Due concezioni della ragione pubblica a confronto.
Dissezione analitica della nozione rawlsiana di ragione pubblica *

Aldo Schiavello

Università di Palermo, Dipartimento studi su politica, diritto e società

 

1. Premessa

La centralità, nel dibattito filosofico-politico, dell’idea di ragione pubblica e, soprattutto, della distinzione tra ragione pubblica e ragioni private, è relativamente recente; la si può infatti fare risalire al periodo post-illuminista (1). Per il pensiero illuminista, come è noto, la ragione è unica e, in un certo senso, necessariamente pubblica. La facoltà di ragionare, per l’illuminismo, è una facoltà condivisa da tutti gli esseri umani e le norme del ragionamento sono universali; di conseguenza, se una premessa è vera per una persona, allora sarà necessariamente vera per tutte le altre e, così, le conclusioni di un ragionamento valido saranno condivise da tutti gli individui razionali (2).

L’interesse per l’idea di una ragione pubblica contrapposta alle ragioni private va dunque di pari passo con l’insorgere delle società pluraliste, società in cui il problema di individuare un denominatore comune tra ragioni diverse e spesso tra loro concorrenti è avvertito in tutta la sua urgenza.

John Rawls è, probabilmente, l’autore che in questi ultimi anni ha maggiormente contribuito a porre il tema della ragione pubblica al centro del dibattito filosofico-politico. Peraltro, se si compulsa la letteratura recente sulla ragione pubblica si nota immediatamente che essa è costituita in massima parte da commenti e da osservazioni critiche sulla nozione rawlsiana di ragione pubblica.

Anche il presente saggio non fa eccezione. In particolare, l’obiettivo che mi sono prefisso scrivendo queste pagine è quello di proporre una chiave di lettura della nozione rawlsiana di ragione pubblica che permetta di replicare almeno ad alcune tra le principali obiezioni che sono state mosse a Rawls anche dall’"interno" della stessa tradizione liberale. Più precisamente, in questa sede si argomenterà a favore di una concezione della ragione pubblica che è strettamente correlata con – e, per molti versi, presuppone – una pratica interpretativa del tipo di quella proposta da Ronald Dworkin.

2. Osservazioni introduttive sulla concezione rawlsiana della ragione pubblica

John Rawls si è occupato approfonditamente del tema della ragione pubblica in tempi relativamente recenti e, precisamente, a partire dalla pubblicazione, nel 1993, di Liberalismo politico (3).

Mentre in Una teoria della giustizia l’intento di Rawls era essenzialmente quello di elaborare una teoria etica liberale comprensiva (4) che si opponesse validamente all’utilitarismo ed all’intuizionismo, in Liberalismo Politico egli si propone di elaborare una concezione politica della giustizia che giustifichi e garantisca la stabilità politica all’interno delle società democratiche contemporanee, che sono caratterizzate dal pluralismo di dottrine comprensive e ragionevoli (5).

La ragione pubblica è, secondo Rawls, il mezzo attraverso il quale è possibile conseguire tale stabilità; in breve, quando sono in gioco le questioni politiche fondamentali è opportuno fare appello solo a una concezione pubblica della giustizia e non a quella che appare a ciascuno come l’intera verità (6). Questa intuizione è il presupposto di fondo delle riflessioni rawlsiane sulla ragione pubblica.

Vale forse la pena di sottolineare, sia pure en passant, che la concezione rawlsiana della ragione pubblica è profondamente influenzata dal pensiero di Kant. Come vedremo, infatti, Rawls basa l’autorità politica sulla ragionevolezza e sul principio di universalizzabilità. Peraltro, egli riconosce esplicitamente che le sue riflessioni sulla ragione pubblica prendono le mosse dalla distinzione tra ragione pubblica e ragioni private che Kant presenta nel saggio Che cos’è l’Illuminismo? (7). Di contro, Rawls concede qualcosa anche al realismo hobbesiano (8), introducendo dei limiti all’uso pubblico della ragione, limiti che certamente non sarebbero stati accettati da Kant. In particolare, egli ritiene, come abbiamo appena detto, che la conoscenza dell’intera verità travalichi l’ambito della ragione pubblica (9).

Una pre-condizione imprescindibile della nozione rawlsiana di ragione pubblica – e torniamo quindi al tema centrale di questo paragrafo – è la presenza di una tradizione democratica: "[la ragione pubblica] è la ragione dei cittadini, di coloro che hanno in comune lo stato di uguale cittadinanza. L’oggetto della loro ragione è il bene pubblico, è ciò che la concezione politica della giustizia richiede riguardo alla struttura istituzionale di base della loro società, nonché agli scopi e fini di cui essi, i cittadini, devono porsi al servizio" (10). In tutti i regimi non democratici, al contrario, le discussioni sul bene pubblico non riguardano tutti i membri della società ma soltanto i governanti. Di conseguenza, nei regimi non democratici l’individuazione del bene pubblico non rappresenta l’esito di una discussione pubblica, aperta a tutti i cittadini; piuttosto, essa si risolve in un’imposizione da parte di una oligarchia.

2.1 Delimitazione e specificazione del significato di ‘ragione pubblica’

Rawls precisa che la ragione è pubblica in almeno tre sensi: i) è la ragione del pubblico, cioè di cittadini liberi ed eguali.

Rawls si preoccupa di specificare cosa debba intendersi per "persone libere ed eguali" soprattutto in Una teoria della giustizia (11). In questa sede è sufficiente ricordare che le persone sono libere, secondo Rawls, per le loro facoltà morali, cioè per la capacità di avere senso di giustizia e di concepire il bene, e per i poteri della loro ragione, cioè per la capacità di giudizio, di pensiero, di inferenza e così via. Sono eguali, invece, per il fatto di possedere questi poteri in misura sufficiente al fine di essere considerati membri cooperativi della società (12).

ii) La ragione è pubblica, poi, perché il suo oggetto è rappresentato non da tutte le questioni politiche relative al bene comune, ma solo da quelle concernenti gli elementi costituzionali essenziali ed i problemi di giustizia fondamentale.

Gli elementi costituzionali essenziali sono, rispettivamente, i principi fondamentali che determinano la struttura del governo ed i diritti e le libertà fondamentali sanciti dalla costituzione.

I problemi relativi alla giustizia fondamentale concernono i principi di giustizia sociale ed economica. Secondo Rawls, negli stati liberali contemporanei c’è un accordo pubblico, anche se solo per grandi linee, sia sugli elementi costituzionali essenziali che sui problemi di giustizia fondamentale (13) e, quindi, è possibile – e, secondo Rawls, opportuno – discutere questi argomenti in termini di valori esclusivamente politici. La principale differenza tra gli elementi costituzionali essenziali ed i problemi di giustizia fondamentale può essere rinvenuta nel fatto che è probabile che vi sia un accordo maggiore sulla realizzazione dei principi inerenti alle libertà ed ai diritti fondamentali piuttosto che sulla realizzazione della giustizia sociale ed economica, la quale presuppone l’analisi di dati sociali ed economici molto complessi.

iii) Infine, la ragione è pubblica anche in relazione alla sua natura ed al suo contenuto, i quali sono espressi nella discussione pubblica tra concezioni della giustizia politica ragionevoli.

Le dottrine ragionevoli sono tutte quelle che desiderano, come fine in sé, un mondo sociale nel quale sia possibile cooperare da individui liberi e uguali, a condizioni accettabili per tutti. In breve, le dottrine ragionevoli si impegnano ad individuare i principi generali di equa cooperazione. La presenza di più dottrine comprensive ragionevoli è, sempre secondo Rawls, un elemento costitutivo e non meramente accidentale delle società democratiche.

