Sidgwick
e la difesa dell’utilitarismo.
Commento
a Cremaschi
Centro di Ricerca e Studi sui Diritti Umani
1. Tesi e obiezioni. Cremaschi ci propone un contributo ricchissimo, che
non può essere adeguatamente discusso completamente in poche pagine (qualche
indicazione sui punti di disaccordo verrà data di passaggio e nelle note). Mi
concentrerò solo su una questione: la funzione argomentativa, nelle intenzioni
di Sidgwick, del ricorso alla moralità di senso comune
I
meriti principali di Cremaschi (oltre al brillantissimo stile) sono due. Innanzitutto,
egli propone dei dubbi sulla nozione di moralità di senso comune, tentando di
distinguere due elementi: l’idea che la teoria morale debba essere confermata
dalla moralità di senso comune o sia una mera sistematizzazione di essa, e
varie forme di intuizionismo razionalista – come quelle presenti in Whewell e
Price – e di filosofia del senso comune – rappresentata principalmente
dall’impostazione di Reid.
In
secondo luogo, Cremaschi conduce una serrata analisi dei presupposti generali
della filosofia di Sidgwick, rivolgendosi anche a opere differenti rispetto ai
ben noti Metodi di etica.
Condivido
pienamente il progetto complessivo espresso nelle pagine di Cremaschi. Ciò che
egli invoca mi pare un’operazione urgente e necessaria – sia a livello storico
che teorico. Mi concentrerò solo alcuni punti specifici di questa lettura – nel
tentativo di rimanere all’interno dello stesso progetto, ma di raggiungere
conclusioni differenti.
Cremaschi
attribuisce a Sidgwick, fra le altre, le seguenti tesi:
1.
conservatorismo: secondo Sidgwick il senso comune non è
riformabile, e comunque non va riformato;
2.
elitismo: Sidgwick ha una concezione relativista, o comunque
non universalista, del senso comune: è il senso comune di alcuni – di volta in
volta la maggioranza, o gli illuminati;
3.
scetticismo: Sidgwick raggiunge una conclusione scettica sulla
conoscenza morale. Ciò viene testimoniato dal famoso dualismo della ragion
pratica – l’impossibilità di conciliare egoismo razionale e utilitarismo (1)– e dal ruolo attribuito da Sidgwick al
consenso – e quindi al senso comune (2).
Non
trovo affatto evidente che Sidgwick sostenga queste tre tesi. Mi sembra invece
che:
1.
Sidgwick non ritenga affatto che il senso comune non si possa, né si debba riformare.
Egli ha in mente una riforma del senso comune visto come strumento di
applicazione dell’utilitarismo – come insieme di principi intermedi la conformità
ai quali può avere o meno effetti felicifici. La sua cautela non deriva da una
irriformabilità di principio, ma solo dall’attenzione al bilanciamento fra effetti
felicifici e effetti subottimali dei cambiamenti di un sistema complesso di
regole (3).
2.
Sidgwick non è intrinsecamente relativista, o elitista. Se l’unica ragione per
la quale egli si occupa del senso comune è trovare una serie di principi
intermedi la conformità ai quali conduca a esiti utilitaristicamente
apprezzabili – come spero di mostrare nel seguito -, allora è ovvio che egli deve
concentrarsi sulla moralità di alcuni, qui ed ora (in questo Sidgwick non è più
relativista di Rousseau, quando quest’ultimo dichiara di volere applicare i
suoi principi agli uomini come sono). (4)
Sidgwick non ha alcuna intenzione di proporre le vie per una applicazione universale o eterna dell’etica normativa
che difende – al contrario delle etiche razionaliste. È questa l’autentica
differenza, nonostante le molte similarità che Cremaschi indica, fra Sidgwick e
pensatori come Whewell. Di universale ed eterno nell’utilitarismo c’è solo il
principio primo della benevolenza razionale (e questo forse l’avrebbero
riconosciuto anche Bentham e Mill, come vedremo oltre). Al di là del suo
principio primo, l’utilitarismo si applica facendo pesantemente appello
all’esperienza storica, alle condizioni reali degli individui in un certo
momento e collocazione storici, e alle idee morali che li spingono ad agire.
3.
