Il regime degli uomini perfettamente virtuosi: aristocrazia e costituzione ottima nella Politica di Aristotele (*)

 

Paolo Accattino

Università del Piemonte Orientale - Dipartimento di Studi Umanistici 

 

 

C’è consenso unanime tra gli studiosi del pensiero etico-politico di Aristotele nel considerare il progetto di costituzione migliore esposto in Pol. VII-VIII come il maggiore elemento di continuità tra etica e politica (1). Benché in apertura di trattazione, si richiami esplicitamente solo ai "discorsi essoterici" (2), non v’è dubbio che la concezione della vita felice analizzata e proposta dall’etica costituisce il punto di partenza della ricerca del regime politico in grado di garantire appunto la felicità. Uno dei punti su cui invece le opinioni degli studiosi divergono riguarda la valutazione del tipo di costituzione qui proposta da Aristotele. Com’è noto, per tutto il corso dei due libri egli non identifica mai esplicitamente il regime che sta proponendo con nessuna delle forme di costituzione di cui ha parlato nei libri precedenti.

In questo saggio vorrei portare argomenti a sostegno della tesi che identifica il migliore regime politico in assoluto, e quindi anche il regime di Pol. VII-VIII, con l’aristocrazia e mostrare come, al di là delle apparenze, la presenza dell’aristocrazia nella riflessione politica dello Stagirita sia molto più ampia di quanto in genere lascino intendere studi anche autorevoli sulla Politica, timorosi, forse, di offrire un’immagine ‘aristocratica’ di Aristotele.

Delle sei forme di costituzione distinte in Pol. III 7, apparentemente l’aristocrazia non trova nella Politica una trattazione pari a quella che Aristotele dedica agli altri regimi politici. Come tutti sappiamo, al regno sono dedicati i capitoli finali del libro III; oligarchia e democrazia sono i regimi che la fanno da padrone nei libri centrali IV-VI, dove trovano altresì spazio le trattazioni della politía e della stessa tirannide (V 10 sgg.). All’aristocrazia – o, come meglio vedremo, alle varie forme di aristocrazia – è dedicato ex professo soltanto il breve cap. 7 del libro IV. Su questo capitolo dovremo ovviamente soffermarci. Per la mia analisi partirei invece da Pol. III 7, dove l’aristocrazia è il regime corretto in cui governano i pochi in vista dell’utile comune. Come i pochi che governano nell’oligarchia sono in realtà i ricchi e i molti che governano nella democrazia sono in realtà i poveri (cfr. III 8), così l’aristocrazia – precisa Aristotele – siamo soliti chiamarla in questo modo "o perché governano i migliori o perché vi governano in vista di ciò che è meglio per la città e per coloro che ne fanno parte" (cfr. 1279a 32 sgg.: kalein d’eiothamen … ten … ton oligon men pleionon d’henos aristokratian, e dia to tous aristous archein, e dia to pros to ariston tei polei kai tois koinonousin autes). L’aristocrazia è quindi in prima istanza il governo dei migliori per il meglio della città. Parlando subito dopo della politía (che è il regime in cui una pluralità governa in vista dell’utile comune) Aristotele osserva (1279a 39-40) che "è possibile che uno o pochi differiscano per virtù (kat’areten), mentre è ormai difficile che parecchi raggiungano la perfezione in ogni virtù (ekribosthai pros pasan areten)" – tutt’al più, prosegue Aristotele, la raggiungono nella virtù militare che è quella che si trova in un’ampia pluralità (en plethei), ragion per cui la politía è il regime in cui domina l’elemento militare e ne fanno parte coloro che sono in grado di procurarsi l’armamento oplitico. Quel che qui mi preme sottolineare è che Aristotele sembra suggerire che l’uno e i pochi che sono al governo nel regno e nella aristocrazia sono effettivamente i migliori che raggiungono la perfezione in ogni virtù. Aristotele stabilisce cioè una connessione tra aristocrazia e virtù completa che costituisce – come spero di mostrare – il filo rosso che lega la trattazione dell’aristocrazia con quella della migliore costituzione in assoluto.

