Tempo e pena di morte
Un seminario triestino

Jacques Derrida

École des Hautes Études en Sciences Sociales - University of California, Irvine

 

Nota introduttiva di Raoul Kirchmayr

 

Da due anni, nel suo seminario all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e nelle sue lezioni presso la University of California, Irvine, Jacques Derrida è impegnato in un lavoro di decostruzione dei principi filosofici che fondano il discorso giuridico-politico sulla pena di morte. Il seminario di Parigi e Irvine ha per titolo Questioni di responsabilità. Il perdono, lo spergiuro e la pena di morte e in esso ciò che Derrida mette in luce è una stretta solidarietà tra filosofia e pena di morte che si è storicamente tradotta in una sistematica presa di posizione, da parte di questa o quella filosofia, a favore della pena di morte. E quando la filosofia ha cercato di opporsi alla pena di morte, in particolare con il discorso filosofico dell’Illuminismo, essa non è mai riuscita ad andare al di là di ragioni empiriche od utilitaristiche. Dunque essa non è mai riuscita ad intaccare il principio stesso della pena di morte come correlato dell concetto di sovranità, cioè del diritto di vita o di morte, da parte della massima istanza giuridico-politica, sul suddito o sul cittadino. Per questo, il discorso abolizionista che Derrida cerca di elaborare oggi in tema di pena di morte prova ad annodare l’istanza della ragione, della ragione calcolante e dei suoi principi, con l’istanza di un "al di là" della ragione in cui viene situata l’esigenza di responsabilità filosofica come tentativo di pensare secondo "un’altra ragione". È in virtù di questo doppio legame che il nodo porta il nome di Kant.

Durante il seminario parigino del 2000-2001, il confronto serrato con Kant è stato condotto mediante due principali riferimenti, che Derrida ha utilizzato come altrettante risorse della decostruzione del principio della pena di morte. Il primo è stato il riferimento alla psicoanalisi come discorso che mette in crisi il principio di responsabilità giuridica del soggetto come soggetto di diritto e soggetto "della ragione" e che prefigura, in un avvenire che in qualche modo fa già parte del nostro presente, una scena in cui la confessione sostituisce la pena e il castigo. A questo proposito Derrida ha preso in esame, analizzandone il contesto e la portata, due saggi di Theodor Reik, La pulsione a confessare e il bisogno di punizione e Il punto di vista di Freud sulla pena di morte.

Il secondo dei due riferimenti principali è stato a Il principio di ragione di Heidegger, mediante il quale Derrida ha mostrato la necessità a pensare un al di là della ragione come ragione calcolante, facendo intendere nelle argomentazioni kantiane sulla pena di morte sia la loro portata aporetica sia quell’altra tonalità del principio di ragione di cui Heidegger, appunto, si era messo all’ascolto. Per Derrida, è mettendosi sulle piste di quest’altra tonalità, quella del fondamento senza fondamento, dell’Abgrund, che si giunge nei pressi di quell’indecidibilità in cui consiste l’assunzione di responsabilità. E, pertanto, della responsabilità (in altri anni si sarebbe forse detto dell’impegno) verso la pena di morte. In breve, ancora una volta, Derrida mette al lavoro l’incrocio tra filosofia e psicanalisi e mostra, attraverso la sua pratica decostruttiva, come sia necessario utilizzare le risorse dell’una e dell’altra. In particolare per mostrare la portata equivoca dei due concetti di "crudeltà" e di "eccezione" che determinano il discorso giuridico-politico sulla pena di morte.

Il dibattito, come si vedrà, è stato marcato da un riferimento costante all’attualità, tanto nel discorso di Derrida quanto nelle domande dei presenti. In particolare, più volte l’accento è caduto sulla situazione americana, sul problema del rapporto tra opinione pubblica e politica, sulla campagna presidenziale negli Stati Uniti, che in quel momento era in corso.

Nella trascrizione del seminario si è fatta la scelta di mantenere tutte le caratteristiche dell’esposizione orale (Derrida infatti ha parlato "a braccio") tanto per il discorso quanto per il dibattito che è seguito.

Presentazione

di Pier Aldo Rovatti

La "presenza" di Jacques Derrida. Questa parola, "presenza", è per me sorprendente e credo che lo sia per molti, perché è come se ci fosse un salto. Questa "presenza", qui, c’è stata tante volte, in un altro modo, nel senso che in questo Dipartimento, fin dal tempo in cui vi insegnava l’amico Maurizio Ferraris, si sono tenuti dei seminari, dei corsi e il nome di Jacques Derrida è risuonato più volte in queste aule. Abbiamo tenuto un corso di introduzione al suo pensiero, qualche anno fa. E il Laboratorio di Filosofia Contemporanea, che promuove questa iniziativa, in qualche modo ha cominciato le sue attività nel segno di Derrida, con una discussione su Spettri di Marx, nel 1995. Quando poi lo scorso anno abbiamo organizzato una serie di conferenze e di discussioni attorno al tema "Che cosa significa ‘fare filosofia’"?, siamo partiti da una piccola frase presa da un testo di Derrida, Spéculer sur - "Freud". La frase riguardava il Fort/Da e il rapporto tra il Fort/Da e la scrittura.

L’elemento soprendente è che questa presenza ora, per così dire, si "materializza". Ed è come se dovessimo colmare uno scarto. La presenza ora è di un altro tipo. Io non dirò chi è Derrida. La sua presenza qui è sufficiente. È amato? Non è amato? In questa Università è abbastanza amato. Almeno so che ci sono alcuni che gli vogliono bene. Non tutti però gli vogliono bene. E forse nella discussione potremmo capire, aiutare a capire, aiutarci a capire perché.

Derrida farà un primo intervento sul tema, esso stesso soprendente, della pena di morte. Il tempo e la pena di morte, la pena di morte collegata al tempo. Il tempo è il tema di una ricerca che stiamo sviluppando da qualche anno, in varie sedi. Derrida ha tenuto un corso a Parigi, lo scorso anno, sul tema della pena di morte. Dopo l’intervento di Derrida daremo il via al dibattito. La parola a Jacques Derrida.

Tempo e pena di morte

Jacques Derrida

Grazie. Anzitutto vi chiedo di perdonarmi se mi rivolgo a voi nella mia lingua. E prima di cominciare vorrei ringraziarvi per essere venuti e ringraziare gli ospiti dell’Università: Maurizio Pagano e Pier Aldo Rovatti, che è, come sapete, un grande amico, un vecchio amico personale e nella filosofia, nel pensiero. Gli devo molto e voglio ringraziarlo pubblicamente, dal momento che non lo avevo mai fatto, presso di lui, a Trieste. Da molto tempo volevo venire a Trieste, perché ero stato invitato, perché Maurizio Ferraris e Pier Aldo Rovatti mi avevano invitato, ma anche perché Trieste è per me, benché non ci fossi mai venuto prima, una "memoria senza memoria": da molto tempo mi trovo a ricordare Trieste e venire qui è per me una grande emozione. Sono molto emozionato di essere qui, con voi e con il mio amico Pier Aldo.

Allora, il contratto era - Pier Aldo lo ha appena ricordato - che io non tenessi nessuna conferenza e che introducessi brevemente una discussione sul tema del tempo e della pena di morte. Dicevo prima a Pier Aldo che avevo dimenticato che il titolo fosse Tempo e pena di morte. Ma questo titolo va da sé. Spiegherò per quale ragione va da sé. Prima di cominciare, vorrei citare una domanda che spesso faccio ai miei studenti quando insegno sulla pena di morte (infatti ho cominciato questo corso un anno fa e continuerò quest’anno). Faccio la seguente domanda, che è una domanda sul tempo: "Supponete che vi sia data la scelta tra il morire per una causa qualsiasi (per una malattia, un incidente d’auto, ecc.) e il morire dopodomani, diciamo al più tardi tra dieci anni, perché siete condannati a morte dalla giustizia (la pena di morte è infatti un fenomeno legale, un fenomeno di Stato). Che cosa scegliereste? Preferireste morire di una morte non-legale, non-giuridica, "naturale", oppure molto più tardi perché siete condannati a morte?"

Vi faccio questa domanda perché è una domanda sul tempo. Ed è una valutazione eterogenea di una quantità omogenea di tempo. Il rapporto si riferisce al fatto che nel seminario che ho proposto lo scorso anno e che continuerò quest’anno sulla pena di morte il tema concerne il perdono e lo spergiuro. E anche qui c’è una questione di tempo: la correlazione tra la questione del perdono e la questione della pena di morte può essere immaginata molto facilmente. E cerco sempre di mostrare che il perdono, se ce n’è, deve perdonare non perché c’è del perdonabile, ma dell’imperdonabile. Se c’è perdono, il perdono deve perdonare l’imperdonabile. Ma evidentemente, quando la pena di morte è decisa, questo è anche un altro modo di dichiarare che un crimine è imperdonabile e che non ci sarà più nessuna revisione possibile. In quel momento, per l’appunto, è una questione di tempo, in cui il capo di Stato o il governatore, il re, non accorda la grazia, il perdono, e in cui il giudizio diventa assolutamente irreversibile. È un giudizio definitivo: non c’è più reversibilità o revisione possibile. Dunque, il rapporto con il tempo, nel perdono così come nella pena di morte, è assolutamente singolare.

Il seminario, che ho tenuto per diversi anni a Parigi, sul perdono, sul perdono e lo spergiuro, si era aperto in un modo abbastanza teatrale, con la comparsa di quattro figure, quattro personaggi di teatro, che erano quattro uomini, nessuna donna, quattro protestanti. Ed erano Hegel, del quale ascoltavamo la "voce off" (1) sulla questione del perdono, erano Nelson Mandela e Desmond Tutu, che, come sapete, avevano costituito alla fine dell’apartheid e con lo sviluppo di una nuova democrazia in Sud-Africa una Commissione Giustizia e Verità che costituisce in quella parte del mondo una scena di perdono e di pentimento. E poi c’era Clinton, attorno alla scena dello spergiuro, del perdono: il Presidente degli Stati Uniti come responsabile del diritto di grazia (Right to Clemency) ecc.

Avevo dunque aperto la scena dando la parola a questi quattro maschi protestanti dei tempi moderni. Ebbene, quest’anno accademico, alla fine dello scorso anno, aprendo il seminario sulla pena di morte, ho fatto comparire anche questa volta in modo un po’ teatrale quattro personaggi paradigmatici, quattro condannati a morte, che non erano protestanti ma semplicemente degli uomini. Costoro erano Socrate, naturalmente (condannato a morte, come sapete: dunque un greco più o meno pagano), Gesù Cristo (una specie di ebreo non ancora troppo cristiano), Al-Hallag (2) (un musulmano condannato a morte perché come Gesù Cristo aveva detto "Io sono la Verità") e poi Giovanna d’Arco, dunque questa volta una donna, cristiana.

