http://www.units.it/etica/2006_1/VELLUZZI.htm
Istituto di filosofia
e sociologia del diritto
Abstract
In legal practise it is not clear what is the meaning
of the expression “general clause”. It seems possibile to find a strong core of
meaning referring to the presence of evaluative terms. This way of bounding the
notion at issue is very profitable to understand many concepts related to general
clause and involved in the practice of legal dogmatics like “evaluative integration”.
To reach the aim is necessary to spend some words about some concepts belonging
to philosophy of language and moral philosophy. |
1.
Oggetto e finalità del presente studio
In
questo saggio mi occuperò della semantica di quelle che i giuristi (cultori
del diritto civile in particolare) chiamano “clausole generali”, ad esempio: buona
fede, ingiustizia del danno, ordinaria diligenza, buon costume, ovvero singole parole
o sintagmi contenuti in enunciati normativi, sovente di rango legislativo, cui vengono
attribuiti peculiari caratteri semantici e in ragione di questi particolari conseguenze
sul piano della loro interpretazione. (1) Quali
siano le caratteristiche proprie di una clausola generale non è facile a dirsi e
per ora è bene accontentarsi degli esempi fatti sopra.
Lo
studio della semantica delle clausole generali è di sicura importanza per i giuristi
e per i teorici del diritto, ma può rivestire interesse anche per i filosofi (del
linguaggio e della morale in specie) e l’auspicio è che nel prosieguo di questo
breve saggio le ragioni di interesse emergano con facilità: bisognerà trattare,
infatti, di vaghezza e di altre forme di incertezza del significato, del rapporto
di quest’ultima con la necessità di rinviare a criteri morali per determinare il
significato delle clausole generali e di altro ancora. Ne tratterò in maniera necessariamente
semplificata ma, auguro, costruttiva. Procediamo con ordine. La speranza è che queste
osservazioni non risultino indigeste ad un pubblico di non giuristi e teorici del
diritto.
Cercando
di capire cosa intendono giuristi col sintagma “clausole generali”, o al singolare
“clausola generale”, individuerò un nucleo stabile o ricorrente di caratteristiche
ritenute presenti nelle clausole generali e le sottoporrò a discussione. In particolare,
indicherò qual è (o meglio in quanti modi viene declinata) la proprietà semantica
peculiare della clausole generali secondo la dottrina (giuscivilistica), tentando
successivamente di dimostrare che il profilo in questione rimane oscuro e foriero
di confusione. A mio modo di vedere si può fare chiarezza attingendo ad alcune nozioni
tipiche della filosofia del linguaggio e della filosofia morale contemporanea e
si può giungere sino a mostrare qual è (o quali sono ove se ne riscontrino più di
uno) il profilo semantico caratteristico delle clausole generali, a valutarne con
puntualità le implicazioni, specie per ciò che concerne l’interpretazione delle
norme che le contengono. Interpretare norme (uso l’espressione in maniera affatto
generica) significa determinarne il significato, ma in che senso l’interpretazione
di norme che contengono clausole generali è diversa da quella che non le contengono?
Ciò
detto, si possono delineare le finalità principali del saggio che sono, quindi,
le seguenti: a) porre in rilievo, se c’è, il tratto semantico peculiare delle clausole
generali; b) valutarne le eventuali conseguenze, specie per ciò che concerne la
cosiddetta “integrazione valutativa” cui sarebbe chiamato l’interprete e per la
connessa questione della “delega” operata per mezzo delle clausole generali all’interprete
medesimo.
2.
La semantica delle clausole generali e la dottrina civilistica italiana
Il
lessico della dottrina (ma anche quello dei giudici) in argomento è il più vario,
infatti, vengono usate come perfettamente o parzialmente sinonime le nozioni di:
clausola generale, concetto elastico, termine valutativo, concetto indeterminato,
standard valutativo (o solo standard), nozione a contenuto variabile, nozione a
vaghezza socialmente tipica, concetto valvola ed altre ancora. In maniera altrettanto
varia è caratterizzato il profilo semantico peculiare delle clausole generali: indeterminatezza,
elevata generalità, particolare tipo di vaghezza etc. Qualsiasi cosa siano le clausole
generali, qualunque sia il loro tratto semantico particolare, giurisprudenza e dottrina
sono concordi nel sostenere che la determinazione del significato delle clausole
generali richiede un’integrazione valutativa e che essa avviene attraverso una delega
che la stessa formulazione della clausola generale accorda all’interprete.
Una pur breve rassegna della letteratura
giuridica può agevolmente corroborare quanto si è appena affermato. Guardando alla
dottrina, va segnalato che nel nostro paese il tema delle clausole generali ha impegnato
in prevalenza gli studiosi di diritto privato. (2)
Si è già detto che di frequente
i giuristi trattano della nozione di “clausola generale” senza definirla compiutamente,
accennando in vari punti del discorso svolto ad alcune caratteristiche che le stesse
clausole generali possiederebbero; oppure, queste caratteristiche vengono date sovente
per pacifiche ed acclarate, o delineate in maniera generica e l’attenzione si sposta
sulle conseguenze che le caratteristiche medesime produrrebbero. Il quadro non muta
granché per ciò che concerne la giurisprudenza. (3) Si
potrebbe dire che l’indeterminatezza resta indeterminata e che non del tutto chiaro
è il nesso tra quest’ultima e lo statuto peculiare sul piano interpretativo delle
clausole generali (o meglio: delle norme che le contengono).
Esaminiamo in sintesi, ma con attenzione filologica, i
contributi più significativi per avere un quadro complessivo della questione.
