http://www.units.it/etica/2006_1/VIOLA.htm
Ermeneutica
filosofica, pluralismo e diritto
Dipartimento
di studi su politica, diritto e società “Gaetano Mosca”
Abstract The purpose of this essay is to show that
philosophical hermeneutics is particularly suited for facing problems of
understanding among different cultural worlds. These issues are relevant even
for legal interpretation that, now more than ever, is not up against culturally
homogeneous societies and against legal systems shaped by a single source or
by a steady hierarchy of sources. Therefore, philosophical hermeneutics’
approaches to intercultural dialogue can be useful to the present practice of
legal interpretation, not by building new interpretative methods, but by clarifying
contexts which give significance to legal practice. The paths trodden by legal
philosophical hermeneutics are devoted to the understanding of texts which have
a paradigmatic feature for jurists’ work and to the identification of legal
practice’s ends and values. These paths are complementary, not alternative.
The historic consciousness and the practice reason are both essential for the
discovery of legal meaning, within which legal interpretation articulates. |
In una società pluralistica e
multiculturale l’interpretazione giuridica deve modificare i suoi metodi
tradizionali, che sono stati messi a punto per una società culturalmente
omogenea e nell’ottica del primato del diritto statale?
Credo che la risposta a questa
domanda richieda un passo indietro, che è propriamente l’oggetto di questo
scritto. Qui ci chiederemo piuttosto cosa rende «giuridica» l’attività
interpretativa, piuttosto che come essa si svolge. In questione non sono in
primo luogo i c.d. metodi interpretativi o le tappe fondamentali
dell’interpretazione giuridica (interpretazione letterale, logico-grammaticale,
dell’intenzione del legislatore, sistematica) e neppure la struttura
argomentativa preposizionale,(1) che
sorveglia la correttezza dell’atto interpretativo e ne garantisce il controllo,
quanto piuttosto la riconsiderazione del senso generale dell’interpretare
giuridico, dei suoi presupposti, del modo di porsi di fronte al suo oggetto,
del fine dell’attività interpretativa, cioè in una parola della configurazione
dell’impresa generale che si realizza mediante questi procedimenti ermeneutici.
L’interpretazione in quanto
tale non è mai un fine ultimo. Si interpreta al fine di comprendere. Ma a sua
volta il comprendere, a differenza del conoscere puro e semplice, ha un carattere
pratico, cosicché esso porta in sé le ragioni per cui si vuole comprendere.
Anzi queste ragioni precedono il comprendere e contribuiscono a determinare e
ad orientare la precomprensione. L’interpretazione come attività acquista un
senso proprio perché avviene all’interno di una preliminare comprensione, che è
il vero e proprio luogo del «senso». Ogni attività ha un significato solo
all’interno di una totalità di senso. Di conseguenza la comprensione precede e
condiziona l’interpretazione che a sua volta la sviluppa, la corregge e la
libera dai fraintendimenti.
Questa considerazione si
appoggia su osservazioni elementari. Se non anticipiamo il senso del nostro
discorso, non riusciamo neanche a costruirlo. Anche nella ricerca scientifica,
perché il dato sia enucleato, occorre prima anticiparne il senso e poi verificarlo
con il controllo sperimentale. Ma per l’ermeneutica filosofica tutto ciò assume
una rilevanza ben più profonda in quanto il comprendere è inteso come un modo
d’essere, il modo proprio d’essere dell’uomo.
«Non si può eludere la
considerazione che non soltanto il discorso e la scrittura, ma tutte le
creazioni umane sono compenetrate di un ‘senso’, che è compito dell’ermeneutica
estrarre».(2) Il senso di una pratica
sociale interpretativa è la finalità generale dell’impresa di cui si tratta.
Esso precede e illumina le azioni che sono poste al suo interno. Queste azioni
possono essere corrette o non corrette (convenienti o sconvenienti, giuste o
ingiuste, buone o cattive) in relazione a ciò a cui mirano, cioè propriamente
possono essere sensate o insensate. Da questo punto di vista il senso di una
pratica sociale è un compito a cui s’è chiamati, un’impresa che s’intraprende,
un obiettivo generale che si persegue. Ciò significa che il senso che sta alla
base della comprensione ermeneutica ha un carattere pratico e che una filosofia
ermeneutica del diritto non potrà che essere una filosofia pratica.
Mentre l’intendere indica –
come diceva Wittgenstein – un «dirigersi verso qualcuno», cioè cercare di
cogliere le intenzioni altrui (si intendono intenzioni), nel comprendere
l’oggetto è più ampio in quanto riguarda non solo il contesto immediato che
contribuisce a conferire senso alle intenzioni, ma anche più in generale le
tradizioni e le forme di vita a cui le intenzioni appartengono. La comprensione
è, pertanto, al contempo un’apprensione del «mondo» di cui l’intenzione fa
parte.
È proprio di un compito e, più
in generale, di un fine quello di mettere in moto senza ancora propriamente
esistere, cosicché la precedenza del senso non contraddice la ricerca
interpretativa dei significati in cui esso si articola e si realizza. Nel campo
della creazione estetica non si può dire che l’artista semplicemente dia corpo
alle sue intenzioni. In realtà egli si sente chiamato a comprendere qualcosa
che gli chiede di essere compresa, cioè il senso stesso della cosa da fare.
Eppure questa ancora non esiste, perché solo l’interpretazione la fa esistere.
Se questo senso, che ancora non esiste, fosse una mera chimera, allora l’evento
interpretativo sarebbe giudice di se stesso e non vi sarebbe nulla se non
l’interpretazione, come pensava ieri Nietzsche e pensano oggi i
decostruttivisti. Eppure in nome di che noi ci chiediamo se l’atto interpretativo
(o l’opera d’arte) è riuscito o non riuscito? In nome di che l’artista nel
travaglio creativo corregge se stesso ed è soddisfatto o meno della riuscita
della sua opera? È l’essenza stessa della cosa che non esiste ancora che chiede
di essere interpretata correttamente. (3)
Anche l’interpretazione
giuridica, che si esercita all’interno di uno Stato monoculturale con il
monopolio della produzione giuridica, ha le sue precomprensioni di senso, i
suoi indiscussi presupposti e le sue anticipazioni di significato.
Dai tempi della codificazione
napoleonica l’idea del diritto s’è concretizzata nell’immagine di un sistema
giuridico nazionale costituito da norme fornite di un’interna coerenza di
significato ed emanate da un’autorità formalmente riconosciuta. Alf Ross ha
equiparato un sistema giuridico così inteso al gioco degli scacchi. Mentre le
regole degli scacchi si riferiscono alle mosse fatte dai giocatori, le regole
giuridiche si riferiscono alle azioni sociali dei cittadini e delle pubbliche autorità,
donde la distinzione tra norme di condotta e norme di competenza. (4) Per Ross un sistema giuridico nazionale è,
per così dire, «un’entità individuale» nella sostanza incommensurabile rispetto
agli altri sistemi di diritto valido. È come se vi fossero tanti modi di
giocare a scacchi, ognuno fornito delle sue regole interne. La loro comunanza
risiederebbe soltanto nell’organizzare in modo coerente e praticabile il
movimento dei pezzi nella scacchiera. Allo stesso modo i differenti sistemi
giuridici nazionali sono accomunati semplicemente dal fatto di essere un
insieme di regole sull’organizzazione della forza pubblica e il funzionamento dell’apparato
coercitivo dello Stato.