In questi quattro casi, di cui avevamo analizzato il rispettivo contesto a partire da un certo numero di testi (in particolare il Vangelo, Platone, il Corano per Al-Hallag) abbiamo creduto di riconoscere una struttura generale nella storia della pena di morte. Cioè questa: nei quattro casi, che sono evidentemente dei casi "occidentali", molti diversi l’uno dall’altro, l’accusa era un’accusa di tipo religioso e rimproverava ai quattro accusati un’eresia o un peccato di tipo religioso. Nei quattro casi l’assunzione di responsabilità di tale accusati e soprattutto di tale condanna a morte non era semplicemente religiosa, ma politica e statuale. Era lo Stato, ad Atene, a Gerusalemme, nel mondo arabo o nel mondo francese o anglo-francese, ogni volta era lo Stato a giudicare e ad applicare la pena di morte. E abbiamo riconosciuto una struttura per così dire "teologico-politica" della pena di morte, in questi quattro casi. Contemporaneamente statuale e religiosa, teologico-politica. Ed evidentemente ciò non voleva dire, secondo le mie intenzioni, che noi sapessimo che cosa volesse dire "teologico-politico" e che applicassimo questa categoria alla pena di morte. Ma che si trattasse di interrogare il concetto di teologico-politico, la struttura del teologico-politico, seguendo il filo conduttore della pena di morte.

In altre parole, ogni volta che c’è pena di morte c’è del teologico-politico e ogni volta che c’è del teologico-politico c’è della pena di morte. Ed è questo filo conduttore che abbiamo seguito attraverso un gran numero di testi e di contesti differenti. È il compito che mi ero dato in quel seminario. Lo ricordo molto brevemente perché in mezz’ora non posso dire molto. Dovevamo leggere assieme, cosa che abbiamo fatto, dei testi canonici, testi di storia, di filosofia, di diritto, di storia delle religioni: abbiamo letto Platone, Beccaria, il grande campione dell’abolizionismo, un italiano che è opportuno salutare qui, Kant e Hegel e Nietzsche ecc. Abbiamo letto dei testi filosofici canonici, abbiamo letto molti testi di diritto, di storia del diritto e in particolare del diritto moderno, sulla trasformazione del diritto internazionale da diversi anni a questa parte, in particolare dalla fine della prima Guerra Mondiale.

E poi abbiamo letto i giornali. Che cosa vuol dire "i giornali"? Vuol dire seguire oggi la trasformazione della situazione quanto alla pena di morte. Ricordo qui dei fatti molto noti che abbiamo studiato nei loro tratti durante il seminario, ovvero che solo dieci anni fa c’era una maggioranza di nazioni nel mondo che sostenevano e applicavano la pena di morte, che volevano mantenere la pena di morte e che la applicavano. Oggi, e dopo dieci anni, c’è stata una trasformazione profonda e crescente - io penso irreversibile - della situazione internazionale a questo proposito. Oggi c’è solo una minoranza di Stati nel mondo che mantengono e praticano la pena di morte.

E in questa minoranza di Stati c’è una considerazione molto particolare che fa sì che in pratica tutti gli Stati europei, di cultura europea, di cultura filosofico-ebraico-cristiana, hanno abolito la pena di morte. E così molti altri Stati. E sapete che c’è nella Comunità Europea un obbligo legale ad abolire la pena di morte. Non si può entrare nella Comunità Europea senza avere abolito, prescritto la pena di morte. E tra tutti i tipi di Stati dalla cultura filosofico-ebraico-cristiana ecc. (quelle che sono chiamate "le democrazie occidentali") ce n’è uno solo, gli Stati Uniti (che rappresentano in qualche modo il modello della democrazia occidentale) che non soltanto mantengono la pena di morte, ma la applicano in modo frequente e sempre più frequente. Le cifre sono spaventose. Se seguite l’attuale campagna presidenziale (3), il "cinema elettorale" americano, constatate che i due candidati alla presidenza sono favorevoli alla pena di morte, tanto Gore quanto Bush. Bush è il grande campione dell’applicazione della pena di morte negli Stati Uniti. Il governatore del Texas è colui che ha rifiutato la grazia più di ogni altro nella storia degli Stati Uniti.

Dunque abbiamo prestato molta attenzione alla situazione americana. Statistiche in mano, abbiamo cercato di analizzare la storia della pena di morte negli Stati Uniti. C’è stata e c’è negli Stati Uniti una forma di abolizionismo. Naturalmente non è attualmente egemonica. C’è questo tratto particolare, che ci condurrà alla questione dei concetti essenziali del seminario, anzitutto a quello di sovranità: la storia della pena di morte negli Stati Uniti.

La storia moderna è la seguente. Nel 1972 la Corte Suprema degli Stati Uniti decretò che l’applicazione della pena di morte era in contraddizione con articoli della Costituzione, concernenti la discriminazione dei cittadini davanti alla giustizia e soprattutto quello che è definito nella Costituzione "unusual and cruel punishment": le pene insolite e crudeli sono escluse dalla Costituzione americana. E dunque la Corte Suprema, nel 1972, dichiarò che qualsiasi applicazione della pena di morte era in contraddizione con la Costituzione. Non condannò il principio della pena di morte, condannò la sua applicazione, le condizioni della sua applicazione. E la pena di morte venne sospesa. In effetti nessuno è stato più giustiziato tra il 1972 e il 1977.

Nel 1977 alcuni Stati degli Stati Uniti considerarono che l’applicazione della pena di morte per mezzo di quella che viene chiamata "letal injection", l’iniezione mortale, non fosse crudele, meno crudele della sedia elettrica, dell’impiccagione, della camera a gas, che sono dei modi ancora oggi legali per mettere a morte negli Stati Uniti. A partire da quella data si decise di ristabilire la pena di morte e la Corte Suprema seguì e confermò questa linea. Dal 1977 la pena di morte è dunque applicata in un gran numero di Stati, negli Stati Uniti, e in modo crescente.

Si tratta di spiegare, il che non è facile, perché ciò sia accaduto. Perché gli Stati Uniti siano la sola democrazia occidentale che non solo mantengono ma estendono e aggravano la pena di morte. E nell’attualità più scottante degli Stati Uniti tutti coloro che protestano contro la pena di morte non lo fanno per il principio, ma a causa di un certo numero di irregolarità, di errori giudiziari, di giudizi errati, per degli innocenti che sono condannati a morte.

Si è scoperto, ad esempio, vicino a Chicago, nello Stato dell’Illinois, che era innocente un grandissimo numero di condannati a morte che avevano trascorso degli anni nei "death rows", nelle ali di massima sicurezza, nelle ali dei condannati a morte. Ma non sono stati dei giuristi, sono stati dei giornalisti, dei professori di università a riaprire i dossier e a dimostrare che costoro erano innocenti. Il governatore dello Stato dell’Illinois ha sospeso l’applicazione della pena di morte l’anno scorso a causa di tali errori giudiziari. Ma non ha messo in questione il principio della pena di morte, dal momento che ne è un sostenitore.

La questione americana è evidentemente una questione grave e importante, e tale rimane. E se cito il caso americano, non è per il fatto che si tratti della maggiore eccezione in quella che viene detta la leadersphip mondiale e per il fatto che gli Stati Uniti siano con la Cina la più grande potenza a mantenere e applicare la pena di morte. Qui c’è un problema, che era al centro del seminario, e che conduce al di là della questione apparentemente limitata del diritto penale: anzitutto verso la questione della sovranità.

Ho già cercato di dimostrare che non è possibile separare il concetto di "pena capitale" dal concetto di sovranità e dalla storia di questo concetto (4). Di conseguenza, quello che abbiamo cercato di fare nel seminario è di delineare una storia, dunque una decostruzione, del concetto di sovranità statale. Sapete che questo concetto (lo dico in modo molto schematico e rapido) è un’eredità teologica. Il sovrano è anzitutto dio, poi è il monarca per diritto divino, che dispone di un potere assoluto e che, in particolare, può decidere della vita e della morte dei sudditi. Il sovrano è colui che ha potere di vita e di morte sui sudditi dello Stato nazionale. In seguito questo concetto teologico di sovranità è stato trasferito nelle democrazie, nel concetto di Stato nazionale. Questo vuol dire che il sovrano in quanto sovrano si vede conferire [dal popolo] il diritto alla sovranità. Rousseau a questo proposito è una cerniera molto interessante. Il diritto alla sovranità era in precedenza quello della persona del sovrano, cioè il principe o il re o dio. E ovunque questo concetto di sovranità è all’opera, non è possibile rimettere in questione la pena di morte. O, in ogni caso, si affida la decisione finale al sovrano che in una monarchia, ma anche in una repubblica , conserva il diritto alla grazia.

La questione del tempo è proprio qui. È il sovrano, in Francia sarebbe il Presidente della repubblica, negli Stati Uniti è il presidente della federazione o il governatore di ogni Stato, che fino all’ultimo secondo - non è vero? - ha il diritto di vita e di morte sul cittadino. Al di là delle leggi, in ogni caso. Una volta che il giudizio sia stato pronunciato da una corte competente, il sovrano ha il diritto, al di sopra delle leggi, di concionare o di interrompere il processo giuridico. È questa la questione della sovranità. Come sapete, la scena politica mondiale, la scena che viene chiamata "mondializzazione", attraversa una crisi, in ogni caso un sisma quanto alla sovranità e il concetto di sovranità è al centro di tutti i dibattiti sulla mondializzazione. Dunque, l’evoluzione attuale della pena di morte, le prese di posizione a proposito della pena di morte sono indissociabili da una filosofia politica che ha per oggetto la sovranità.

È sempre sotto pressioni estranee o esterne allo Stato che la pena di morte è stata abolita. Nel 1972, nel momento in cui la pena di morte è stata sospesa negli Stati Uniti, essa era in vigore in Francia. C’è un libro, ben noto ai Francesi, che si intitola L’exécution, scritto da Robert Badinter (5). Badinter era allora avvocato ed in seguito, nel 1981, con il governo Mitterrand, divenne Ministro della giustizia e fece abolire la pena di morte. Nel 1972, nel momento in cui stava perdendo un processo e uno dei suoi clienti stava per essere giustiziato, in attesa della sentenza della corte Badinter accende la radio e viene a sapere che negli Stati Uniti la pena di morte è appena stata sospesa. E si dice: "Se la giuria lo sapesse, forse potrebbe essere influenzata". La corte non fu di questo avviso e il suo cliente venne giustiziato.

Qualche anno dopo, nel 1981, la pena di morte viene ristabilita negli Stati Uniti e abolita in Francia, con il governo Mitterrand. Fu una decisione interessante da analizzare dal punto di vista del concetto della democrazia, perché in Francia l’abolizione della pena di morte fu votata dal Parlamento, eletto democraticamente. Ma in quel momento si sapeva che se i Francesi fossero stati interrogati con un referendum avrebbero mantenuto la pena di morte, come d’altronde farebbero oggi: è noto che se oggi in Francia fosse indetto un referendum, il risultato sarebbe a favore della reintroduzione della pena di morte. Dunque, il Parlamento, eletto democraticamente, votò contro l’opinione pubblica. E questo è un certo concetto di democrazia. Non solo perché c’erano al Parlamento dei deputati che riflettevano, come i deputati di destra che votarono con la sinistra per l’abolizione della pena di morte, e tra di essi in particolare l’attuale Presidente della Repubblica Chirac. Ma essi sapevano già (e fu un momento importante della scelta) che in Europa, attorno a loro, si stava facendo pressione. Un gran numero di Stati europei avevano abolito la pena di morte e facevano pressione affinché [la scelta francese confermasse la condizione per cui] qualsiasi paese che volesse entrare nella Comunità Europea abolisse la pena di morte. Il caso francese si determinò a partire da una riflessione politica ma anche sotto la pressione internazionale già esistente. E io tengo al fatto che un giorno sugli Stati Uniti si eserciti una pressione internazionale che faccia piegare la sovranità o la coscienza della sovranità dello Stato.