Adolfo Di Majo, ad esempio, dopo
aver rilevato che “… non esiste … convergenza di opinioni sulla loro precisa struttura,
sul rapporto con le altre norme dell’ordinamento”, sostiene, che le clausole generali
“… non debbono identificarsi a stretto rigore né con concetti indeterminati od
elastici (ad es. ‘inadempimento grave’, licenziamento senza ‘giustificato motivo
o giusta causa’ …) né con quelli normativi (‘diritto altrui’, ‘bene demaniale’,
‘danno ingiusto’) …”, pur precisando “… che, per la gran parte dei casi, le clausole
generali sono caratterizzate da un forte grado di ‘indeterminatezza’, così come
esse fanno uso di valutazioni e non di descrizioni di fatti”. (4) L’autore sofferma poi l’attenzione sul rapporto tra clausole
generali e poteri del giudice. Su questo punto sottolinea che le varie opinioni
espresse, ad esempio quelle del superamento della tecnica della sussunzione, dell’impossibilità
di individuare nelle clausole generali un nucleo concettuale ed altre ancora, non
indicano un efficace strumento di controllo del ragionamento compiuto dal giudice,
cosicché “… Se la tecnica delle clausole generali intende prendere le distanze dalle
formule ricorrenti di ‘giustizia del caso concreto’, rispondenti in forma più o
meno diretta, all’idea di equità, è vero anche che siffatta distinzione è più lastricata
di buone intenzioni che di altro. È assai tenue il filo che lega la decisione del
singolo caso al contenuto (assiologico) della clausola generale …”. (5)
Si è detto ripetutamente che è
il profilo della delega al giudice di un peculiare potere di “concretizzazione”
ad essere pressoché onnipresente nella letteratura, pur essendo tratteggiata con
diversa terminologia la causa di tale delega di potere. Riguardo a questo profilo,
autorevole dottrina ritiene che le clausole generali siano “… norme nelle quali
… vi è un’eccedenza di valori di contenuto ‘assiologico’ rispetto ai contenuti normativi
abituali delle regole”, eccedenza assiologica dalla quale deriva che “… nelle ‘clausole
generali’ vi è una delega al giudice, perché attinga a qualcosa di estraneo alla
formula legislativa letta nei termini e nelle parole che la compongono, e costruita
secondo i criteri che l’ordinamento stesso gli prescrive di seguire … nelle ‘clausole
generali opera … la delega a ricercare ‘valori’ fuori dai rigidi confini dell’ordinamento
positivo”. (6)
Vari autori sottolineano l’ampiezza
della discrezionalità giudiziale in presenza di clausola generali, pur se da un’altra
prospettiva rispetto a quella dell’eccedenza assiologica. Luigi Mengoni, ad esempio,
ha autorevolmente sostenuto che “Le clausole generali … impartiscono al giudice
una misura, una direttiva per la ricerca della norma di decisione: esse sono una
tecnica di formazione giudiziale della regola da applicare al caso concreto, senza
un modello di decisione precostituito da una fattispecie normativa astratta”, (7) ed ancora “Da norme di rinvio (ad altre norme), quali
erano concepite all’origine, le clausole generali si sono trasfigurate in norme
di direttiva, che delegano al giudice la formazione della norma (concreta) di decisione
vincolandolo a una direttiva espressa attraverso il riferimento ad uno standard
sociale. La direttiva non si esaurisce nell’indicazione di uno scopo, bensì indica
una misura di comportamento, che il giudice deve concretizzare in forma generalizzabile,
cioè in funzione di una tipologia sociale”. (8)
Al potere di concretizzazione del
giudice, chiamandolo integrazione valutativa, fa riferimento anche Carlo Castronovo,
il quale sostiene che “… La clausola generale va perciò definita come concetto elastico,
il cui riferimento al caso concreto ai fini dell’applicazione della norma richiede
una previa integrazione valutativa ad opera del giudice”. (9) A questa definizione il civilista giunge attraverso l’accurata
analisi delle tesi di Engisch. (10)
Castronovo ritiene che Engisch individui, in maniera un po’ ambigua, due accezioni
di clausola generale: come sinonimo di norma generale (o meglio, di norme ad elevata
generalità), che descrive la fattispecie in termini riassuntivi; e come concetto
bisognoso di integrazione valutativa. Secondo Castronovo queste due nozioni sono
tra loro inconciliabili, rischiano, infatti “… di compromettere la stessa utilizzabilità
della categoria: tra chi scrive e il suo lettore può crearsi una sorta di … dissenso
occulto come effetto di un’inevitabile confusione delle lingue”. (11) Per cui, conclude la dottrina in esame, è bene rifarsi
all’uso prevalente tra i giuristi, i quali ritengono caratterizzante delle clausole
generali l’integrazione valutativa e non l’altro dato (la elevata generalità). La
definizione fornita sembrerebbe quindi di natura lessicale e rivolta ad assecondare
l’uso prevalente nella comunità giuridica.
Pur riconoscendo il legame esistente
tra clausole generali e potere di concretizzazione giudiziale, o integrazione valutativa
che dir si voglia, Stefano Rodotà ritiene che quest’ultimo non sia un carattere
esclusivo delle clausole generali, ma riguardi anche principi “… direttive, strandards,
norme generali, concetti indeterminati”. (12)
Se si vuole procedere all’individuazione del tratto distintivo delle clausole generali
da alcune o da tutte le nozioni congeneri menzionate, non ci si può accontentare
di affermare l’esistenza del potere giudiziale di concretizzazione o di integrazione
valutativa senza che se ne indaghi la causa. Secondo questa dottrina le clausole
generali consistono, infatti, in una particolare tecnica legislativa: nella costruzione
di una fattispecie aperta e intenzionalmente indeterminata. (13) È l’intenzionalità dell’indeterminatezza, quindi, a caratterizzare
le clausole generali. Muovendo da tale definizione è possibile distinguerle
dai principi, poiché “… se con tale termine ci si riferisce alle indicazioni riguardanti
i valori fondativi di un ordinamento o di una sua parte” allora “… le clausole generali
non sono principi, anzi sono destinate ad operare nell’ambito segnato dai principi”. (14) Mentre è più difficile distinguere tra clausole generali
e standards, al punto da non poter cogliere, secondo l’illustre autore, un’apprezzabile
differenza: se il concetto di standard richiama, infatti, l’idea di normalità “…
variabile, ma in qualche modo ancorata da elementi obiettivi … In realtà, l’aggancio
a determinati valori attraverso un’idea di normalità variamente espressa non configura
una struttura normativa diversa da quella definibile come clausola generale, ma
la prospetta in forme tali da accrescere l’accettabilità sociale delle decisioni
che su di essa si fondano”. (15)
È altrettanto difficoltoso differenziare le clausole generali dai concetti indeterminati;
qui Rodotà si discosta da Engisch, che segue, invece, per quel che riguarda la collocazione
delle clausole generali sul piano della tecnica legislativa. Si è visto che Rodotà
pensa, al pari di Engisch, che il nucleo concettuale delle clausole generali risieda
nell’essere queste ultime una peculiare tecnica di redazione normativa che si sostanzia
nel descrivere con elevata generalità un ambito di casi ma ritiene che “… questo
può implicare proprio il ricorso a … nozioni indeterminate”, (16) cioè, per usare sempre le parole di Engisch, nozioni “il
cui ambito ed il cui contenuto sono molto incerti”. (17) Ciò che connota le clausole generali è che per esse l’indeterminatezza
è intenzionale, voluta dallo stesso legislatore.
Sin qui la dottrina esaminata ha
messo in luce con il lessico più vario la caratteristica peculiare delle clausole
generali, indicandola di volta in volta nell’elasticità, nella descrizione “sintetica”
della fattispecie, nella descrizione della fattispecie con elevata generalità, nell’indeterminatezza
intenzionale, nell’eccedenza assiologica ed in altro ancora. Il corollario necessario
della presenza del carattere menzionato sarebbe una sorta di delega al giudice di
un potere integrativo, o di integrazione valutativa (18) o di concretizzazione della fattispecie normativa, configurando,
così, uno speciale statuto dell’applicazione delle clausole generali rispetto alle
norme che non sono o non contengono clausole generali, dai contorni non troppo chiari.
È bene, giunti a questo punto esaminare sommariamente quei saggi che si sono soffermati
su quest’ultimo profilo.
La tesi della specificità dell’applicazione delle clausole
generali è efficacemente rappresentata da quanto scritto da Giovanni D’Amico e Michele
Taruffo.