Questa raffigurazione del
diritto richiede una volta per tutte una delimitazione rigorosa del contesto
entro cui si esercita il gioco del diritto. Conseguentemente essa tende ad
identificare il diritto valido con la dimensione nazionale (diritto tedesco,
danese, italiano, etc…), cioè, in una terminologia che Ross sicuramente non
accetterebbe, con una particolare forma di vita fornita di una propria «ideologia
delle fonti del diritto». Questa convinzione è ancora altamente diffusa nel
pensiero giuridico contemporaneo, ma è falsa per ragioni storiche e teoriche.
Nelle epoche antecedenti la
nascita dello Stato moderno e l’assunzione di questo del monopolio della forza
pubblica non si può certamente parlare di «sistemi giuridici nazionali», ma ciò
che più conta è che quelli attuali non possono essere concepiti come sistemi
chiusi, anche ammesso che lo siano stati un tempo. Sta di fatto che oggi per
determinare quali siano le fonti del diritto dobbiamo prima individuare il suo orizzonte
di esercizio. Un sistema giuridico, pur essendo caratterizzato in linea di
principio da una gerarchia costituzionale delle fonti, si evolve al suo interno
e deve continuamente rimettere ordine nella selva dei fatti e degli atti
normativi. In più, va crescendo la rilevanza di leggi e di altri atti costitutivi
di ordinamenti esterni, con cui il sistema normativo intrattiene rapporti non
sempre previsti o prevedibili, per non parlare del carattere anomalo delle
fonti extra ordinem. Insomma, le
regole del gioco non sono prefissate una volta per tutte al di là di alcune
indicazioni generali e devono essere incessantemente riordinate.
Un sistema giuridico ha una
sua evoluzione interna che è ben lungi dall’essere puramente logica. La prassi
giuridica deve dar continuità al succedersi di forme di vita che collassano
l’una sull’altra. Il mondo giuridico e culturale dei Padri costituenti non era
lo stesso del nostro mondo attuale, ma, se il diritto che da loro proviene si
può considerare come ancora vigente, ciò vuol dire che il suo linguaggio è in
qualche modo significativo per forme di vita differenti.
Ciò significa che, a dispetto
delle apparenze, l’interpretazione giuridica si è sempre articolata e si
articola, oggi ancor più chiaramente, all’interno di una precomprensione volta
alla fusione di orizzonti culturali differenti e non già rigorosamente murata
all’interno di un mondo culturale determinato.
Il ruolo dell’interpretazione
giuridica è quello di tradurre pretese normative che provengono dalle forme di
vita del passato (o, semplicemente, altre) in quella del presente, che ha con
queste particolari legami. Ciò sarebbe impossibile se i contesti storici
fossero incomunicabili e chiusi in se stessi, ma allora sarebbe impossibile
anche il diritto nel suo concetto normativo. In un certo senso la «normatività»
è ciò che non proviene dal nostro stesso mondo e ne mette in crisi la
«normalità». Per questo la normatività ha bisogno di una giustificazione, mentre
non è così per la normalità. Ciò che già appartiene al nostro mondo o alla nostra
forma di vita è per definizione già costitutivo della nostra identità ed allora
si potrà solo sollevare la questione se veramente questa o quell’altra
interpretazione sia in accordo con le pratiche sociali consolidate. Ma la
normatività in senso forte si ha quando ci si chiede di accettare l’estraneo o
il diverso e di accoglierlo nel nostro mondo.
Com’è noto, sulla scia di
Wittgenstein s’è rafforzata la tesi dell’incommensurabilità dei paradigmi e
dell’intraducibilità dei linguaggi. Non intendo qui discuterne la fondatezza.
Resta però il fatto che il diritto in quanto linguaggio dell’interazione ha da
sempre affrontato la sfida dell’incomunicabilità delle diversità. La stessa
pratica giuridica si basa sul presupposto che una stessa regola può misurare
situazioni differenti nel tempo e distanti nello spazio. Oggi ciò s’è reso più
visibile nei tentativi di costituire intorno ai diritti dell’uomo un luogo
stabile di comunicazione dei differenti sistemi giuridici. Non ha importanza
fino a che punto questi sforzi siano coronati da successo, ma è chiaro che il
passaggio dallo Stato nazionale alle società multiculturali sarebbe impossibile
qualora il diritto non fosse capace di far dialogare culture differenti e fosse
destinato solo a risolvere le liti in famiglia.
L’ermeneutica filosofica,
almeno per le sue origini e nei suoi principali sviluppi, è particolarmente
sensibile all’incontro di mondi culturali differenti e concepisce le forme di
vita non già come entità chiuse, ma come ambienti più fluidi e porosi. Tuttavia
sarebbe erroneo ricondurre le istanze dell’ermeneutica filosofica al problema
del dialogo interculturale. Non è di questo che propriamente si tratta.
L’esperienza ermeneutica è non a caso emblematicamente raffigurata da Gadamer
nell’incontro con l’opera d’arte e con la sua funzione normativa.
Nell’interpretazione dell’opera d’arte o del testo classico si produce una
trasformazione del mondo stesso dell’interprete, cioè avviene un processo d’integrazione nel senso hegeliano. «Il
rapporto con l’opera non è né semplicemente soggettivo, né oggettivisticamente
ricostruttivo, ma rappresenta una mediazione tra il nostro presente di
interpreti e le tracce e il senso del passato che ci vengono trasmessi».(5) Quindi non si tratta direttamente di un
incontro di due o più culture diverse, ma tra il mondo dell’interprete e
qualcosa di normativo, che a sua volta appartiene ad un mondo culturale
diverso. Quest’ultimo si raccomanda non già di per se stesso, ma in quanto è
portatore di qualcosa che è in grado di parlare anche a coloro che appartengono
ad altri universi di significato. V’è una sporgenza dell’opera d’arte rispetto
al suo mondo d’origine. Questa funzione ermeneutica non è svolta solo
dall’opera d’arte, ma si ritrova anche in altri eventi linguistici. Non c’è
dubbio, ad esempio, che i diritti dell’uomo provengano da una determinata
cultura, quella occidentale, ma valgono e sono normativi solo nella misura in
cui sono capaci di parlare a culture diverse da quella d’origine.
Un problema ermeneutico non è
mai esclusivamente interno ad una tradizione o ad una cultura e non può essere
ridotto a quello della corretta applicazione delle regole o degli stili di vita
propri di un determinato contesto culturale. Un problema propriamente
ermeneutico sorge solo quando si tratta di affrontare l’incontro di mondi
culturali diversi. L’interculturalismo e il multiculturalismo sono i necessari
presupposti affinché si presenti non già un problema meramente interpretativo,
ma a stretto rigore e a tutti gli effetti una questione «ermeneutica», cioè
quella della relazione fra differenti orizzonti culturali.
Non sempre si ha piena
consapevolezza di questa configurazione della questione ermeneutica.
Giustamente Moreso ha sottolineato che una differenza importante tra
l’approccio analitico e quello ermeneutico risiede nel modo di considerare il background delle nostre pratiche
sociali. (6) Secondo l’ermeneutica heideggeriana si
tratterebbe di uno sfondo opaco, inarticolato e non ulteriormente analizzabile.