Orbene proprio la virtù costituisce agli occhi di Aristotele il titolo in grado di accampare le pretese più valide nella gestione della città. Quando, a partire da III 9, egli passa al vaglio i titoli fatti valere a tale scopo nei vari regimi (la ricchezza da parte degli oligarchici, la libertà di condizione da parte dei democratici) mostra come questi titoli non sono così pertinenti come lo è invece la virtù, una volta rapportati al fine per cui esiste la città. Se la città avesse lo scopo di garantire le ricchezze, allora sarebbe giusta una partecipazione al governo in ragione del livello di ricchezza e allora avrebbero ragione gli oligarchici. Per altro la città non ha neanche lo scopo di garantire la semplice sopravvivenza, perché in tal caso potrebbe esistere una città fatta di schiavi o di animali, cosa che non si dà perché costoro non sono in grado di aver parte della felicità né di decidere della loro vita (cfr. 1280a 32-34). Per farla breve, lo scopo della città è la vita buona, l’eu zen. Quindi – argomenta Pol. 1280b 5 sgg. – "coloro che si preoccupano dell’eunomia concentrano l’attenzione sulla virtù e sulla malvagità politica per cui è pure chiaro che la città che meriti veramente questo nome e non sia tale solo a parole, deve prendersi cura della virtù, perché altrimenti la comunità politica diventa una alleanza, che differisce semplicemente per il luogo dalle altre alleanze, strette appunto tra alleati distanti e la legge diventa una convenzione e – come disse il sofista Licofrone – il garante dei reciproci diritti, ma incapace di rendere buoni e giusti i cittadini".

Aristotele non nega che lo scambio dei beni utili e la tutela reciproca siano alla base della convivenza civile, e quindi siano indispensabili all’esistenza della città; sono bensì le condizioni necessarie ma non sufficienti per poter parlare di una città vera e propria. Se lo scopo della città – come ribadisce in 1280b 40 sgg. – è il vivere bene, cioè il vivere felicemente, e se quindi la comunità politica è finalizzata alle "azioni belle" e non semplicemente al convivere, diventa allora facile risolvere il problema della legittimità più o meno grande che hanno i vari titoli rispetto alla gestione della città. "Pertanto – conclude in 1281a 4 sgg. – tutti coloro che portano i contributi più grandi (hosoi symballontai pleiston) nella comunità così qualificata, costoro hanno nella città una parte più grande (toutois tes poleos metesti pleion) di coloro che – eguali o superiori per libertà e nobiltà – sono diseguali per virtù politica (kata ten politiken areten) o di coloro che, superiori per ricchezza, sono inferiori per virtù (kat’areten)". Come si vede, al titolo virtù è accordata una superiorità relativa rispetto agli altri titoli (libertà, nobiltà, ricchezza) che contribuiscono al livello delle condizioni necessarie, ma non sufficienti, all’esistenza della città. Mi pare difficile negare che la soluzione qui adottata da Aristotele contenga una forte coloritura aristocratica e non dovremmo quindi stupirci di trovare venature aristocratiche, o direttamente l’aristocrazia, negli assetti costituzionali ai quali egli fa esplicito riferimento nel resto del libro III.

Ora, uno degli aspetti sconcertanti di Pol. III è sicuramente la grande distanza che separa gli esiti costituzionali qui prospettati da Aristotele come i suoi favoriti. In III 11 pare approvare un ordinamento costituzionale che prevede l’accesso congiunto al potere del plethos e dei pochi aristoi, dove i primi assumono decisioni politiche in seno ad organi istituzionali collegiali (il Consiglio, l’Assemblea, il Tribunale) e i secondi invece rivestono individualmente le cariche più importanti. Tanto il potere dei primi, quanto quello dei secondi è poi vincolato alla legge (cfr. 1282b 1 sgg.). L’altro esito costituzionale del libro III è quello prospettato nei capp. 13 e 17, dove viene teorizzato il potere assoluto, ossia svincolato da qualsiasi legge, di un individuo o di un gruppo di individui su altri uomini ai quali è negata qualsiasi partecipazione al potere. Senza dubbio si tratta di regimi politici lontanissimi tra loro. Se però si esamina un po’ più a fondo come Aristotele giustifica il primo e il secondo, ci si accorge che in entrambi i casi il titolo che fa decidere per l’uno o per l’altro esito è lo stesso ed è sempre ancora il titolo virtù. Si tratta, ovviamente, di vedere in che modo e in che misura sono virtuosi gli uomini coinvolti nell’uno o nell’altro esito costituzionale.