Il primo sostiene che per trovarsi
in presenza di una clausola generale “… non basta che gli elementi della fattispecie
siano descritti con più o meno notevole grado di indeterminatezza. Essenziale è
piuttosto, che la norma presenti una struttura aperta, nel senso che non
operi essa stessa la qualificazione giuridica del fatto, ma ‘deleghi’ questo compito
all’interprete. Non dunque una ‘fattispecie’ già definita dal legislatore, e sia
pure con ricorso a espressioni indeterminate, bensì una fattispecie che spetta al
giudice costruire”. (19) Dalla caratteristica appena menzionata
deriva che la clausola generale è bisognosa di integrazione valutativa, comporta,
cioè, la necessità per l’interprete di porre in essere giudizi di valore del tutto
peculiari rispetto a quelli da lui compiuti ove debba applicare norme che non sono
o non contengono clausole generali. Vediamo in che cosa consiste, secondo D’Amico,
la peculiarità in questione. Nell’interpretare e nell’applicare le clausole generali,
il meccanismo della sussunzione opererebbe, per così dire, alla rovescia: mentre
per le norme che non contengono clausole generali “… è il fatto concreto che va
‘sussunto’ nella ‘norma’ (già data)”, in presenza di clausole generali “…
è il giudizio di fatto (espresso sulla base di parametri extralegali: ‘principi
dell’etica o del costume’, ‘canoni estetici’, ‘regole economiche’
e così via) a riempire il contenuto e a ‘concretizzare’ la clausola generale”. (20)
D’Amico
ha avuto il merito di esprimere con chiarezza, una chiarezza che giova alla critica,
una posizione condivisa da gran parte della dottrina. La medesima nitidezza va riconosciuta
a Michele Taruffo, anch’egli propenso a riconoscere alle clausole generali un regime
peculiare per quanto riguarda l’applicazione. Va precisato che il giurista pavese
parla di standard e non di clausole generali, sostenendo che ove una norma giuridica
fa riferimento ad uno standard “… essa è particolarmente ‘aperta’ dal punto di vista
della struttura logica e semantica”, (21) nel
senso che una o più variabili dell’enunciato normativo sono indeterminate. La menzionata
apertura ha come conseguenza, per ciò che concerne l’applicazione della norma stessa,
per un verso il rinvio a criteri non giuridici, esterni all’ordinamento giuridico
e per l’altro verso l’ampliamento della discrezionalità giudiziale nel compimento
dell’attività citata, denominata per l’ennesima volta, integrazione valutativa della
norma. Il ragionamento del giudice basato su standard sarebbe, per Taruffo, modellato
secondo uno schema diverso dalla cosiddetta sussunzione sillogistica. Quest’ultima
è così strutturata: premessa maggiore costituita dalla norma, premessa minore costituita
dal fatto, conclusione di tipo deduttivo. In presenza di uno standard l’ordine muta
e si ha “… prima il fatto che viene valutato secondo lo standard, che viene
poi qualificato in base alla norma, e che costituisce infine oggetto di decisione”.
(22) Avverto il lettore, però, che nelle pagine
che seguono non affronterò la questione del rapporto tra sillogismo giudiziale e
clausole generali: la tematica condurrebbe troppo lontano. (23)
Ricostruito
per sommi capi lo stato dell’arte per ciò che concerne parte della dottrina italiana
(24) si rende ora necessario tentare di fare chiarezza
riguardo a due aspetti: a) in che cosa consiste il più volte menzionato tratto semantico
peculiare delle clausole generali; b) in ragione del punto a) comprendere cos’è
l’integrazione valutativa. Sono questi, infatti, i nodi principali da sciogliere
riguardo alla semantica delle clausole generali ed alle sue conseguenze emersi dai
saggi esaminati. Per raggiungere lo scopo è necessario soffermarsi brevemente su
alcuni problemi di natura filosofico linguistica.
3.
Alcuni tipi di incertezza del significato
Cerchiamo,
dunque, di affrontare la questione dell’indeterminatezza delle clausole generali,
muovendo dall’esame di figure ben conosciute di incertezza del significato. Nell’ambito
della filosofia del linguaggio contemporanea tali figure sono state studiate a fondo
e sono tutt’ora dibattute, qui di seguito mi limiterò a fornire un quadro di sintesi
in ordine ai profili meno controversi, o se si preferisce, più pacifici, di ciascuna
di queste forme di incertezza del significato al fine di dimostrare come esse non
permettano di cogliere il dato semantico saliente delle clausole generali. (25)
Si
può avere incertezza del significato di un termine o di un sintagma o di un enunciato
se si è in presenza di: vaghezza di grado, vaghezza combinatoria, ambiguità. (26) Esaminiamo singolarmente, per quanto in estrema
sintesi, queste figure.
Vaghezza di
grado (o vaghezza senza specificazioni ulteriori): riguarda il significato,
consiste nella difficoltà di poter riferire il significato di un termine ad alcuni
casi, ovvero si tratta di una proprietà del significato e si intende che quel significato
non può essere delimitato con precisione. Per esemplificare: il significato X si
riferisce a Y, non si riferisce a Z, ma è dubbio se si riferisca ad F (riguardo
al significato di “persona alta”: una persona di mt 1,90 è alta, una persona di
mt 1,50 non è alta, una persona di mt 1,70 può dirsi o non dirsi alta?). La definizione
di vaghezza che si è appena fornita è tra le più diffuse, con qualche variazione
lessicale ma non di sostanza, sia in ambito giusfilosofico, sia in ambito filosofico
linguistico; (27) se accolta ci consente
di dire che la vaghezza è una caratteristica riguardante “… tutte le parole delle
lingua naturali che si riferiscono a cose o fatti- e dunque non i termini numerici
e della geometria e neppure i cosiddetti connettivi (e, o, non, se … allora) e quantificatori
(tutti, alcuni, nessuno)”. (28)
Vaghezza
combinatoria: riguarda anch’essa il significato e non è relativa
a grandezze misurabili come la vaghezza di grado, ma si ha in ragione di una combinazione
di caratteristiche. A differenza della vaghezza di grado quella combinatoria non
è ad una dimensione, bensì pluridimensionale. Il medesimo significato X si riferisce
a Y con caratteristiche A e B; si riferisce a Z con caratteristiche A e C; si riferisce
a F con caratteristiche B e C: non c’è una caratteristica che sia comune ad Y, Z
e F. (29)
Ambiguità: riguarda
i termini, i sintagmi e gli enunciati, e si ha ove questi esprimano più significati
o tra loro totalmente irrelati, ed è il caso dell’omonimia, oppure aventi tutti
un carattere in comune, ed è il caso dell’ambiguità, per così dire, in senso stretto,
in entrambe i casi si ha un fenomeno diverso dalla vaghezza combinatoria, fenomeno
a prima vista molto simile se non addirittura identico: qui non v’è, come per la
vaghezza combinatoria, una molteplicità di condizioni non ben determinate per l’applicazione
di un’espressione linguistica, bensì il termine, il sintagma, l’enunciato è in grado
di esprimere più significati. L’ambiguità presuppone, quindi, una pluralità di significati,
ciascuno dei quali può essere più o meno vago.
Si
è soliti raggruppare i differenti fenomeni ora accennati sotto la formula di indeterminatezza
del significato. La formula è sufficientemente esplicativa, anche se chi scrive
preferisce la nozione di incertezza del significato, riservando la nozione
di indeterminatezza alle clausole generali per le ragioni di cui si dirà tra poco.
In tutti questi casi (inclusa l’indeterminatezza delle clausole generali) il significato
è incerto, seppur per ragioni diverse: per la vaghezza di grado v’è incertezza sull’applicazione
del criterio che ne governa l’applicazione medesima, per la vaghezza combinatoria
l’incertezza riguarda l’applicazione della molteplicità dei criteri, per l’ambiguità
v’è incertezza su quale sia il significato. E per l’indeterminatezza? Di che tipo
di incertezza del significato si tratta e in cosa differisce dagli altri? Entriamo
nel cuore del problema.
