), appare a conoscenza non solo delle più importanti opere storiografiche del suo tempo – e, in particolare, delle Storie di Tucidide -, ma anche del lessico e della metodologia della neonata disciplina storiografica. L’eccessivo dogmatismo della Repubblica e la sua ingenua presunzione di poter spiegare tutti i mutamenti costituzionali sulla base di un unico immutabile paradigma, del resto, costituiscono, nel libro V della Politica, l’oggetto della severa critica di Aristotele nei confronti di Platone (cfr. 12, 1315 b 40 sgg.). Back

(193) Come testimonia Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, III 37), le Leggi costituiscono l’ultima opera di Platone, probabilmente composta nei suoi ultimi dieci anni di vita e lasciata incompiuta al momento della sua morte (347 a.C.). Esse furono così pubblicate postume dall’anagrapheus stesso di Platone, Filippo di Opunte, al quale, con buona probabilità, si deve anche la divisione dell’opera in dodici libri e l’aggiunta di un tredicesimo libro: l’Epinomide (cfr., oltre a Diogene Laerzio III 37; 46, anche Proclo, Comm. ad Euclid. 67 sgg.; Academicorum Index Herculaneum, col. III, 36-41, Suidas IV, 733, 24-34 etc.). Sulla figura di Filippo e sugli interventi da lui compiuti sul testo platonico sono indispensabili G.R. Morrow, op. cit., pp. 515-18 e L. Taran, Academica: Plato, Phillip of Opus, and the Pseudo Platonic Epinomis, Philadelphia, 1975, 115-39. Back

(194) Un’affermazione del tutto simile a quella dell’Ateniese è significativamente contenuta nell’introduzione delle Storie di Erodoto di Alicarnasso che, presentando i risultati del suo lavoro storiografico, dichiara: “[...] mi inoltrerò nel racconto, toccando allo stesso modo le città grandi di uomini e le piccole (smikra kai megala astea anthropon). Molte di esse che anticamente erano grandi, infatti, sono divenute piccole, mentre quelle che al mio tempo erano grandi, nei tempi antichi erano piccole” (Storie, I, 5). Back

(195) Anche secondo lo storico Tucidide, la grande distanza cronologica (cfr. dia chronou plethos, I, 1, 2; ek tou epi pleiston, I, 2, 5) che separa molti degli avvenimenti del passato dal tempo presente costituisce un enorme ostacolo alla ricostruzione oggettiva di quegli stessi eventi. Back

(196) Platone, qui come in 679 d, sembra ammettere la possibilità della coesistenza di una prospettiva storico-evolutiva con una ciclico-regressiva. Egli, in questo modo, così come nel Politico (cfr. 274 d), conciliando l’ipotesi dell’eterno ripetersi delle catastrofi con quella di uno sviluppo in senso rettilineo della “storia” del genere umano, introduce una concezione di tipo spiraliforme, in grado di dar conto sia dell’eterno ripetersi di fenomeni ed eventi sia del loro sviluppo verso forme sempre più complesse (cfr. cap. 1, n. 36). Anche secondo T. Cole, Democritus and the Sources of Greek Anthropology, Ann Arbor, 1967, pp. 97-103, “the Kulturgeschichte of Laws III has been analyzed, correctly I believe, as a conflation of two different points of view – a) progressive; b) regressive - into a single account” (p. 97). Back