Abbiamo seguito una storia decostruttiva della sovranità. E questo era uno dei concetti che mi interessavano. L’altro concetto è quello di eccezione. Che cos’è l’eccezione? Non si può pensare la pena di morte senza porre la questione dell’eccezione. Perché? Ci sono due argomenti principali (ma ve ne sono altri). Il primo è che la sovranità stessa è definita come "diritto all’eccezione". È in questo modo che Carl Schmitt definisce la sovranità in Il concetto del politico. E non c’è sovranità senza sovrano, senza l’esistenza individuale del sovrano. Il sovrano è colui che è capace di eccezione, del caso di eccezione. In altre parole, sovranità vuol dire "diritto all’eccezione".

D’altra parte, oltre all’uso oscuro del concetto di eccezione (che cos’è un’eccezione? Che cosa non è un’eccezione?), ci sono tutti i testi di diritto internazionale, tutte le convenzioni, e ce ne sono molte, dopo la Seconda Guerra Mondiale, come la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e altre che non posso ricordare qui. Queste sono tutte convenzioni internazionali in cui, chiaramente, c’è una volontà e una forza egemonica dei grandi Stati europei e degli Stati Uniti in particolare. Tutte raccomandano l’abolizione delle "torture crudeli", ma anche l’abolizione della pena di morte senza eccezione. Eccezione che viene giudicata da ciascuno Stato. Ci sono molti testi, che non posso citare qui perché non ho molto tempo, molto interessanti e studiati in dettaglio, testi redatti da istanze internazionali che raccomandano l’abolizione della pena di morte salvo eccezione, salvo il caso in cui lo Stato deve giudicare in modo legale, accordando le garanzie agli accusati ecc. Parlando qui di eccezione si voleva appunto preservare, conservare indenne, la sovranità degli Stati. Queste dichiarazioni non volevano intervenire in seno alle competenze degli Stati nazionali. E gli Stati Uniti non volevano che queste dichiarazioni internazionali li privassero del loro diritto a uccidere, a uccidere il presunto criminale.

Il concetto di stato di eccezione è un concetto molto interessante, di cui abbiamo dovuto seguire la traccia nel seminario sulla pena di morte. E poi c’è un altro concetto che mi è servito, oltre ai concetti di sovranità e di eccezione, che è il concetto di crudeltà, concetto molto oscuro. Che cosa vuol dire "crudele"? E dove comincia la crudeltà? Alla scena della crudeltà non corrisponde nessun concetto rigoroso di crudeltà, in nessuno dei testi teorici e giuridici concernenti la pena di morte. Per esempio, nel testo della Costituzione Americana, la frase "unusual and cruel punishment" è decisiva per definire che cos’è crudele e fu a causa dell’oscurità di questa parola che si è ritenuto in alcuni Stati che la sedia elettrica fosse crudele e che la "letal injection" non lo fosse. D’altre parte i testi internazionali cui facevo allusione interdicono le "torture crudeli", senza chiedersi dove comincia la crudeltà, che cosa essa è fisicamente e psichicamente ecc. È un filo conduttore interessante già in Beccaria. Allora dobbiamo parlare di Beccaria, che è evidentemente un grande riferimento in questo dibattito. Beccaria nel suo grande testo Dei delitti e delle pene condanna la pena di morte non perché è crudele, perché è odiosa in sé, ma perché non è abbastanza crudele.

L’argomento di Beccaria è il seguente. Ci sono due modi di intepretare il castigo e la pena di morte: in principio la sanzione, che è molto vicina alla vendetta, per cui bisogna fare pagare "occhio per occhio, dente per dente" il criminale per il suo crimine, e in secondo luogo la dissuasione. Ebbene, per dissuadere il criminale o la società stessa a riprodurre il crimine la pena di morte non è efficace. La condanna all’ergastolo in una prigione è più efficace perché più crudele. E allora è in nome della crudeltà, di un sovrappiù di crudeltà, che Beccaria scarta la pena di morte e raccomanda il contrario: i lavori forzati a vita, la prigione, ecc. Abbiamo analizzato Beccaria da vicino. Bisogna fare attenzione perché il discorso è condivisibile, ma non è così chiaro. Allora abbiamo analizzato l’opposizione di Kant a Beccaria. L’argomento di Kant è molto interessante. Kant è qualcuno, a mio parere, che rappresenta in filosofia il punto di vista più rigoroso e più solido circa la pena di morte. Prima di spiegare perché, vorrei fare ancora un’osservazione rilevante, perché tutto quello che egli dice a questo proposito è rilevante: ciò che mi ha colpito, quando ho cominciato il seminario, e che continua a colpirmi è che non c’è nella storia della filosofia in quanto tale, non c’è un filosofo, un discorso filosofico in quanto tale che nella sua coesione, nella sua sintassi, nella sua sistematicità sia contro la pena di morte. Non c’è filosofo che abbia mai, in quanto filosofo, alzato la voce contro la pena di morte. Certo, ci sono e ci sono stati filosofi che in cuor loro erano contro. Sono sicuro che Sartre era in cuor suo contro la pena di morte, così come altri che non cito. Ma mai un filosofo ha elaborato un discorso filosofico contro la pena di morte. Beccaria non era un filosofo e il suo discorso non era un discorso filosofico. I discorsi contro la pena di morte sono sempre stati elaborati o dai giuristi o dai poeti, dagli scrittori: Victor Hugo, per esempio. Ma non tutti gli scrittori sono contro la pena di morte: ce ne sono altri che sono a favore.

È notevole che non ci sia discorso filosofico contro la pena di morte. È una grande questione. Per me è una grande questione. Che cosa significa che la filosofia in quanto tale non può rimettere in questione la pena di morte? Che complicità c’è tra la filosofia, da Platone a, mettiamo, Heidegger (non ho mai incontrato in Heidegger la più piccola parola contro la pena di morte)? Hegel, Husserl... Anche Rousseau è per la pena di morte, per quanto, in ogni caso, ci siano delle complicazioni nel discorso. Se leggete il Contratto sociale, al capitolo che concerne la pena di morte, per quanto complicato, il discorso filosofico è chiaro: Rousseau mantiene il principio della pena di morte. Dunque, la questione che è al fondo del seminario è il perché di questa complicità, di questa solidarietà, di questa alleanza tra la filosofia e la pena di morte. Perché questo discorso filosofico non può, in quanto tale, rimettere in questione la sovranità, il principio di sovranità, lo Stato, il diritto di vita e di morte sul soggetto, un certo rapporto tra la vita e la morte? E ciò che ha sollecitato la decostruzione - mi servo di questa parola in un modo un po’ rapido - è il fatto che la "decostruzione" del filosofico è una decostruzione dell’impalcatura della pena di morte. Cioé: decostruire il principio della pena di morte e decostruire la filosofia è la stessa cosa. E c’è nella lotta abolizionista qualcosa che è propriamente decostruttivo. Naturalmente nel seminario, pensando alla filosofia della pena di morte o alla filosofia come filosofia della pena di morte, non ho fiducia nel discorso abolizionista. Lo abbiamo analizzato, e mi sembra spesso condividere gli stessi presupposti del discorso filosofico a favore della pena di morte. In particolare, è il rapporto con il cristianesimo ad essere molto importante. È sempre in nome del cristianesimo che viene mantenuta la pena di morte ed è in nome del cristianesimo che si protesta contro la pena di morte. In Victor Hugo, per esempio, è in nome di certi comandamenti del Vangelo, cui si fa appello, che ci si oppone alla dottrina della Chiesa, che è sempre stata a favore della pena di morte. San Tommaso ne era un sostenitore e fino ad oggi la Chiesa cattolica in quanto tale non ha sostenuto la legge contro la pena di morte. Il Papa, recentemente, negli Stati Uniti, ha fatto una dichiarazione contro la pena di morte che impegna soltanto lui personalmente, ma che non impegna il Vaticano ufficialmente. Al contrario, ci sono mille prove che lungo tutto il corso della storia la Chiesa cristiana e in particolare la Chiesa cattolica è stata solidale con [il principio del] la pena di morte.

Abbiamo anche analizzato i presupposti del discorso abolizionista. E il progetto, se mai qui c’è un progetto, è di organizzare un discorso contro la pena di morte che non segua i presupposti filosofici dell’avversario. Allora, avevo preannunciato che avrei parlato di Kant e dell’opposizione di Kant a Beccaria. Per riassumere l’argomento kantiano in due parole, direi questo: per Kant un diritto, un sistema giuridico in cui non è inscritta almeno la possibilità del principio della pena di morte non è un sistema giuridico degno di questo nome. In altre parole, la dignità della vita, die Würdigkeit, la dignità dell’uomo, implica che l’uomo possa elevarsi al di sopra della vita, che rischi la propria vita, e che possa inscrivere nel diritto il rischio di perdere la propria vita. E se ciò non fosse inscritto nel diritto, il diritto non sarebbe diritto. In altre parole, bisogna meritare la pena di morte. Soltanto l’uomo, essere razionale, essere di ragione, soltanto l’uomo è degno della pena di morte. Ed è qui che si riconosce l’essere umano: la possibilità di elevarsi al di sopra della vita biologica e della vita patologica, se volete. Allora, se si guarda i testi da vicino, quelli di Kant e quelli di Rousseau, ci si accorge che è stato salvato il principio della pena di morte nell’organizzazione del discorso giuridico, ma che di fatto è impossibile applicare la pena di morte, di trovare un caso in cui il verdetto e l’applicazione della pena di morte siano giusti. Questo almeno in Kant. Non lo si può dimostrare qui, ma in ogni caso ciò che è interessante è che Kant critica Beccaria perché Beccaria pretende di screditare la pena di morte con un calcolo di mezzi e fini. La pena di morte non è un buon mezzo per dissuadere il criminale potenziale. E dunque c’è questo cattivo calcolo. Kant spiega che il calcolo qui non deve intervenire e che è un imperativo categorico l’inscrivere la pena di morte come principio nel diritto: non si tratta di un calcolo di mezzi e fini. In altre parole, la morale, in quanto ragione pura pratica, deve mantenere il principio della pena di morte nel discorso giuridico. Ed è molto difficile rimettere in questione questo luogo.

Badinter - che aveva pubblicato L’exécution nel 1972 - pochi mesi fa, in un altro libro che si intitola L’abolition, dove racconta la storia della lotta per l’abolizione della pena di morte, ha messo in esergo una frase di Beccaria. Badinter, che è un giurista, è un grande ammiratore di Beccaria: ha curato Beccaria in francese, ne ha scritto la prefazione, ecc. La frase è all’incirca questa: "Se riuscissi a eliminare la pena di morte e a mostrare che la pena di morte non è né utile né inefficace, farei fare un grande passo in avanti all’umanità". Questo che cosa significa? Che Beccaria considerava la pena di morte come un problema di fini e di mezzi, come un problema di utilità e di necessità. Non c’è per lui nessun problema di principio. Egli non era contro la pena di morte per principio, ma la considerava un cattivo affare, un cattivo calcolo, una cattiva strategia. Dunque, la società avrebbe dovuto prevedere amministrare la cosa differentemente. Quando Badinter sottoscrive quella frase, che mette in esergo al suo libro, segue la traccia, la filiazione di Beccaria. Ma questa linea non ha un senso filosofico, ma quello di un calcolo empirico.