Indeterminatezza: nonostante
il termine indeterminatezza si usi spesso per definire indifferentemente tutti i
fenomeni sopra menzionati, è preferibile per i nostri scopi farne un uso più puntuale,
riferendo l’indeterminatezza espressamente alle clausole generali: si ha indeterminatezza
quando ricorre un termine o sintagma valutativo il/i cui criterio/i di applicazione
non è/sono determinabili se non attraverso il ricorso a parametri di giudizio tra
loro potenzialmente concorrenti. Questo uso del termine “indeterminatezza” si rivela
maggiormente perspicuo, in quanto mette bene in luce che il significato delle clausole
generali è incerto in quanto la sua determinazione dipende dalla scelta di uno o
più criteri tra loro potenzialmente concorrenti e tende, inoltre, a differenziare
questo tipo di incertezza del significato dalle altre, senza sovrapposizioni parziali
o totali che siano.
Questa (ri)definizione necessita di essere adeguatamente
spiegata, in particolare bisogna metterne alla prova la forza esplicativa. Per prima
cosa bisogna argomentare a favore della “base” assunta per operare la (ri)definizione.
Ad onor del vero nel lessico dei giuristi il sintagma “clausola generale” viene
riferito sia a termini valutativi (buona fede, diligenza, buon costume, ingiustizia
del danno, giusto motivo), sia a termini non valutativi (ad esempio: impossibilità
sopravvenuta), caratterizzati da un grado molto elevato di vaghezza, da vaghezza
combinatoria, o fortemente ambigui oppure generali o generici. Anche di questi usi
si dovrà tener conto nel prosieguo, ma ora è opportuno ribadire che è in presenza
di termini valutativi che di regola si associano conseguenze peculiari, tra cui
la più volte menzionata delega al giudice di operare un’integrazione valutativa
della norma. Per cui vale la pena soffermarsi sul problema dell’indeterminatezza
delle clausole generali in ragione della presenza nelle stesse di termini valutativi.
L’indeterminatezza a differenza
della vaghezza (di grado o combinatoria che sia) non è dovuta all’incertezza dell’applicazione
del criterio o dei criteri di un termine, bensì al fatto che i criteri di applicazione
stessi non sono determinabili se non attraverso il ricorso a parametri di giudizio
tra loro potenzialmente concorrenti. V’è differenza anche tra indeterminatezza e
ambiguità: il problema non è la scelta tra più significati, bensì tra più criteri
concorrenti utili a determinare il significato. (30) Per intendere le parole che designano
proprietà valutative “… è fondamentale rendersi conto che queste proprietà derivano
o risultano da altre proprietà. Specificare quali sono, in relazione ad un certo
contesto, queste altre proprietà significa specificare quali sono, in tale contesto,
i criteri di applicazione del termine che designa la proprietà valutativa”. (31)
Ciò detto si può ora delineare con maggiore chiarezza
il rapporto tra indeterminatezza delle clausole generali e cosiddetta integrazione
valutativa ad opera del giudice.
4.
L’indeterminatezza delle clausole generali e l’integrazione valutativa
Riassumiamo
gli esiti raggiunti sino a questo punto. Le clausole generali sono nell’uso
prevalente termini o sintagmi di natura valutativa caratterizzati da indeterminatezza
semantica diversa dalla vaghezza di grado, dalla vaghezza combinatoria e dall’ambiguità:
il significato di tali termini o sintagmi, infatti, non è determinabile (o detto
altrimenti le condizioni di applicazione del termine o sintagma non sono individuabili)
se non facendo ricorso a criteri, parametri di giudizio, interni e/o esterni al
diritto tra loro potenzialmente concorrenti.
Orbene,
giunti a questo punto risulta piuttosto chiaro (spero) che clausole generali e standard
possono essere agevolmente distinti: lo standard altro non è che il criterio necessario
alla determinazione del significato delle clausole generali, e di conseguenza la
determinazione del significato delle clausole generali richiede la scelta del criterio,
dello standard utile ad individuarlo.
Si
è detto però che il criterio può essere interno o esterno al diritto. La dottrina,
con qualche eccezione, è solita ritenere che il criterio sia o debba essere sempre
un criterio esterno al diritto (ad esempio: la morale sociale), cioè non costituito
da altre norme giuridiche. Inoltre, nei discorsi dei giuristi si confondono costantemente
il piano descrittivo e quello prescrittivo, vale a dire che sovente non si comprende
se il rinvio a criteri esterni sia una conseguenza necessaria della semantica delle
clausole generali, oppure se tale rinvio sia non l’unica soluzione e tuttavia preferibile
in virtù di qualche ragione. Per il vero, dalla formulazione delle clausole generali
non è dato riscontrare necessariamente la natura esterna al diritto del criterio,
dello standard. Per essere più puntuali si danno due diverse situazioni. Si hanno
casi in cui la clausola generale indica il “tipo” di criterio utile ad individuarne
il significato, lasciando all’interprete la scelta del criterio nell’ambito del
tipo indicato. La clausola generale indica, cioè, la necessità di ricorrere ad uno
o più tipi di criteri (ad esempio tutti esterni di natura morale) escludendone altri.
Per questa ipotesi la discrezionalità dell’interprete è di certo elevata. Tuttavia,
vi sono casi in cui la clausola generale, in ragione della sua formulazione, lascia
irrisolta la questione del criterio cui rinvia, nel senso che rinvia indifferentemente
a criteri esterni o interni al diritto: qui la discrezionalità dell’interprete nella
scelta del criterio è ancor più elevata che in precedenza. Un esempio di clausola
generale del primo tipo può essere rintracciato nella nozione di “motivi di particolare
valore morale o sociale”: mi pare si possa asserire con buona plausibilità che in
questo caso l’interprete non può far ricorso a criteri interni al diritto (più banalmente
a norme o principi giuridici). Un esempio di clausola generale del secondo tipo
lo si può ritrovare nella nozione di “buona fede” (oggettiva). Infatti, che un comportamento
sia o meno contrario a buona fede può essere stabilito sia in base a criteri morali
individuali, della morale sociale, sia in base ad altre norme del sistema giuridico.
(32)
Da
tutto ciò conseguono vari corollari. Sovente l’uso di un criterio esterno al sistema
giuridico non è implicato dalla semantica della clausola generale, o meglio non
è l’unica via che si mostra all’interprete, ma è frutto di una specifica opzione
valutativa riguardante la funzione che si attribuisce alla clausola generale, opzione
valutativa da non giudicare in maniera necessariamente negativa purché si chiarisca
che di questo si tratta. È l’interprete, infatti, che sceglie, a fronte delle concorrenti
possibilità che gli si mostrano, il criterio: interno o esterno, le norme giuridiche
oppure le regole morali o del costume interessate. La misteriosa e da più parti
temuta o auspicata integrazione valutativa che le clausole generali implicherebbero,
e la delega al giudice che esse opererebbero, si sostanziano nella scelta del criterio
(dello standard), scelta che quindi ha natura discrezionale, poiché la formulazione
della clausola generale comporta sempre la necessità di determinare il/i criterio/i
di applicazione del termine valutativo in essa contenuto. L’interpretazione delle
norme che contengono clausole generali presenta caratteri diversi dall’interpretazione
delle norme che non le contengono proprio per questo profilo: per ciò che concerne
le prime entrano in gioco problemi di indeterminatezza nel senso chiarito in precedenza.