(197) Dedalo, ateniese figlio di Metione e contemporaneo di Minosse, era considerato non soltanto il capostipite degli scultori, ma anche il progettista del labirinto di Cnosso e l’inventore di numerosi strumenti tecnici tra cui le ali di piume e di cera che gli permisero di fuggire dal labirinto stesso con il figlio Icaro (cfr. Eutifrone 11 b-c; Alcibiade I 121 a; Menone 97 c – 98 a; Ippia I, 382 a). Orfeo – il cui nome nel IV secolo era legato alla ”religione orfica” - era non soltanto l’autore di celebri poemi teogonici, ma anche il compositore e l’esecutore di canti e melodie capaci di incantare e trascinare con sé uomini, animali, piante e pietre (cfr. Simposio, 179 d; Protagora 315 b; 316 d; Resp. II, 364 e). Palamede, l’eroe Argivo, era non solo un eccellente oratore, ma anche l’inventore di alcune lettere dell’alfabeto e probabilmente anche della matematica (cfr. Apologia 41 b; Fedro 261 b; Gorgia, fr. 11 DK). Marsia era un satiro e un abilissimo suonatore di flauto che osò sfidare Apollo - che invece suonava la cetra - in una gara musicale e che, sconfitto dal dio, fu per punizione scorticato vivo (cfr. Simposio 215 b-c; Eutidemo 285 d; Repubblica III, 399 e; Minosse 318 b). Olimpo, vissuto nel VII secolo a.C., era anch’egli un abile suonatore di flauto, in grado di  suonare molte delle melodie composte dal suo amante Marsia (cfr. Simposio 215 c; Minosse 318 b). Anfione, figlio di Zeus e di Antiope, protagonista dell’Antiope di Euripide di cui rimangono solo pochi frammenti (cfr. fr. 185 Nauck), era famoso per aver costruito le mura di Tebe muovendo le pietre attraverso il suono del suo flauto. Epimenide era un cretese, probabilmente un sacerdote o un indovino, che aveva saputo predire con qualche anno di anticipo la vittoria di Atene nella guerre contro l’impero persiano (cfr. Leggi I, 642 d-e). Back

(198) Sulla non precarietà dell’originaria situazione del genere umano nel III libro delle Leggi insistono anche T. Cole, op. cit., p. 54 e G. Cambiano, Platone e le tecniche, Roma-Bari, 1991, p. 210. Back

(199) A differenza della Repubblica (cfr. II, 372 b-d), secondo l’Ateniese i “primi uomini” non seguivano un regime alimentare (diaita) vegetariano, ma si cibavano quasi esclusivamente delle carni dei pochi animali sopravvissuti al diluvio. Nella Repubblica, al contrario, l’alimentazione carnea, richiesta con insistenza da Glaucone (cfr. opson, 372 c), era stata ironicamente rifiutata da Socrate, a difesa della purezza alimentare ed etica degli abitanti della prote polis. Essa, infatti, del tutto estranea dal modo di vita dei “primi uomini”, è destinata a fare la sua apparizione solo nella città malata (polis tryphosa, cfr. 372 e sgg.), accanto a tutte quelle prelibatezze culinarie e a quegli elementi di degenerazione morale che caratterizzavano l’Atene del IV secolo. Back

(200) Anche secondo Aristotele, l'allevamento delle greggi e le diverse forme di caccia rappresentano le principali modalità attraverso cui gli uomini si procurano le risorse necessarie alla loro sopravvivenza (Pol. I, 8, 1256 a, 30-39). Lo stesso Aristotele, tuttavia, insiste anche sull'importanza del ruolo svolto dalla tecnica della coltivazione dei campi che, già in possesso dei "primi uomini" descritti da Platone nel Politico e nella Repubblica, nelle Leggi è destinata a fare la sua apparizione solo in un secondo momento, contemporaneamente all'aggregazione dei primi nuclei familiari in forme comunitarie sempre più vaste (cfr. III, 680 e). Su questi temi si rimanda a G. Cambiano- L. Repici, Cibi e forme di sussistenza in Platone, Aristotele e Dicearco, in O. Longo-P. Scarpi (a cura di), Homo Edens, Verona, 1989, pp. 83 sgg. Back

(201) Le risorse che i pochi sopravvissuti al diluvio avevano a disposizione sono quasi del tutto identiche a quelle di cui gli uomini, nel Protagora, avevano potuto disporre in seguito all’intervento di Prometeo (cfr. Prot. 322 a), essendo anch’essi dotati di abitazioni (oikeseis), vestiti (esthetas), calzari (hypodeseis), coperte (stromnas). Simili mezzi, del resto, anche senza l’intervento della divinità, erano in possesso pure degli abitanti della prote polis della Repubblica che, allo stesso modo, avevano a disposizione abiti (imatia), calzature (hypodemata) e abitazioni (oikias) etc. (cfr. II, 372 a). Back