È opportuno ricordare che, nel discorso rawlsiano, la ragionevolezza è cosa diversa dalla razionalità; quest’ultima, infatti, indica la capacità degli individui di perseguire i propri fini ed interessi specifici e di mettere ordine tra i propri fini ultimi alla luce di un piano di vita complessivo. In via incidentale va detto che la distinzione tra ragionevole e razionale è abbastanza usuale in filosofia, anche se essa non viene caratterizzata sempre allo stesso modo. Ad esempio, nelle teorie contemporanee del ragionamento pratico e, più in particolare, del ragionamento giuridico, la ragionevolezza individua gli argomenti che permettono di giustificare una decisione quando essa non può essere giustificata su basi strettamente razionali, vale a dire rispettando le sole regole della logica ed i principi della razionalità pratica (14).

Per "concezione politica della giustizia", poi, Rawls intende una concezione della giustizia che a) specifichi certi diritti, libertà ed opportunità fondamentali; b) assegni a tali diritti, libertà ed opportunità una speciale priorità, soprattutto rispetto alle pretese del bene generale e dei valori perfezionistici; c) sostenga misure che assicurino a tutti i cittadini i mezzi indispensabili per un uso effettivo delle libertà e delle opportunità fondamentali.

2.2. L’ambito di estensione della ragione pubblica

Come si può evincere in particolare dal punto ii) visto in precedenza, l’ideale della ragione pubblica riguarda esclusivamente i cittadini che partecipano ad un dibattito politico nel foro pubblico, quindi i membri dei partiti politici, i candidati in campagna elettorale, i gruppi che li sostengono ed anche il modo in cui i cittadini debbono votare alle elezioni quando sono in gioco elementi costituzionali essenziali e questioni di giustizia fondamentale.

Il caso paradigmatico di ragione pubblica è rappresentato tuttavia dal potere giudiziario e soprattutto dalla corte suprema di una democrazia costituzionale con revisione giudiziaria; i giudici infatti devono spiegare e giustificare le proprie decisioni dimostrando che esse sono basate sulla loro interpretazione della costituzione e dei precedenti pertinenti (15).

Sembra per molti versi controintuitivo che, proprio quando sono in gioco i problemi più basilari, i cittadini rinuncino a ricercare la soluzione migliore sulla base di una concezione etico-politica comprensiva e si accontentino invece di quella soluzione che rappresenta l’esito di un dibattito pubblico in cui ci si auto-impone di non andare oltre i rigidi confini fissati dalla concezione politica della giustizia.

Rawls tenta di giustificare questi limiti del dibattito pubblico su questioni di giustizia fondamentale sottolineando due caratteristiche rilevanti della relazione politica esistente tra cittadini degli stati democratici.

In primo luogo, si tratta di una relazione tra persone entro la struttura di base della società in cui queste nascono e trascorrono normalmente tutta la vita. Ciò significa che lo status di cittadino è diverso da quello di chi ad esempio aderisce ad un’associazione o ad una confessione religiosa. In questi ultimi casi, infatti, nel momento in cui non si condividono più le finalità o i valori dell’associazione o della confessione religiosa, si può scegliere di non farne più parte. Al contrario, nel caso in cui c’è un contrasto tra i propri principi personali e quelli dello stato in cui si è nati, non è possibile dissociarsi, a meno di non emigrare da qualche altra parte – qualora sia consentito dal diritto vigente nello stato di appartenenza. Ciò comporta altresì che la ragione pubblica è una sola, mentre le ragioni non pubbliche sono molte. Anche le associazioni e le confessioni religiose hanno bisogno di un modo di ragionare pubblico rispetto ai loro membri, ma, tali ragioni, pur non essendo private, non sono ragioni pubbliche nell’accezione rawlsiana perché non riguardano la generalità dei cittadini.

In secondo luogo, in uno stato democratico il potere politico, che è pur sempre, almeno in una certa misura, un potere coercitivo, appartiene a tutti i cittadini.

Dunque, secondo Rawls: "…l’esercizio del potere politico è corretto, e quindi giustificabile, solo quando si accorda con una costituzione tale che ci si possa ragionevolmente attendere che tutti i cittadini accolgano i suoi elementi essenziali alla luce di principi e ideali accettabili per loro in quanto persone ragionevoli e razionali. È il principio liberale di legittimità" (16).

È importante sottolineare che, sempre secondo Rawls, il dovere di mantenere la discussione nei fori pubblici entro i limiti della ragione pubblica è un dovere morale ma non giuridico, in quanto, se si trattasse di un dovere giuridico, si violerebbe la libertà di espressione, che è uno dei principi cardine degli stati liberali (17). Tale dovere richiede anche una disponibilità da parte di tutti ad ascoltare gli altri e ad abbandonare le proprie posizioni quando quelle altrui sembrano più ragionevoli. Inoltre, questo dovere presuppone che si attribuisca un valore molto grande ai principi costituzionali fondamentali e che difficilmente si sia disposti a sacrificarli nel caso in cui essi entrino in competizione con altri principi.

2.3. La ragione pubblica a confronto con la "comunità liberale" di Dworkin

La nozione rawlsiana di ragione pubblica non rappresenta certo una novità assoluta per il pensiero liberale contemporaneo. Essa, ad esempio, ricorda da vicino la concezione dworkiniana della comunità liberale (18).

Ronald Dworkin condivide l’idea, sostenuta con forza dai comunitari in contrapposizione ai liberali, secondo cui le comunità hanno una vita comune; egli tuttavia attribuisce all’espressione ‘vita comune’ un significato diverso da quello ascrittogli dai comunitari (19). Tale espressione infatti si può intendere o in senso "metafisico", nel senso, cioè, che le comunità rappresentano entità fondamentali dell’universo, di cui i singoli esseri umani costituiscono semplici astrazioni o, addirittura, illusioni, ovvero in senso "pratico", nel senso, cioè, che ciascuna comunità dipende da determinati atteggiamenti e pratiche di un gruppo di persone e, quindi, non esiste a prescindere da tali manifestazioni di vita comune. L’errore fondamentale dei comunitari sarebbe proprio quello di antropomorfizzare il concetto di "vita comune di una comunità".

Il secondo modo di intendere la vita comune della comunità, quello "pratico" nel lessico dworkiniano, è meno pervasivo del primo, in quanto si limita a considerare comuni soltanto quelle attività che vengono compiute in comune. Questa è, secondo Dworkin, l’accezione di vita comune compatibile con il pensiero liberale.

Dworkin, per spiegare ulteriormente le differenze tra questi due modi di intendere la vita collettiva, si serve di un esempio. Egli immagina un’orchestra come una comunità in piccolo; anch’essa ha, infatti, una vita comune. Secondo la concezione pratica, la vita comune di un’orchestra riguarda esclusivamente la produzione di musica e, di conseguenza, sono inerenti ad essa tutti gli atteggiamenti strettamente correlati a questo fine: l’assiduità alle prove, il rispetto degli altri componenti, l’impegno profuso e così via (20). Secondo la concezione ontologica o metafisica, invece, rientrano nella vita comune di un’orchestra le scelte morali ed etiche dei musicisti, anche ove non direttamente collegate con l’attività specifica dell’orchestra. Per i sostenitori di questa versione, il fatto che il batterista commetta o meno adulterio, ad esempio, influisce sulla vita collettiva dell’orchestra proprio perché non è possibile separare la sfera privata dalla sfera pubblica.

In conclusione, l’idea dworkiniana di vita collettiva di una comunità non esclude una certa identificazione dell’individuo con la propria comunità. Il successo ed il fallimento della vita di ognuno dipende, infatti, anche dal successo e dal fallimento della vita comune della comunità in cui ciascuno si trova a vivere. Ma questa vita comune non si estende sino a ricomprendere tutte le scelte e le convinzioni degli individui; è invece circoscritta ai principi fondamentali che regolamentano la vita associata di individui liberi ed eguali.