La precomprensione risulta, pertanto, come quel punto di partenza entro cui già
siamo e che costituisce la nostra stessa identità impossibile da abbandonare,
perché l’autocomprensione è incorreggibile.
Non contesto che questa sia la
linea di pensiero di Heidegger e neppure che a questo esito si arrivi seguendo
la teoria wittgensteiniana del significato come uso. Ma mi sembra che proprio
sotto questo aspetto l’ermeneutica gadameriana intenda percorrere orientamenti
differenti, anche se in modo non sempre chiaro e inequivocabile. In ogni caso
essa ha tematizzato direttamente la questione della precomprensione ovvero quella
dello sfondo che conferisce senso alle pratiche umane. Ciò non significa che si
sia orientata nel senso dell’elaborazione di una teoria che giustifichi il come del nostro apparato concettuale e
ne assicuri il dominio e, conseguentemente, il controllo secondo i canoni del
pensiero illuminista.
Tra l’opacità irrimediabile
del background concettuale e il suo
disvelamento ad opera della terapia linguistica c’è una terza
via, che è quella cercata, più che chiaramente tracciata, da Gadamer e da
Taylor. (7) Non si tratta ancora di una direzione ben
definita, attualmente è ancora allo stadio di un programma di ricerca che può
svilupparsi secondo differenti varianti interne. Il multiculturalismo del
nostro tempo costituisce uno stimolo in più per percorrere sino in fondo
quest’orientamento di pensiero.
Assumendo quest’ottica,
cercherò soltanto di chiarire, innanzi tutto a me stesso, quali problematiche
dovrebbero essere affrontate con specifico riferimento al diritto e quali
ricadute vi siano per la configurazione dei contesti entro cui si esercita
l’interpretazione giuridica. M’interessa l’orientamento generale di pensiero e
non già direttamente l’assetto che esso ha assunto negli autori che l’hanno sostenuto.
Abbiamo detto che la questione
ermeneutica sorge in presenza di più universi culturali. Ce ne sono
necessariamente almeno due: quello in cui si trova l’interprete e quello a cui
appartiene l’oggetto da interpretare. Ora è possibile che si raggiunga
l’obiettivo ermeneutico, cioè la fusione degli orizzonti, a patto che si trovi
un punto di contatto tra questi differenti universi culturali. La comunanza non
può essere data per presupposta, ma deve essere scoperta e, in certo qual modo,
giustificata. Al contrario all’inizio c’è la diversità e l’estraneità. Tuttavia
la ricerca della comunanza fra gli orizzonti culturali implica che si metta in
discussione la precomprensione dell’interprete. Se non si è disposti a questo,
allora l’ermeneutica deve rinunciare a qualsiasi pretesa conoscitiva del suo
oggetto, irrimediabilmente fagocitato all’interno del background concettuale dell’interprete. Invece, le pretese
dell’ermeneutica vanno esattamente nella direzione opposta: il testo o
l’oggetto da interpretare allargano gli orizzonti originari dell’interprete o,
comunque, ne modificano l’assetto, poiché tale oggetto esercita un ruolo
normativo, cioè presenta una pretesa di validità con cui l’interprete deve fare
i conti. Questo – a mio parere – è il senso del “dialogo” gadameriano tra mondi
diversi.
Rimettere in discussione la
precomprensione da parte di chi è pure immerso in essa significa innanzi tutto
“comprenderla” meglio, individuarne le reali aspettative e saper discernere i
pregiudizi che rendono impossibile la comunicazione. La precomprensione deve
essere purificata dal pregiudizio, un «inconveniente inevitabile» ma correggibile.
Nell’ottica ermeneutica
quest’opera di riflessione e di correzione dei fraintendimenti non è il frutto
di una «teoria» tratta fuori dalla pratica dei concetti, ma è un’opera di
aggiustamento in itinere in seguito
alle sollecitazioni dell’oggetto da interpretare. Non si tratta di mettere a
punto la grammatica sottostante o implicita nell’uso dei concetti, non già
perché essa non vi sia, ma perché proprio questa deve essere rimessa in
discussione al fine di comprendere mondi retti e governati da grammatiche
differenti. Il compito analitico, pertanto, non viene rigettato in quanto
insensato o irragionevole, ma in quanto inadeguato a spiegare l’impresa
ermeneutica in atto. Questa è diretta all’obiettivo di comprendere l’altro o il
diverso e non già in primo luogo di comprendere se stessi. A questo si deve
aggiungere che per comprendere adeguatamente se stessi bisogna essere in grado
di dialogare con i diversi.
Il traguardo ambizioso che si
pone l’impresa ermeneutica è quello di superare il particolarismo dal suo
interno mediante progressive intese con altre particolarità culturali. La
consapevolezza di trovarsi in un contesto particolare è essenziale per il
cammino ermeneutico, unita però all’apertura verso altri universi culturali al
fine di costituire un orizzonte d’intesa fra più particolari. (8) Ciò significa che l’atto interpretativo è ben lungi
dall’essere un rispecchiamento, ma il suo risultato, cioè la comprensione, è
propriamente un evento in cui si attua la comunanza degli orizzonti culturali.
Per l’ermeneutica filosofica
la comprensione ha un carattere radicalmente temporale. L’esperienza umana non
è fatta di stati di coscienza atomistici e puntuali, ma di connessioni di
significato che implicano un incessante riordinamento restrospettivo e
prospettico. La coscienza ermeneutica è una coscienza storica, è esposta alla
storia e alla sua azione in modo tale che questa azione non può essere
oggettivata senza far venir meno lo stesso fenomeno storico. Ma
l’oggettivazione epistemologica introduce in questa coscienza una sorta di distanziazione
alienante (Verfremdung) che distrugge
l'originaria relazione di appartenenza. Bisognerà, allora, recuperare la
profonda unità della coscienza storica, mostrando la possibilità di superare la
frattura tra la tradizione in cui e di cui vive l'interprete e quella a cui il
testo, o più in generale il messaggio, appartiene (Horizontverschmelzung). Ogni accostamento ai documenti storici non
è mai neutrale. Ogni interprete porta con sé modelli istillati dalla propria
tradizione e cultura. Questi pre-giudizi (Vorurteile)
lo conducono ad avere determinate aspettative nei confronti dei significati di
un testo. Il comprendere sarà, allora, un movimento circolare tra le
aspettative o anticipazioni dell'interprete e i significati annidati nel testo.
L’incontro e la fusione degli orizzonti è possibile, perché, da una parte, la
consapevolezza dei pregiudizi dà la possibilità di governarli e di correggere,
così, le aspettative e, dall’altra, i significati da comprendere si protendono
al di là delle intenzioni dell’autore. Per questo ogni comprensione ermeneutica
non è una mera riproduzione, ma ha un aspetto produttivo e si sviluppa come
evento storico esso stesso, che a sua volta è disponibile per ulteriori
attualizzazioni.
Anche l’esperienza giuridica
ha un carattere storico ineliminabile. Il passato fa sentire il suo peso nel
presente che a sua volta si sente in qualche modo vincolato da esso. La pratica
giuridica è un’incessante opera di mediazione tra mondi diversi, quello di
coloro in cui il testo legale (o altro equivalente) ha avuto origine e quello
dei suoi attuali utenti, cioè di coloro che se ne servono per portare a
compimento l’impresa del coordinamento delle azioni sociali. L’interprete è tradizionalmente
un mediatore e un traduttore. Non si tratta soltanto di mettere in
comunicazione culture diverse, ma anche situazioni differenti, eventi storici
lontani nel tempo e aspettative contrastanti. Ciò richiede non solo la capacità
di partecipare a un particolare gioco linguistico, ma anche di saper cogliere
ciò che una particolare forma di vita può comunicare ad un’altra differente e
cosa questa può ricevere dal passato.