È vero che dobbiamo fare attenzione al calcolo empirico. La mia sensazione (per andare molto velocemente) è che ovunque la pena di morte sia stata abolita, e particolarmente in Europa, non sono state avanzate ragioni di principio, per quanto la retorica lasciasse pensare il contrario. Lo si è fatto perché si ha la sensazione che la società civile dei paesi europei, dei paesi ricchi che fanno parte dell’Unione Europea, ecc. abbiano avuto accesso ad un modo di vita, a condizioni di pubblica sicurezza, morali, sociali, tali che di fatto non ci siano grandi minacce, e che si possa eliminare la pena di morte senza grande pericolo. Se il pericolo riapparisse, la pena di morte potrebbe essere ristabilita. Queste considerazioni empiriche hanno a mio avviso reso sospetto il discorso abolizionista, e non contraddicono la possibilità del ristabilimento della pena di morte. Perché? Perché al cuore di questo problema si presuppone una definizione di nemico pubblico. Rousseau, nel Contratto sociale, per giustificare la pena di morte dice che il criminale deve essere giustiziato perché rompe il contratto sociale e diventa un nemico pubblico. In altre parole, smette di essere un cittadino e diventa uno straniero, un traditore della nazione, della società, come un soldato straniero o un nemico straniero. Il che fa pensare che la questione della pena di morte, in quanto questione di vita e di morte, di uccidere o di non uccidere, è la questione di sapere se lo Stato ha oppure no il diritto di mettere a morte un cittadino del suo stesso Stato nazionale. E i paesi che hanno abolito la pena di morte, lo hanno fatto per i loro stessi cittadini, ma non hanno sospeso il diritto di uccidere in caso di guerra.

Dunque, l’abolizione della pena di morte non è l’abolizione del diritto di uccidere. Ma è l’abolizione del diritto di uccidere un cittadino con una condanna domestica, all’intero dello Stato nazionale stesso. Da cui la questione: che cos’è una guerra? Dove comincia la guerra? E come la questione della sovranità è molto inquietante e sismica, così lo è la questione della guerra: che cos’è la guerra oggi? Prima, nel vecchio diritto europeo di cui parla Schmitt, si sapeva che cosa fosse: uno Stato nazionale dichiarava guerra e c’era un diritto, un diritto delle genti, c’era una situazione di guerra. Oggi ci sono molte situazioni in cui non si può sapere se si ha a che fare con una guerra civile, una guerra nazionale o internazionale. Non si può sapere chi è il nemico, qual è il nemico interno e quale quello esterno. Ecco perché il riferimento a Carl Schmitt è sempre complicato e necessario, per analizzare la questione della pena di morte. La questione della guerra è dunque di sapere che cos’è una guerra oggi. È la questione del diritto internazionale, dei crimini di guerra, dei crimini contro l’umanità.

Oggi c’è una turbolenza del diritto internazionale. La creazione dei tribunali internazionali è evidentemente legata alla questione della pena di morte. Oggi, per esempio, si può pensare, tra gli altri, ai progetti in corso di insediamento di una Corte Penale Internazionale, destinata a giudicare per esempio i criminali di guerra. Mi sembra che sia evidente che se questa Corte un giorno potrà giudicare, applicare un giudizio, non potrà condannare a morte. In altre parole, c’è uno stato di fatto che è l’abolizione della pena di morte nel diritto internazionale, alla quale non si sottomettono gli Stati Uniti, la Cina e, occorre dirlo, un grandissimo numero di Stati mediorientali. Allora si presenta la questione di sapere perché nella cultura arabo-islamica la pena di morte è mantenuta molto più spesso che altrove.

Un’ultima annotazione prima di finire: uno dei tratti che ci hanno interessato nel seminario è la questione dello spazio pubblico e della visibilità. Sapete che Foucault, in Sorvegliare e punire, un libro molto prezioso per noi, che non è sulla pena di morte ma sulla punizione in generale, chirisce e dimostra in un certo modo l’evoluzione della punizione in Europa occidentale a partire dal XVIII secolo. Foucault mostra come si vada nel senso di una minore visibilità. Fino al XVI e al XVII secolo le punizioni erano pubbliche ed erano spettacoli, esibizioni di crudeltà, teatro. Foucault mostra come e perché la punizione sia stata in qualche modo dissimulata e despettacolarizzata. È vero: sono stati fatti molti passi in avanti in questo senso. Per esempio, Victor Hugo, grande militante contro la pena di morte nel XIX secolo, sottolinea come a Parigi la ghigliottina venisse spostata dal centro alla periferia. E dirà: "Voi volete nasconderla". Era infatti un movimento per dissimulare la punizione nell’invisibile. Non per renderla non-pubblica, perché la pena di morte resta pubblica. Pubblica ma non spettacolare.

Allora, tutto ciò è vero. Ma nel seminario ho cercato di contestare la portata della formula di Foucault, perché credo che, al contrario, ci sia stato un accrescimento della pubblicità, della spettacolarità. Il tipo di spettacolo, il tipo di visibilità è cambiato. Oggi, per esempio, come nel caso di una condanna a morte in Texas, via i mezzi di comunicazione virtuale, la televisione, la stampa, c’è infatti una grande pubblicità e una più grande spettacolarizzazione della pena di morte. Questo è un evento importante per la lotta contro la pena di morte e per la trasformazione della situazione. È qui la trasformazione della punizione e del campo della visibilità. Nel seminario abbiamo prestato attenzione al cinema. Nel cinema c’è una notevole produzione che fa del processo di condanna il tema principale, creando suspense: fino all’ultimo secondo si attende la telefonata del governatore, senza che si sappia se arriverà oppure no. E questo (se mi è permesso dirlo) capitalizza la visibilità, che è di gran lunga maggiore che nel XVIII o nel XIX secolo. A questo punto bisognerebbe complicare un po’ lo scenario e lo schema. Ma penso che mi posso fermare qui. Se volete, preciserò alcuni punti rispondendo alle vostre domande.

Dibattito

(P. A. Rovatti) Alcuni membri del Laboratorio hanno preparato alcune questioni da sottoporre a Derrida. Tuttavia il dibattito non è stato strutturato, per cui se c’è qualcuno che lo desidera, può prendere la parola.

(A. Arbo) Lei ha parlato di una doppia radice, teologica e politica, del principio di sovranità. Come si concilia, nel suo programma decostruttivo, questa doppia radice con la realtà della democrazia americana, dove la radice teologica scompare a vantaggio di quella politica?

- Lei crede che non ci sia una radice politica? Allora... Per seguire il senso di quello che Lei dice, apparentemente, naturalmente, ricorderei in effetti, in principio, che il potere politico americano, e in particolare lo Stato federale, è un potere che doveva essere separato dal potere religioso. E si ricorda questo fatto nel modo seguente: i leader politici, i governatori, il Capo dello Stato devono essere responsabili e non devono in nessun caso favorire questa o quella religione: in questo senso lo Stato non è religioso, perché c’è una separazione tra lo Stato e la Chiesa, come d’altronde in Francia per esempio. Separazione dello Stato da questa e da quell’altra Chiesa. In questo senso lo Stato non deve essere né cattolico, né ebraico, né protestante. Ma, ma... nondimeno, la struttura del potere politico dello Stato è religiosa da una parte all’altra, trough and trough, come si dice, e per ragioni molteplici.

Innanzitutto il Presidente. Infatti, il Presidente è sempre cristiano: non ci sono mai stati dei Presidenti né musulmani né ebrei. Per la prima volta c’è stato un candidato vice-presidente ebreo ortodosso e se n’è parlato molto. Ci sono stati candidati donne ma non candidati non-cristiani. Questo può essere considerato come un fatto sociologico. Ma non è semplicemente un fatto sociologico che il Presidente presti giuramento sulla Bibbia. Gli Stati Uniti sono l’unico paese al mondo, che io sappia, tra le democrazie occidentali, in cui il Presidente o il Capo dello Stato, in un discorso ufficiale, nomina Dio e benedice i cittadini o benedice lo Stato. Se in Francia, in un discorso pubblico, oggi, il Presidente in quanto Presidente della Repubblica pronunciasse la parola Dio la televisione esploderebbe, e ancora di più se benedicesse la Francia.

Dunque c’è una differenza, senza dubbio essenziale. La Costituzione americana è religiosa e lo è per essenza. Sociologicamente questo è ancora più vero. In effetti, nella cultura occidentale ci sono pochissime democrazie che, sociologicamente, sono più religiose della democrazia americana. E quando si cerca di spiegare la recrudescenza della pena di morte negli Stati Uniti - perché bisogna spiegare perché nel 1972 era stata sospesa ma non abolita e poi è stata ripresa nel 1977 in misura sempre crescente - una spiegazione, dal momento che ce ne sono molte, è un certo fondamentalismo, una certa influenza del fondamentalismo cristiano. E, sociologicamente, gli stessi che sono a favore dell’aborto, con il preteso che l’aborto è una condanna, una messa a morte, sono per la pena di morte. Bisogna spiegare questo. E spesso è nello stesso discorso fondamentalista cristiano che si trovano le due cose nello stesso tempo. Ci sono altre spiegazioni nella storia degli Stati Uniti per rendere conto di questo fenomeno molto singolare, di questa resistenza enorme, di questa tendenza massiccia che questo grande paese dimostra, molto più di altre democrazie occidentali.

Ciò si rifà alla storia degli Stati Uniti, e per esempio alla schiavitù. Sapete: se si guarda la carta degli Stati Uniti e quella delle esecuzioni, ci si accorge come ancor oggi la frontiera passi per la linea della Guerra di Secessione. La grande maggioranza dei condannati a morte sono dei neri, dei poveri neri, dei neri poveri. Ed è ancora un problema sociologico. Quando ho chiesto a dei miei amici americani come spiegano il fenomeno di recrudescenza dopo il 1977, alcuni tra essi hanno avanzato il seguente argomento, che è molto paradossale, ma interessante: paradossalmente è il progresso dei diritti civili, un certo relativo progresso dell’integrazione dei negri nella società che ha aumentato la sensazione di insicurezza, la paura, ed è a partire da questa paura che l’opinione pubblica è massicciamente per la pena di morte: tra il 60 e il 70%. E io credo che se non si analizzano le condizioni reali della società, le condizioni economiche, sociali, ecc., non si può rendere conto di quello che accade tra gli Stati Uniti e l’Europa, la differenza tra l’Europa e gli Stati Uniti.

Alla fine della Rivoluzione Francese, la Convenzione aveva pubblicato la frase seguente: "il giorno in cui la pace sarà stabilita, la pena di morte sarà abolita". "Il giorno in cui la pace sarà stabilita, la pena di morte sarà abolita". Ebbene, si può dire, speculando un poco, che con l’estensione della Rivoluzione - perché la Rivoluzione fu qualcosa da esportare, qualcosa di europeo - se un rivoluzionario avesse pensato che il giorno in cui la pace fosse stata stabilita in Europa, cioè fossero state stabilite le condizioni di pacificazione, di sicurezza, di tranquillità ecc., la pena di morte sarebbe stata abolita. Si può dire che due secoli dopo - e due secoli sono nulla, sono un secondo, nella storia dell’umanità -, in effetti dopo la Seconda Guerra Mondiale, i paesi belligeranti europei si sono riconciliati. L’Italia, la Germania, la Francia ecc. si sono riconciliati, c’è una relativa prosperità economica, una sicurezza, affinché ci si possa permettere, empiricamente, di abolire la pena di morte. E da questo punto di vista, il progresso e la predizione rivoluzionaria avevano una certa plausibilità.