In modo analogo, Rawls afferma che: "quando il liberalismo politico parla di un consenso per intersezione ragionevole di dottrine comprensive, indica che tutte queste dottrine, sia religiose che non religiose, sostengono una concezione politica della giustizia soggiacente ad una società democratica costituzionale i cui principi, ideali e standards soddisfano il criterio di reciprocità" (21).

3. La ragione pubblica come "denominatore comune" del dibattito pubblico: un’introduzione

Nei paragrafi precedenti ho presentato per grandi linee quella che per molti versi può essere considerata la vulgata relativa alla nozione rawlsiana di ragione pubblica.

Riassumendo brevemente, l’interpretazione più usuale del pensiero di Rawls – che si fonda essenzialmente su quanto Rawls scrive in Liberalismo politico – è quella secondo cui la ragione pubblica rappresenterebbe una sorta di "sbarramento" nei confronti degli argomenti che, in determinate circostanze, possono essere addotti nel dibattito pubblico. In questo paragrafo e, soprattutto, nel successivo, sosterrò che una concezione della ragione pubblica di questo tipo presta il fianco a tutta una serie di obiezioni – che riguardano tanto la congruenza interna del discorso rawlsiano, quanto la "correttezza" delle sue premesse – molto convincenti. Ciò non implica tuttavia che l’idea di ragione pubblica non abbia alcun ruolo da svolgere nel dibattito pubblico all’interno delle società pluraliste. Come cercherò di mostrare, è infatti perfettamente ammissibile intendere la ragione pubblica non come uno "sbarramento" ma, piuttosto, come un "denominatore comune" o come un "traduttore" degli argomenti e delle ragioni che vengono presentati nel dibattito pubblico. Ove intesa in questo modo, la ragione pubblica sfugge alla maggior parte delle critiche a cui ho accennato in precedenza.

Incidentalmente va detto che lo stesso Rawls sembra oscillare tra queste due possibili concezioni della ragione pubblica. In questa sede, tuttavia, il mio intento non è quello, esegetico, di stabilire – ammesso che fosse possibile – quello che Rawls ha sostenuto "veramente". Più modestamente, mi limiterò ad individuare negli scritti rawlsiani quegli argomenti che contribuiscono a delineare una concezione della ragione pubblica come "denominatore comune". A questo scopo, è essenziale, in via preliminare, sviluppare e chiarire la relazione – sottolineata proprio da Rawls – tra l’idea di ragione pubblica e la teoria del diritto e, soprattutto, dell’interpretazione giuridica, di Dworkin (22).

3.1. Ragione pubblica ed interpretazione: osservazioni preliminari

Nel corso del paragrafo 2.2. ho ricordato che, per Rawls, il modo di argomentare degli organi giurisdizionali e, più in particolare, delle corti costituzionali rappresenta un caso esemplare di esercizio della ragione pubblica. Tale affermazione di Rawls presuppone una determinata concezione dell’attività giurisdizionale che si rifà esplicitamente al pensiero di Dworkin (23) e che è opportuno analizzare nel dettaglio.

La teoria dell’interpretazione di Dworkin, che sta alla base della sua concezione del "diritto come integrità" (24), è costruita intorno alla distinzione tra argomenti di politica ed argomenti di principio (25).

Nel saggio The Model of Rules I, contenuto in Taking Rights Seriously, Dworkin scrive: "chiamo "politica" quel genere di standard che indica un obiettivo da raggiungere, in genere un miglioramento in qualche aspetto – economico, politico, o sociale – della vita della comunità […]. Chiamo "principio" uno standard che deve essere osservato non perché provochi o mantenga una situazione (economica, politica, o sociale) desiderata, ma in quanto è un’esigenza di giustizia, di correttezza, o di qualche altra dimensione della morale" (26).

Sono quindi argomenti di politica tutti gli argomenti tesi ad aumentare il benessere di una comunità nel suo insieme; sono invece argomenti di principio quelli che "riguardano" i diritti dei cittadini. Gli argomenti di principio, inoltre, al contrario degli argomenti di politica, possiedono quella che Dworkin chiama "forza gravitazionale", in quanto, per esigenze di equità, "attirano" anche i casi analoghi. In breve, se viene riconosciuto un diritto a Tizio, tale diritto deve essere riconosciuto anche a tutti i cittadini che si trovano nella sua stessa posizione. Le strategie politiche, al contrario, sono per definizione mutevoli e, dunque, non è detto che quello che viene ritenuto politicamente opportuno un giorno, sarà ritenuto tale anche il giorno successivo (27).

Secondo Dworkin, i giudici devono basare le proprie decisioni sempre su argomenti di principio. Questo aspetto individua la differenza principale tra il legislatore e il giudice. Il legislatore, infatti, è vincolato al rispetto del valore dell’integrità soltanto in alcuni casi, in particolare quando si tratta di decidere a proposito dei diritti fondamentali dei cittadini, mentre il giudice deve sempre prendere le proprie decisioni alla luce dei principi fondamentali dell’ordinamento e, più in generale, delle leggi precedentemente poste, senza indulgere in valutazioni politiche in senso stretto. A questo proposito, Riccardo Guastini scrive che: "dal punto di vista politico, Dworkin – conformemente alla tradizione del liberalismo giuridico – sostiene che i giudici, in ogni controversia loro sottoposta, devono sempre far valere i diritti e gli obblighi preesistenti delle parti. [...] Ciò significa due cose. In primo luogo, i giudici non sono autorizzati a creare nuove norme in relazione ad una specifica controversia. Ciò sarebbe una violazione del principio (liberale) secondo il quale la legge non dispone che per l’avvenire e non può avere effetto retroattivo [...]. In secondo luogo i giudici devono decidere sulla base dei diritti e degli obblighi degli individui; cioè non sono autorizzati a decidere [...] sulla base di finalità politiche o sociali collettive (policies)…" (28).

A prima vista, tale tesi di Dworkin può sembrare banale ed unanimemente condivisibile. In realtà, penso – a differenza di Guastini – che Dworkin non si limiti ad affermare che i cittadini abbiano il diritto di essere tutelati dal fattore sorpresa, cioè di essere giudicati sulla base di leggi preesistenti. Ciò è confermato dal fatto che una delle critiche che Dworkin rivolge al giuspositivismo normativista è quella di essere una concezione del diritto poco attraente, proprio perché pretende di ridurre tutti i diritti dei cittadini a quest’unico diritto ad essere giudicati sulla base del diritto preesistente.

Al fine di chiarire cosa Dworkin intenda quando afferma che i giudici devono giustificare le proprie decisioni attraverso argomenti di political principle è opportuno distinguere l’attività interpretativo-argomentativa che deve guidare i giudici rispettivamente nei casi facili e nei casi difficili (29). Quando non vi sono dubbi su quale proposizione normativa debba applicarsi ad un caso concreto e, inoltre, non sussistono intricati problemi interpretativi in relazione a tale proposizione, il giudice deve pur sempre mantenere un atteggiamento critico o, per utilizzare il lessico dworkiniano, interpretativo. Questo significa che egli deve preoccuparsi di leggere la regola specifica alla luce dei principi generali dell’ordinamento e, quindi, adeguare il dettato normativo all’evoluzione subita nel corso del tempo da tali principi. In altre parole, il giudice deve mantenersi costantemente vigile, consapevole del fatto che, in nessun caso, è possibile applicare in modo meccanico una norma generale ad un caso concreto.

Nei casi difficili, il ruolo dei principi è ancor più fondamentale: sarà l’analisi dei principi in gioco, e la valutazione del loro peso e della loro importanza in quel caso concreto a far propendere il giudice verso una decisione piuttosto che un’altra. A partire da questa concezione dell’attività giurisdizionale come attività "basata su principi", Dworkin elabora la sua ben nota tesi della one right answer. Tale tesi permette di chiarire sia i motivi fondamentali del contendere tra Dworkin ed il giuspositivismo normativista, sia le ragioni che spingono Rawls a ritenere che l’attività giurisdizionale rappresenti il caso paradigmatico della ragione pubblica.