In ragione del carattere
storico dell’esperienza giuridica vien da chiedersi se il diritto debba essere
identificato come un particolare gioco linguistico (9)
oppure come un modo di mettere in comunicazione forme di vita differenti ed
eventi storici distinti. Il diritto è una forma di vita o un modo per governare
la comunicazione tra la molteplicità dei linguaggi? La coordinazione giuridica
delle azioni sociali è realizzabile soltanto all’interno di contesti ben
definiti e circoscritti oppure si esercita nell’interrelazione di forme di vita
distanti nel tempo e nello spazio?
Le condizioni generali
affinché ciò sia possibile risiedono tutte nel modo d’intendere quel punto di
contatto, quella comunanza a fondamento di un dialogo che non sia fra sordi. E
qui sono possibili differenti varianti o differenti piste di ricerca che
possono essere intese come alternative o come cumulative.
Si può ritenere che l’oggetto
da interpretare non sia normativo solo nel senso di presentarsi come ciò che
deve essere compreso, ma in più perché appartiene ad una tradizione fornita di
un valore paradigmatico e, quindi, capace di parlare in certo qual modo a
tutti. In questo caso la normatività dell’oggetto da interpretare proviene dal
suo contenuto e non già dal compito che si assume l’inteprete. Il riferimento
di Gadamer ai testi classici e alla classicità deve essere inteso in questo
senso. Vi sono esperienze culturali del passato che hanno un significato
emblematico in quanto rappresentative dei canoni consolidati che governano un
ambito pratico. Ciò non significa che tali modelli non possano e non debbano essere
rimessi in discussione, sì da essere modificati anche profondamente. In fondo è
ciò che avviene inevitabilmente quando l’interprete li attualizza applicandoli
a determinati contesti. Ciononostante essi conservano il loro ruolo di punto di
riferimento, in quanto le pratiche sociali debbono giustificare la loro articolazione
specifica dei modelli paradigmatici o il loro allontanarsi più o meno radicalmente
da essi.
V’è anche un altro modo di
andare alla ricerca della comunanza tra il mondo dell’interprete e quello
dell’oggetto da interpretare. Ora questo punto di contatto si trova nel tipo di
pratica che è in questione. Gli orizzonti culturali in dialogo, per quanto
diversi possano essere nei contenuti o nei valori in gioco, hanno in comune la
ragion pratica, cioè le finalità tipiche dell’operare umano. Si può forse individuare
una convergenza del perché s’interpreta e delle ragioni per cui è venuto alla
luce l’oggetto dell’interpretare. Certe pratiche del passato o certi testi sono
emblematici o significativi proprio perché si sono edificati intorno ad istanze
simili a quelli che spinge l’interprete ad interpretarli. Ammettiamo, ad
esempio, che una delle finalità principali per cui c’è il diritto sia quella di
guidare le azioni sociali e di coordinarle in modo che vi sia nella società
ordine e giustizia, un ordine giusto. Quest’esigenza accomuna differenti
orizzonti culturali, anche se essi hanno dato di fatto risposte ben diverse e
contrastanti, hanno elaborato differenti tipi di ordine sociale e maturato
differenti sensi del giusto. Tuttavia il fatto che si tratti pur sempre di
risposte alla stessa domanda permette di individuare in questa il punto di
contatto per il dialogo ermeneutico. Ciò richiede che si acquisti
consapevolezza di queste forme strutturali dell’operare umano che sono
implicite nella stessa precomprensione, sottraendola alla mera fatticità. Non
si tratta di strutture puramente formali se esse sono governate – come si
dovrebbe riconoscere – dalle stesse finalità, anche se variamente intese.
Possiamo considerare questi
due modi di ritrovamento della comunanza come due varianti dell’approccio
ermeneutico all’interpretazione. Il primo ha un carattere decisamente storico
e, se assolutizzato, può condurre allo storicismo. Il secondo ha un carattere
ontologico, poiché presuppone che vi siano ragioni universali per cui sorgono
determinate pratiche sociali e domande comuni a cui esse intendono rispondere.
Il che giustifica un confronto critico e permette una mescolanza degli stili di
vita.
All’interno del pensiero
ermeneutico resta a tutt’oggi aperto il dibattito tra queste sue due anime
principali, rappresentate dal principio di effettività, da una parte, e dalla
riabilitazione della ragion pratica dall’altra. (10) Tuttavia, in linea di principio, questi due orientamenti non
sono necessariamente in contrasto tra loro, ma lo diventano in presenza di una
radicalizzazione dell’uno o dell’altro. Si potrebbe, al contrario, mostrare che
nel loro assetto moderato abbiano bisogno l’uno dell’altro. Infatti,
l’individuazione dei testi paradigmatici e delle pratiche emblematiche è
possibile solo se si riconosce che esse intendono rispondere alle domande che
si pone l’interprete e alla ricerca per cui egli s’impegna nella pratica
interpretativa. Per converso, non si possono chiarificare le istanze che giustificano
la ricerca se non attraverso determinate risposte che hanno ai nostri occhi un
accreditamento particolare. Resta il fatto che lo storicismo e l’astrattismo
metafisico sono dietro l’angolo.
Vorrei ora mostrare in che
modo queste articolazioni del pensiero ermeneutico si possano applicare
all’interpretazione giuridica, sì da contribuire a chiarificarne il senso
generale all’interno del quale si esercitano quei metodi che si sono consolidati
nella tradizione del pensiero giuridico.
Il primato della comprensione
spinge, dunque, l’ermeneutica come filosofia ad interrogarsi sul senso delle
opere umane. Abbiamo già notato che non si tratta semplicemente di mettere a
contatto culture diverse, cioè di problemi di traduzione di linguaggi, ma di
comprendere la «cosa» di cui si tratta e questa non si lascia imprigionare
nella relatività di una cultura, né esaurire dalla molteplicità delle sue
applicazioni. È proprio in riferimento a questo «senso comune» che le culture
possono veramente comunicare. L’ermeneutica si colloca in questo spazio
interstiziale che propriamente non esiste, perché ogni evento interpretativo
appartiene inevitabilmente ad un processo culturale. Essa s’interroga su ciò
che rende possibile alle forme di vita di dialogare tra loro attraverso eventi
che purtuttavia restano interni e propri a ciascuna di esse. In nome di che
consideriamo come «diritto» sistemi di regole così diversi tra loro se non
perché la «cosa» di cui si tratta è in qualche modo comune? Perché non
consideriamo la scienza del diritto comparato un luogo d’insensatezze e di
fraintendimenti se non perché l’impresa giuridica ha in qualche modo dovunque
un senso comune?