Quest’ultima affermazione merita un chiarimento. Sostenere che il tratto semantico
tipico delle clausole generali è costituito dall’indeterminatezza e non dalla vaghezza
o dall’ambiguità non significa che nel determinare il significato delle clausole
generali l’interprete non si imbatta anche nella vaghezza e nell’ambiguità, ma esse
potranno riguardare lo standard, il criterio, sia che si tratti di un criterio esterno,
sia che si tratti di un criterio interno al diritto e non in via immediata e necessaria
la clausola generale.
Quanto si è scritto sin qui ci consente di esprimere alcune
considerazioni anche su tre tesi ricorrenti intorno alle clausole generali, la prima
riguardante un uso del sintagma “clausole generali” indifferente alla presenza di
termini valutativi, le altre due attinenti alla presenza di termini valutativi.
Ecco le tre tesi: a) le clausole generali sono una “tecnica normativa”; b) le clausole
generali sono affette da “vaghezza socialmente tipica”; c) le clausole generali
sono “norme elastiche”.
Secondo
i sostenitori della prima tesi per mezzo delle clausole generali la fattispecie
normativa verrebbe formulata in maniera sintetica o riassuntiva e non casistica.
Ma appare chiaro che se una fattispecie casistica è formulata facendo ricorso a
termini valutativi le questioni problematiche si ripropongono intatte e la definizione
non aiuta granché. Serve solo a rilevare che il legislatore è stato, per così dire,
sintetico o prolisso, ma non esclude le conseguenze di cui si è trattato sin qui,
nel senso che ove in uno o più dei punti in cui si articola la fattispecie casistica
è presente un termine valutativo si ha anche la delega all’interprete ad operare
l’integrazione valutativa. L’ausilio è di poco conto anche se si denominano clausole
generali termini o sintagmi caratterizzati da elevata generalità o da genericità.
Chiariamo innanzi tutto quando un termine è generale e quando è generico. Un termine,
un sintagma, un enunciato è generale se dice “qualcosa che vale contemporaneamente
per tutti gli oggetti che appartengono ad una data classe” mentre è generico
“ … se dice qualche cosa che vale per qualcuno soltanto degli oggetti appartenenti
alla classe. Il grado di generalità e il grado di genericità dipendono poi dall’ampiezza
della classe considerata”. (33) Tuttavia,
generalità e genericità non consentono di caratterizzare l’interpretazione delle
parole, dei sintagmi o degli enunciati alla stessa maniera dei termini valutativi,
nel senso che non richiedono quella integrazione valutativa i cui connotati sono
stati chiariti retro. Generalità e genericità possono lasciare anch’esse
margini più o meno ampi di discrezionalità all’interprete nell’assolvere il suo
compito, ma si tratta di una discrezionalità di differente qualità rispetto
a quella presente in caso di indeterminatezza così come definita in precedenza.
In secondo luogo, come si è detto poco sopra, anche in una fattispecie casistica
possono esservi, all’interno della sua articolazione semantica, molteplici termini
generalissimi o particolarmente generici. Per fare un esempio riguardante quanto
asserito poco sopra e per chiudere questo primo punto non so quanto giovi alla teoria
e alla pratica giuridica dire che una norma così formulata “I danni ingiusti debbono
essere risarciti” è o contiene una clausola generale, mentre la norma “debbono essere
risarciti: 1) i danni all’integrità morale della persona 2) gli atti che ledono
senza giusta causa la proprietà privata 3) i danni cagionati da atti contrari alla
buona fede” non è o non contiene una clausola generale. (34) Sembra opportuno e fecondo, dunque, limitare
la nozione di clausola generale alla presenza di termini valutativi, poiché così
facendo si può ben comprendere il nesso con l’integrazione valutativa e con la particolarità
del ruolo dell’interprete in questi casi.
Passiamo
alla categoria della “vaghezza socialmente tipica”. In un contributo sull’analisi
del linguaggio giuridico di particolare rilievo più volte menzionato si trova la
seguente definizione: “si ha vaghezza socialmente tipica di un termine quando
… esprime un concetto valutativo i cui criteri applicativi non sono neppure parzialmente
determinabili se non attraverso il riferimento ai variabili parametri di giudizio
e alle mutevoli tipologie della morale sociale e del costume”. (35) Orbene, qui siamo tornati nel campo dei termini
valutativi e per quanto perspicua questa definizione pone un problema: sostenendo
che le clausole generali rinviano non solo in via necessaria, ma anche esclusiva
a criteri di ordine morale o sociale, esclude dal novero delle clausole generali
termini o sintagmi non solo considerati tali dalla dottrina, ma soprattutto contenenti
termini valutativi per i quali invece il rinvio può essere anche a criteri interni
al diritto.
In
che senso le clausole generali sono elastiche? Se si considera la (ri)definizione
da me proposta appare evidente che l’elasticità delle clausole generali riposa sulla
variabilità dei contenuti dei criteri di applicazione determinabili. Ciò non significa,
è pressoché banale dirlo, che l’interpretazione delle norme che non contengono clausole
generali sia, per così dire, rigida: il significato delle parole muta nel tempo,
anzi di solito per le parole si danno sia più significati possibili sul piano sincronico,
sia la mutevolezza dei significati possibili sul piano diacronico. Il richiamo che
i giuristi fanno al fattore della elasticità con riferimento alle clausole generali
tende ad evidenziare il dato caratteristico delle clausole generali medesime in
quanto contenenti termini valutativi ed in tale direzione può essere ritenuto corretto,
per quanto un po’ impreciso.
I profili
salienti di queste osservazioni sulla semantica delle clausole generali possono
essere riassunti in poche battute. Se il tratto caratteristico delle clausole generali
risiede, come viene affermato in maniera pressoché unanime, in una particolare forma
di indeterminatezza semantica da cui deriva la necessità di operare un’integrazione
valutativa, allora è opportuno restringere, in via ridefinitoria, gli usi lessicali
dei giuristi stabilendo l’equivalenza tra clausole generali e termini valutativi,
equivalenza che si rivela perspicua per molteplici ragioni. Così facendo, infatti,
è possibile comprendere in che cosa consiste l’integrazione valutativa. Il significato
dei termini o sintagmi valutativi non è determinabile se non facendo ricorso a criteri,
parametri di giudizio, interni e/o esterni al diritto tra loro potenzialmente concorrenti.
L’integrazione valutativa consiste appunto nella scelta del criterio che può essere,
nei termini chiariti in precedenza, alternativamente interno (costituito, cioè,
da norme giuridiche) o esterno (di natura morale, sociale etc). Questa operazione
interpretativa compiuta per poter individuare il significato della clausola generale
è discrezionale e qualitativamente diversa dall’attività interpretativa, anch’essa
discrezionale, compiuta affrontando questioni di vaghezza del significato o di ambiguità
dei termini o degli enunciati, oppure in presenza di termini generali o generici,
ma in assenza di termini valutativi.
Note
(1) Com’è palese, le clausole generali di cui ci
si occupa in questo saggio non vanno confuse con le “condizioni generali di contratto”.
