Etica & Politica/ Ethics & Politics, 2006, 1

http://www.units.it/etica/2006_1/PRESENTAZIONE.htm

 

 

 

Presentazione

 

 

Gianfranco Pellegrino

Centro di Ricerca e Studi sui Diritti Umani

Luiss “Guido Carli”, Roma

 

 

1. In questa sezione di Etica & Politica/ Ethics & Politics compaiono i materiali discussi nei secondi Dialoghi di Etica, tenutisi all’Università di Roma “La Sapienza” nel settembre scorso. Anche in questa edizione, sono risultati presenti e vivi la tradizione e lo spirito delle Giornate di Filosofia Pratica (che per alcuni anni si sono svolte all’Università del Piemonte Orientale, fino alla prima edizione dei Dialoghi di Etica tenutasi l’anno scorso all’università di Cassino).

Le due giornate di discussione hanno confermato l’impressione che molti di noi hanno avuto partecipando agli incontri precedenti: il nostro Paese ha ormai una comunità di studiosi ampia e sfaccettata, con generazioni che si succedono e dialogano fra di loro, e con temi e interessi multiformi. Peraltro, si tratta di una comunità di studiosi che integrano armoniosamente nella loro opera elementi di differenti tradizioni – il che rende i loro contributi ricchi di sfumature e valori aggiunti. La tradizione storiografica degli studi filosofici italiani, ad esempio, viene proficuamente ravvivata dalla riflessione teorica militante di studiosi inseriti a pieno titolo nel dibattito internazionale – specialmente quello svolto in lingua inglese e nell’area della filosofia analitica.

Tutto questo si vede efficacemente già scorrendo i temi proposti dai tre relatori. Sergio Cremaschi ha dato un primo contributo per colmare delle lacune profonde nell’attuale ricezione di uno dei filosofi classicamente considerati tra i fondatori dell’etica analitica: Henry Sidgwick. Paolo Zecchinato, invece, ha discusso con argomentato rigore uno degli ultimi contributi al dibattito etico di Hilary Putnam, i saggi che compongono il volume Fatto/valore. Fine di una dicotomia. (1) Piergiorgio Donatelli, infine, ha presentato al dibattito dei Dialoghi il contributo importante di Cora Diamond – la quale propone un approccio alla riflessione etica che costituisce una versione alternativa rispetto al mainstream analitico rappresentato dalla linea tradizionale dell’analisi del linguaggio morale.

 

 

2. Questi tre contributi sono stati discussi approfonditamente e le risposte che gli autori hanno preparato vengono adesso ospitate nelle pagine di Etica e politica. (2) Cremaschi, come si diceva, ha tracciato un ritratto alternativo di Henry Sidgwick, un pensatore spesso imbalsamato in ritratti convenzionali ed elogiativi nel pantheon dei fondatori dell’etica analitica. In particolare, Sidgwick viene spesso considerato come fondatore del progetto di un’etica scientifica. Cremaschi fornisce una interessante ricostruzione di due aspetti essenziali del quadro – e in questo modo ci fa vedere che una comprensione adeguata del ruolo di Sidgwick nel suo tempo e dopo sia ancora tutta da guadagnare. Dapprima, egli espone la concezione generale di filosofia, e di filosofia morale, adottata da Sidgwick – qualificandola come una forma rivista di positivismo, ed avvicinando Sidgwick a Herbert Spencer. La prima conclusione di Cremaschi è, dunque, che la cosiddetta etica scientifica sia una concezione gravata dai molti problemi del positivismo di fine diciannovesimo secolo.

Su questo quadro Cremaschi innesta una discussione dettagliatissima delle varie nozioni di moralità di senso comune presenti nel dibattito cui Sidgwick partecipava. La (seconda) tesi polemica dello scritto di Cremaschi è che Sidgwick oscilli fra varie nozioni, e che il suo uso della moralità di senso comune sia inevitabilmente destinato a derive conservatrici. A questo si aggiunge una ricostruzione delle relazioni fra il pensiero di William Whewell, uno dei principali autori intuizionisti che Sidgwick attaccava, e le teorie sidgwickiane. Il saggio di Cremaschi prende in analisi le critiche sidgwickiane ad alcune tesi di Whewell, difendendo Whewell da molte delle obiezioni di Sidgwick. Infine, Cremaschi mostra la vicinanza, da Sidgwick nascosta, fra molte delle tesi dei Metodi di etica (l’opera del 1874 che rese famoso Sidgwick) e la filosofia di Whewell. Il vero contributo di Sidgwick al dibattito del ventesimo secolo, conclude Cremaschi, sta più in certi metodi tipici dell’etica applicata novecentesca – come l’uso dell’equilibrio riflessivo –, che nell’analisi linguistica o concettuale generalmente ritenuto al centro della metaetica analitica della prima metà del secolo ventesimo.