La particolare attenzione che
l’ermeneutica rivolge ai testi viene spiegata dal fatto che i testi ci parlano
di qualcosa o, meglio, sono il luogo in cui è possibile incontrare il senso per
cui li si interpreta. Poiché l’attività interpretativa è messa in moto
dall’istanza cogente della realizzazione di un’opera, i testi in questione sono
quelli «sacri», cioè quelli che chiamano ad un compito che si percepisce come
ineludibile.(11) Possiamo considerarli
«testi classici» se diamo a quest’espressione un significato ampio.(12) Sono testi classici le grandi opere letterarie
e artistiche, ma anche quelle religiose e i testi giuridici. Sono considerati
emblematici, perché in essi il senso dell’opera da compiere si svela in modo particolare,
sicché essi assumono il ruolo di punto di riferimento per comprendere i
significati delle azioni. Non bisogna pensare solo a testi scritti. Anche il
modo di comportarsi comune agli uomini può assumere il ruolo di sistema di
riferimento mediante il quale comprendiamo una lingua sconosciuta.(13)
Si palesa, pertanto, evidente tutta la differenza tra
l’approccio giuspositivistico al testo e quello proprio dell’ermeneutica
giuridica. Il primo ritiene, infatti, che tutto il senso sia immanente al testo
e racchiuso in esso. Il giuspositivismo non si caratterizza in quanto afferma
che tutto il diritto è prodotto dell’opera umana – cosa per tanti versi
accettabile –, ma fondamentalmente per il fatto di sostenere lo «stare in se
stesso» del diritto positivo, cioè l’identificazione fra il senso del diritto e
i testi giuridici ovvero – il che è lo stesso – l’autolegittimazione del testo.
Ciò vale sia nel caso che i testi giuridici si pensino come ormai assolutamente
indipendenti dai loro autori, sia nel caso che li si consideri sempre come
luogo di manifestazione delle intenzioni autoritive. In ogni caso qui il senso
è inteso come un dato di fatto.
Nella prospettiva ermeneutica,
invece, non è un testo ad avere un senso, ma un senso ad avere uno o più
testi.(14) Ciò significa che è il diritto in quanto
senso specifico dell’operare umano a precedere e conferire significato ai
testi, che proprio per questo sono considerati «giuridici». Nessuno di essi è
però in grado di afferrare e racchiudere in sé tutto il senso del diritto,
essendone ognuno solo una più o meno adeguata manifestazione (instantiation). Se non fosse così,
comprensione e interpretazione sarebbero la stessa cosa e, conseguentemente,
non sarebbero possibili criteri di valutazione relativi alla correttezza della
seconda. Il diritto sarebbe interpretazione e null’altro che interpretazione
senza poter dire di che cosa si tratti. Neppure si potrebbe rispondere
conclusivamente che si tratta d’interpretare testi giuridici, perché questi
sono essi stessi frutto d’interpretazioni, a meno che non li si considerino
meri enunciati linguistici, i quali di per sé non hanno nulla di «giuridico».
L’interpretazione è legata alla positività fino al punto da potersi affermare
che la stessa positività del diritto è il risultato d’interpretazioni e il principio
di altre interpretazioni. Il senso propriamente non lo si interpreta, ma lo si
comprende, e ciò dà luogo ad una catena infinita di eventi interpretativi. La
questione metodologica della correttezza dell’interpretazione è, dunque,
subordinata a quella ermeneutica delle condizioni di possibilità della
comprensione dei testi giuridici.
Pertanto il «testo giuridico»
in senso proprio non si deve confondere con i «testi giuridici». Certamente
ogni interpretazione si rivolge ad un materiale giuridico (scritto o orale) da
cui trarre i significati delle regole, ma questo riceve il suo senso da qualcos’altro,
sia esso una tradizione, una pratica sociale che perdura nel tempo, un modo
consolidato d’intendere i rapporti e le situazioni sociali. Insomma, il testo
in cui leggere il diritto è una pratica sociale che si va attualizzando nel
tempo e nello spazio, conservando una continuità per quanto esile o
difficilmente discernibile. Ciò non vuol dire che ogni epoca giuridica non sia
stata contrassegnata da «testi giuridici» in qualche modo emblematici, quali,
ad esempio, il Corpus iuris di
Giustiniano, il Decretum Gratiani, il
Code civil di Napoleone e, oggi,
Nella tradizione giuridica
occidentale – come ben nota Berman – il diritto è concepito come un insieme
organico, come un «corpo» unitario, corpus
iuris, che si evolve nel tempo attraverso i secoli e le generazioni.(15) Quest’idea, di cui si può trovare traccia
già nel diritto romano, è stata elaborata in modo consapevole in epoca
medioevale dai canonisti europei del dodicesimo e del tredicesimo secolo e dai
romanisti che insegnarono il diritto giustinianeo nelle università europee.
Questo corpus organico è fatto di
norme e di dottrine, di principi e di concetti. La sua configurazione è
strettamente legata al nascere della scienza giuridica e del ceto dei giuristi.
In altre parole, il diritto comprende non solo i comandi e le decisioni
dell’autorità politica, ma anche le dottrine e i concetti elaborati dai
giuristi, le interpretazioni e le decisioni dei giudici. Ciò significa che il
diritto possiede al suo interno i criteri per la propria sistemazione e per la
propria valutazione. Questo è il significato del richiamo ad un «corpus», che
sarebbe tradito dall’intenderlo nel senso di un «sistema» logico.(16)
Questa configurazione del
diritto è assente nelle culture non-occidentali e nelle stesse culture europee
di origine barbarica fino all’undicesimo secolo. In queste non si può parlare
del diritto come di un ordinamento distinto dalla morale, dalla religione e
dalla politica. Ciò però non significa necessariamente che il diritto sia fatto
esclusivamente di prescrizioni e procedure formali.
Non bisogna confondere
quest’idea con quella kelseniana dell’unità di un sistema normativo discendente
da una norma fondamentale, che ne è semmai un’applicazione riduzionistica
generata da esigenze di razionalizzazione portate weberianamente al loro
estremo. In epoca medioevale il diritto come corpus era il risultato dell’integrazione di sistemi giuridici
differenti. Tale integrazione fu favorita dalla dottrina della gerarchia delle
fonti del diritto e dai criteri dottrinali per la soluzione dei conflitti fra
norme appartenenti o non a regimi giuridici differenti.
Il primo esempio di questo
modo di affrontare il rapporto fra norme di origine differente lo si trova
nella Concordanza dei canoni discordanti
del monaco Graziano nel 1140. Graziano affermava che nel caso di conflitto la
consuetudine doveva cedere il posto alle leggi scritte, queste al diritto
naturale e quest’ultimo al diritto divino. Questo è un caso emblematico di
«concorrenza degli ordinamenti», cioè tra l’ordinamento del diritto proveniente
dalla società (consuetudine), quello proveniente dal superiore politico (legge
scritta), quello proprio della ragione (diritto naturale) e quello proveniente
dalla rivelazione divina (diritto divino). Come si può constatare, qui
l’unicità del corpus iuris è non solo
compatibile con, ma addirittura
costituita dal pluralismo dei regimi
giuridici. Questo pluralismo è a tutto campo, cioè riguarda anche la natura di
questi differenti regimi giuridici, che hanno fonti e regole eterogenee.(17) Che proprio questo pluralismo, sul piano
storico, sia risultato pienamente compatibile con l’idea unitaria del corpus iuris rimette in discussione la
tesi weberiana dell’incompatibilità tra diritto tradizionale, diritto
carismatico e diritto razionale. Sta di fatto che, quando ha prevalso il
diritto razionale, l’idea del corpus
iuris è scomparsa ed è stata sostituita dal sistema kelseniano, che vede
nel pluralismo giuridico un difetto o un male da combattere.