(2) Spesso redatti da autorevoli giuristi, v. A. Di Majo, Clausole generali e diritto
delle obbligazioni, Riv. critica dir. priv., 1984, pp. 539-571; L. Mengoni, Spunti per una teoria delle
clausole generali, 1986, Ibidem, pp. 5-19; C. Castronovo, L’avventura delle clausole generali, Ibidem,
pp. 21-30; Id., Problema e sistema
nel danno da prodotti, Milano, Giuffrè, 1979, p. 97 ss.; S. Rodotà, Il tempo delle clausole generali,
Riv. critica dir. priv., 1987, pp. 709-733; A. Falzea, Gli standards valutativi e la loro applicazione,
Riv. dir. civ., I, 1987, pp. 1-20; P. Rescigno, Appunti sulle “clausole
generali”, Riv. dir. comm., 1998, pp. 1-8; L. Nivarra, Ragionevolezza e diritto privato, Ars Interpretandi,
Annuario di ermeneutica giuridica, 7, 2002, pp. 373-386, specie pp. 373-377,
ai quali si aggiungano le sintetiche ma acute osservazioni di N. Irti, Rilevanza giuridica (1967),
Id., Norme e fatti. Saggi di teoria
generale del diritto, Milano, Giuffrè, 1984, p. 35. Particolarmente rilevanti
per la questione del rapporto tra clausole generali e giustificazione sillogistica
del ragionamento giudiziale sono i saggi di A.
Belvedere, Le clausole generali tra interpretazione e produzione di norme,
Politica del diritto, 1988, pp. 631-653; M. Taruffo, La giustificazione delle decisioni fondate su standards,
P. Comanducci e
R. Guastini (a cura di), L’analisi del ragionamento giuridico. Materiali
ad uso degli studenti, II, Torino, Giappichelli, 1989, pp. 311-344 e G. D’Amico, Note in tema di clausole
generali, In Iure Praesentia, 1989, pp. 426-461. L’interesse per questo
tema è alto anche in campo penale per le ovvie tensioni che vengono a crearsi tra
clausole generali e alcuni corollari del principio di legalità, tra cui svetta la
questione della “precisione della legge penale”. In questo campo, però, la nozione
di clausola generale è stata affrontata, nella sua dimensione semantica, in maniera
meno ricorrente di quanto abbiano fatto i civilisti. Mi limito quindi ad indicare
quanto scritto in un recente manuale ed a rinviare allo stesso per gli essenziali
riferimenti bibliografici di settore, v. G.
De Vero, Corso di diritto penale, I, Torino, Giappichelli, 2004, p.
226, ove si dice che in presenza di clausole generali l’interprete è autorizzato
a “…scorrazzare senza limiti alla ricerca di una condotta suscettibile di incriminazione”.
Per l’esame di alcuni interessanti casi di indeterminatezza o imprecisione delle
norme penali in ambito statunitense si veda R.
C. Post, Reconceptualizing Vagueness: Legal Rules and Social Orders,
in California Law Review, 1994, pp. 490-507.
Nella
giurisprudenza penale non è frequente l’uso del sintagma “clausola generale”, ma
ciò non significa che non ci si occupi di problemi di imprecisione e indeterminatezza
delle norme penali.
(3) Per un primo approccio v. K. Engisch, Introduzione al pensiero
giuridico, trad. it. Milano, Giuffrè, 1970, p. 170 ss.; C. Luzzati, La vaghezza delle norme.
Un’analisi del linguaggio giuridico, Milano, Giuffrè, 1990, p. 299 ss., ove
viene preferita la nozione di disposizioni normative a “vaghezza socialmente tipica
o da rinvio”. Mette bene in luce la questione appena menzionata nel testo G. D’Amico, Libertà di scelta del tipo contrattuale e frode alla legge,
Milano, Giuffrè, 1992, p. 140, ove si afferma che “… la genericità di tali formule
e l’assenza (o, comunque, la scarsa chiarezza) di alcune necessarie distinzioni
non hanno fin qui consentito di pervenire ad una sufficiente chiarificazione della
nozione, né tanto meno ad un pieno approfondimento dei riflessi che la struttura
delle clausole generali comporta sul contenuto e sulle modalità dell’attività ermeneutica”.
A. Di Majo, Delle Obbligazioni
in generale, Commentario Scialoja e Branca, Bologna-Roma, Zanichelli-Il
Foro italiano, 1988, p. 305 ss., sostiene che dal panorama dottrinale emerge soprattutto
cosa le clausole generali “non sono”, ma non cosa le clausole generali “sono”. Il
sintagma “clausola generale” è in uso soprattutto in Germania ed Italia, non nei
paesi anglosassoni. La giurisprudenza tematizza solo di rado in maniera espressa
la nozione di “clausola generale”, rifacendosi alle medesime formule usate in dottrina
(soprattutto “norme elastiche” e “nozioni indeterminate”).
(4) A. Di
Majo, Clausole generali e diritto delle obbligazioni, cit., pp. 539-540.
(5) Ibidem, p. 547.
(6) P. Rescigno,
Appunti sulle “clausole generali”, cit., p. 1. Il sintagma “eccedenza assiologia”
è ricorrente in E. Betti, Interpretazione
della legge e degli atti giuridici, Milano, Giuffrè, 1949, seconda ed. riveduta
a cura di G. Crifò, 1971, pp. 152-154, 159, ove l’illustre autore ne discorre soprattutto
a proposito dei principi generali del diritto, secondo la peculiare caratterizzazione
fornitane, e pp. 145, 307, 316, 330, con riferimento al rinvio a criteri valutativi
e alle categorie extragiuridiche; F. Roselli, Il controllo della cassazione civile
sull’uso delle clausole generali, Napoli, Jovene, 1983, passim, ritiene
che le clausole generali siano “norme elastiche”, e l’elasticità dipenderebbe proprio
dal profilo dell’eccedenza assiologica. Nella manualistica ricorre l’idea delle
clausole generali come elementi di apertura del diritto alle esigenze della società
cfr. A. Trabucchi, Istituzioni
di diritto civile, Padova, Cedam, 1999, p. 47, per il quale le clausole generali
costituiscono “… i polmoni vitali dell’ordinamento”, e p. 51 ove si parla di “…
valvole di apertura … per l’adeguamento delle formule legislative alla vita sociale”.
Insistono sulla capacità di adeguare per mezzo delle clausole generali il diritto
alla specificità del caso anche A. Torrente e
P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, Giuffrè, 1999,
p. 44: “buona fede, buon costume, diligenza … obbligano ad una valutazione di specifica
riferibilità al singolo caso, che nella sua concretezza e specificità è sempre refrattario
a farsi comodamente inquadrare nelle rigide … descrizioni delle fattispecie legali”;
si aggiunga E. Roppo, Istituzioni
di diritto privato, Bologna, Monduzzi, 2001, p. 29: “Concetti del genere non
hanno un significato buono una volta per tutte, perché ricevono il loro senso
dal clima sociale e culturale dell’ambiente in cui devono essere applicate:
questo esalta il ruolo dell’interprete, che per individuare il precetto è chiamato
a fare da mediatore tra il testo normativo e la realtà sociale”. Che la cosiddetta
integrazione valutativa avvenga sempre rifacendosi a criteri morali, sociali (in
ogni caso esterni al diritto) è un punto delicatissimo, ma condiviso da quasi tutta
la dottrina, tranne rare eccezioni, quale ad esempio A. Belvedere, Le clausole generali tra interpretazione e produzione
di norme, cit., § 5 e 6.