(P. A. Rovatti) Io darei un breve diritto di replica a chi fa l’intervento. Lo vuoi usare?

(A. Arbo) Vorrei ringraziare per la risposta. Tuttavia, il problema resta quello di pensare la doppia radice politica e religiosa della sovranità...

- Ebbene... il politico, nella nostra cultura, a partire dalla Grecia, è legato allo Stato. Schmitt però dice in un qualche luogo de Il concetto del politico che essi non sono la stessa cosa: il politico non è lo statuale. Ma, nella misura in cui lo Stato rappresenta la forza privilegiata del politico, nella misura in cui il politico è lo statuale e che lo statuale è la sovranità - qui non c’è dissociazione - allora il politico è il religioso, il politico come lo pensiamo ancor oggi è per essenza religioso. Se si vuole cambiare il concetto di politico è questo il punto che bisogna toccare: il politico e il religioso.

(G. Leghissa) Vorrei intervenire sul nesso tra il teologico e il politico. Gli storici delle religioni sostengono che l’unico Stato interamente teocratico sia stato il Tibet, almeno fino al 1957. In Tibet non c’era la pena di morte. È ipotizzabile che l’oggetto privilegiato della decostruzione siano in questo caso i tre monoteismi in quanto tradizioni in cui questo nesso si presenta?

- Non sono sicuro di avere capito. Che ci possa essere un concetto del politico che non implichi il diritto alla pena di morte? Non sono competente sul Tibet...

- Si trattava di uno stato teocratico. Il Bodhisattva è incarnato ed allo stesso tempo è il Capo dello Stato. Non c’è sovranità come da noi...

- No, la sovranità non è semplicemente... Se la sovranità è teologica, ciò non vuol dire che ogni teologia sia legata alla sovranità, che ogni potere teocratico sia legato alla sovranità. Io sono partito dal concetto giuridico, giuridico-politico europeo di sovranità. Io parlo del concetto del politico di sovranità in Occidente e il concetto di sovranità, penso, implica sempre una radice, un modello teologico. Questo non vuol dire che ovunque c’è religione, potere religioso, ci sia sovranità in quel senso. Non so nel caso del Tibet... Bisognerebbe vedere da vicino se ciò va in questo senso. È il modo in cui Lei si serve della parola "sovranità"...

- La uso pensando alla possibilità di un’altra politica. È interessante che il buddismo sia una religione atea, senza teologia in senso monoteistico...

- Qui bisognerebbe avvicinare il problema del rapporto tra religione e teologia. È un grande problema. Se qualcuno lo vuole fare e vuole opporsi alla pena di morte, e di conseguenza vuole opporsi ad una certa configurazione del teologico-politico, lo fa in nome di una fede, di una religione, se vuole. È molto complicato.

Prendiamo il testo di Camus, per esempio, di cui non ho parlato. Camus aveva scritto nel 1957 le Riflessioni sulla pena capitale. Aveva pubblicato questo libro con Arthur Koestler. Koestler era contro la pena di morte in Inghilterra e Camus in Francia. E lo schema di Camus era il seguente: la pena di morte è pensabile e possibile solo là dove si suppone che Dio esista - da ciò deriva la religione - là dove c’è un al di là, là dove viene detto che la giustizia umana potrà essere corretta da un giudizio finale. Ma, al contrario, là dove Dio è morto e ci si ripiega verso un umanesimo, l’immanentismo umanista, la pena di morte non può resistere. E lui pensa che si andrà verso l’abolizione della pena di morte per mezzo della secolarizzazione, a causa della secolarizzazione. Io non credo al concetto di secolarizzazione. Credo che la secolarizzazione sia solo una modalità del discorso religioso, un momento e un concetto cristiano, evidentemente. In ogni caso, per Camus è questo: là dove c’è credenza in Dio, la pena di morte è sopportabile, è accettabile. Quando non c’è più Dio, la pena di morte non ha più tra gli uomini un senso ammissibile.

(P. A. Rovatti) Chi vuole intervenire? Graziella Berto...

(G. Berto) Io volevo partire dalla considerazione che Lei ha fatto in forma di domanda, chiedendosi come mai ci sia una sorta di complicità tra la filosofia e la pena di morte. Notavo questo: la pena di morte implica il venir meno dell’indeterminatezza del tempo della morte. Il condannare a morte è il voler calcolare, il decidere, lo stabilire il tempo della morte. Nello stesso tempo è anche la cancellazione della possibilità del perdono, del perdono come impossibile, visto che il condannato a morte è tale perché accusato di qualcosa di imperdonabile. Nella pena di morte c’è, per chi è condannato a morte, un venire meno del futuro, dell’avvenire dell’evento nel suo carattere stesso di impossibilità. Lei, in più luoghi, pensavo soprattutto a Donare il tempo, ci ha fatto vedere come ci sia una tendenza della ragione a "chiudere il circolo", una tendenza economica della ragione che tende proprio a cancellare il tempo, a calcolare il tempo e ad espellere l’evento, l’eccedenza. Io Le chiedevo questo: non sta forse qui la complicità tra la filosofia e la pena di morte? In qualche modo, se prevale questa follia della ragione come ragione economica, che vuole chiudere il circolo del dare e del rendere, non rischiamo di essere tutti come dei condannati a morte, cioè posti in un tempo che è calcolato, determinato, in cui viene meno anche quella dimensione della responsabilità che si sottrae a una dimensione calcolabile, prevedibile, anticipabile.

- [Derrida fa una pausa] Esito ancora. Qual è la Sua inquietudine? Comprendo l’argomento. Mi dica Lei se ho ben capito. Ciò che Lei sottolinea è che la filosofia, in quanto identificata ad una ragione calcolatrice, è a favore della pena di morte, perchè appunto la pena di morte è una maniera di arrestare l’evento, di sottomettere in qualche modo il tempo: so quando darò la morte. D’altronde bisogna dire che - ([a questo proposito] abbiamo studiato nel seminario anche dei testi di Nietzsche e di Freud) spesso il desiderio della pena di morte da parte dei giudici così come dei condannati, il desiderio della pena di morte, dell’esecuzione, è un desiderio di calcolo, di padronanza calcolatrice: voglio almeno sapere quando morirò. È il motivo per cui ho cominciato con la domanda: "se aveste la scelta di morire in un qualsiasi momento o di morire a una certa data per esecuzione, che cosa scegliereste?". Non è facile. La pena di morte è naturalmente un calcolo: è al servizio della ragione calcolatrice, della ragione giuridica come ragione calcolatrice. Occorre poter prendere una decisione che decida. Là dove c’è della decidibilità, c’è della pena di morte. È ciò che dice Kant. La ragione del potere dice: "giudicate e decidete" e, di conseguenza, "calcolate". Allora, a questa ragione calcolatrice alla quale si identifica spesso la filosofia, voglio opporre, distinguere un’altra ragione, un altro pensiero, che, più attento al tempo - che non è calcolabile - più attento all’evento - che può sempre arrivare - sospenderebbe appunto la pena di morte come si sospende un calcolo. Io non so se è questo ciò che Lei voleva dire o se era questa la Sua inquietudine...

- Le chiedevo se, come Lei mi ha confermato, questa solidarietà tra una concezione della ragione che è prevalsa nella filosofia...

- ...che è egemonica nella filosofia...

- ...quanto Lei pensa che oggi, alla nostra epoca, quella concezione della ragione o, meglio, della filosofia, che è liberazione dell’evento, dell’incalcolabile, possa prevalere o rischi di essere schiacciata dall’altra?

- Ciò che vorrei opporre (e non è facile) alla pena di morte e alla filosofia come responsabile della pena di morte, non è un pensiero irrazionalista, una mistica della vita, ecc. Non credo d’altronde che abolire la pena di morte consista nell’abolire la messa a morte. Anche se un giorno si abolirà la pena di morte, nel mondo intero si continuerà a uccidere. Credo che si continuerà a uccidere sempre, simbolicamente o realmente, senza passare per la legalità della pena di morte. Dunque, non voglio opporre una specie di mistica dell’evento o del tempo o della vita. Al contrario, voglio semplicemente opporre un altro pensiero razionale, un’altra razionalità che avrebbe anche una specie di dignità filosofica. Non è la filosofia di cui ho parlato poco fa. E non è neppure della non-filosofia. Non è in nome della non-filosofia che mi oppongo alla pena di morte. Cerco di mostrare come la filosofia stessa, nella sua passione calcolatrice, nella sua volontà di padronanza calcolatrice, si contraddica essa stessa, in continuazione, come essa sia dogmatica. È il motivo per cui ho scelto dei concetti che, loro stessi, non resistono all’analisi razionale: il concetto di crudeltà non resiste, il concetto di eccezione non resiste. Dunque, si tratta anche di opporsi filosoficamente a quella filosofia calcolatrice. E non è facile. Devo dirlo in modo molto netto: benché io sia affettivamente, passionalmente ecc. contro la pena di morte, non sono sicuro di avere un discorso filosoficamente consistente contro la pena di morte. Non ne sono sicuro. Mi batto contro la pena di morte ma il discorso, un discorso "consistant", come si dice in inglese, conseguente, contro la pena di morte non è, a mio avviso, maturo. Ne siamo alla ricerca, attraverso tutto ciò che oggi accade a proposito della sovranità e dello Stato. Allo stesso modo, non ho un discorso consistente contro lo Stato. Naturalmente sono per la contestazione di un certo statalismo, ma ci sono delle situazioni in cui sono per lo Stato, in quanto lo Stato è un potere, una forza che può opporsi ad altre forze contro le quali occorre lottare. Dunque, è molto complicato. Non so se c’è un discorso sicuro a questo proposito. Ne siamo alla ricerca.

(G. Nutarelli) Il Suo discorso ha fatto spesso appello a una questione di principio. Sia quando Lei ha parlato di attualità, a proposito degli Stati Uniti, dove un discorso di critica alla pena di morte viene fatto non per principio ma facendo leva nei processi su una certa innocenza del criminale, sia quando ha parlato di filosofi come Rousseau, Kant e lo stesso Beccaria, che critica la pena di morte non per una questione di principio ma per una questione di utilità. Io mi domandavo qual’è la portata del Suo discorso in relazione a quella che, a titolo di provocazione, Lei ha definito l’alleanza tra la filosofia e la pena di morte. Ho un dubbio circa l’attualità. Quando si è deciso di abolire la pena di morte o quando la si è riproposta, lo si è fatto anche grazie, forse, ai discorsi di Rousseau, Beccaria e Kant. Oggi, Le chiedo, un discorso che sappia mettere in discussione l’alleanza tra la filosofia e la pena di morte, quanto sarebbe ascoltato in sede politica e istituzionale, quando la politica è ridotta alla ricerca del consenso, come mostra il caso degli Stati Uniti, dove i due candidati alla Presidenza sono favorevoli alla pena di morte e molto attenti all’opinione pubblica? Il discorso decostruttivo può essere ascoltato, quando la politica è più attenta ai sondaggi che alla critica filosofica?