Al quadro proposto da Cremaschi vengono mosse due obiezioni di fondo: forse, sostiene Lorenzo Greco, i problemi della filosofia di Sidgwick evidenziati da Cremaschi vanno ricondotti (come fa Bernard Williams) alla concezione sidgwickiana dell’etica normativa come etica scientifica capace di fornire una soluzione a qualsiasi dilemma morale. Secondo Gianfranco Pellegrino, invece, l’etica di Sidgwick può venire salvata dall’accusa di scetticismo e di conservatorismo – se la si vede come frutto del tentativo di costruire una forma di utilitarismo capace di rispondere alle principali critiche mosse all’etica di Bentham.

A Greco, Cremaschi risponde accettando l’impostazione di Williams, e precisandone però l’articolazione storica, e anche sminuendone alcune troppo nette contrapposizioni. Inoltre, Cremaschi individua una linea del pensiero morale moderno (quella rappresentata da Pufendorf, Butler, Price, Mendelsohn, Kant) che sarebbe esente dal difetto di ambizione eccessiva denunciato da Williams.

A Pellegrino Cremaschi risponde qualificando lo scetticismo di Sidgwick come relativo solo alle conclusioni dell’etica normativa, e non alla conoscenza morale. Sigdwick ammette che spesso non è possibile determinare un’unica prescrizione che detti quale sia la condotta giusta. Ma, conclude, Cremaschi, questa è comunque un’ammissione esiziale per il progetto complessivo dell’etica utilitarista. Questa difesa, insomma, somiglia a una vera e propria ritirata – conclude Cremaschi.

 

 

3. In Fatto/valore. Fine di una dicotomia, Hilary Putnam – fondandosi anche sul pensiero di John McDowell – attacca le versioni rigide della distinzione fra fatti e valori, e auspica che i confini tra i due regni vengano sfumati, in maniera da ottenere una forma di realismo etico che avvicini etica e scienza.

Zecchinato critica innanzitutto i presupposti ultimi da cui Putnam prende le mosse. Egli contesta a Putnam l’identificazione fra razionalità e conoscenza, e fra non cognitivismo e relativismo o irrazionalismo – che porta quest’ultimo a vedere nella Grande Divisione la premessa di un approccio irrazionale all’etica. Contro queste tesi, Zecchinato propone e difende una visione più ampia della razionalità – non in termini di conoscenza o di verità e falsità, ma in termini di accettabilità delle tesi che superano la critica razionale (una tesi esplicitamente presentata come vicina al fallibilismo popperiano). Inoltre, Zecchinato sostiene che dal non cognitivismo non deve necessariamente derivare una tesi relativistica – né questo è sempre avvenuto nella storia dell’etica. Infine, egli mostra che la Grande Divisione, in quanto teorema logico-linguistico, rimane neutrale fra oggettivismo e soggettivismo in etica.

Nella seconda parte del suo intervento, Zecchinato contesta le tre premesse della critica putnamiana alla Grande Divisione: che essa presupponga la distinzione analitico/sintetico; che si basi su una nozione empiristicamente ristretta di “fatto” inteso come causa delle impressioni di senso; che presupponga dunque una semantica “pittorialista”. La tesi di Zecchinato è che, come mostra la storia dell’etica analitica nella seconda parte del ventesimo secolo, la Grande Divisione si può sostenere in perfetta indipendenza da queste tesi semantiche e metafisiche. La rappresentazione assunta da Putnam, conclude infine Zecchinato, è insomma un vero e proprio uomo di paglia. Peraltro, molti di quelli che sostengono la distinzione fatto/valore lo fanno nella maniera non rigida che lo stesso Putnam propone nel suo libro.

La fine del contributo di Zecchinato si concentra sull’idea che i concetti etici “spessi” possano essere il luogo in cui si colma la separazione fra fatto e valore. Zecchinato contesta quest’idea, perché essa presupporrebbe che la Grande Divisione implichi la tesi che termini e affermazioni debbano essere o descrittivi o valutativi, il che ovviamente non è. La Grande Divisione implica solo la possibilità di separare significati descrittivi da significati valutativi – e non l’idea che tale separazione sia già da sempre tracciata nei linguaggi naturali.