(7) L. Mengoni,
Spunti per una teoria delle clausole generali, cit., p. 10.
(8) Ibidem, p. 13, e v. anche p. 17 “Quando
applica una clausola generale il giudice non dispone di un patrimonio di dati offerti
dal testo normativo. Le clausole generali non descrivono una fattispecie e sono
prive di un proprio ambito operativo; sono destinate a operare negli ambiti di altre
norme …”. Si veda anche L. Nivarra,
Ragionevolezza e diritto privato, cit., pp. 374-375: “In primo luogo, ci
si è interrogati intorno alla possibilità di distinguere tra clausole generali,
principi generali, e concetti giuridici indeterminati … Credo che un certo scetticismo
in ordine alla possibilità di individuare criteri distintivi davvero affidabili
sia giustificato dal momento che, in ogni caso, si tratta di direttive o standard
che reclamano di essere robustamente concretizzate all’atto della loro applicazione
in sede giudiziale … In realtà, a mio avviso, le clausole generali svolgono una
diversa funzione che è quella di impartire al giudice una direttiva circa il modo
in cui decidere una controversia".
(9) C. Castronovo,
Problema e sistema nel danno da prodotti, cit., p. 105; dello stesso autore
v. anche L’avventura delle clausole generali, cit., p. 24, ove, riguardo
alla specificità delle clausole generali rispetto ai concetti indeterminati, si
trova scritto che “… l’indeterminatezza sul piano linguistico non può che trovare
determinazione attraverso una scelta di valore e d’altra parte l’indeterminatezza
sul piano del valore non può essere superata attraverso la concretizzazione sul
piano linguistico. Perciò concetti indeterminati e clausole generali, forse distinguibili
ex latere legislatoris, perdono la loro diversità nel momento dell’applicazione”,
ma una diversità sussiste, poiché “quando ricorre una clausola generale il giudice
concorre a formulare la norma, mentre nel caso di concetti indeterminati si limita
a riscontrare il ricorrere nel fatto concreto dell’elemento (elastico) indicato
nella fattispecie” (Ibidem, nota 14).
(10) K.
Engisch, Introduzione al pensiero giuridico, cit.
(11) C.
Castronovo, Problema e sistema del danno da prodotti, cit., p. 103,
e p. 102: “Si potrebbe pensare ad una clausola generale definita come clausola generale
riassuntiva che possieda contemporaneamente un elemento elastico bisognoso di integrazione
valutativa … Ma la conciliazione pare senza speranza”. Seguendo questa linea di
pensiero, le norme generali sono quindi indeterminate, ma non sono clausole generali,
in presenza di norme generali il giudice non concorre a formare la norma.
(12) S.
Rodotà, Il tempo delle clausole generali, cit., p. 721.
(13) Per la nozione di fattispecie aperta v. Ibidem,
p. 723: “La fattispecie aperta … ricorre quando si opera un esplicito trasferimento
al giudice del potere di procedere ad un autonomo apprezzamento della situazione
di fatto ed alla concretizzazione della norma”. Tuttavia, non tutte le norme con
fattispecie aperta sono o contengono clausole generali, ma lo sono o le contengono
soltanto quelle norme nelle quali l’indeterminatezza che dipende dalla natura aperta
della fattispecie è intenzionale.
(14) Ibidem, p. 721.
(15) Ibidem, p. 726. Nella stessa pagina
riguardo al rapporto tra clausole generali e direttive si sostiene che “… una distinzione
… è possibile, se si intende la direttiva come norma di indirizzo nell’ambito di
un programma prefissato, che lascia margini per un adattamento giustificato da una
obiettiva situazione di fatto, ma nega al destinatario il potere di procedere ad
un apprezzamento autonomo, salvo che si tratti di decidere, eventualmente, intorno
alla opportunità di dare o no attuazione alla direttiva stessa”. Questo passaggio,
come altri contenuti nel denso articolo, si pongono in posizione di dialogo e di
critica rispetto alle posizioni di Mengoni brevemente riassunte in precedenza.
(16) Ibidem, p. 726.
(17) K. Engisch Introduzione al pensiero giuridico,
cit., p. 193. Si può anticipare sin d’ora che il penalista tedesco ha distinto tra
concetti indeterminati, normativi, di discrezionalità e clausole generali e la sua
classificazione ha esercitato enorme influenza sulla letteratura successiva (tedesca,
italiana e non solo). È bene fornire una sintesi delle distinzioni proposte da Engisch,
escludendo i concetti di discrezionalità, non rilevanti per il nostro discorso.
I concetti indeterminati hanno contenuto e ambito molto incerti, ed a questa categoria
appartengono i concetti normativi in senso stretto, cioè rappresentabili e comprensibili
solo in connessione col mondo delle norme, mentre le clausole generali, lo si è
visto, sono una forma di fattispecie che descrive con grande generalità un ambito
di casi, contrapponendosi così alla costruzione casistica della fattispecie che
descrive i gruppi di casi in maniera specifica.
(18) A dire il vero, è emerso dalla ricostruzione
appena fornita, per alcuni la delega al giudice ed il potere di concretizzazione
sono la stessa cosa, mentre per altri il potere di concretizzazione costituirebbe
l’oggetto della delega, e quest’ultima deriverebbe dal particolare, ma imprecisato,
tratto semantico delle clausole generali.
(19) G.
D’Amico, Note in tema di clausole generali, cit., p. 438.
(20) Ibidem, pp. 439-440, ove si trova scritto
che clausola generale “… è dunque –secondo una felice formula- un ‘concetto bisognoso
di integrazione valutativa’. Le ‘clausole generali’ comportano la necessità
che l’interprete ponga in essere dei giudizi di valore (sostitutivi dei giudizi
di valore del legislatore), e proprio questo rinvio da esse operato all’interprete
… spiega la loro caratteristica di ‘concetti elastici’, contenenti previsioni capaci
di ‘adeguarsi’ ed ‘adattarsi’ ai mutamenti delle condizioni … in cui viene ad operare
in ciascun momento storico l’ordinamento giuridico”.
(21) M.
Taruffo, La giustificazione delle decisioni fondate su standards,
cit., p. 312, e ivi anche nota 2.
(22) Ibidem, p. 319, e nella stessa pagina:
“Ciò significa che il punto di partenza non è la norma, ma il fatto: è il fatto
concreto che una volta accertato, viene valutato secondo lo standard, per
essere poi qualificato secondo la norma. Per così dire l’integrazione della norma
non si verifica al livello dell’interpretazione, ma a quello della sua applicazione
al caso di specie: il fatto, e non la norma, è il punto di riferimento per l’impiego
dello standard, la norma è integrata dallo standard perché il fatto
cui essa viene applicata è valutato sulla base dello standard”.
(23) Chi fosse interessato (e pronto a sostenere
una paziente attesa) potrà trovare trattato questo aspetto (assieme ad altri estranei
al presente saggio) nel mio lavoro in corso di realizzazione Le clausole generali.
Semantica e politica del diritto.
(24) Per riferimenti alla letteratura tedesca v.
il recente contributo di E. Fabiani,
Clausole generali e sindacato della Cassazione, Torino, Utet, 2003, pp. 1-59;
riferimenti storiografici e comparatistici in A.