Nel caso della costituzione di III 11, Aristotele ha cura di precisare (1281b 15 sgg.) che si tratta di una soluzione che non vale forse per qualsiasi demos e per qualsiasi plethos, ma vale per quei liberi che, pur non essendo ricchi e pur non avendo una virtù particolarmente spiccata (cfr. 1281b 24-25: toioutoi d’eisin hosoi mete plousioi mete axioma echousin aretes mede hen), sono tuttavia in possesso di una parte di virtù. Si veda 1281a 42 sgg. : "è possibile che i molti, ciascuno dei quali non è un uomo eccellente (spoudaios aner), se riuniti insieme siano migliori di quelli [cioè degli aristoi di l. 40], beninteso non singolarmente ma collettivamente ... infatti essendo in molti, è possibile che ciascuno abbia una parte di virtù e di saggezza (morion echein aretes kai phroneseos) e che riuniti insieme diventino come un uomo quantitativamente uno, ma che abbia molti piedi, molte mani e molte percezioni e così anche in fatto di costumi e di raziocinio". La somma delle virtù parziali dei molti può quindi competere con la virtù presentata dai singoli spoudaioi. E allora il demos e gli aristoi si spartiscono il potere nel modo che abbiamo visto: i primi assumendo decisioni in seno ad organi collegiali, i secondi rivestendo le cariche singolarmente. Ma sia per gli uni che per gli altri l’attribuzione del potere è fondata sullo stesso titolo, la virtù, e la spartizione del potere avviene sulla base dei gradi diversi in cui lo stesso titolo è posseduto dai singoli uomini. La condizione per questo esito costituzionale è ovviamente che i diversi gradi di virtù siano tra loro omogenei per poter essere comparati.

Ora è proprio questa condizione, ossia la confrontabilità, che viene a mancare nel caso dell’attribuzione del potere assoluto a un individuo o a un gruppo, i quali esercitano questo potere su persone che ne restano totalmente escluse. Vediamo il testo di III 13, 1284a 3 sgg.: "Ma se c’è un individuo che eccella a tal punto per eccesso di virtù (kat’aretes hyperbolen), oppure se ce ne sono più d’uno, ma in numero insufficiente a costituire un’intera città, sì che né la virtù di tutti gli altri né le loro capacità politica sia confrontabile (symbleten) con quella di costoro, se sono più d’uno, né con quella di costui, se è uno solo, allora non bisogna più considerare costoro come parte della città. Se li si stimerà degni di un trattamento egualitario, subiranno un torto, visto che sono tanto diseguali per virtù e capacità politica. È verosimile che un individuo così qualificato si trovi nella stessa condizione di un dio tra gli uomini. Dal che è chiaro che anche la legislazione ha necessariamente a che fare con individui eguali per nascita e per capacità, mentre nei confronti di individui siffatti non c’è legge che valga, perché sono essi stessi la legge".

L’individuo, o il gruppo di individui eccezionali, non sono parte della città perché hanno un genere di virtù che non può essere messo a confronto con la virtù esibita dal resto degli uomini che formano la comunità. Essi non sono parte della città perché non sono omogenei col resto della città che è formata da uomini che esibiscono non gradi diversi della loro stessa virtù, bensì un genere diverso di virtù. È chiaro che le condizioni che Aristotele richiede per giustificare il potere assoluto di un solo individuo o di un gruppo di individui su una intera comunità sono molto costose e non è escluso che, nel dettare queste condizioni, volesse opporsi polemicamente alle condizioni in cui Platone nel Politico attribuisce il potere assoluto al suo "uomo regale". Non arriverei però a sostenere che questo esito costituzionale costituisca agli occhi di Aristotele il caso limite, di fatto irrealizzabile. È vero che egli tende a presentare il regno come un regime che appartiene al passato, ma non mi pare che lo stesso valga per l’aristocrazia, che è appunto la subordinata presa in considerazione da Aristotele, ossia il caso di un gruppo di più individui che non sia omogeneo con il resto della città.

Se è vero che costoro non sono omogenei coi loro sottoposti è però altrettanto vero che sono omogenei tra loro. In III 15, dove sembra volere relegare il regno tra i regimi del passato, troviamo un’affermazione di questo tipo: 1286b 3 sgg. "se quindi il potere di più uomini che siano tutti buoni si deve considerare aristocrazia e quello di uno solo regno, per le città l’aristocrazia sarà preferibile al regno ... laddove sia possibile disporre di più uomini simili" (3). "Uomini simili per natura – ricorda in III 16, 1287a 12 sgg. – hanno necessariamente lo stesso diritto e lo stesso merito secondo natura, cosicché se è dannoso per i corpi che coloro che sono diseguali abbiano lo stesso cibo e lo stesso vestito, lo stesso vale anche per le cariche politiche. Quindi è altrettanto dannoso che gli eguali abbiano un trattamento diseguale. Ragion per cui è giusto che essi non governino più di quanto siano governati e che quindi si avvicendino al potere nella stessa misura. Ma questo è ormai una legge, perché l’ordinamento è una legge".