Il giuspositivismo ritiene che non sia corretto identificare le espressioni ‘risposta migliore’ e ‘risposta giusta’. Tutti, in sostanza, come del resto sottolinea lo stesso Dworkin, sono convinti che i giudici optino, almeno nella maggior parte dei casi, per quelle decisioni che, dal loro punto di vista, sono le migliori. Questo tuttavia non significa che essi abbiano fatto la scelta giusta: non è possibile dimostrare che la decisione del giudice X sia migliore rispetto a quella, difforme, del giudice Y. In altri termini, la semplice constatazione che giudici (o, più genericamente, interpreti) diversi propongano soluzioni differenti a problemi analoghi e che non sia possibile dimostrare che una tra le soluzioni concorrenti sia da preferire a tutte le altre impedisce di parlare di one right answer. In conclusione, quindi, il giuspositivismo ritiene che la dimostrabilità sia l’unico criterio valido di verità.

Dworkin rifiuta questa tesi sulla base della sua concezione del diritto come pratica sociale argomentativa (30). In questa prospettiva, il compito di ciascun interprete (qualificato a qualunque titolo: giudice e giurista in primo luogo, ma anche avvocato o semplice cittadino) è quello di contribuire alla vita del diritto proponendo la propria soluzione argomentativa e spiegando le ragioni per cui tale soluzione debba essere considerata come quella giusta. È evidente che qui non ci troviamo di fronte ad una semplice differenza terminologica con il giuspositivismo. Nella teoria del diritto di Dworkin la giurisdizione svolge il ruolo da protagonista che, per il normativismo, spetta all’attività legislativa: è soltanto attraverso l’esercizio dell’attività interpretativa che il diritto si evolve adeguandosi ai mutamenti della società. Inoltre, Dworkin sostiene esplicitamente che il compito principale degli organi giurisdizionali sia quello di interpretare i documenti legislativi alla luce dei principi politici su cui è edificato l’ordinamento, riconoscendo così l’esistenza di una sorta di connessione necessaria tra teoria del diritto e teoria politica.

La tesi dell’"unica risposta giusta" richiede quindi che si guardi al diritto come ad un fenomeno interpretativo, in cui entrano necessariamente in gioco le diverse convinzioni politiche dei partecipanti. Soltanto attraverso questo continuo confronto tra interpretazioni diverse e spesso confliggenti dei principi e delle regole è possibile considerare il diritto come un fenomeno unitario piuttosto che come un insieme di leggi spesso tra loro incoerenti. In Law’s Empire Dworkin parla esplicitamente di "atteggiamento protestante" proprio per indicare il fatto che ogni cittadino ha la responsabilità di immaginare, sulla base della sua personale interpretazione dei principi dell’ordinamento, che cosa il diritto richieda in nuove circostanze (31).

E’ opportuno, a questo proposito, distinguere analiticamente – prendendo spunto da alcune interessanti riflessioni di Aldo Gargani (32) – due diverse situazioni che si presentano quando si parla di "risposta giusta" (evidentemente non solo a proposito delle decisioni giudiziarie). Vi è, infatti, il punto di vista di chi – scienziato, filosofo, politico, giudice – prende in prima persona una determinata decisione o propone una determinata descrizione del mondo. Da questa prospettiva, la scelta cui si perviene non è una delle tante possibili, ma l’"unica" possibile nel senso forte del termine.

Diversa è la situazione di chi, ponendosi da una prospettiva che potremmo definire meta-teorica, guarda alle diverse "risposte giuste" come a possibili versioni di un determinato segmento di realtà. È evidente infatti che, in questo secondo caso, la locuzione ‘risposta giusta’ viene utilizzata in un’accezione debole che indica tutte le interpretazioni accettabili. Il rischio, da non sottovalutare, collegato alla consapevolezza che ogni "risposta giusta" non è che una interpretazione della realtà, è quello di rinunciare a fornire la propria versione dei fatti proprio perché si tratta di una "versione dei fatti" e non della "realtà delle cose". Per dirla con Gargani: "per scrivere una versione del mondo, sembra che paradossalmente occorra ignorare che qualunque cosa faremo sarà una versione del mondo" (33).

E’ significativo, a questo proposito, che Dworkin, soprattutto nei suoi ultimi scritti, ha sviluppato nei confronti dell’oggettività un atteggiamento che è stato definito "deflazionistico". In breve, egli sembra sostenere che non sia il caso di parlare di oggettività in relazione all’interpretazione, in quanto la correttezza o meno delle affermazioni in questo ambito di discorso dipende da argomenti del tutto interni alla pratica in questione e non anche da argomenti che in qualche modo sono da ricollegarsi ad una realtà esterna alla pratica. In altri termini, egli, nel caso specifico delle pratiche interpretative, considera ‘oggettività’ e ‘verità’ come redundant words. Dworkin si serve di questo argomento per criticare, in particolare, quella forma di scetticismo che egli definisce esterno o archimedeo. Ad esempio, lo scettico esterno sostiene che non si può affermare che l'enunciato ‘la schiavitù è ingiusta’ è vero dal momento che nell’universo non esiste qualcosa come l’ingiustizia della schiavitù. Secondo Dworkin, l’errore dello scetticismo esterno è quello di non comprendere che "il gioco che si sta giocando" non ha tra le sue regole quella della corrispondenza con la realtà; esso consiste piuttosto nel presentare i migliori argomenti possibili a sostegno delle proprie opinioni o credenze. Dunque, quando lo scetticismo esterno sostiene che le nostre convinzioni non sono "reali", afferma una cosa vera ma anche ovvia e di nessuna utilità (34).

3.2. La ragione pubblica come "denominatore comune" del dibattito pubblico

Una concezione dell’interpretazione di questo tipo è senza dubbio un primo passo essenziale al fine di intendere la ragione pubblica come una sorta di "traduttore" di argomenti che sono, a prima vista, tra loro incommensurabili.

In breve, se intesa in questo modo, la ragione pubblica richiede che la discussione pubblica sugli elementi costituzionali essenziali e sulle questioni di giustizia fondamentale sia condotta entro i limiti della concezione politica della giustizia, ma non presuppone che vi sia un’unica concezione politica della giustizia condivisa da tutti. Lo stesso Rawls riconosce esplicitamente che "è inevitabile, e spesso desiderabile, che i cittadini abbiano idee diverse di quella che è la concezione politica più adeguata; infatti la cultura giuridica pubblica non può non contenere idee fondamentali diverse, suscettibili di essere sviluppate in modi diversi. Nel lungo termine la lotta (soggetta a regole) fra esse è un modo attendibile di scoprire quale sia la più ragionevole – se ce n’è una" (35).

Qui sembra celarsi un paradosso: come è possibile che la discussione pubblica sugli elementi costituzionali essenziali e sulle questioni di giustizia fondamentale si sviluppi intorno ad una concezione politica della giustizia, se manca l’accordo diffuso su quale sia tale concezione?

In realtà, tale paradosso è soltanto apparente. In breve, perché si possa parlare di una ragione pubblica è sufficiente che esista un accordo diffuso, a livello concettuale, sui diritti, sulle libertà e sulle opportunità fondamentali che costituiscono l’ossatura di una concezione politica della giustizia (36). A partire da questo accordo concettuale, poi, le diverse concezioni politiche della giustizia dovranno sfidarsi tra loro, in una pratica interpretativo/argomentativa, al fine di mostrare che la loro interpretazione di tali diritti, di tali libertà e di tali opportunità fondamentali sia la migliore possibile. È l’accordo concettuale di partenza a garantire che il dibattito pubblico non si riduca ad uno sterile dialogo tra sordi.