(202) Platone, in maniera abbastanza inusuale, in questa occasione non riferisce il nome della divinità che era intervenuta a favore del genere umano anche se, sulla base del Politico (cfr. 274 c-d), è verosimile ipotizzare che egli pensasse nuovamente ad Efesto o ad Atena, insieme detentori di tutte le più importanti tecniche. Back

(203) Sul concetto di euetheia si rimanda a C. Gaudin, "Euetheia. La théorie platonicienne de l'innocence", Revue philosophique de la France et de l'étranger, 1981, pp. 145-68. Back

(204) Un ritratto degli “uomini attuali” molto simile a quello delineato da Platone nelle Leggi è fornito da Tucidide nel III libro delle Storie (cfr. III, 82). Egli, infatti, descrivendo lo scontro (stasis) che nel 427 a.C. era scoppiato a Corcira tra due opposte fazioni ateniesi - l'una democratica, l'altra oligarchica e filo-spartana -, aveva messo in evidenza la medesima spirale di violenza e brutalità (2) che, alimentata dalla pleonexia e dalla philotimia (8), aveva portato quegli uomini non solo a provare piacere nel congegnare piani per recare danno ai loro stessi concittadini (3), ma anche a perdere ogni rispetto nei confronti dei propri genitori (6), dei giuramenti fatti (7, ma cfr. anche III, 83, 2), delle leggi e della religione (8). Back

(205) Nelle Leggi, la parola philosophia, termine chiave nei libri centrali della Repubblica, non appare nemmeno una volta e altrettanto raramente Platone utilizza i suoi composti. Sul significato della sua assenza in relazione allo sviluppo del pensiero platonico si rimanda a T.J. Saunders, Plato’s Later Political Thought, in R. Kraut (edited by), The Cambridge Companion to Plato, Cambridge, 1992, pp. 464-92. Back

(206) Sull’importanza del ruolo esercitato dalla religione nel quadro delle Leggi si rimanda a E. Barker, op. cit., pp. 363-68 e a V. Goldschmidt, La religion de Platon, Paris, 1959, pp. 113 sgg. Back

(207) Platone, nella Repubblica, nell’ambito della ridefinizione dei contenuti educativi (II, 377 d sgg.), si era impegnato a emendare tutte le scorrette rappresentazioni della divinità, in modo tale, una volta eliminati tutti gli elementi di incompatibilità della religione con la morale, da restituire al discorso religioso il proprio ruolo tradizionale di argine all’ingiustizia, assegnando proprio agli dèi la funzione di garanti della giustizia (cfr. X, 614 a sgg.). Egli, a seguito di questa riforma, aveva potuto così riaffermare la validità di quei racconti che parlano dei premi e delle punizioni che gli dei assegnano agli uomini (cfr. ad es. Gorgia 523 a-b), esortando in questo modo al rispetto delle norme di giustizia anche coloro i quali non erano in grado di comprendere le argomentazioni di tipo deontologico (quelle cioè che dimostrano la preferibilità in sé della giustizia). Su tutte queste tematiche si rimanda a R.C. Cross - A.D. Woozley, Plato’s Republic. A Philosophical Commentary, London, 1964, pp. 67 sgg. Back

(208) F. Solmsen, Entretiens sur l’antiquite classique, vol. 7: Hesiode et son influence, Geneve, 1960, pp. 173-211, sottolineando l’importanza del ruolo esercitato dalla religione nelle Leggi, afferma che “Plato is more anxious than in the Republic to provide a religious foundation for his city” e che “ the city delineated in the Laws is meant to be a city of God, a civitas Dei...” (p. 193-94). Back