Come si vede, se il gruppo dei virtuosi non è vincolato a leggi nei confronti di coloro che sono sempre e solo sottoposti è invece vincolato a regole al proprio interno, in primo luogo alla regola che impone la spartizione del potere tra eguali. Ciò permette di sfatare il luogo comune secondo il quale quando Aristotele parla di avvicendamento nella gestione del potere escluda automaticamente una soluzione di tipo aristocratico. A me non pare che egli veda una incompatibilità tra le due cose. Gli aristoi che sono al potere in un’aristocrazia, essendo tra loro eguali, possono e debbono avvicendarsi al potere. Il potere risulta quindi spartito tra di loro, ma non risulta mai spartito coi sottoposti che non condividono il loro stesso genere di virtù. Come un’oligarchia in cui i ricchi si avvicendano al potere (cfr. V 8, 1308a 3-16) resta sempre un’oligarchia, così un’aristocrazia resta tale se gli aristoi si avvicendano al potere. Questo è un elemento di cui dovremo tenere conto per individuare il tipo di regime politico proposto nei libri VII-VIII come costituzione ottima.

Dei due esiti costituzionali prospettati nel libro III, il regime di III 11 non è mai presentato da Aristotele come una ariste politeia, una costituzione ottima. È semmai un progetto che ricalca l’assetto soloniano, nel quale riconosce in II 12, 1273b 35-1274a 21 una forma di costituzione mista (cfr. b 39) e quindi semmai un tipo di costituzione che le analisi di Pol. IV ricondurrebbero in seno alla costituzione migliore nelle condizioni date, ma non certo in seno alla costituzione migliore in assoluto. Il secondo esito costituzionale di III, ossia il governo di un individuo o di un gruppo di virtuosi che non spartiscono mai il potere con i sottoposti, è invece assimilato alla costituzione ottima (ariste politeia) nel capitolo finale del libro III. Leggiamo il testo di III 18.

"Siccome sosteniamo che le costituzioni corrette (orthas politeias) sono tre e che è necessario che tra queste migliore sia quella amministrata dai migliori (touton d’anankaion aristen einai ten hypo ton ariston oikonomoumenen) e che tale è quella in cui avviene che uno (hena) o un’intera casata (genos holon) o una pluralità di individui (plethos) sia superiore per virtù (kat’areten) rispetto a tutti gli altri, dove questi sono in grado di essere governati e i primi di governare in vista della vita che più è degna di essere scelta – ma nei precedenti discorsi si è mostrato che è necessario che le virtù dell’uomo e del cittadino della città migliore si identifichino – è chiaro allora che il modo e i mezzi con i quali un uomo diventa eccellente sono gli stessi con cui si può mettere in piedi una città governata ad aristocrazia o a regno (polin … aristokratoumenen e basileuomenen), cosicché anche l’educazione e le abitudini che faranno l’uomo virtuoso (spoudaion) saranno pressoché le stesse che formeranno il politico e il re".

Senza dubbio il ragionamento di Aristotele in questo passo non è immediatamente perspicuo (4); egli parte dalla distinzione delle tre costituzioni rette di III 7, ricordate anche nel precedente cap. 17, ossia regno, aristocrazia e politía, per dire che la migliore tra queste tre – e noi pensiamo subito che egli debba far riferimento a una e a una sola costituzione – sarà quella amministrata dai migliori. Ma Aristotele non qualifica questa costituzione con un nome proprio e per di più questa costituzione assume subito tre forme a seconda della consistenza numerica di coloro che eccellono in virtù sui rispettivi resti. Quando poi assegna nomi propri alle forme del regime migliore, parla soltanto di aristocrazia e regno: le tre forme sono diventate due e hanno i nomi di due delle tre costituzioni rette.

Vediamo di dare una spiegazione a questo testo abbastanza bizzarro. Quando Aristotele sceglie la costituzione migliore tra le tre costituzioni rette, non le assegna un nome proprio, ma ricorre a una locuzione: ten hypo ton ariston oikonomoumenen. Di fatto la scelta cade sull’aristocrazia intesa nel senso etimologico del termine come "il governo dei migliori". Il ricorso in prima istanza alla locuzione invece che al nome proprio permette in primo luogo di non legare la costituzione migliore a nessuno dei regimi storici che si definiscono aristocrazie (e vedremo che Aristotele stesso parla nel libro IV delle aristocrazie storiche), bensì soltanto alla costituzione in cui il potere sia in mano a uomini effettivamente virtuosi; il ricorso alla locuzione gli permette inoltre di non identificare direttamente la miglior costituzione con il regime dei pochi: la costituzione ottima è innanzi tutto caratterizzata dal governo dei migliori, l’accesso al potere è basato sulla sola superiorità nel campo della virtù (5). Senonché a questa condizione possono rispondere diverse soluzioni a seconda del numero di uomini eccellenti che è possibile reperire nella città. Esse vanno dal caso in cui chi eccelle per virtù è uno solo, al caso in cui a eccellere sono pochi, al caso in cui i virtuosi sono un plethos. Il criterio del numero, che è alla base della distinzione delle tre costituzioni rette, compare qui in posizione subordinata rispetto alla discriminante primaria costituita dall’unico titolo che legittima l’accesso al potere, ossia la virtù. Non c’è dubbio che le soluzioni qui prospettate da Aristotele per la costituzione migliore siano tre, ma la terza soluzione non ha nulla a che vedere con la politía: si tratta semplicemente di uno dei casi possibili di città governata dai migliori. Quando il migliore è uno solo la città è basileuomene (retta a regno) – quindi il regno non solo è una forma di costituzione corretta ma è anche una forma di costituzione ottima. Quando poi i migliori sono più d’uno la città è aristokratoumene, e – contrariamente a quanto affermato in III 7 – Aristotele sostiene qui che i virtuosi possono anche essere un plethos. In ultima analisi la ariste politeia si identifica con la aristocrazia nel senso etimologico del termine; regno e aristocrazia, come nomi propri, servono soltanto a distinguere il caso in cui al potere è un solo virtuoso dal caso in cui i virtuosi sono più d’uno.