- Grazie. Allora... ci sono molte questioni virtuali nella Sua domanda. Comincio dalla fine. Recentemente ero negli Stati Uniti, dal momento che insegno anche negli Stati Uniti. A Chicago, durante un dibattito un poco simile a questo, un professore di diritto, un professore americano, mi ha detto: "Noi siamo in democrazia, negli Stati Uniti, e l’opinione pubblica è in maggioranza per la pena di morte. Di conseguenza, è democratico che i politici - in particolare il Presidente e i governatori - seguano l’opinione pubblica. È la legge della maggioranza e la democrazia". Allora io gli ho risposto che in primo luogo l’opinione pubblica non è un voto. In secondo luogo che il concetto di democrazia non è fondato solamente dalla volontà della maggioranza (anche se leggete Rousseau la volontà generale non è la maggioranza o la somma delle volontà particolari) e che c’è un funzionamento e un concetto di democrazia che non si deve regolare sull’opinione pubblica o sull’opinione della maggioranza. Esempio, che ho citato poco fa: quello che è accaduto in Francia e quello che accade ancora oggi, ovvero che il Parlamento, democraticamente eletto, vota una legge contro l’opinione pubblica. È un altro concetto di democrazia e del funzionamento della democrazia.

In quel momento, quando argomentavo con questo professore americano, gli ho detto: "Quando la Corte Suprema ha deciso di sospendere la pena di morte, mentre l’opinione pubblica era a favore, ciò è stato anti-democratico?". E lui mi ha risposto: "Sì, molti considerano, negli Stati Uniti, che l’istanza della Corte Suprema sia un’istanza anti-democratica". C’è un’opposizione alla Corte Suprema in nome della democrazia. Negli Stati Uniti c’è una contestazione a questo super-potere della Corte Suprema (mi riferisco alla Corte Suprema federale) che è naturalmente al di sopra delle Corti Supreme degli Stati, al di sopra dei governatori, al di sopra del Presidente. Si considera che non sia democratico. Dunque, ci sono diverse tradizioni democratiche che sono in concorrenza, diversi concetti e figure della democrazia.

Allora, quanto alla questione più generale che Lei pone, se c’è un’opposizione conseguente e decostruttrice circa la pena di morte, ho riconosciuto poco fa che ciò è molto difficile ed è molto lontano dall’accadere. Credo in primo luogo che occorra fare di tutto (argomento politico-empirico) affinché la situazione della società civile ,come nel caso dell’Europa, sia tale che gli Stati-nazione che la dirigono e la organizzano siano capaci di abolire la pena di morte. Occorre fare di tutto per creare questa situazione. Per esempio, negli Stati Uniti occorre fare di tutto per cambiare la società americana, per cambiare il rapporto tra i neri e i bianchi, cambiare la situazione economica affinché un giorno una situazione simile a quella europea permetta l’abolizione della pena di morte. Lottare, da questo punto di vista, è una lotta empirica. Ma, più profondamente, e questo non può essere che un lavoro di lungo respiro, molto difficile e molto sottile, occorre naturalmente interrogare l’assiomatica del diritto nazionale ed internazionale, là dove esso mette all’opera dei concetti decostruibili, cioè dei concetti come quelli di responsabilità cosciente, di io, di libertà, di intenzionalità ecc. che non sono ancora stati sfiorati dalla psicanalisi. E io credo che questa storia della pena di morte debba essere psicanalizzata. E si sa che, come qualsiasi castigo, la pena di morte non è destinata né a dissuadere né a sanzionare ma a fare delle operazioni inconsce di tipo sacrificale, in cui i principi di analisi si trovano nell’inconscio della politica. Credo che senza un riferimento ad un’altra logica, ad una logica dell’inconscio, dell’inconscio della politica, la pena di morte non verrà toccata.

Si dovrà distinguere, per esempio, in modo molto paziente, tra quella che viene chiamata la messa a morte effettiva di un individuo e il desiderio di pena di morte o il desiderio di morte. Il diritto può vietare un omicidio, un assassinio ("Tu non ucciderari"), un diritto abolizionista può vietare la pena di morte, ma un diritto allo stato attuale delle cose non può vietare il desiderio di uccidere. Non si può vietare a qualcuno di desiderare di uccidere, cosciamente o inconsciamente. Io posso desiderare di uccidere consciamente e nessuno mi imprigionerà per questo, se ho almeno tenuto a freno il mio desiderio, se ho il desiderio di uccidere qualcuno e poi non ne faccio nulla. Nessun criminale è mai stato perseguito per questo.

Non si può vietare il desiderio cosciente di morte e, per di più, non si può vietare il desiderio inconscio di morte o di pena di morte. Infatti ci sono delle società che sognano, cosciamente o inconsciamente, di mantenere la pena di morte là dove essa è stata abolita. Sono sicuro che in qualche paese europeo sono in molti a continuare a sognare la pena di morte, consciamente o inconsciamente. E quando è necessario trattare questo problema, bisogna far intervenire un’altra logica, un’altra analisi che prenda in conto i fantasmi, l’inconscio, Totem e tabù, il cannibalismo, la vendetta. Da questo punto di vista è necessario leggere Nietzsche, Freud e quel che segue. Ed è dalla parte di Nietzsche, di Freud e di quel che segue che sono tentato di cercare di elaborare un altro discorso. È cercando naturalmente di partire da questioni di tipo nietzschiano, di tipo freudiano, a proposito della vendetta, del castigo, dell’inconscio, della crudeltà - Nietzsche e Freud fanno tutto un discorso sulla crudeltà - della pulsione di morte, e cercando di articolare questo discorso con il discorso giuridico, politico-giuridico ufficiale, che si può poco a poco tentare di far cambiare le cose. E questo è un lavoro di lungo respiro, per il quale non nutro molte illusioni. Se si riesce, cambiando la situazione, ad abolire la pena di morte in senso corrente, ciò sarà un grande progresso. Ma resteranno ancora moltissime cose da fare...

(P. A. Rovatti) C’è un altro intervento...

- Un secondo, un secondo... chiedo scusa. Bisogna ricordarsi che la questione della pena di morte non è la questione "vita o morte". È una questione quanto al modo di uccidere. E se rileggete i dieci comandamenti ("Tu non ucciderai": imperativo categorico, vietato uccidere) ebbene, se continuate a leggere l’Esodo tre pagine dopo, Dio trasmette a Mosé quelli che sono chiamati "i giudizi" e gli dice: "Colui che maledirà suo padre e sua madre sarà punito con la morte". Subito dopo i dieci comandamenti c’è un’istutuzione della pena di morte. Si tratta di una questione semantica complicata. Non è lo stesso modo di uccidere. Ma Dio non ha affatto abolito il diritto di uccidere. Gli assassini vengono messi a morte. E nell’intervallo tra i due passi, si racconta che gli Ebrei sono presi dal panico e dicono a Mosé: "Non vogliamo sentir parlare Dio direttamente", "Non vogliamo più ascoltarlo", come se fossero terrorizzati dall’idea che Dio stesso, dopo avere detto "Tu non ucciderai" avesse istituito un diritto, una giurisdizione della pena di morte, ovvero che in questo o in quel caso verrà ucciso chi avrà trasgredito i dieci comandamenti. E là si trova appunto la radice teologico-giuridico-politica del diritto.

- (S. Crisafulli) Circa il desiderio della pena di morte, volevo chiedere se tale desiderio, come ha detto René Girard, è basato sulla questione del capro espiatorio, cioè sul fatto che la società ne abbia bisogno. E poi, secondo Lei, qual’è l’influenza dei mass-media su questo desiderio? E quanto effettivamente i mass-media vogliono influire su questo desiderio?

- Sì. Evidentemente i mass-media incoraggiano questa pulsione omicida. E dunque ci sono le due visibilità che i mass-media in qualche modo si disputano con quella questione della modalità della messa a morte che è la questione del sangue. Non ho parlato del sangue, a proposito della messa a morte. È indissociabile da una storia del sangue. Per lunghissimo tempo la messa a morte ha presupposto lo spargimento di sangue, la visibilità del sangue. La ghigliottina, per esempio, durante la Rivoluzione Francese, veniva presentata come un progresso, come qualcosa di egalitario, di rapido, senza dolore (Guillotine diceva: "Si avverte appena un leggero brivido sul collo"). La ghigliottina era ancora sanguinante. E tutti i testi di Victor Hugo contro la ghigliottina sono scritti in rosso, sul rosso, parla sempre del rosso, il rosso del sangue, i montanti della ghigliottina sono rossi. Il legno della ghigliottina era dipinto di rosso. Dunque, la visibilità della messa a morte poco per volta scompare. Con, appunto, la "letal injection" ci sono dei medici che sorvegliano una messa a morte apparentemente indolore ecc.

Prima di ritornare su questo punto, vorrei evocare quest’altra economia, quest’altro problema economico (parlo qui di economia nel senso psicanalitico) della messa a morte. Si potrebbe obiettare che in una società che ha bisogno di mettere a morte a causa della pulsione omicida, che ha bisogno di un capro espiatorio, come dice Girard, di un pharmakos, che ha bisogno di una vittima espiatoria per purificarsi, in tale società, là dove si è abolita la pena di morte e dove si vieta al contempo lo spettacolo e l’esperienza della messa a morte, si può vedere risorgere molti altri sintomi e la società può diventare violenta altrimenti. Dunque, si può immaginare che una società che si è data la pena di morte sia pacificata, psichicamente placata, mentre là dove la pena di morte viene soppressa possono riapparire, simbolicamente o realmente, altre forme di violenza e di criminalità. Alcuni medici, psicanalisti o sociologi dicono di fare attenzione nell’abolire la pena di morte, perché può essere ancora peggio di prima. Aumenterà la morte, la quantità di violenza nella società sarà maggiore, anche se essa prende altre strade.

A proposito dei media, volevo segnalarvi un film che ho visto negli Stati Uniti. È un documento interessante, che si intitola Mister Death, "Signor Morte". Questo documento, questo film, mostra un personaggio reale, un americano, che si spacciava per ingegnere e che è stato tra coloro che hanno promosso in qualche modo il sistema della "letal injection". Quest’uomo testimonia davanti alla telecamera in nome dei principi umanitari, afferma che la sedia elettrica era orribile, che la camera a gas era orribile, che l’impiccagione era orribile, e che la "letal injection" è molto più umana, che occorre immaginare la messa a morte ecc. Ci spiega tutto questo, ci mostra gli esperimenti che ha condotto, l’orrore della sedia elettrica, lui stesso si siede sulla sedia elettrica... Durante una mezz’ora, tre quarti d’ora, si vede un promotore umanista ed umanitario della "letal injection", che lui stesso fece brevettare perché lui stesso ne era il promotore industriale. E poi, ad un certo momento, taglio nel film e lo si vede mentre ci spiega che c’erano delle camere a gas come metodo di esecuzione (negli Stati Uniti ci sono la "letal injection", l’impiccagione, la sedia elettrica e la camera a gas, che esiste ancora in alcuni stati). Lui si era interessato alla camera a gas e si è chiesto se sotto il nazismo le camere a gas sono veramente esistite in Europa. Conduce una ricerca in Europa, va nei campi nazisti, fa una ricerca scientifica personale e conclude che non ci sono mai state camere a gas, che è stata una menzogna organizzata. Comincia a tenere dei discorsi revisionisti e diventa un campione della retorica revisionista. Tiene delle conferenze ovunque nel mondo per spiegare che le camere a gas non sono mai esistite. Nelle due parti del film si vede questo personaggio che da promotore della "letal injection"diviene in seguito un grande revisionista circa le camere a gas sotto il regime nazista. Alla fine lo si vede lamentarsi per il fatto di non aver ottenuto il titolo di ingegnere, di non aver ottenuto un impiego in un certo Stato dell’est [degli Stati Uniti]. L’ultima parola, nell’ultima scena - lo si vede in primo piano sullo schermo - è: "Sapete, si dice che io non sia ingegnere, ma su cento persone che dicono di esserlo negli Stati Uniti, novantacinque sono senza diploma". Questa è la storia di Mister Death. E qui si vedono le due pulsioni: la pulsione revisionista, concernente il nazismo, e la pulsione della "letal injection".