Oggi al posto del corpus iuris c’è lo «spazio giuridico
europeo» in cui fluttuano in modo disordinato norme venute non si sa da dove,
applicate non si sa come e da chi. Ai nostri occhi si presenta «un
guazzabuglio, una massa frammentata di decisioni ad hoc e di norme confliggenti, unite solo da “tecniche” comuni».(18) Questa situazione alimenta il cinismo e,
in ultima istanza, favorisce il nichilismo.(19)
Uno spazio giuridico, che non
è un corpus né un ordinamento, al
contempo contribuisce a destrutturare gli ordinamenti statali e rende
problematico applicare ad essi la nozione corrente di «ordinamento giuridico».
Il fatto è che per noi il concetto di ordinamento giuridico conserva,
nonostante tutto, un certo richiamo statalistico. Credo che ciò valga anche per
il pensiero di Santi Romano quando pensa ogni ordinamento come esclusivo al suo
interno e alternativo al suo esterno, caratteristiche queste di chiara
derivazione statalistica. In tal modo il pluralismo degli ordinamenti giuridici
è costruito sulla falsariga del pluralismo degli ordinamenti statali.
Se restiamo ancorati a questa
nozione «statalistica» di ordinamento, allora dobbiamo riconoscere che il
diritto non è più un corpus e quello
statale non è più in senso stretto un ordinamento. Oggi, per usare le parole di
Zagrebelsky, «il diritto come ordinamento non è più un dato, come era
nell’Ottocento, ma, semmai, potremmo dire è diventato un problema, un
gravissimo problema».(20)
Tuttavia, se siamo disposti ad abbandonare l’idea riduzionistica di ordinamento
normativo, forse v’è spazio per riprendere in forma profondamente nuova l’idea
romana e medioevale di corpus iuris.
Questo nuovo orientamento
trova la sua inconsapevole origine e giustificazione nell’idea stessa
(anch’essa propria della tradizione giuridica occidentale) di Stato di diritto, che pure è nata in
un’atmosfera giuspositivistica. Se ci fosse identità tra diritto e Stato (come
pensa Kelsen), ne conseguirebbe che ogni Stato è Stato di diritto e, pertanto,
il principio che gli Stati siano soggetti al diritto, a null’altro che al
diritto, perderebbe tutto il suo significato. Come possono le leggi porre
vincoli alla politica se il diritto è né più né meno che il prodotto della
politica? (21) Se invece il diritto
è un corpo in qualche modo unitario di norme, procedure, decisioni, dottrine,
principi al contempo precedente e risultante dall’interazione di regimi giuridici
differenti, allora sarà più agevole giustificare la dottrina dello Stato di
diritto. Gli Stati cedono parte della loro sovranità, ma ne ricevono
legittimazione sostanziale.
Ricorrendo per l’ultima volta
ad una citazione di Berman, possiamo dire che «una teoria sociale del diritto dovrebbe studiare fino a che
punto la tradizione giuridica occidentale sia sempre stata dipendente, anche
nel fiorire dello Stato nazionale, dalla convinzione dell’esistenza di un corpo
di norme ulteriori al diritto prodotto dalle massime autorità politiche,
diritto un tempo chiamato divino, poi naturale e da ultimo diritti umani; e
fino a che punto questa convinzione, a sua volta, sia dipesa dalla vitalità dei
singoli sistemi giuridici delle comunità all’interno della nazione (città,
regioni, associazioni di lavoratori), così come di quelle che vanno al di là
dei confini nazionali (associazioni mercantili e bancarie, agenzie
internazionali, chiese)». (22)
Insomma, ormai è divenuto
chiaro non solo che legge e diritto non s’identificano, ma anche che il diritto
statale è solo una parte del diritto che si applica e che questo nel suo
complesso ha un senso se può essere pensato in qualche modo come un corpo, un corpus iuris.
Nell’esperienza giuridica c’è
anche un altro modo di render conto del diritto. Ora la comunanza non si cerca
più nella persistenza della coscienza storica, che attualizza in modo sempre
nuovo princìpi o regole provenienti dal passato e consolidati dalla tradizione.
Ora ci si chiede se non ci siano ragioni persistenti del perché del diritto nelle società di tutti i tempi e paesi, se non
ci siano beni o fini che solo dal diritto possano essere assicurati o che è
necessario raggiungere anche al modo del diritto. (23) Ciò non significa che ci siano contenuti
giuridici immutabili né che ci siano strutture fisse della giuridicità, ma che
ci sono valori fondamentali o orizzonti generali di bene che dovrebbero essere
resi accessibili ad ogni essere umano e che costituiscono il senso del diritto
e le ragioni del suo uso.
A questo proposito il percorso
dell’ermeneutica filosofica è quello che prende le mosse dai discorsi
giuridici, in cui si parla della «cosa-diritto», per risalire ai fini che li
giustificano. È un percorso induttivo e non già deduttivo, come conviene alla
ragion pratica. Il discorso è quella situazione di linguaggio in cui si attua
il comprendere e l’intendersi. All’interno di questa «situazione discorsiva»,
che è prima di tutto un evento, dovrà poi operarsi il controllo razionale o
analitico, ma non è questo che potrà qualificare come «giuridico» l’evento
stesso. Al contrario è dal carattere specifico della situazione discorsiva che
dipende il modo in cui si possono saggiare le sue pretese di validità.
Ciò che conferisce senso al
discorso giuridico e all’impresa cooperativa che esso sostanzia non è dato
dalle sue specifiche condizioni d’esercizio, ma dagli obiettivi che lo mettono
in moto.
I discorsi pratici (etici o
giuridici) si articolano sulla base di argomenti e mezzi per il loro esame, in
cui si saggiano intersoggettivamente le giustificazioni delle azioni o
omissioni e si mettono in questione le pretese di validità delle norme, dei
giudizi di valore e delle istituzioni. Se li osserviamo alla luce di ciò che
questi discorsi tendono a realizzare o a raggiungere, allora non solo le
argomentazioni, ma anche le stesse regole normative si presentano come
«ragioni» che giustificano le azioni. Queste ragioni possono essere colte solo
all’interno dei contesti discorsivi, che conferiscono ad esse esistenza ed
operatività, ma possono essere valutate e soppesate solo alla luce dei fini che
s’intendono raggiungere o che identificano la pratica sociale in questione.
Per l’ermeneutica filosofica
il discorso non serve soltanto a comunicare le intenzioni dei partecipanti, ma
soprattutto a tessere una forma di vita comune. Questa prospettiva impedisce
un’assimilazione dell’ermeneutica filosofica alla pragmatica linguistica.(24) Per quest’ultima le intenzioni e le
credenze sono il principio direttivo, cioè lo stato di cose che conferisce
senso al discorso. Per l’ermeneutica il principio direttivo è ciò di cui si sta
parlando o ciò che si sta facendo. È questa la «cosa» del testo ovvero ciò di
cui il testo parla. Non si tratta di un significato determinato, come può
essere un’intenzione, ma di sottomettersi ad una realtà normativa, cioè a
vincoli e a regole volte a raggiungere fini. La determinatezza del significato
sarà, invece, il risultato dell’interazione comunicativa e degli atti partecipativi.