Discutendo Zecchinato, Caterina Botti dapprima richiama l’attenzione su un tema considerato da Putnam e non rilevato da Zecchinato nella sua discussione. Putnam vuole attenuare la distinzione fatto/valore da entrambi i lati: i valori sono una specie di fatti, ma i fatti partecipano del valore molto più di quanto comunemente si creda. Sulla scorta di questa considerazione, Botti si chiede come faccia Zecchinato a dirsi d’accordo con l’approccio costruttivo di Putnam (come egli fa alla fine del suo contributo), pur mantenendo ferma la grande divisione – che comunque si basa su una visione dei fatti come per nulla partecipanti alla sfera del valore. Putnam propone un approccio all’oggettività etica nei termini dell’asseribilità garantita. Ma questo criterio, conclude Botti, viene adottato (da Putnam e Dewey) anche per la scienza. Di conseguenza, la continuità fra scienza ed etica (e il rifiuto della Grande Divisione) risulta necessaria per dichararsi d’accordo con una posizione del genere – come fa Zecchinato.

Nella sua discussione, Roberto Mordacci si sofferma in particolare sulla portata della separazione fra fatti e valori per la questione dei fondamenti dell’etica, notando che la Grande Divisione – se assunta come negazione della riducibilità necessaria dei termini normativi a descrizioni – è uno strumento potente per una fondazione non naturalista dell’etica. Quindi, non solo essa non impedirebbe una fondazione oggettiva dell’etica, ma indicherebbe la strada verso una particolare fondazione – con questo, forse, perdendo un po’ della neutralità attribuitale da Zecchinato.

Simone Pollo, infine, prova innanzitutto ad articolare una proposta di connessione fatti/valori all’insegna di un naturalismo diverso rispetto a quello neo-aristotelico presupposto da Putnam e John McDowell. Pollo prova ad allargare la prospettiva della metaetica anche alla considerazione dell’evoluzione della nostra esperienza morale, e delle sue basi naturali. Egli offre anche uno schema di come una visione naturalizzata dell’etica potrebbe spiegare, facendo appello a determinati fatti, la natura intrinseca degli enunciati etici – ad esempio, seguendo il modello di Hare, ne potrebbe spiegare la soverchianza, la prescrittività e l’universalizzabilità. È questo, ovviamente, un percorso di connessione fra fatti e valori differente rispetto a quello considerato da Putnam, e criticato da Zecchinato.

A Botti Zecchinato risponde riaffermando la conciliabilità fra una concezione non positivistica dell’argomentazione in scienza e in etica e la Grande Divisione. L’ideale dell’asseribilità garantita – secondo Zecchinato – non necessita di un’indebolimento della dicotomia fatti/valori. Si può accettare solo una parte della filosofia di Dewey, rifiutando le sue idee sui valori e sulla loro presenza nella scienza. Inoltre, l’inseparabilità psicologica fra valutazione e conoscenza non implica l’inseparabilità di principio fra fatti e valori – conclude Zecchinato.

Considerando le osservazioni di Mordacci, Zecchinato puntualizza i limiti della neutralità della Grande Divisione: essa è neutrale fra oggettivismo e soggettivismo. Ma naturalmente, dalla dicotomia fatti/valori discende una impostazione non cognitivista, che ovviamente esclude come irrealizzabile qualsiasi fondazione cognitivista dell’etica. In questo senso, chiarisce Zecchinato rispondendo a Pollo, il divisionismo non esclude certamente il naturalismo inteso come la sussistenza di relazioni fra asserti o esperienze morali e fatti naturali. È il ruolo fondativo di tali fatti a venire escluso, e l’idea che riportare la nostra conoscenza di fatti del genere sia l’obiettivo delle affermazioni morali.

 

 

4. Come già anticipato, il contributo di Piergiorgio Donatelli è una presentazione acuta e preziosa del pensiero morale di Cora Diamond – talmente articolata che non si può sintetizzarla in poche righe. Dapprima, Donatelli mette il pensiero di Diamond in prospettiva, mostrandone l’emergere da una tradizione alternativa dell’etica di lingua inglese – quella costituita dalla riflessione di autori come Murdoch, Anscombe, Geach, Foot e Williams, impegnati soprattutto a delineare un paradigma alternativo alla tradizione mainstream della metaetica analitica, rappresentata dall’analisi del linguaggio morale portata avanti da R.M. Hare.