(M. Sbisà) Io ho l’impressione che la pena di morte sia un modo legale di "cancellare" un soggetto. Una filosofia che voglia opporsi alla pena di morte dovrebbe lavorare sulla nozione di soggettività...

- Forse....

- ...se la nozione di soggettività viene considerata non un dato ontologico, come lo è spesso - non da Lei ma da altri - ma come un prodotto dello stabilirsi etico e corretto di relazioni intersoggettive, allora diventa un valore da preservare. Si potrebbe stabilire allora un dovere di riconoscimento della soggettività dell’altro che necessariamente dovrebbe considerare immorale la pena di morte, da qualsiasi parte essa venga, compreso lo Stato. Volevo aggiungere una nota sulla teologia. Ho l’impressione che una teologia della predestinazione, che fa parte della cultura americana, sia particolarmente portata ad accettare la pena di morte. Chi ha commesso un crimine ne era predestinato e il suo destino è la morte. L’uomo e Dio, concordemente, condannano a morte il predestinato al male. Una teologia, se ci fosse, improntata ad una nozione di libertà, dovrebbe lasciare all’altro il tempo per cambiare. Che la Chiesa cattolica sia allineata - se lo sia stata o che forse lo sia tuttora, in parte - e favorevole alla pena di morte, secondo me dipende più dalle connivenze politiche e dalla struttura di potere parallela a quella dello Stato, nella storia della Chiesa, che da caratteristiche teologiche specifiche.

- È possibile ed è frequente che la Chiesa sia favorevole alla pena di morte a causa della prossimità allo Stato. Ma c’è un discorso - come quello di S. Tommaso d’Aquino - che pretende di giustificare punto di vista della fede e non dal punto di vista politico il principio della pena di morte. È un punto molto complicato. Credo che nel complesso Lei abbia ragione: in principio è l’alleanza tra la Chiesa e lo Stato a spiegare la politica della Chiesa a proposito della pena di morte. Quanto alla distinzione tra la libertà e la predestinazione, Lei sa che le correnti religiose che sostengono la pena di morte, in particolare negli Stati Uniti, non sono per forza cattoliche, ma sono anche protestanti. E, in quanto protestanti, molto spesso sono dalla parte di un pensiero della libertà, della coscienza libera, e non dalla parte della predestinazione. Bisognerebbe vedere... È appunto prendendo in conto quella che Lei chiama "libertà del soggetto" che si pretende di giustificare la pena di morte, e non a causa della predestinazione. Poiché il soggetto è soggetto liberamente e ha liberamente scelto di commettere un crimine, esso, in quanto soggetto libero, viene condannato. Per Kant è evidente che la dignità della pena di morte è data dal fatto che è un soggetto libero ad essere condannato. Dunque, predestinazione o libertà: non so. Ma il discorso sulla libertà del soggetto è l’assiomatica stessa del discorso a favore della pena di morte.

Allora - per venire alla Sua domanda - faccio fatica a seguirLa, e Le dico perché. Anzitutto perché non è necessario, per opporsi alla pena di morte, fare riferimento al soggetto. Tanto più che è in generale il concetto di soggetto, di soggettività, che è servito a quella ragione calcolatrice di cui parlavamo poco fa. Kant, è in nome del calcolo e del soggetto di diritto che giustifica la pena di morte. Di consesguenza, credo che il concetto di soggetto sia del tutto appropriato alla ragione calcolatrice. Il soggetto è un’unità identica a sé ed è precisamente là dove c’è soggetto come soggetto di diritto che c’è diritto nel senso kantiano in cui il diritto porta alla pena di morte. E credo che ci si possa opporre alla pena di morte in nome di qualcosa che non è il soggetto, in nome di un "chi" - se vuole - di un "altro", di un "sé" che non ha la forma soggettiva, la forma del soggetto nel senso stretto del termine. Credo che il concetto di soggetto - questa è una lunga storia - lungi dall’essere la condizione della responsabilità e della libertà sia, al contrario, l’abdicazione della responsabilità. Là dove c’è soggetto non c’è decisione, responsabilità e libertà. All’opposto, c’è del calcolo. E là dove c’è del calcolo, per l’appunto, c’è quella ragione di cui si parlava prima. Non si può riconoscere l’altro. Lei diceva della riconoscenza dell’altro. La prima condizione per riconoscere l’altro è decostruire l’autorità della soggettività nel senso di sostanza, di identità a sé ecc. E dunque sarei molto più prudente di Lei a mettere la logica del soggetto, della soggettività, dalla parte dell’abolizionismo. Per me è il contrario.

- Volevo dire che dobbiamo cambiare la concezione che abbiamo della soggettività...

- Certamente. Se Lei vuole cambiare...

- ...in un discorso... e quando Lei parlava dell’altro, quell’altro non è riconosciuto come una cosa, ma è qualcosa che ha autonomia, iniziativa, ecc. senza di che non definiamo un altro, ma un oggetto...

- Sono d’accordo, sono d’accordo. Ma non riconoscere l’altro come cosa non significa riconoscerlo come soggetto. Si sono altre possibilità. La questione non è "cosa o soggetto". Il soggetto non è molto lontano dalla cosa. Ma se Lei vuole trasformare il concetto di soggetto radicalmente, conservandone il nome, trasformare il concetto di soggetto così come è stato definito nella storia della filosofia, allora why not?

- Volevo dire, a proposito del punto di vista teologico, che se gli uomini hanno il dono della libertà, allora si dovrebbe dare a tutti la possibilità di cambiare e essere liberi...rivolgersi al futuro, non al passato...

- Certo. Ciò significa dare il tempo affinché si possa cambiare. Ma secondo questo principio, se, per rispettare la libertà dell’altro, dobbiamo sopprimere tutto ciò che incatena la libertà, allora dovremmo sopprimere la pena di morte e anche le prigioni ecc. E questo non è facile...

(P. A. Rovatti) C’è un intervento al centro della sala...

(C. Senigaglia) Lei ha sottolineato come sia stato il potere politico in Francia ad avere abolito la pena di morte, mentre l’opinione pubblica era favorevole. C’è forse una specie di ammirazione collettiva verso il criminale, verso colui che si è distinto nell’andare conto le leggi e le convenzioni di una certa società?

- Certo. C’è una specie di - come chiamarla? - ideologia, mitologia, religione, del criminale-eroe, dell’eroe che ha trasgredito le leggi. E per questo motivo che il criminale è spesso considerato come un eroe positivo. Un esempio: se Lei legge Jean Genet, Genet, nei suoi romanzi, in Le roman de la rose, in Notre Dame des fleurs, mostra come difatti i condannati a morte siamo dei santi, degli eroi, perché sono coloro che hanno non solo trasgredito la legge comune, ma sono anche coloro che hanno fatto apparire l’ingiustizia della legge. Il criminale è l’eccezione e la società vuole vendicarsi contro l’eccezione, in generale contro chiunque trasgredisca la legge comune. Naturalmente un’analisi antropologica porterebbe numerosi esempi alla situazione che Lei ha evocato, [esempi] in cui la società vuole sopprimere l’eccezione che interrompe la legge. Nel testo di Benjamin Zur Kritik der Gewalt (Sulla critica della violenza(6)), l’assassino è colui che ha il merito - se così si può dire - di aver violato la legge. È qualcuno che gode di prestigio, non è semplicemente qualcuno che ha fatto del male. È qualcuno che permette di pensare nello stesso tempo la contingenza, i limiti, la giustizia delle leggi.

Uno schema interessante a questo proposito - ed è per questo che considero il testo di Reik - dal punto di vista dell’antropologia e della psicanalisi, è quello che ha condotto a pensare il criminale, l’omicida, come qualcuno che non è scoraggiato dalla pena di morte e che si sente colpevole per avere ucciso, ma come qualcuno che uccid perché è schiacciato dal senso di colpa . In altre parole, la colpa è ciò che porta a uccidere. Il criminale è anzitutto qualcuno che soffre per un sentimento di colpa e che di conseguenza cerca in qualche modo la punizione, che cerca la pena di morte, proprio per dare al suo senso inconscio di colpa una sorta di attualità, di ragione: uccidendo potrà essere effettivamente colpevole e con il castigo, con il desiderio di castigo da espiare, potrà liberarsi in un certo modo della colpa inconscia. E, in quel momento, dice Freud e Reik dopo di lui, per una trasformazione a lungo termine del diritto di punire, si dovrà tenere conto del fatto che il criminale non è colpevole perché ha ucciso, ma uccide perché è colpevole. Il giorno in cui, scrive Reik, i criminologi e i giuristi lo capiranno, cominceranno a trasformare il diritto.

(P. A. Rovatti) Ancora due o tre domande, dopo di che chiuderemo il seminario.

(L. Odello) Volevo riferirmi alla nozione di soggetto come colui che deve militare contro la pena di morte. Se penso al mio interesse contro la pena di morte, l’interesse alla mia vita e a evitare che si metta fine alla mia finitudine, come faccio a privilegiare la mia vita, anche quando la penso come sempre abitata dall’altro e sempre espropriata? Le cose si complicano nel momento in cui mi pronuncio contro la pena di morte. Quando parlo contro la pena di morte, come faccio a non parlare in nome di un "proprio" della vita? Come faccio a non dire che, se non è giusto pensare la pena di morte come il proprio dell’uomo, come dice Kant, almeno la mia vita lo è? Tutto questo mi porta a chiederLe se si può pensare contro la pena di morte al di fuori di un modo cristiano. Come faccio a non postulare in questo caso una sopravvivenza?

- Grazie. Questa è una questione difficile. Non mi posso impegnare qui, nel tempo che mi rimane. Il concetto di sopravvivenza è molto complicato e non lo posso spiegare qui. Quello che posso dire, ad ogni modo, è che opporsi alla pena di morte non significa per me lottare contro la morte, contro la messa a morte o per la vita in generale. Si tratta oggi di militare, in modo limitato, contro un sistema giuridico, contro una scena giuridico-sociale, contro una società che stabilisce delle leggi e dei tribunali che fanno sì che in determinate condizioni dei criminali vengano uccisi. Credo che si possa militare contro questo scenario - che mi appare arcaico e barbaro - e mettere in questione la possibilità di uccidere, il desiderio di morte o di aggressione in generale, senza porre o "consacrare" la vita in generale. Credo che sia possibile farlo in un contesto molto limitato, contro una certa "stabilizzazione" giuridico-teatrale della messa a morte, quella che viene chiamata nel diritto la pena di morte. Le ragioni sono molto limitate.

- Però, come dice Montaigne, si tratta di mettere "alla prova" la propria vita...