Infatti il diritto, in quanto la «cosa» di cui il testo legale parla, è segnato
dall’indeterminatezza.
Un’opera d’arte ha un
carattere vincolante non già in virtù dell’intenzione dell’autore, ma perché ha
una pretesa di verità da rispettare. Del pari ci dobbiamo sottomettere alle
regole del gioco, se vogliamo praticarlo, e a quelle di una cultura se vogliamo
essere comunicativi al suo interno. Orbene, l’ermeneutica rifiuta la centralità
dell’intenzione proprio perché rivolge tutta la sua attenzione alle condizioni
entro cui ogni intenzione può essere formulata e acquista senso. Insomma, il
senso da comprendere non viene dall’intenzione, ma da qualcos’altro e,
comunque, non può essere compreso senza di esso. Infatti Gadamer nota che nel
gioco, come nella fruizione estetica, il soggetto agente è il gioco stesso. I
giocatori sono in un certo senso giocati dal gioco, che ha un carattere
autorappresentativo: esso domina i giocatori attraverso e nelle loro azioni.
«Il soggetto del gioco non sono i giocatori, ma è il gioco che si produce
attraverso i giocatori».(25)
L’attenzione dell’ermeneutica
filosofica si rivolge a quelle forme di vita comune che il discorso stesso costruisce
e istanzia. Il suo problema centrale non è quello della determinazione dei
significati all’interno di un senso già costituito, come potrebbe essere quello
di una cultura o di un linguaggio già esistenti e praticati. Questa è una
questione d’interpretazione, che presuppone già costituito il linguaggio
dell’interazione e si muove dentro un mondo già segnato dalla reciprocità,
dalla cooperazione e da un senso intersoggettivo contestuale, che in qualche
modo guida l’interprete e costituisce un vincolo nei confronti dell’opera di
ascrizione dei significati.(26)
Il vero e proprio problema dell’ermeneutica è quello della comprensione di ciò
che è estraneo e ciò è possibile solo in quanto si colga un senso comune tra il
nostro mondo e quello a cui appartiene il testo da comprendere. La scoperta di
questa comunanza non è possibile attraverso conoscenze puramente teoriche e
astratte, ma solo nell’evento pratico del discorso, in cui prende forma la
partecipazione ad un’impresa comune. Ciò che è comune tra il mondo del testo e
il mondo dell’interprete è il fine pratico, cioè la rilevanza del testo nei
confronti dell’azione da compiere. Se non si entra nell’ottica della conoscenza
pratica non è possibile afferrare le istanze dell’ermeneutica filosofica.
In conclusione dobbiamo
ribadire che l’ermeneutica filosofica ha per oggetto la problematica della
comprensione del senso delle imprese comuni e ritiene che esso non si trovi al
di fuori dei concreti eventi discorsivi. La «cosa» di cui parla il testo vive
nella pratica del comprendere e dell’interpretare.
La «cosa-diritto» non è
un’idea, non è un valore e non è neppure un insieme di procedure sociali, ma è
un’impresa comune tra esseri liberi e autonomi, ma bisognosi gli uni degli
altri per realizzare ognuno una vita ben riuscita. Quest’impresa cooperativa si
sostanzia in attività guidate da regole ed è volta a coordinare le azioni
sociali.(27) Ma tutto ciò è ancora
troppo generico, perché potrebbe essere applicato altrettanto bene ad altre
sfere della vita pratica, come la morale, la politica e l’economia.
Nella ricerca del senso dei
fenomeni culturali o delle «cose umane» il metodo migliore non è quello di
cercare l’elemento comune, perché ciò appiattisce una nozione verso il basso e
ne mortifica le possibilità e le ricchezze di manifestazione, in cui più
chiaramente si mostra il senso. Il bello si coglie meglio nelle cose più belle
e il buono nelle azioni più buone. Bisogna, pertanto, scegliere in via d’ipotesi
i casi emblematici, e accettati da tutti (éndoxa),
dei fenomeni culturali studiati per mettere a punto il senso principale del
concetto che si vuole definire. I casi periferici, a loro volta, appariranno
come esempi impoveriti o mancanti di qualcosa o, comunque, dubbi. Essi saranno
chiariti proprio sulla base dei legami significativi che hanno con il caso
principale. Questa comunanza permette l’estensione analogica del concetto, che
mostra così la sua autentica universalità. È solo nel caso emblematico che il
principio o la ratio della
definizione è più facilmente individuabile. Se partissimo dai casi dubbi non riusciremmo
mai ad approdare alla comprensione della pienezza del senso delle cose umane.
Se vi sono casi dubbi, è perché vi sono casi non dubbi ed è da questi che
bisogna prendere le mosse per chiarire gli altri.
Non si deve credere che questo
metodo sia, a differenza dell’altro, di tipo deduttivo, al contrario esso si
presenta come il modo più corretto di indagine induttiva. Aristotele l’ha,
infatti, esteso anche alla sua filosofia della natura.(28) La ricerca induttiva non procede dallo
scrutinio di tanti casi singoli per astrarre da essi l’elemento comune mediante
generalizzazioni. Questo è possibile solo a
posteriori per scopi didattici o espositivi, quando s’è già trovato
l’elemento comune. Al contrario, nella ricerca si procede da un caso
particolare assunto come emblematico in via ipotetica e si verifica se esso
possa offrire un’universalità autentica. L’importante è scegliere accuratamente
il caso paradigmatico e non dimenticare che si tratta solo di un’ipotesi da
verificare, che può e deve essere abbandonata se è privo di portata universale.
La dimensione ermeneutica del
metodo del caso principale è fuor di dubbio, ma essa risiede non tanto nel
procedimento d’indagine quanto piuttosto nell’esigenza della precomprensione
del senso all’interno della quale operano i processi di selezione della
riflessione. Il reale punto di partenza si trova in un universale indeterminato
o in una conoscenza approssimativa, ma, solo liberandosi dal fraintendimento,
si potrà arrivare alla determinatezza dei princìpi e, quindi, alla comprensione
del senso.
Si può ritenere che lo «Stato
di diritto» sia il modello paradigmatico a cui nella nostra epoca facciamo
ricorso per identificare i caratteri generali dell’impresa giuridica, che
intende sottrarre l’esercizio del potere all’arbitrio e alla disuguaglianza di
trattamento. Si può constatare che questo è un modo per cercare di realizzare
nelle società umane il valore della giustizia se è vero che «il diritto è
quella realtà il cui senso è servire alla giustizia».(29) Alla luce di questo modello siamo in
grado di individuare la presenza del giuridico in società culturalmente
differenti, in cui tuttavia possiamo riconoscere le stesse finalità ed
esigenze, anche se espresse in forme e modi imperfetti. Il diritto non è
presente in ogni caso allo stesso modo, ma è tale in modo più o meno pieno e
compiuto, perché più o meno chiare e distinte ne sono le finalità e più o meno
adeguati ne sono gli strumenti.
Più di recente anche il modello ottocentesco dello
«Stato di diritto» ha manifestato i suoi limiti nei confronti del senso
generale dell’impresa giuridica, perché ci si è resi consapevoli che
l’eguaglianza formale non può bastare se è vero che essa può convivere con
disuguaglianze sostanziali. È per questo che oggi lo «Stato costituzionale di
diritto», che mette al centro il valore della persona umana e la sua dignità,
si presenta come candidato preferibile al ruolo di caso emblematico della
pratica del diritto. Ma sarebbe ingenuo pensare di aver così trovato o
costruito il modello perfetto della giuridicità.