Non so come qualcuno abbia potuto dubitare dell’autenticità di Pol. III 18 proprio sulla base del "tono aristocratico" (6) che senza dubbio vi risuona, quando queste stesse tesi Aristotele le ribadisce in Pol. IV, in passi che ora dovremo esaminare e che sono sistematicamente ignorati da quanti non vogliono riconoscere il carattere aristocratico del progetto di miglior costituzione in assoluto di Aristotele. Ma forse a questo punto conviene chiarire prima alcune cose. Come è noto, uno dei punti forti che compaiono in quell’ampia trattazione metodologica che funge da introduzione non solo del libro IV, ma dell’intero blocco dei libri centrali della Politica (IV-VI) è la distinzione tra la ricerca della miglior costituzione in assoluto (1288b 26: haplos) che è quella che "potrebbe rispondere ai nostri migliori auspici ove nessuna delle circostanze esterne sia di intralcio (1288b 23-24: poia tis an ousa malist’eie kath’euchen medenos empodizontos ton ektos)" e la ricerca della costituzione migliore a partire dalle condizioni date (1288b 26: ten ek ton hypokeimenon aristen). Sempre in IV 1 Aristotele polemizza contro coloro che indirizzano le loro ricerche esclusivamente sulla "costituzione più eccelsa e che richiede abbondanti mezzi (1288b 39-40)" e certamente nelle ricerche che occupano i libri centrali il modello di costituzione migliore in assoluto è abbandonato ed è l’indagine della costituzione migliore nelle condizioni date a balzare in primo piano. Non posso ovviamente affrontare in questa sede il complesso problema di quali siano o di quale sia la migliore costituzione realizzabile nelle condizioni date. Dirò soltanto – consapevole del rischio di essere molto impreciso – che si tratta di un progetto che va piuttosto nel senso dell’assetto costituzionale di Pol. III 11 (7).

Ma se Aristotele nei libri centrali della Politica non ritiene più praticabile una ricerca sulla miglior costituzione in assoluto, non per questo ha cambiato idea su quale essa sia. Leggiamo l’inizio di IV 2, 1289a 26 sgg. : "Siccome nella prima indagine sulle costituzioni abbiamo distinto le tre costituzioni corrette (regno, aristocrazia e politía) e le tre degenerazioni di queste (tirannide del regno, oligarchia dell’aristocrazia, democrazia della politía) e siccome di aristocrazia e regno si è parlato, perché indagare sulla costituzione ottima equivale a parlare di questi due nomi (to gar peri tes aristes politeias theoresai tauto kai peri touton estin eipein ton onomaton) sia l’una che l’altro intendono infatti fondarsi sulla virtù ben equipaggiata di mezzi (bouletai gar hekatera kat’areten synestanai kechoregemenen); in che cosa poi differiscano tra loro aristocrazia e regno e quando bisogna ritenere che si tratta di un regno lo abbiamo precisato in precedenza, ci resta ora da trattare di quella che viene chiamata col nome comune politía etc. etc."

Esattamente come in Pol. III 18, anche qui la ariste politeia è quella che si fonda sulla virtù e che può assumere i nomi di regno o di aristocrazia, a quanto pare a seconda del numero di uomini virtuosi in grado di accedere al potere. In questo modo di presentare la ariste politeia c’è certamente una reminiscenza di Platone, Repubblica IV, 445d 3-6, dove il personaggio di Socrate qualifica il regime della città ivi delineata in questi termini: "un modo di costituzione potrebbe essere quello da noi esposto; si potrebbe però dargli anche due nomi: se tra i governanti si afferma e si distingue uno solo, si potrebbe parlare di regno; se sono parecchi di aristocrazia". Anche altrove nella Repubblica (544e 7; 587d 1) Platone mostra la tendenza a compendiare nella aristocrazia, intesa nel senso etimologico di "governo dei migliori", sia il regno che l’aristocrazia. Lo stesso fa qui Aristotele, e sono da confrontare anche Pol. V 10, 1310b 2-3: he men gar basileia kata ten aristokratian estin e 1310b 32: he basileia tetaktai kata ten aristokratian.