Per chiarire ulteriormente questo punto può essere utile osservare come Rawls inquadri il problema dell’aborto (37) – in quanto caso paradigmatico di questione che deve essere affrontata ricorrendo alla ragione pubblica – rispettivamente in Liberalismo politico e, successivamente, in The Idea of Public Reason Revisited.

In Liberalismo politico Rawls afferma che il primo passo di una discussione pubblica sull’aborto richiede che si individuino i valori politici in gioco. Semplificando, egli riduce tali valori a tre: il rispetto della vita umana, la riproduzione ordinata della società nel tempo, e l’eguaglianza delle donne come cittadini eguali.

Il secondo passo consiste nel soppesare tra loro tali valori al fine di raggiungere un equilibrio ragionevole fra essi. Secondo Rawls, nel primo trimestre di gravidanza il "peso" del valore dell’eguaglianza è preponderante e, quindi, deve essere riconosciuto alle donne il diritto di decidere se interrompere o meno la gravidanza. Di conseguenza, chi votasse in base ad una dottrina comprensiva che negasse tale diritto, andrebbe contro l’ideale della ragione pubblica.

Questo modo di inquadrare la questione dell’aborto solleva molteplici problemi. In particolare, sembra quantomeno ingenuo ritenere che sia possibile calcolare il "peso" dei valori con la stessa precisione con la quale l’onesto droghiere calcola il peso delle merci (38).

Come anticipato, Rawls in seguito ha significativamente modificato la sua posizione, ed ha riconosciuto che, in particolare in relazione al caso specifico dell’aborto, la ragione pubblica non impone necessariamente un determinato risultato, ma soltanto che il dibattito pubblico si sviluppi intorno a valori eminentemente politici, del tipo di quelli precedentemente individuati. Ma, se è così, il peso attribuito ai valori politici dipenderà inevitabilmente dalla concezione filosofica o religiosa di sfondo degli individui. Ad esempio, un cattolico sosterrà, molto probabilmente, che il rispetto della vita è un valore incomparabilmente più "pesante" di tutti gli altri, mentre una femminista riterrà più importante l’eguaglianza delle donne come cittadini eguali. In questo modo, le dottrine comprensive, cacciate dalla porta, rientrano inevitabilmente dalla finestra (39). Ciò comporta che il (possibile) raggiungimento di un equilibrio riflessivo ampio e generale (40) intorno ad una concezione politica della giustizia sia l’esito di una pratica discorsivo/interpretativa e non il suo presupposto.

Sulla base di questa interpretazione della nozione rawlsiana di ragione pubblica, la nota obiezione di Jürgen Habermas, secondo cui Rawls considererebbe la sfera dei valori politici come un dato istituzionalizzato, imposto sui – e non scelto dai – cittadini e, di conseguenza, tratterebbe la stabilità politica come un bene da conseguire al prezzo del sacrificio dell’autonomia politica degli individui, non coglie nel segno (41). Ogni individuo, infatti, è chiamato ad elaborare la propria concezione politica della giustizia ed ad argomentare a favore di essa nel dibattito pubblico. L’unico accorgimento richiesto è quello di proporre i propri argomenti adottando il lessico della ragione pubblica che, come si è detto, rappresenta il punto di partenza semantico (o, se si preferisce, concettuale) minimale, condiviso da tutti i membri di una comunità liberale.

In conclusione, è opportuno ribadire che se la concezione politica della giustizia è l’esito, e non il presupposto, di una pratica interpretativa, allora – come il precedente esempio dell’aborto mostra chiaramente – la distinzione tra ragione pubblica e dottrine comprensive diviene certamente molto sfumata. In altri termini, la ragione pubblica non consente di "bandire" alcun tipo di argomento – sia esso filosofico o religioso – dal dibattito pubblico; tuttavia, essa fornisce lo schema concettuale necessario al fine di sviluppare una pratica interpretativa che non si riduca ad uno sterile dialogo tra sordi.

4. Conclusioni

Come ho anticipato, considerare la ragione pubblica come una sorta di "sbarramento" al dibattito pubblico presta il fianco ad importanti obiezioni che chiamano in causa i presupposti stessi del pensiero liberale. In particolare, in questo paragrafo conclusivo prenderò in considerazione alcune obiezioni che Jeremy Waldron muove alla concezione rawlsiana della ragione pubblica a proposito del ruolo delle dottrine filosofiche e religiose nel dibattito pubblico. Il mio intento è quello di mostrare che tali obiezioni possono essere agevolmente aggirate qualora si sia disposti ad accogliere una concezione debole – cioè, come "denominatore comune" o come "traduttore" – della ragione pubblica.

Rawls afferma correttamente che lo scopo del dibattito pubblico è quello di discutere con altre persone, convincere, persuadere, comunicare, aprire la propria mente ad altre prospettive, ascoltare quello che gli altri hanno da dire. Ognuno si pone nella disposizione d’animo di poter modificare le proprie convinzioni e si aspetta che anche tutti gli altri si pongano nel medesimo spirito. Ciò richiede, secondo Rawls (quantomeno in Liberalismo politico), che nelle società pluraliste il dibattito pubblico non sia considerato come luogo di scontro tra dottrine filosofiche e religiose comprensive, ma si dipani entro i confini fissati da una concezione politica della giustizia condivisa per grandi linee da tutti. Il timore di Rawls è, come sottolinea Waldron, che in assenza di tali limiti "…il foro pubblico si trasformi in una babele di prospettive metafisiche mutuamente inintelligibili ed incommensurabili" (42).

Una questione interessante è quindi quella di valutare se questo timore sia fondato o meno. In prima battuta si deve sottolineare che, quale che sia la risposta a tale questione, il fatto che Rawls in Liberalismo politico assuma acriticamente l’incommensurabilità delle dottrine filosofiche e religiose comprensive, rappresenta un difetto non di poco conto del suo impianto argomentativo. La libertà di espressione è, senza alcun dubbio, uno tra i valori fondamentali delle democrazie liberali (43). Lo stesso Rawls peraltro sottolinea, come abbiamo visto (44), che l’obbligo di mantenere la discussione nei fori pubblici entro i limiti imposti dalla ragione pubblica non è, non può e non deve essere, un obbligo giuridico, in quanto, se lo fosse, si configurerebbe una grave violazione della libertà di espressione. Ma, se la libertà di espressione è un valore realmente importante, anche l’esistenza di un obbligo morale di auto-limitarsi nella discussione pubblica richiede una giustificazione convincente. L’affermazione di Rawls secondo cui la libertà di espressione non sarebbe favorita, ma, al contrario, frustrata dal libero accesso di tutte le convinzioni filosofiche e religiose al dibattito pubblico, rappresenta certamente un’ipotesi interessante e, forse, anche intuitivamente convincente; tuttavia, tale affermazione, per assurgere al ruolo di giustificazione, dovrebbe essere suffragata da elementi di prova e da argomenti che, in effetti, non mi sembra di rinvenire negli scritti rawlsiani sulla ragione pubblica.

Per questa ragione, ritengo che la tesi di Waldron – peraltro sostenuta, con accenti diversi, anche da numerosi altri autori – secondo cui nelle democrazie liberali le dottrine e gli argomenti radicati in credenze religiose non debbano necessariamente essere banditi dal dibattito politico, possa rappresentare un valido banco di prova per l’idea di ragione pubblica come "sbarramento" difesa da Rawls soprattutto in Liberalismo politico.