(209) La teoria delle Idee, nodo teorico fondamentale all’interno della Repubblica e della maggior parte dei dialoghi platonici, nelle Leggi non è mai presa in considerazione, se si esclude un rapido riferimento ad essa nella parte finale del dialogo (cfr. XII, 965 b-c). Sulla sua assenza quale importante segnale del mutamento del pensiero platonico si veda R.F. Stalley, op. cit., pp. 133-36. Al contrario, invece, V. Brochard, Le Lois de Platon et la théorie des Ideés, in V. Delbos (ed.), Etudes de philosophie ancienne et de philosophie moderne, Paris, 1926, pp. 151-68, ritiene che la teoria delle Idee, sebbene praticamente assente nelle Leggi, avesse continuato a rappresentare un insostituibile punto di riferimento gnoseologico ed etico anche per l’ultimo Platone. Back

(210) Sulle funzioni – a dire il vero, non del tutto chiare - e sulla composizione del Consiglio Notturno è indispensabile G. Klosko, The Nocturnal Council in Plato’s Laws, Political Studies 36, 1988, pp. 74-88. Back

(211) L’Epinomide, sebbene verosimilmente non scritto da Platone, ma da Filippo di Opunte, è considerato dalla maggior parte degli studiosi antichi e moderni un dialogo dallo stile e dal contenuto chiaramente platonico e, quindi, nonostante la sua probabile inautenticità, un’importante testimonianza del pensiero dell’ultimo Platone. L’Epinomide, infatti, naturale prosecuzione delle Leggi, si prefigge lo scopo di fornire un’integrazione a quest’ultimo dialogo, gettando luce su alcuni punti – per es. il tipo di conoscenza che caratterizza i membri del Consiglio Notturno - che le Leggi stesse avevano lasciato in sospeso (cfr. il chiaro rimando di Leg. VII, 818 a). Per un commento critico dell’Epinomide si vedano L. Taran, op. cit., pp. 3-114 e O. Specchia (a cura di), Platone: Epinomis. Introduzione, testo critico e commento, Firenze, 1967, pp. 7-31. Back

(212) Sulle caratteristiche della religione che emerge dalle Leggi e sui suoi rapporti con la religione greca tradizionale si vedano G.R. Morrow, op. cit., pp. 399-496 e O. Reverdin, La religion de la cité platonicienne, Paris, 1945. Per una più ampia analisi delle dottrine teologiche a cui Platone fa riferimento, non solo nelle Leggi, ma anche negli altri suoi dialoghi, si rimanda invece a F. Solmsen, Plato’s Theology, New York, 1942. Back

(213) Sulla legislazione penale delineata da Platone nelle Leggi e sul suo rapporto con il diritto attico è fondamentale T.J. Saunders, Plato’s Penal Code. Tradition, Controversy, and Reform in Greek Penology, Oxford, 1991. Back

(214) Si ricordi che Platone, nelle Leggi, fa precedere ad ogni norma e sanzione un preambolo persuasivo destinato a convincere i cittadini dell’auspicabilità di obbedire al nomos stesso; egli, infatti, consapevole dell’insufficienza di una serie di regole puramente prescrittive, si serve della parola convincente – mezzo che i retori-politici di professione utilizzavano per consolidare il loro potere nelle città – al fine di persuadere i cittadini della nuova polis della validità dell’insieme delle leggi e dei valori su cui essa stessa si fonda. Per un’attenta analisi di questa tematica si veda S. Gastaldi, Legge e retorica. I proemi delle “Leggi” di Platone, in “Quaderni di Storia”, 20, 1984, pp. 69-109. Back

(215) Sulla legislazione penale stabilita da Platone contro coloro che si macchiano di asebeia si vedano T.J. Saunders, op. cit., pp. 301-23 e V. Martin, Sur la condemnation des athées par Platon au Xe livre des Lois, Studia Philosophica, 11, 1951, pp. 103-54. Saunders, in particolare, dimostra che l’esistenza di una serie di pene molto severe nei confronti degli empi non trova riscontro nel diritto attico – ad eccezione del decreto di Diopeite (430 a.C. ca.) di cui parla Plutarco (Per. 32) -, ma essa è da considerarsi un’innovazione da parte di Platone, del tutto giustificabile nel contesto di una forma statale teocratica come quella della polis cretese (pp. 301 sgg.). Back