Ma Pol. IV 2 non è il solo testo dei libri centrali in cui Aristotele continua a identificare la ariste politeia con l’aristocrazia. Pol. IV 7, come abbiamo accennato all’inizio è l’unico capitolo che si occupi diffusamente delle varie forme di aristocrazia. Leggiamo il testo da 1293b 1. "È esatto chiamare aristocrazia quella di cui abbiamo trattato nei primi discorsi – in effetti è lecito assegnare il nome di aristocrazia soltanto al governo degli uomini che sono assolutamente i migliori per virtù (ten gar ek ton ariston haplos kat’areten politeian … monen dikaion prosagoreuein aristokratian) e che non sono semplicemente buoni rispetto a un qualcosa di stabilito. In questa soltanto si ha la perfetta identità tra uomo buono e buon cittadino, mentre i cittadini degli altri regimi sono soltanto buoni rispetto al loro regime. Nondimeno vi sono alcuni regimi che presentano differenze rispetto alle oligarchie e alla cosiddetta politía e che sono chiamati aristocrazie (kai kalountai aristokratiai). Dove si eleggono le magistrature tenendo conto non solo della ricchezza ma anche della virtù, la costituzione vigente differisce da quelle due ed è detta aristocratica (aristokratike). Infatti anche nei regimi che non si assumono la pubblica cura della virtù vi sono alcuni che godono buona fama e sono ritenuti galantuomini. Quando la costituzione tiene conto della ricchezza, della virtù e del demo, come a Cartagine, quella costituzione è aristocratica (aristokratike) come pure lo è in quelle città, come Sparta, dove tiene conto di due fattori soltanto: la virtù e il demo; si ha cioè una mescolanza di quei due fattori, di democrazia e di virtù. Dunque, oltre alla prima e ottima costituzione queste sono due specie di aristocrazia (aristokratias men oun para ten proten ten aristen politeian tauta dyo eide); ve ne è infine una terza che comprende tutte le cosiddette politíe che inclinano piuttosto verso l’oligarchia".

Qui Aristotele distingue chiaramente una forma prima di aristocrazia, che si identifica con la ariste politeia, da quelle che vengono chiamate aristocrazie (per l’espressione tas onomazomenas aristokratias cfr. anche 1294b 41). Sulla base di cosa è fatta questa distinzione? L’aristocrazia prima (che verso la fine di IV 8, 1294a 24-25 Aristotele chiama "aristocrazia vera e prima: ten alethinen kai proten") è quella nella quale accedono al potere esclusivamente gli uomini che sono assolutamente i migliori per virtù. Quindi nell’aristocrazia prima la virtù completa è il titolo esclusivo per appartenere alla politeia, mentre nelle cosiddette aristocrazie, ossia nelle aristocrazie storiche, accanto alla virtù – che è comunque sempre soltanto relativa al regime in questione – vengono presi in considerazione anche altri titoli: la ricchezza e il titolo di cui si fa forte il demo, ossia la libertà di condizione. Aristotele cita qui come esempi Cartagine e Sparta.

C’è quindi uno scarto tra l’aristocrazia prima, o ariste politeia, e le aristocrazie storiche, uno scarto che pone la prima al vertice di una scala gerarchica; le aristocrazie storiche, insieme con la politía, stanno a un livello intermedio; il grado infimo è riservato alle forme degenerate di costituzione. Questo è quanto Aristotele teorizza esplicitamente all’inizio di IV 8, 1293b 22-27. "Ci resta da parlare della costituzione che viene chiamata politía e della tirannide. Abbiamo assegnato alla politía questa posizione anche se essa non costituisce una degenerazione, come non sono degenerazioni le aristocrazie di cui abbiamo appena parlato. Per la verità tutte, in quanto non colgono nel segno la forma assolutamente corretta di costituzione (hoti to men alethes pasai diemartekasi tes orthotates politeias) sono di conseguenza annoverate tra le degenerazioni. Ma le degenerazioni vere e proprie lo sono di queste, come dicevamo nelle trattazioni iniziali".