Waldron, in particolare, prende in esame la "Lettera pastorale sull’insegnamento sociale della Chiesa e l’economia americana" pubblicata dalla Conferenza episcopale americana nel 1986. In questa lettera i vescovi delineano un modello di governo e di società che è esplicitamente basato su una visione di Dio e delle Sue finalità nei confronti dell’umanità. L’aspetto più interessante di questo documento, ai fini di un discorso sulla ragione pubblica, è che i vescovi, attraverso la sua pubblicazione, non si sono limitati ad offrire un contributo al dibattito fra cattolici, ma si sono proposti di indirizzare il modo di votare dei cattolici e di orientare l’attività di legislatori, funzionari e giudici cattolici. Si aggiunga che il contenuto della lettera è caratterizzato fortemente da una visione trascendente della vita umana e, dunque, esso risulta di difficile comprensione per chi non accoglie una prospettiva cattolica o quantomeno religiosa. A questo riguardo, Waldron evidenzia il seguente passaggio del documento: "l’appagamento dei bisogni umani, lo sappiamo, non è il fine ultimo della creazione degli esseri umani. Noi siamo stati creati per condividere la vita divina attraverso un destino che va ben oltre le nostre capacità umane e di fronte al quale noi dobbiamo stare in atteggiamento di umile riverenza" (45). La lettera, infine, ha chiaramente una portata universale: essa si propone di delineare una concezione della giustizia valida per tutti gli esseri umani e non soltanto per i cattolici.

I problemi sollevati da questa lettera sono molteplici. L’aspetto più discutibile, quantomeno da una prospettiva liberale, è che i vescovi si propongono di indirizzare il comportamento dei cattolici non soltanto come agenti economici o cittadini, ma anche nell’esercizio di funzioni pubbliche: "ciò implica che i membri del Congresso cattolici, i funzionari cattolici, i giudici cattolici, i governatori cattolici, e persino un presidente cattolico, dovrebbero prendere in considerazione questi insegnamenti, basati espressamente sulla Bibbia e sul cristianesimo, quando esercitano i poteri che il popolo ha attribuito loro" (46).

Su questo punto credo che abbia ragione Rawls, e la breve analisi precedente sulla teoria dell’interpretazione di Dworkin mostra che anche quando sorgono controversie sulla concezione politica della giustizia, esse possono essere risolte – quantomeno formalmente – rispettando i limiti imposti dalla ragione pubblica. Un giudice, ad esempio, anche se cattolico, quando è chiamato a decidere un caso difficile, non è libero di deliberare sulla base delle sue convinzioni personali, ma deve pur sempre fondare la decisione – ripeto: quantomeno formalmente – sui principi dell’ordinamento o, più precisamente, sulla sua interpretazione di essi.

Waldron, a differenza di Rawls, considera invece legittimo l’intervento dei vescovi, anche sulla base di una concezione dell’interpretazione giuridica che si rifà direttamente al giuspositivismo tradizionale; semplificando, egli ritiene che, nei casi facili, i giudici siano chiamati ad applicare meccanicamente il diritto, mentre in quelli difficili essi non possano fare altro che decidere facendosi guidare dalle proprie convinzioni personali (47).

Una teoria dell’interpretazione di questo tipo presenta almeno due limiti evidenti. In primo luogo, essa assume acriticamente la possibilità di distinguere chiaramente tra casi facili e casi difficili. In realtà, questa distinzione fa senso solo se intesa come esito di una previa attività interpretativa, piuttosto che come suo presupposto. La nozione di second-order vagueness, spesso richiamata dalle teorie dell’interpretazione e dell’argomentazione contemporanee, sta proprio ad indicare l’impossibilità di tracciare confini precisi tra casi facili e casi difficili (48).

In secondo luogo, essa liquida troppo frettolosamente i vincoli che, anche nei casi più difficili, consentono di arginare la discrezionalità dei giudici (49).

Lasciando da parte questo aspetto particolarmente controverso, tuttavia, è importante sottolineare il fatto che lo scopo della lettera pastorale è anche – e, forse, principalmente – quello di contribuire al dibattito pubblico. Il problema, in questo caso, è quello di valutare se le opinioni basate su convinzioni religiose possano effettivamente adempiere a questa funzione. Waldron ritiene che l’argomento di Rawls secondo cui se si ammettessero le dottrine filosofiche e religiose al dibattito pubblico ci si precluderebbe la possibilità di comprendersi a vicenda, sottovaluta la capacità degli esseri umani di condurre conversazioni anche in condizioni obiettivamente difficili. Egli giustifica questa tesi a partire dall’analisi di alcune concezioni della deliberazione pubblica nelle società democratiche; in particolare, Waldron prende in esame i modelli proposti da Aristotele e da John Stuart Mill.

Aristotele nella Politica sostiene che: "la massa debba essere sovrana dello stato a preferenza dei migliori", ciò perché: "i molti, pur se singolarmente non eccellenti, qualora si raccolgano insieme, [sono superiori ai migliori]" (50). Il presupposto del discorso aristotelico è che vi siano modelli condivisi di ragionamento che permettano di mettere in relazione e di soppesare idee e posizioni diverse.

Mill ritiene invece che la verità scaturisca da un processo tipo "mano invisibile" à la Smith: "Nei grandi problemi pratici della vita, la verità è una questione di conciliazione e combinazione di opposti, a tal punto che pochissime menti sono abbastanza vaste e imparziali da riuscirne a dare una soluzione anche solo parzialmente corretta, che quindi finisce col dipendere da un caotico processo conflittuale tra opposte fazioni" (51).

Waldron attribuisce la sua preferenza al modello aristotelico, anche se riconosce che l’idea di una mano invisibile rappresenta bene la composizione delle feroci divergenze di opinioni nelle nostre società post-moderne.

In ogni caso, ritengo che né gli argomenti di Aristotele né quelli di Mill possano essere considerati come una replica esaustiva all’affermazione rawlsiana secondo cui il pluralismo delle società contemporanee richiede che il dibattito pubblico si sviluppi intorno ad una concezione politica della giustizia. Tuttavia, per le ragioni viste in precedenza, che sono poi quelle messe in luce anche da Aristotele e Mill, è Rawls che ha l’onere di provare la veridicità dei presupposti del suo ragionamento, non i suoi critici che essi sono falsi.

I limiti dell’idea di ragione pubblica come "sbarramento" sono stati riconosciuti, sia pure con qualche oscillazione, dallo stesso Rawls nei suoi scritti successivi a Liberalismo politico: la ragione pubblica non costituisce più uno sbarramento alla partecipazione al dibattito pubblico, ma diviene una sorta di "traduttore" o di "denominatore comune" delle idee ivi presentate. Egli afferma esplicitamente che "le dottrine comprensive ragionevoli, religiose o non religiose, possono essere introdotte nella discussione pubblica in qualsiasi momento, a condizione che a tempo debito siano presentate ragioni specificamente politiche – e non ragioni radicate esclusivamente sulle dottrine comprensive – che siano in grado di sostenere le tesi introdotte a partire dalle dottrine comprensive" (52).

Questa concezione "debole" della ragione pubblica non presuppone che le dottrine comprensive – filosofiche o religiose – siano (necessariamente) tra loro incommensurabili. Più modestamente, richiede a tutti di fare uno sforzo per tradurre le proprie ragioni ed i propri argomenti in un linguaggio unitario, che favorisca la discussione e permetta di porsi l’obiettivo, sia pure ideale e lontano nel tempo, di individuare una concezione politica condivisa da tutti.