Una filosofia ermeneutica del
diritto considera gli sforzi giuridici volti ad organizzare la vita sociale
come tentativi più o meno riusciti di edificare società giuste, nonostante le
drammatiche smentite della storia. Ciò che risulta irragionevole alla luce di
questa finalità è destinato prima o poi ad essere travolto e spazzato via per
gli effetti devastanti della pratica. La ragion pratica è verificata dai
risultati delle sue applicazioni più che dal valore astratto dei suoi princìpi.
Possiamo,
pertanto, osservare in conclusione che la riflessione sulla «cosa-diritto»
prende le mosse da modelli storici particolarmente significativi, che assumono
il ruolo di casi paradigmatici. Essi ci parlano del senso del diritto, ma
questo è sempre sporgente rispetto ad un determinato modello o ad un particolare
assetto sociale. Si può dire che queste articolazioni del senso del diritto lo
esprimono in modo più o meno compiuto, ma non in modo definitivo e esauriente
una volta per tutte. Il senso del diritto si costruisce la propria espressione
storica e, al contempo, ne decreta i limiti.
Credo non solo che il percorso
del «diritto come testo» sia pienamente compatibile con quello del «diritto
come cosa», ma anche che l’uno abbia bisogno dell’altro. La ragion pratica
lavora nella storia. Il dialogo e l’integrazione tra mondi culturali differenti
presuppongono una comunanza che è insieme basata sulla capacità d’intendere un
linguaggio proveniente da altri mondi e sul convergere verso gli stessi
orizzonti di bene. Se si nega la possibilità di comunicare, si sarà costretti
anche a negare la possibilità di cooperare.
(1)
Che questa sia compatibile con un’ermeneutica filosofica è mostrato in modo
convincente da E. Berti, Come argomentano
gli ermeneutici?, in G. Vattimo (a cura di), Filosofia ’91, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 13-31.
(2)
H. G. Gadamer, Ermeneutica, in Enciclopedia del Novecento, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1977, p. 738.
(3)
V. Mathieu, L’uomo animale che
interpreta, in V. Mathieu - L. Paoletti (a cura di), Il problema della fedeltà ermeneutica, Armando, Roma 1998, pp.
25-26.
(4)
A. Ross, Diritto e giustizia, a cura
di G. Gavazzi, Einaudi, Torino 1965, pp. 32-33.
(5)
M. Ferraris, Storia dell’ermeneutica,
Bompiani, Milano 1988, pp. 269-270.
(6)
J. J. Moreso, Notas sobre filosofía
analítica y hermenéutica, in L. Triolo (a cura di), Prassi giuridica e controllo di razionalità, Giappichelli, Torino
2001, pp. 217-219.
(7)
Cfr., ad es., Ch. Taylor, Etica e umanità,
a cura di P. Costa, Vita e Pensiero, Milano 2004.
(8) Il
«buon» universalismo è l'orizzonte d'intesa di almeno due particolari quand’essi sono capaci di universalizzazione. Cfr.
T. Todorov, Noi e gli altri. La
riflessione francese sulla diversità umana, trad. di A. Chitarin, Einaudi,
Torino, 1991, p. 17.
(9) Cfr.
E. A. Russo e A. C. Moguillanes Mendia, La
lengua del derecho. Introducción a la hermenéutica jurídica, Editorial
Estudio, Buenos Aires 20013.
(10) Cfr. H.G. Gadamer, Hermeneutik als praktische Philosophie, in M. Riedel (a cura di), Rehabilitierung der praktische Philosophie,
vol. I, Rombach,
Freiburg 1972, pp. 325-344 e F. Volpi, Ermeneutica
e filosofia pratica, in “Ars interpretandi”, 7, 2002, pp. 3-15.
(11) Cfr., ad esempio, M. Barberis, Il sacro testo. L’interpretazione giuridica fra ermeneutica e
pragmatica, in “Ars interpretandi”, 4, 1999, pp. 273-292.
(12) Cfr. E. Berti, La
classicità di un testo filosofico, in “Ars Interpretandi”, 2, 1997, pp.
1-14 e R. Brandt, La lettura del testo
filosofico, trad. di P. Giordanetti, Laterza, Roma-Bari 1998.
(13) L. Wittgenstein, Ricerche
filosofiche, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1974, § 206.
(14) J. Hruschka, La
comprensione dei testi giuridici, trad. it. di R. De Giorgi, Esi, Napoli
1983, p. 30.
(15) H. J. Berman, Diritto e
rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale (1983),
trad. di E. Vianello, Il Mulino, Bologna 1998, p. 26.
(16) Si può anche mostrare che il termine “sistema” ha origine
proprio dal concetto di “organismo” della medicina, Cfr. F. Viola, Autorità e ordine del diritto, Giappichelli,
Torino 19872, p. 113, n. 146.
(17) Questo lo noto per marcare la differenza con la problematica
attuale della «concorrenza degli ordinamenti giuridici» all’interno dell’Unione
Europea. Nonostante la differenza fra i sistemi di common law e quelli di civil
law, questi ordinamenti sono ben più omogenei di quelli medioevali. Cfr.
per tale questione A. Zoppini (a cura di), La
concorrenza tra ordinamenti giuridici, Laterza, Roma-Bari 2004.
(18) H. J. Berman, op. cit., p.
69.
(19) Cfr. N. Irti, Nichilismo
giuridico, Laterza, Roma-Bari 2004.
(20) G. Zagrebelsky, I
diritti fondamentali oggi, in “Materiali per una storia della cultura
giuridica”, 22, 1992, n. 1, p. 192.
(21) Cfr. N. MacCormick, La
sovranità in discussione. Diritto, stato e nazione nel «commonwealth» europeo
(1999), trad. di A. Torre, Il Mulino, Bologna 2003, p. 144.
(22) Berman, op. cit.,
p. 78.
(23) Su questo tema cfr. F. Viola e G. Zaccaria, Le ragioni del diritto, Il Mulino, Bologna
2003, cap. I.
(24) Cfr. F. Viola, Intenzione
e discorso giuridico: un confronto tra la pragmatica linguistica e
l’ermeneutica, in “Ars interpretandi”, 2, 1997, pp. 53-73.
(25) H.G. Gadamer, Verità e
metodo (1960), a cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1983, p. 133.
(26) Cfr. U. Scarpelli, L’interpretazione.
Premesse alla teoria dell’interpretazione giuridica, in U. Scarpelli e V.
Tomeo (a cura di), Società, norme e
valori, Giuffrè, Milano 1984, p. 164.
(27) Per le condizioni
generali e strutturali della cooperazione e per la sua distinzione dalla mera
coordinazione cfr. il mio Il modello
della cooperazione, in F. Viola (a cura di), Forme della cooperazione. Pratiche, regole, valori, Il Mulino, Bologna
2004, pp. 11-58.
(28) Cfr. W. Wieland, La
fisica di Aristotele. Studi sulla fondazione della scienza della natura e sui
fondamenti linguistici della ricerca dei princìpi in Aristotele (1970), trad. di C.
Gentili, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 106-126.
(29) G. Radbruch, Rechtsphilosophie,
Schneider, Stuttgart 1983, p. 119.