Guarneri, Clausole generali, Dig. disc. priv. sez. civ., II,
Torino, Utet, 1988, pp. 403-413, e Id.,
Le clausole generali, G. Alpa, A. Guarneri, P.G. Monateri, G. Pascuzzi, R. Sacco, Trattato di dir. civ. Diretto
da Sacco, Le fonti non scritte e l’interpretazione, Torino, Utet, 1999,
pp. 132-154.
(25) La letteratura di filosofia del linguaggio
su questi temi è sconfinata e mi limito a segnalare sulla vaghezza l’antologia curata
da D. Graff, T. Williamson (eds.), Vagueness, Aldershot, Ashgate, 2002, passim
e sull’ambiguità F. Ulmann, La semantica, trad. it.
Bologna, Il Mulino, 1966, p. 249 ss., nonché R.
M. Kempson, La semantica, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1977, p. 185
ss. Mi preme, al contrario, segnalare una serie di pregevoli contributi di filosofi
del diritto la cui rilevanza non è certo limitata all’ambito giuridico, vale a dire
C. Luzzati, La vaghezza delle norme,
cit., passim; Id., Le metafore della vaghezza, in Analisi e diritto
(26) Per quanto ci si occupi di clausole generali
e sovente il termine “generalità” ricorra nel lessico della dottrina, si evince
dai saggi esaminati che in questi ultimi con la parola generalità ci si riferisce
non solo ad un termine o ad un enunciato che vale per tutti gli oggetti che appartengono
ad una data classe, bensì anche ad una forma elevata o peculiare di una non ben
precisata indeterminatezza, oppure alla genericità. Ma di ciò si tratterà più avanti.
(27) Cfr.
C. Luzzati, Le metafore della vaghezza, cit., p. 117: “Un’espressione linguistica
si dice vaga allorché i confini della sua area di applicazione, attuale o meramente
possibile (a seconda che si tratti di vaghezza estensionale oppure di vaghezza intensionale),
non sono delineati in modo netto. A causa di fluttuazioni dell’uso, accanto a una
serie di ipotesi applicative non particolarmente controverse e relativamente chiare
o paradigmatiche, si verificano anche alcuni casi limite”. E ancora J.
Evans, Statutory Interpretation, cit., p. 117: “Vagueness occurs when
the boundaries of some term or expression are not precise. Problems arise from this
source when we are confronted by a marginal case and are uncertain wheter it should
or should not be included within the scope of some term or expression”. Nell’ambito
della filosofia del linguaggio v. W.P. Alston,
Filosofia del linguaggio, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1971, p. 135: “Si
dice che un termine è vago se vi sono dei casi in cui non vi è una risposta precisa
riguardo all’applicazione del termine”. Queste definizioni di vaghezza includono
anche la vaghezza combinatoria di cui si dirà tra poco, ma sono state concepite
in origine rappresentandosi esclusivamente i problemi tipici della vaghezza di grado.
Si pone in contrasto con la tesi che la vaghezza riguarda il significato e non gli
enunciati A. Belvedere, Linguaggio
giuridico, Dig. disc. priv. sez. civ., Aggiornamento, Utet, Torino, 2000,
p. 562 e note 58 e 59.
(28) E.
Diciotti, Interpretazione
della legge e discorso razionale, cit., p. 367.
(29) L’esempio è tratto con alcune modifiche da
M. Barberis, Filosofia del diritto.
Un’introduzione teorica, Torino, Giappichelli, 2003, p. 93. La nozione
di vaghezza combinatoria è stata introdotta da W.P. Alston, Filosofia del linguaggio, cit., pp. 139-143.
(30) Aleggia qui l’analisi dei termini e dei giudizi
valutativi fatta da R. M. Hare, Il
linguaggio della morale, trad. it., Roma, Ubaldini, 1968, p. 17 e passim;
Id., Libertà e ragione, trad. it. Milano, Il Saggiatore, 1990, pp. 31-61,
ove la distinzione tra termini valutativi primari (ad esempio: buono, giusto) e
secondari (ad esempio: industrioso). Ma vedi anche A. Ross, Direttive e norme, trad. it., Milano, Comunità,
1978, p. 91.
(31) M.
Atienza, J. Ruiz Manero, Illeciti
atipici. L’abuso del diritto, la frode alla legge, lo sviamento di potere, trad.
it., Bologna, Il Mulino, 2004, p. 40, e p. 42 nota 5: “Quanto detto precedentemente
può gettare un po’ di luce sull’oscuro significato di ‘concetto giuridico indeterminato’.
Potrebbe dirsi che quando il legislatore guida la condotta per mezzo di un ‘concetto
giuridico indeterminato’, ciò che fa è ordinare o proibire azioni che meritano una
certa qualificazione valutativa senza determinare, in termini di proprietà descrittive,
quali sono le condizioni di applicazione della qualificazione valutativa in questione”.
Sul punto anche le pioneristiche considerazioni di U. Scarpelli, Contributo alla semantica del linguaggio normativo,
1959, rist. a cura di A. Pintore, Milano, Giuffrè, 1985, p. 135 ss.
L’applicazione
rigorosa delle tesi di Hare conduce molti autori a dissociare per i termini valutativi
la questione del loro significato da quella dei loro criteri di applicazione, forse
tale dissociazione è troppo netta, è preferibile mitigarla e dire, come si è fatto
nel testo, che la determinazione dei criteri di applicazione è il passaggio necessario
per l’individuazione del significato dei termini valutativi.
(32) Lo segnala in maniera brillante e cristallina con
riguardo all’abuso del diritto G. Pino,
Il diritto e il suo rovescio. Appunti sulla dottrina dell’abuso del diritto,
Rivista critica del diritto privato, 1, 2004, p. 42 ss. Sin qui si è più
o meno espressamente assunto che le clausole generali fossero contenute in
norme esplicite dell’ordinamento, ma le questioni ad esse attinenti si presentano
anche per le clausole generali contenute in norme inespresse (è il caso per
l’ordinamento italiano proprio dell’abuso del diritto), anche se per queste il
primo problema è se abbiano o meno cittadinanza nell’ordinamento.
(33) C.
Luzzati, La vaghezza delle
norme, cit., p. 50.
(34) Le norme oggetto dell’esempio sono inventate
da me, ma non dissimili da molti testi normativi del nostro e di altri ordinamenti
giuridici. Di certo meno ingenua e più interessante è la prospettiva di S. Rodotà, Il tempo delle clausole generali,
cit., pp. 727-728, che fa ricorso all’intenzionalità dell’indeterminatezza quale
elemento caratteristico delle clausole generali. Ma l’intenzionalità serve a connotare
le clausole generali sul piano funzionale in maniera incompleta, scavalcando la
questione della struttura semantica delle clausole generali e trascurando il rapporto
tra funzione e struttura. Così facendo si riesce a stabilire che il legislatore
ha voluto una certa indeterminatezza, ma non si spiega perché l’abbia voluta e perché
ciò comporti alcune conseguenze. La prospettiva va, invece, rovesciata: è attraverso
un accorto esame della struttura semantica delle clausole generali che è possibile
coglierne appieno la funzione, o le funzioni, e soprattutto se e come quest’ultima/e
possa/no essere assolta/e.
(35) C.
Luzzati, La vaghezza delle
norme, cit., pp. 302-303.