Note

(*) Ringrazio Francesco Viola ed i due anonimi referees di questa rivista per il commento puntuale e le acute obiezioni ad una precedente versione di questo saggio. back

(1) Cfr. F. D’Agostino, G.F. Gaus, Introduction. Public Reason: Why, What and Can (and Should) It Be?, in F. D’Agostino, G.F. Gaus (edited by), Public Reason, Aldershot, Dartmouth, 1998, pp. xi-xxii. back

(2) L’origine filosofica dell’idea di ragione pubblica, tuttavia, si deve fare risalire proprio al periodo illuminista e, più in particolare, al pensiero di Immanuel Kant e Thomas Hobbes. Per una breve ricostruzione delle origini e dell’evoluzione della nozione di "ragione pubblica" mi permetto di rinviare a A. Schiavello, Ragione pubblica o ragione senza aggettivi? Riflessioni critiche sulla nozione rawlsiana di ragione pubblica, in G.L. Brena (a cura di), Etica pubblica e pluralismo, Padova, Editrice Il Messaggero, 2001. back

(3) J. Rawls, Liberalismo Politico, Milano, Edizioni di Comunità, 1994 (Political Liberalism, New York, Columbia University Press, 1993); cfr. anche J. Rawls, The Idea of Public Reason Revisited, "University of Chicago Law Review", 64, 1997, pp. 765-807. back

(4) Nel lessico rawlsiano, le teorie comprensive sono le dottrine filosofiche e religiose che esprimono una visione compiuta del mondo e del modo in cui bisogna vivere gli uni con gli altri. back

(5) Il problema della stabilità era comunque avvertito da Rawls già ai tempi di Una teoria della giustizia. Cfr. J. Rawls, Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 1989 (ed. riv.), cap. VIII, pp. 372-418 (A Theory of Justice, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1971). Sulla nozione rawlsiana di "dottrina ragionevole" si veda infra il paragrafo 2.1. back

(6) Rawls scrive: "Il liberalismo politico ritiene che l’insistenza sull’intera verità nelle questioni politiche sia incompatibile con la cittadinanza democratica e con l’idea di diritto legittimo". [J. Rawls, The Idea of Public Reason Revisited, cit., p. 771]. back

(7) J. Rawls, Liberalismo Politico, cit., p. 340, n. 2. back

(8) In breve, per Hobbes la ragione pubblica è una nozione eminentemente politica: essa si riduce alla presenza di un arbitro che ha il potere di stabilire chi ha torto e chi ha ragione. La ragione pubblica nel pensiero di Hobbes ricopre un ruolo politico o, comunque, pragmatico, nel senso che il suo unico obiettivo è quello di garantire la pace sociale. back

(9) A questo proposito, si veda, in particolare, F. Viola, Ragione pubblica e diritti umani, in Id., Etica e metaetica dei diritti umani, Torino, Giappichelli, 2000, pp. 159-174. back

(10) J. Rawls, Liberalismo Politico, cit., p. 183. back

(11) J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., pp. 412-418. back

(12) Sulla non coincidenza tra "eguaglianza" ed "identità" in sistemi non formalizzati, si veda P. Westen, Speaking of Equality. An Analysis of the Rhetorical Force of ‘Equality’ in Moral and Legal Discourse, Princeton, Princeton University Press, 1990; P. Comanducci, ‘Uguaglianza’: una proposta neo-illuminista, in P. Comanducci, R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto 1992, Torino, Giappichelli, 1992; A. Schiavello, Principio di eguaglianza: breve analisi a livello concettuale e filosofico-politico, "Ragion Pratica", 14, 2000. back

(13) Contra, J. Waldron, Religious Contributions in Public Deliberation, "San Diego Law Review", 30, 1993. back

(14) Cfr. per tutti M. Atienza, On The Reasonable in Law, "Ratio Juris", vol. 3, no. 1bis, 1990, pp. 148-61. Per molti versi, il ragionamento giuridico rappresenta un caso paradigmatico di esercizio della ragionevolezza. Infatti, lo scopo del diritto, almeno nelle società liberali, è, in ultima analisi, non tanto quello di imporre un modello di "vita buona", quanto quello di offrire un compromesso accettabile tra concezioni alternative dell’organizzazione delle relazioni sociali all’interno della società. Devo ringraziare Francesco Viola per avere richiamato la mia attenzione su questo punto. back

(15) Su questo si vedano ancora infra i paragrafi 3 e ss. back

(16) J. Rawls, Liberalismo Politico, cit., p. 186. back

(17) Per un’analisi più approfondita di questo punto si rimanda al paragrafo 4. back

(18) R. Dworkin, La Comunità liberale, "Teoria Politica", VI, n. 1, 1990, pp. 27-56 (Liberal Community, "California Law Review", 77, n. 3, 1989). Alcune differenze, qui tutto sommato trascurabili, tra la nozione rawlsiana di "ragione pubblica" e la nozione dworkiniana di "comunità liberale" possono rinvenirsi in A. Ferrara, Intendersi a Babele. Autenticità, phronesis e progetto della modernità, Messina, Rubbettino, in particolare alle pp. 48-51. back

(19) Per una presentazione esauriente della contrapposizione tra "liberali" e "comunitari" si veda S. Mulhall & A. Swift, Liberals & Communitarians, Oxford UK & Cambridge USA, Blackwell, 1992. Cfr. anche A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, Roma, Editori Riuniti, 1992. back

(20) Dworkin scrive: "Un’orchestra ha una vita collettiva non perché è ontologicamente più importante dei suoi membri, ma perché è certa delle loro capacità ed attitudini". [R. Dworkin, La Comunità liberale, cit., p. 42]. back

(21) J. Rawls, The Idea of Public Reason Revisited, cit., p. 801. back

(22) A questo riguardo, si veda anche la nota (13). back

(23) Cfr. J. Rawls, Liberalismo Politico, cit., pp. 342-343, n. 23. back

(24) Per una breve ma esaustiva presentazione della nozione dworkiniana di "integrità" si veda A. Calsamiglia, El concepto de integridad en Dworkin, "Doxa" 12, 1992. back

(25) Per un’analisi più approfondita della teoria dell’interpretazione di Dworkin mi permetto di rimandare a A. Schiavello, Diritto come integrità: incubo o nobile sogno? Saggio su Ronald Dworkin, Torino, Giappichelli, 1997. back

(26) R. Dworkin, I diritti presi sul serio, Bologna, Il Mulino, 1982, p. 90 (Taking Rights Seriously, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1977). back

(27) Cfr. J. Bell, Policy Arguments in Judicial Decision, Oxford, Clarendon Press, 1983, p. 211; K. Greenawalt, Policy, Rights, and Judicial Decision, "Georgia Law Review", vol. 11, n. 5, 1977, p. 994. back

(28) R. Guastini, Lezioni sul linguaggio giuridico, Torino, Giappichelli, 1985, pp. 160-161. back

(29) Si tratta di una distinzione meramente orientativa, in quanto, secondo Dworkin, non è possibile distinguere nettamente i casi facili dai casi difficili. Dworkin, a proposito della distinzione tra casi facili e casi difficili scrive: "[un giudice] non ha bisogno di un metodo per risolvere i casi difficili e di un altro per quelli facili. Il suo metodo si applica ugualmente ai casi facili, ma dal momento che le risposte alle domande che esso pone sono ovvie o almeno sembrano tali non ci rendiamo conto di applicare una teoria". [R. Dworkin, L’impero del diritto, Milano, Il Saggiatore, 1989, p. 328 (Law's Empire, London, Fontana Press, 1986)]. back

(30) Dworkin scrive: "Il diritto è, naturalmente, un fenomeno sociale. Tuttavia, la sua complessità, la sua funzione e le sue conseguenze dipendono da una caratteristica specifica della sua struttura. Al contrario di molti altri fenomeni sociali, la prassi giuridica possiede una natura argomentativa". [R. Dworkin, L’impero del diritto, cit., p. 18, corsivo dell’autore]. back

(31) R. Dworkin, L’impero del diritto, cit., p. 413; cfr. G.J. Postema, "Protestant" Interpretation and Social Practices, "Law and Philosophy", 6, 1987, pp. 283-319. back