Questa dislocazione delle forme costituzionali su tre livelli non può non far ricordare l’analoga classificazione delle costituzioni proposta da Platone in Politico 302c 8-303c 5. Anche lì la costituzione assolutamente corretta è separata dalle altre sei, tre delle quali (regno, aristocrazia e una forma di democrazia) sono regimi accettabili perché vincolati alle leggi, altri tre invece (tirannide, oligarchia e un’altra forma di democrazia) sono regimi cattivi perché non fanno alcun conto delle leggi. Come il Platone del Politico anche l’Aristotele dei libri centrali della Politica vede nella forma assolutamente corretta di costituzione un modello e non certo una forma di costituzione storicamente esistente; ma a differenza di Platone e in polemica con Platone vi vede ormai un modello troppo remoto per poter rappresentare la norma alla quale le città storiche dovrebbero conformarsi. Come già abbiamo visto, tale norma non è la costituzione migliore in assoluto, bensì la costituzione migliore nelle condizioni date.

C’è tuttavia – come dicevamo all’inizio – nella Politica un progetto di ariste politeia: è quello delineato nei libri VII-VIII. Vorrei concludere ora argomentando a favore della tesi che la ariste politeia delineata in quei libri – e alla quale Aristotele, come sappiamo, non assegna alcun nome – è un’aristocrazia nel senso che siamo venuti chiarendo sinora. In tutta la Politica (cfr. ad es. III 8 e IV 4, 1290a 30 sgg.) Aristotele non si stanca di ribadire che per identificare un regime non conta tanto il numero di coloro che accedono al potere, quanto il titolo di cui costoro si fanno forti. L’oligarchia non è il regime dei pochi, ma il regime dei ricchi; la democrazia non è tanto il regime dei molti, quanto il regime dei poveri che si fanno forti della loro condizione di liberi, così "si ritiene che aristocrazia sia principalmente il fatto che le cariche politiche siano distribuite secondo virtù. Il criterio distintivo (horos) dell’aristocrazia è la virtù, dell’oligarchia la ricchezza, della democrazia la libertà" (IV 8, 1294a 9-11). Ora se c’è un regime in cui la virtù funziona da criterio discriminante per decidere l’appartenenza o no al corpo politico questo è proprio il regime di VII-VIII.

Ma procediamo con ordine. La costituzione migliore – argomenta Aristotele in VII 1 – è quella che consente il miglior tipo di vita. Ma il miglior tipo di vita, che equivale alla vita felice, è ottenibile solo grazie ai beni, alle buone qualità dell’anima, ossia alla virtù, la quale deve essere accompagnata da una adeguata dose di beni del corpo e di beni esterni. "Basti ora stabilire questo – leggiamo alla fine di VII 1, 1323b 40 sgg. – che la vita migliore sia per ciascun individuo che collettivamente per le città è quella congiunta alla virtù che disponga di mezzi tali da consentire di aver parte alle azioni virtuose". Tutti i cittadini della città ottima dovranno quindi aver parte delle azioni virtuose. Senonché non tutte le attività che sono necessarie all’esistenza della città sono anche attività virtuose. Se alcune richiedono la virtù, altre sono, secondo Aristotele, incompatibili con l’esercizio della virtù. Le prime sono le attività di difesa della città, le attività di governo e le mansioni di culto; le seconde sono le attività legate al soddisfacimento dei bisogni della vita. Ciò significa che coloro che svolgono queste ultime mansioni, che sono incompatibili con la virtù, resteranno esclusi dal corpo politico, dove vengono svolte le attività che richiedono la virtù. Leggiamo due passi di VII 9 ; 1328b 34 sgg.: "poiché ci troviamo ad indagare sulla costituzione migliore, e questa è quella grazie alla quale la città sarà sommamente felice – e si è detto in precedenza che è impossibile che vi sia felicità senza virtù – di qui è chiaro che nella città governata nel modo più bello e che possegga uomini assolutamente giusti e non semplicemente giusti rispetto a ciò che viene sancito, i cittadini non dovranno condurre una vita dedita ad attività manuali né dedita al commercio (una vita di quel tipo è infatti ignobile e opposta alla virtù) e quindi nemmeno dovranno lavorare la terra coloro che saranno cittadini: c’è infatti bisogno di libertà da impegni di lavoro (schole) sia per far sorgere la virtù sia per le attività politiche". Altro brano da VII 9, 1329a 19: "la categoria dei lavoratori manuali (to banauson) non fa parte della città, e nemmeno alcuna altra categoria che non sia artefice della virtù. Questo è evidente dall’ipotesi iniziale: l’essere felici e necessario che sussista in unione con la virtù e si deve dire felice una città non guardando a una sua parte qualsiasi, bensì a tutti i cittadini".