(216) Si ricordi che Platone, nel libro IX, aveva proposto di condannare alla pena capitale anche quei cittadini colti nell’atto di saccheggiare i templi. Essi, infatti, colpevoli di azioni non solo empie, ma anche socialmente pericolose (IX, 854 c), dovranno essere giustiziati con ignominia e il loro corpo dovrà essere fatto sparire al di fuori del confine dello Stato (854 e). Back

(217) Le pratiche di assoluzione e di purificazione (lyseis, katharmoi) che Platone descrive dettagliatamente nella Repubblica rimandano in maniera diretta alla ritualità connessa alla religione orfica (cfr. i riferimenti ad Orfeo e Museo di 363 c; 364 e), fenomeno in progressiva espansione nell’Atene del IV secolo; i riti iniziatici (teletai) caratteristici dell’orfismo, infatti, in linea con quelli descritti da Platone, possedevano la medesima potenzialità di garantire la salvezza degli iniziati, quanto da vivi tanto da morti, grazie all’aiuto degli “dei liberatori” (lysioi theoi, 366 a). Per un’analisi più approfondita del rapporto tra i rituali di cui parla la Repubblica e le pratiche religiose dell’orfismo si veda M. Vegetti, Adimanto, contenuto in Id. (a cura di), La Repubblica, traduzione e commento, Napoli, 1998, vol. II, libri II-III, pp. 221-32 (pp. 225 sgg.). Back

(218) Platone, in polemica con la progressiva diffusione di quelle posizioni radicali che negavano valore ai tradizionali postulati della religione, nelle Leggi (cfr. III, 679 c; IV, 713 b sgg.) così come in numerosi altri dialoghi [cfr. Politico (271 d); Filebo (16 c); Protagora (322 a); Crizia (109 b sgg.); Repubblica (II, 372 b) etc.], mette in evidenza l’esistenza di un originario rapporto armonico la divinità e gli uomini che poi, a causa della corruzione morale di questi ultimi e dell’opera di una serie di “cattivi maestri”, è progressivamente venuto meno. Back

(219) Per un quadro generale della progressiva diffusione di queste posizioni in Grecia e in Atene si rimanda a G. Giannantoni, L’ateismo, in M. Vegetti, (a cura di), L’esperienza religiosa antica, Torino, 1992, pp. 208-28. Back

(220) Per un’analisi delle dottrine e dell’identità di questi misteriosi “sophoi andres” si veda M. Mazzoni, Platone immoralista (tesi di laurea), Università degli Studi di Pavia, anno accademico 1998-99, pp. 68-80. Back

(221) Con buona probabilità, Platone, attraverso i numerosi accenni ad una teoria cosmologica di carattere materialista (Leg. X, 886 d-e; 889 b; XII, 967 b-c; Epinom. 988 c sgg.), intende fare riferimento ad Anassagora di Clazomene che, come testimonia il Fedone, aveva assegnato agli elementi materiali il ruolo prioritario nella formazione dell’universo, attribuendo al nous una funzione solamente marginale (Phaed. 97 c sgg.). Egli, inoltre, conformemente alla sua concezione materialista, come ricorda Socrate nell’Apologia, nei suoi scritti aveva più volte affermato che “il sole è pietra (elion lithon) e la luna è terra (selenen gen, Apol. 26 d)”, meritando a causa di queste sue dichiarazioni di essere processato per empietà, verosimilmente nel 433 a.C., anche se probabilmente la vera causa della sua citazione a giudizio è da ricercare più nel suo rapporto di amicizia con Pericle che nel suo ateismo. Back