In secondo luogo, Donatelli – anche sulla scorta della sua esperienza di studioso dell’opera di Wittgenstein – illustra come Diamond raccolga la lezione del secondo Wittgenstein – e si impegni nel chiarificare e mettere in luce un’area concettuale della vita umana, una “vita dei concetti” che occupano la nostra esperienza in un certo ambito – quello dell’etica.

La parte finale del contributo di Donatelli – la più rilevante – si concentra sulle specificità di questa ricostruzione dei concetti dell’etica. Per Diamond – spiega Donatelli – la natura concettuale della vita etica va di pari passo con la presenza predominante in essa dei sentimenti e dell’affettività. Donatelli si concentra con attenzione sulle peculiarità del sentimentalismo di Diamond – sulla distanza che lo separa dalle versioni tradizionalmente non cognitiviste di sentimentalismo diffuse nell’etica analitica. Inoltre, egli illumina la maniera in cui la carica sentimentale dell’esperienza etica si riallacci alla rilevanza predominante della prospettiva dell’individuo – un tratto anche questo tradizionalmente assente quando si pensa a strutture concettuali.

La prospettiva articolata da Donatelli, ricostruendo il contributo di Cora Diamond, evidenzia insomma la possibilità che si diano mondi concettuali complessivi – che articolano esperienze affettive e individuali, nelle quali entrare. Questi mondi, questi panorami in cui entrare, costituiscono l’esperienza etica – e debbono essere messi al centro dell’analisi dell’etica filosofica, che non deve quindi concentrarsi esclusivamente sul linguaggio. Un’analisi concettuale, insomma, non è un’analisi linguistica – o comunque l’analisi linguistica non si può limitare solo a tratti formali (comprendere un significato significa comprendere un’esperienza, una forma di vita): questa è la morale della tradizione alternativa cui Donatelli ci ha introdotto con il suo intervento. Ed entrare in un mondo concettuale, padroneggiando i concetti in esso articolati, è una questione pratica, non esclusivamente conoscitiva – insiste Donatelli, con Diamond e Wittgenstein.

Sergio Filippo Magni si concentra sulla nozione di analisi filosofica dei concetti e dei significati che emerge dal testo di Donatelli, mettendone in luce alcune caratteristiche significative – come il rifiuto della distinzione fatto/valore e etica normativa/metaetica, nonché l’impegno verso una forma di naturalismo e l’avvicinamento della filosofia a forme di espressione letteraria e poetica dell’interiorità e dell’esperienza personale. Magni contesta l’alternativa netta fra le due linee, quella di cui la Diamond sarebbe l’erede e quella rappresentata da Hare, e propone l’idea che l’analisi del linguaggio costituisca comunque l’unica via di accesso al pensiero morale – in una prospettiva che separi nettamente l’analisi dalla perorazione, riprendendo gli aspetti positivi del neoilluminismo del secolo scorso.

Pierpaolo Marrone, in un ideale contraltare alle preoccupazioni di Magni, dapprima mette in luce la distanza fra forme di irrazionalismo anti-teorico e la linea alternativa patrocinata da Donatelli. Dopo aver assegnato il suo luogo specifico alla posizione di Donatelli, Marrone tenta di forzarne i limiti – mostrando che anche gli stessi concetti thick come “dovere” possono essere articolati differentemente in varie forme di vita, e che questo ha a che fare primariamente non tanto e non solo con l’interiorità, ma anche e soprattutto col mondo – con l’ontologia specifica in cui gli esseri umani hanno sviluppato un certo concetto. Da ultimo, Marrone mette in evidenza la carica anti-intellettualista della proposta di Donatelli, al tempo stesso provando a limitarne la portata anti-teorica, e riflettendo sulla necessità di avere spiegazioni in etica, per quanto incomplete esse possano essere.

 

 

5. A queste discussioni se ne sono aggiunte molte altre, ovviamente – discussioni che hanno visto protagonisti tutti i presenti tra il pubblico, i relatori e i discussant. Ma quest’altra discussione, che si è poi protratta nello scenario sempre suggestivo di Villa Mirafiori, non può essere riprodotta – e costituisce un privilegio di chi c’era. Per la possibilità che voi leggiate quello che si può testimoniare in forma scritta, chi scrive ringrazia la direzione e la redazione di Etica & Politica/ Ethics & Politics.

 

 

Note

 

(1) Fazi editore, Roma, 2004.

(2) Tranne che nel caso di Piergiorgio Donatelli, che risponderà nel prossimo numero.