- Certo. Anch’io credo che non si possa evitare di mettere in gioco la propria vita, totalmente o parzialmente, e neppure credo che si potrà limitare la messa a morte, l’omicidio, l’aggressività, simbolica o reale. Ciò non è possibile. Non mi faccio illusioni a questo proposito. Tutta la complessità del problema cui Lei si riferisce non ci impedisce di lottare in uno scenario molto limitato e che può essere oggi considerato come non indipensabile, come un modo barbaro e disgustoso, in ogni senso, anche in senso estetico. Trovo che la scena che consiste nel ghigliottinare, nell’organizzare le prigioni - perché c’è inoltre il problema delle prigioni-, nel far attendere un condannato a morte diciotto anni ecc., tutto questo scenario dipenda da una fantasmagoria teatrale sorpassata che può essere combattuta come tale. Senza farsi illusioni sulla complessità dei problemi che Lei ha sottolineato.

Ma, detto questo, Lei ha parlato di "mia vita" (7), di un proprio della vita, il fatto che nella mia vita ci sia anche l’altro, la vita dell’altro e che la mia vita sia un’espropriazione. Non posso evitare il calcolo. Voglio presentare due risposte, con alcuni riferimenti storici e politici Il primo è a Marx. Marx, un giorno, scrisse sul tema dell’abolizione della pena di morte durante la rivoluzione del 1848. In Francia, il governo rivoluzionario del 1848, per qualche mese soltanto, aveva abolito la pena di morte per ragioni politiche. E Marx ironizza dicendo: "Quei deputati hanno votato l’abolizione della pena di morte perché la temevano loro stessi e dunque per il loro stesso interesse a proteggersi". Dunque, per proteggere loro stessi. Chi milita contro la pena di morte lo fa anche per proprio interesse.

Secondo esempio: Baudelaire. Baudelaire, nel momento in cui si trova in Belgio, viene a sapere che Victor Hugo ha riunito a Parigi migliaia di militanti contro la pena di morte. E dice: "Vengo a sapre che ci sono migliaia di persone che manifestano contro la pena di morte: sono tante quante la meritano, perché temono per la loro stessa vita". Avevo evocato questo punto durante il mio seminario. In un certo senso, quando milito contro la pena di morte, milito per la mia propria vita (In questo momento ci sono pochissime possibilità di essere condannato a morte in Francia, tuttavia può accadere...).E quando dico che è alla mia vita che penso e a tutte le altre che sono incorporate in me, è perché parlo di una affermazione originaria per la mia vita. E perché preferisco la vita alla morte. Preferisco la vita alla morte. E preferisco la mia vita alla morte. È tutto. Non ho altre spiegazioni. E quando dico che non sopporto la messa a morte è perché in un certo modo penso a partire da un’affermazione originaria della vita. Penso che sia meglio per me, ora, vivere piuttosto che morire. Questo non vuol dire che non consideri che io sia mortale, che ci sia del lutto, della morte in me, ma è vero che preferisco il "sì" alla vita prima di un "sì" alla morte. E nel discorso che ho fatto in luglio agli Stati generali della psicanalisi, dove ho preso in esame il discorso di Freud sulla crudeltà, sulla pulsione di morte e sull’aggressività, ho suggerito che si dovesse pensare non solo un al di là del principio di piacere, il che vuol dire la pulsione di morte, ma anche un al di là dell’al di là della pulsione di morte, un "al di là dell’al di là". E questo "al di là dell’al di là" è ciò che chiamo "l’affermazione originaria della mia vita". La mia vita non è semplicemente la mia stessa vita di soggetto ecc., ma è ciò che vive in me, compresa la possibilità della mia morte, compreso il lutto originario a partire dal quale mi rapporto a me stesso, compresi tutti gli altri che vivono in me. E questo si articola nel mio discorso, che non posso riassumere qui, con un certo pensiero della traccia e della sopravvivenza. È in nome di questa sopravvivenza, di questa sopravvivenza nella vita, che parlo. Ma non lo posso giustificare.

(P. A. Rovatti) Derrida ha fatto riferimento adesso ad un discorso che ha tenuto agli Stati generali della psicanalisi e che è appena uscito in Francia con il titolo di Gli stati d’anima della psicanalisi.

(A. Agnelli) Vorrei intervenire intervenire a proposito della correlazione tra sovranità e pena di morte. Se ritorniamo ai primi teorici della sovranità - Bodin, I sei libri della Repubblica, Hobbes, De Cive - si parla sempre della natura umana e in essa ha grande importanza la violenza. Secondo Hobbes, il calcolo porta alla morte poiché non si ha diritto alla vita se non grazie al sovrano, che è colui che monopolizza la violenza. Egli è il monopolizzatore della violenza grazie al calcolo e questo calcolo comprende anche la pena di morte. Facciamo attenzione: c’è un eccezione, ma questa eccezione non è la pena di morte. Se un uomo è condannato a morte, egli ha il diritto di opporsi al sovrano. Comprendo come ci sia un ricorso allo stato di natura, ma io non vi vedrei -come alcuni interpreti - un primo diritto alla resistenza, al Widerstandsrecht contro la pena di morte. Si comincia con il calcolo e si prosegue con il calcolo. Lei appunto ha ricordato come il fondamento dell’argomentazione di Beccaria è il calcolo. Beccaria, ad esempio, è espressamente ricordato da Bentham, che vede in lui un precursore della filosofia utilitarista. Dobbiamo allora considerare lo sviluppo storico della ragione calcolante. Mi chiedo se c’è una continuità storica che porta alla scomparsa della pena di morte in alcuni Stati come legata alla trasformazione del potere sovrano. Mi chiedo cioè come questa linea storica, che è quella della ragione calcolante, conduca alla scomparsa dello scenario di cui Lei ha parlato.

- Grazie. Io comunque non ho detto nulla contro il calcolo. Occorre calcolare, specie da parte della sovranità e dello Stato. Sono d’accordo con Lei sul fatto che da una parte occorre calcolare per trasformare la situazione e che in Europa non è la fine della sovranità ciò che ha portato alla fine della pena di morte, poiché l’abolizione della pena di morte è la decisione di uno Stato sovrano. Ma, d’altra parte, non credo che la fine della pena di morte comporterà la fine della violenza. Non credo alla fine della violenza. Da questo punto di vista sono hobbesiano. C’è una tutta una tradizione, che chiaramente Lei conosce molto bene, che va da Hobbes a Schmitt. Schmitt diceva che coloro che pensano alla politica sono i pessimisti. Dunque, io non credo che l’abolizione della pena di morte sarà il ritorno ad un uomo buono e che porterà alla fine della violenza. Credo però che questa forma di violenza, questa organizzazione giuridica della violenza omicida, possa essere eliminata. Il fatto è che in Europa, per il momento, essa sia stata eliminata. Dunque, ciò è possibile. Ma questo non vuol dire che la violenza sia scomparsa in Europa o che la sovranità sia scomparsa. Dunque, occorre e si può calcolare, con la ragione calcolante, per creare delle situazioni in cui, in molto limitato, per poter mettere fine ad un certo meccanismo, ad un certo dispositivo penale, che noi, l’uomo cosiddetto civilizzato non può più sopportare. E questo deriva dalla storia della ragione pratica. Il sovrano, dal momento che monopolizza la violenza - lo Stato monopolizza la violenza - e naturalmente, in quanto monopolizzatore della violenza, conferma che la pena di morte è legata alla sovranità. Se il sovrano, o il Capo dello Stato, può naturalmente proteggere attraverso il diritto contro la pena di morte, egli può anche sospendere l’applicazione della pena di morte. E sempre in modo eccezionale. Schmitt, su questo punto, ha ragione.

Torniamo un istante a Kant. Kant, da qualche parte, esamina il diritto di grazia del sovrano e dice che è legittimo, ma a certe condizioni. Dice che il sovrano, o il re, deve detenere il diritto di grazia per tutti i crimini che lo prendono di mira personalmente. Quando il sovrano è preso di mira da un crimine o da un tentato omicidio, se lo vuole, può graziare. Ma non può avere diritto di grazia per dei crimini che non lo prendono di mira, perché in quel momento il diritto di grazia può essere ingiusto. Il sovrano lederebbe i diritti dei sudditi se accordasse la grazia per dei crimini che non lo avessero preso di mira lui stesso in quanto sovrano.E dunque Kant afferma che occorre limitare in modo estremamente rigoroso il diritto di grazia di un sovrano. Dunque è molto complicato, e non vorrei che il mio potesse apparire semplicemente come un discorso anarchico contro la sovranità, lo Stato e pure contro la ragione calcolatrice. Occorre calcolare, negoziare. È di una strategia complicata. Ma c’è lo spazio, oggi, per lottare contro la pena di morte. Questo non vuol dire che la violenza finirà. La messa a morte prenderà altre forme, continuerà, ma non prenderà più la forma dell’attesa di diciotto anni di prigione, di un apparato che porta il condannato al sonno e poi alla morte tramite delle iniezioni. Leggete i rapporti dei medici e degli esperti: sono terrificanti. La morte per "letal injection" è uno spettacolo orribile, assolutamente orribile. Ed una delle questioni che si presentano e di cui non ho parlato è quella che Blanchot chiama dell’istante della mia morte. Non si sa quando si muore. Nel calcolo della pena di morte si suppone di sapere qual è l’istante in cui si passa dalla vita alla morte. Ora, oggi non lo sappiamo. Ci sono mille modi per determinare quest’istante. Ho letto l’anno scorso i rapporti di alcuni biologi e genetisti americani, riuniti in un congresso, a proposito della morte. Essi dicevano che non ci sono dei criteri biologici e naturali per sapere qual è il momento in cui si muore. Ci sono delle interpretazioni di tutti i tipi, che variano da uno Stato all’altro. Di conseguenza, non si sa quando arriva la morte. E allora una delle ingenuità barbare della pena di morte è di supporre che si sappia quando qualcuno passi dalla vita alla morte. Non lo si sa. E c’è una frase, che mi piace citare, di uno degli scienziati americani partecipanti a quel congresso che ha detto: "Stiamo cercando di decostruire la morte". Ecco: decostruire la morte...

(P. A. Rovatti) È stata un’esperienza di dibattito senza retorica. Per concludere direi soltanto che ne avremmo ancora bisogno. Grazie.

 

Note

(1) Silenziosa, muta. back

(2) Al-Hallag ("il cardatore") è lo pseudonimo di Al-Husayn ibn Mansur (850-922). Persiano, mistico e asceta sufi, fu imprigionato dalle autorità religiose sciite per eresia, poiché pretese di "trovare Dio nel cuore". Dopo otto anni di carcere fu torturato, mutilato e decapitato. La tradizione vuole che fosse morto crocifisso. La sua predicazione è raccolta in opuscoli, poesie e detti. back

(3) Era al momento in corso la campagna elettorale per l’elezione del Presidente degli Stati Uniti d’America, che vedeva contrapposti il repubblicano George W. Bush, governatore del Texas e figlio dell’ex-presidente George Bush, e il democratico Al Gore, vicepresidente durante il doppio mandato di Bill Clinton. back

(4) Cfr. Force de loi, Paris, Galilée, 1994. back

(5) R. Badinter, L’exécution, Paris, Grasset Fasquelle, 1973; nuova ed., ivi, Le livre de poche, 1998. back

(6) In Angelus Novus, tr. it. di S. Solmi, Torino, Einaudi. back

(7) In italiano, nel discorso di Derrida. back

(Trascrizione, traduzione dal francese e cura di Raoul Kirchmayr)