(32) A. Gargani, Lo stupore e il caso, Roma-Bari, Laterza, 1985, pp. 25-40. back

(33) A. Gargani, ivi, p. 27. back

(34) Cfr., in particolare, R. Dworkin, Objectivity and Truth: You'd Better Believe It, "Philosophy & Public Affairs", 25, 1996, pp. 87-139. back

(35) J. Rawls, Liberalismo Politico, cit., p. 195. back

(36) Per una certa tradizione filosofica, che può farsi risalire al Wittgenstein di On Certainty, la distinzione tra "concetto" e "nozione" riveste invece un’importanza cruciale. Il concetto è infatti considerato come il punto di partenza semantico minimale condiviso da coloro che intendono elaborare una nozione. Quest’ultima è invece l’esito del processo di attribuzione di un significato compiuto ad un determinato concetto. Per un’analisi approfondita della distinzione tra "concetto", "concezione" e "nozione" si veda, ad esempio, V. Villa, Conoscenza giuridica e concetto di diritto positivo, Torino, Giappichelli, 1993, pp. 30-38, 135-139 e V. Villa, Costruttivismo e teorie del diritto, Torino, Giappichelli, 1999, pp. 9-35. back

(37) E’ interessante rilevare che negli Stati Uniti tale questione è stata affrontata prevalentemente per via giudiziale. Si vedano, ad esempio, le decisioni della Corte Suprema degli Stati Uniti Roe v. Wade, 410 U.S. 113 (1973) e Webster v. Reproductive Health Services, 492 U.S. 490 (1990). Cfr. R. Dworkin, Taking Rights Seriously in the Abortion Case, "Ratio Juris", Vol. 3 No. 1 March 1990; R. Dworkin, Il dominio della vita. Aborto, Eutanasia e libertà individuale, Milano, Edizioni di Comunità, 1994 (Life's Dominion. An Argument about Abortion and Euthanasia, London, HarperCollins Publishers, 1993). back

(38) Cfr. N. MacCormick, Legal Reasoning and Legal Theory, Oxford, Clarendon Press, 1978, p. 112; P. Comanducci, Principi giuridici e indeterminazione del diritto, in P. Comanducci e R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto 1997. Ricerche di giurisprudenza analitica, Torino, Giappichelli, 1998, pp. 55-68, ora in P. Comanducci, Assaggi di metaetica due, Torino, Giappichelli, 1998, pp. 81-95; R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, Milano, Giuffrè, 1998, pp. 228-231. back

(39) Cfr. rispettivamente J. Rawls, Liberalismo Politico, cit., p. 344 n. 32 e J. Rawls, The Idea of Public Reason Revisited, cit., p. 799; Ph. Quinn, Political Liberalisms and Their Exclusions of the Religious, "Proceedings and Addresses of the American Philosophical Association" 69, no. 2, 1995. Su questo punto si veda anche il prossimo paragrafo. back

(40) Rawls definisce "ampio" l’equilibrio riflessivo che ciascun individuo raggiunge dopo avere considerato tutte le concezioni alternative della giustizia e la forza degli argomenti che le sostengono. Ad esso si contrappone l’equilibrio riflessivo "ristretto", che rappresenta l’esito della ponderazione dei propri giudizi individuali. L’equilibrio riflessivo è "generale" quando c’è coincidenza tra gli equilibri riflessivi ampi di tutti i cittadini. Cfr. J. Rawls, Risposta a Jürgen Habermas, "MicroMega - Almanacco di filosofia 1996", pp. 61-62, n. 16 (Reply to Habermas, in Political Liberalism, cit.). back

(41) Habermas scrive: "Dato che i cittadini non possono comprendere la costituzione come un progetto, l’uso pubblico della ragione non ha realmente il senso di un esercizio "qui e ora" di autonomia politica, ma serve semplicemente a conservare la stabilità politica senza violenza". [J. Habermas, Per la critica del liberalismo politico di John Rawls, "MicroMega - Almanacco di filosofia 1996", pp. 26-50; la citazione è a p. 47, corsivi dell’autore (Reconciliation through the Public Use of Reason: Remarks on John Rawls’s Political Liberalism, "Journal of Philosophy", 3, 92, 1995)]. Cfr. E. Pariotti, Dal pluralismo al multiculturalismo: ragione pubblica e geometria delle appartenenze, in G.L. Brena (a cura di), Etica pubblica e pluralismo, cit. back

(42) J. Waldron, Religious Contributions in Public Deliberation, cit., p. 835. back

(43) Le ragioni dell’importanza di questo valore sono ben compendiate da questo breve passaggio tratto da On Liberty di Mill: "Ma impedire l’espressione di un’opinione è un crimine particolare, perché significa derubare la razza umana, i posteri altrettanto che i vivi, coloro che dall’opinione dissentono ancor più di chi la condivide: se l’opinione è giusta, sono privati dell’opportunità di passare dall’errore alla verità; se è sbagliata, perdono un beneficio quasi altrettanto grande, la percezione più chiara e viva della verità, fatta risaltare dal contrasto con l’errore". [J.S. Mill, Saggio sulla libertà (1859), trad. di S. Magistretti, Il Saggiatore, Milano 1981, pp. 20-21]. back

(44) Si veda il paragrafo 2.2. back

(45) J. Waldron, Religious Contributions in Public Deliberation, cit., p. 820. back

(46) Ivi, p. 826. back

(47) Ivi, p. 831 e ss. Waldron, in realtà, afferma, così come Rawls, di rifarsi alla concezione dworkiniana dell’interpretazione. Ritengo, tuttavia, pur non potendo entrare nel merito in questa sede, che egli banalizzi, e talvolta fraintenda, le tesi di Dworkin sull’interpretazione. back

(48) Cfr. T.A.O. Endicott, Vagueness and Legal Theory, "Legal Theory", 3, 1997, p. 39. Neil MacCormick a proposito della distinzione tra casi facili e casi difficili scrive: "E’ possibile immaginare uno spettro che ricomprende i casi giudiziari dal più semplice al più complicato: traversando tale spettro da una parte all’altra non è possibile stabilire, se non vagamente, qual è il punto a partire dal quale è ammissibile sollevare dubbi di "rilevanza", di "interpretazione" e di "classificazione" che legittimino il ricorso all’argomento consequenzialista e agli argomenti basati sui principi o sull’analogia". [N. MacCormick, Legal Reasoning and Legal Theory, cit., p. 198]. Peraltro, il fatto stesso che un caso venga presentato in giudizio costituisce un indizio da non sottovalutare a sostegno della tesi secondo cui non c’è una differenza qualitativa tra casi facili e casi difficili. Cfr. J. W. Harris, Legal Philosophies. Second Edition, London, Edinburgh, Dublin, Butterworths, 1997, p. 220; R. Guastini, Due esercizi di non-cognitivismo, in P. Comanducci e R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto 1999. Ricerche di giurisprudenza analitica, Torino, Giappichelli, 2000, p. 279. Per una difesa di una distinzione più netta tra casi facili e casi difficili si veda A. Marmor, Interpretation and Legal Theory, Oxford, Clarendon Press, 1992, pp. 124-154. back

(49) Su questo punto, si vedano le osservazioni sulla teoria dell’interpretazione di Dworkin contenute nel paragrafo 3.1. Per un’analisi più articolata, cfr., per tutti, N. MacCormick, Legal Reasoning and Legal Theory, cit. back

(50) Aristotele, Politica, Roma-Bari, Laterza, 1993, 1281b, p. 90. back

(51) J.S. Mill, Saggio sulla libertà, cit., p. 55. back

(52) J. Rawls, The Idea of Public Reason Revisited, cit., pp. 783-784. Cfr. J.P. Sterba, Reconciling Public Reason and Religious Values, "Social Theory and Practice", Spring 1999. back