Come si vede nella città di Pol. VII-VIII è la virtù a fungere da discrimine per escludere dalla cittadinanza contadini, artigiani e commercianti e in generale chi svolge un’attività manuale. A me pare che questo non sia altro che l’applicazione rigorosa dell’horos dell’aristocrazia individuato da Aristotele: la virtù rappresenta il titolo esclusivo che discrimina l’accesso al corpo civico e quindi alle mansioni di governo. L’obiezione consueta che viene mossa a chi identifica il regime di VII-VIII con l’aristocrazia è che in Pol. VII-VIII Aristotele prevede un avvicendamento dei cittadini nelle tre mansioni riservate al corpo politico. I cittadini infatti da giovani, grazie al vigore proprio della giovinezza, faranno i guerrieri e apparterranno al ruolo dei governati; giunti alla maturità, grazie alla saggezza, potranno accedere al ruolo di governo vero e proprio; da vecchi infine troveranno riposo nelle mansioni del culto (cfr. VII 9, 1329a 2-34; VII 14, 1332b 12-42).

Chi nega che il regime di VII-VIII sia un’aristocrazia argomenta che in questa costituzione ottima i cittadini si avvicendano nei ruoli di governato e di governante, mentre nell’aristocrazia il governo viene esercitato sempre dalle stesse persone (8). Confesso di non conoscere alcun testo aristotelico in cui si affermi esplicitamente che l’aristocrazia è il regime in cui governano sempre le stesse persone. Vogliamo davvero credere che gli aristoi di questa supposta aristocrazia sono al potere da sempre e che non l’abbandonano mai se non altro perché invecchiano e muoiono? Siamo così sicuri che non possa valere anche per loro l’avvicendamento per turno di generazione, quale Aristotele prevede per i governanti della sua costituzione ottima? E se questo è vero, allora essa non è più un’aristocrazia? Credo che nel giudicare il regime di VII-VIII non si debba confondere il rapporto dei cittadini tra loro, che è un rapporto di sostanziale parità e che impone pertanto l’avvicendamento (un avvicendamento che tuttavia tiene anche conto del merito (9): solo gli uomini completamente virtuosi perché saggi accedono alle funzioni di governo), col rapporto dei cittadini con il resto della popolazione esclusa dalla cittadinanza. A ben vedere per questo secondo tipo di rapporto vale la definizione di aristocrazia come il regime in cui governano sempre le stesse persone. Sono infatti i cittadini virtuosi a esercitare costantemente un potere di soggezione su una popolazione che è sempre e solo subalterna e che è in tale situazione perché non è e non può essere virtuosa.

 

 

Note 

 

(*) Questo saggio è la versione rivista della relazione presentata al convegno "Analisi teorica e progettualità nel pensiero politico antico" organizzato da Silvia Gastaldi e Silvia Campese a Pavia il 28-29 aprile 1999. Con l’occasione ringrazio le organizzatrici del convegno e tutti coloro che sono intervenuti nella discussione. back

(1) Cito a titolo di esempio tre lavori italiani recenti: W. Leszl, Politica in: Guida ad Aristotele (a cura di E. Berti), Laterza, Roma-Bari 1997, p. 296 sg.; E. Berti, Il pensiero politico di Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 84; S. Gastaldi, Storia del pensiero politico antico, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 235 sgg. back

(2) Cfr. VII 1, 1323a 22-23, ma in VII 13, 1332a 8 e 22 vi sono due rinvii espliciti agli ethikoi logoi. back

(3) Cfr. anche V 1, 1301b 27 sg.: aidios gar basileia anisos, ean ei en isois. back

(4) Riprendo qui l’interpretazione del passo che avevo proposto in: L’anatomia della città nella Politica di Aristotele, Torino 1986, pp. 61 sg. In quel lavoro si trova anche una più minuta analisi dei testi a sostegno della tesi argomentata nel presente saggio. back

(5) Credo che debba essere interpretata in questo senso anche l’affermazione isolata ed enigmatica che si legge in Eth. Nic. V 7, 1135a 5 per cui "una soltanto dovunque è per natura la costituzione migliore". back

(6) Cfr. F. Wolff, L’unité structurelle du livre III, in: Aristote politique. Etudes sur la Politique d’Aristote, a cura di P. Aubenque e A. Tordesillas, Puf, Paris 1993, p. 312 n. 20; cfr. anche p. 290, n. 3. back

(7) Per una più precisa analisi cfr. L’anatomia della città nella Politica di Aristotele cit., pp. 92-99. back

(8) Cfr. ad es. E. Berti, Il pensiero politico di Aristotele cit., p. 90 e 93. back

(9) Cfr. VII 9, 1329a 17 e VII 14, 1332b 32-41. back