(222) Che le leggi e la giustizia avessero origine da una convenzione stabilita dagli uomini era già stato affermato da Glaucone nel II libro della Repubblica; egli, infatti, ispirato in maniera evidente dal pensiero di Antifonte, aveva dichiarato: “Da qui [dal patto (syntheke) di non aggressione reciproca] originariamente venne l’usanza di porre leggi e convenzioni fra le persone, e quanto la legge imponeva prese il nome di giustizia e legalità” (359 a). Per un’analisi della “teoria contrattualistica” di Glaucone e dei suoi punti di riferimento culturali cfr. 3.2; sull’influenza esercitata dallo stesso Antifonte nell’elaborazione delle concezioni dei “neoi sophoi” delle Leggi, invece, si veda F. Decleva Caizzi,“Hysteron Proteron”: la nature de la loi selon Antiphon et Platon, “Revue de Métaphysique et de Morale”, 91, 1986, pp. 291-310. Back

(223) Un’analoga concezione dell’arbitrarietà della giustizia viene attribuita da Socrate a uno dei sofisti più noti, vale a dire Protagora. Socrate, infatti, nel Teeteto, elencando le conseguenze etico-politiche derivanti dalla dottrina relativistica di Protagora, afferma che i sostenitori delle dottrine protagoree “nel campo del giusto e dell’ingiusto, del santo e dell’empio, insistono nel dire che nessuna di queste cose esiste per natura e con una sostanza propria, ma è ciò che sembra alla comunità che diventa vero, nel momento in cui sembra e per tutto il tempo in cui sembra” (Theaet. 172 b, ma cfr. anche 167 c; 177 d). Back

(224) Per una ricostruzione delle numerose e farraginose argomentazioni che Platone, all’interno del libro X, utilizza per difendere i tre tradizionali postulati della religione greca si rimanda a I.M. Crombie, An Examination of Plato’s Doctrines, London, 1962, pp. 380-86 e a R.F. Stalley, op. cit., pp. 169-77. Back

(225) Si ricordi che Esiodo, punto di riferimento per la delineazione dell’immagine dell’età dell’oro nel Politico così come nelle Leggi (cfr., ad esempio, l’uso degli aggettivi aphtona e automata in Le opere e i giorni, v. 118, Pol. 272 a, Leg. IV, 713 c) considerava proprio “Eunomie, Dike e Eirene fiorente, che vegliano sull’opera degli uomini mortali” (Teogonia, vv. 901-903) le condizioni necessarie ad assicurare alle comunità umane una vita ordinata e felice. Per l’importanza e il significato del termine aidos si rimanda, invece, a Le opere e i giorni, v. 257, vv. 1967 sgg. Back

(226) Sulla diversità dell’immagine del mito dell’età dell’oro nel Politico e nelle Leggi si veda P. Vidal Naquet, Le mythe platonicien du Politique, les ambiguitès de l’âge d’or, in id., Le chasseur noir, Paris, 1981, pp. 361-380 e, in particolare, p. 377. Back

(227) Platone, sia nel Timeo-Crizia che nelle Leggi, proiettando la forma ideale di politeia in un tempo antichissimo, conferisce una maggiore visibilità al modello politico da lui stesso delineato, rendendolo in questo modo non solo più facilmente comprensibile, ma anche dotato di una maggiore capacità persuasiva. Back

(228) Sull’esemplarità che il governo di Crono assume all’interno delle Leggi si vedano G. Cambiano, op. cit., p. 209 e F. Solmsen, op. cit., pp. 189-96, secondo il quale «... the condition of mankind under Cronus in no longer characterized by the absence of a politeia, but by the realization of the best, in fact of the ideal politeia» (p. 189). Back

(229) Platone, giocando con i diversi valori della radice nem-, sembra ipotizzare una derivazione etimologica del termine nomos (legge) da nous (ragione), ribadendo in questo modo il fondamento razionale delle leggi e, quindi, della polis stessa. Lo stesso Aristotele, del resto, nella Politica, definisce la legge “razionalità senza passione (aneu orexeos nous, Pol. III, 16, 1287 a, 32)” e, facendo propria la lezione delle Leggi, il governo del nomos “governo di dio e della ragione (archein ton theon kai ton noun, Pol. III, 16, 1287 a, 28-29)”. Back

(230) Sull’importanza e sul significato etico e politico della dottrina platonica dell’«imitazione della divinità» si veda C.G. Rutenber, The Doctrine of the Imitation of God in Plato, New York, 1946. Back

 


 

 

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