Sidgwick non è uno scettico nel senso epistemologico del termine: egli è perfettamente
convinto che i due assiomi della prudenza razionale e della benevolenza
razionale siano auto-evidenti, pena contraddizione – e ciò è perfettamente in
linea con quanto Cremaschi ritiene si debba fare. (5) Sidgwick, inoltre, non ritiene
che la coerenza con i dettami di senso comune confermi la verità degli assiomi – altrimenti non si capirebbe la loro
auto-evidenza. Piuttosto, egli ritiene che la fiducia in tale verità venga confermata – ma questa è una tesi
sulle procedure per conoscere la verità, e non sulla verità medesima. Una cosa
è dire che la verità corrisponde al consenso, come Cremaschi a volte parrebbe
far dire a Sidgwick. Diverso è dire che il consenso rintraccia quello che è
vero indipendentemente da esso, e che quindi a volte la verità può essere
conosciuta guardando a ciò su cui vi sia consenso: questa è una forma di ottimismo epistemologico, tipicamente
aristotelica, non una forma di consensualismo. E Sidgwick, da buon studioso di
Aristotele, adotta la prima teoria, non la seconda. (6)
Inoltre,
Sidgwick non manifesta una posizione scettica neanche quando presenta il famoso
dualismo della ragion pratica. Egli si rende semplicemente conto di una
possibile indeterminazione della
teoria etica normativa: non è sempre possibile scegliere fra i dettami
provenienti dai due assiomi della prudenza e della benevolenza. Quindi, non c’è
una teoria etica che prescriva una soluzione univoca per tutti i casi
concreti. Questa è una sconfitta per Sidgwick, il quale aveva creduto che una
teoria del genere fosse possibile. (7) E
forse questo è scetticismo sul potere di una certa etica filosofica. Ma non è
scetticismo sulla conoscenza morale. Lo scetticismo epistemologico
implicherebbe che a volte – o sempre – non si sappia letteralmente che cosa si
deve fare: che non si possa sapere quali affermazioni morali siano vere. L’indeterminazione, invece,
implica sapere che due, o più, affermazioni morali contrastanti o differenti
sono egualmente vere. È un fallimento, forse, sul piano pratico, ma non
necessariamente su quello epistemologico. (8)
Le
tesi precedenti possono essere confermate presentando una breve ricostruzione
del quadro teorico entro cui Sidgwick si muove. In particolare, mi concentrerò
sul contesto del dibattito in cui Sidgwick interveniva (e in questo seguo la
lezione di Cremaschi, che è sempre molto attento alle dispute filosofiche) e
sulla sua concezione generale di teoria etica normativa – che egli condivideva
con molti altri autori (ed anche in questo caso, seguirò l’esempio, ma non la
sostanza, di Cremaschi, che considera l’etica di Sidgwick nel contesto della
sua concezione di filosofia e del ruolo della filosofia morale).
2. I veri
problemi di Sidgwick e le sue soluzioni: secondo una certa visione tradizionale,
Sidgwick andrebbe visto come pienamente interno al panorama teorico
dell’utilitarismo classico. Cremaschi ricorda questa lettura, ma si unisce a
chi ritiene questo modo di vedere le cose semplicistico. Concordo con la
necessità di non appiattire Sidgwick solo sul dialogo con Bentham e Mill. Ma
ritengo che le molte fonti del suo pensiero al di là dell’utilitarismo non
smentiscano un dato fondamentale: Sidgwick aveva intenzione – anche nonostante
alcune sue apparenti esitazioni – di difendere una teoria utilitarista. (9) E su questo presupposto si
può basare una ricostruzione alternativa della sua concezione di etica filosofica
e moralità di senso comune.
Sidgwick ereditava dai suoi predecessori (10) una concezione della teoria
etica normativa articolata su due idee distinte:
a. una teoria etica normativa adeguata deve essere capace di fornire un insieme di principi di condotta coerenti fra loro e completi – vale a dire, capaci di guidare le decisioni praticamente in tutte le occasioni;
i
principi della teoria etica normativa sono di due tipi: ci sono i principi primi – che sono quelli non
ulteriormente deducibili né da altri principi ancora più fondamentali, né
dall’esperienza dei casi concreti, e quindi non dimostrabili in senso stretto.
(Sono quelli che Sidgwick e Whewell chiamano intuizioni. E Cremaschi ha ragione a sostenere che
quest’appellativo sia fuorviante, perché fa pensare che tali principi siano
frutto della conoscenza derivante da una certa facoltà. Ma Sidgwick, pur usando
questo nome, non mi pare commettere l’errore) (11).
b. Questi principi non si possoino applicare direttamente alle situazioni concrete: per la loro applicazione, si deve passare tramite principi intermedi – che sono quelli che adattano i principi primi generali ai casi concreti.
Questa
concezione accomuna Bentham, Mill e Sidgwick – nonostante le altre differenze
che separano questi tre autori (12) I
principi primi riguardano il bene e il giusto – si potrebbe dire, con
terminologia contemporanea. Per tutti e tre gli utilitaristi, un elemento
contenuto nei principi primi, o nell’unico principio primo, articola l’idea che
il bene supremo sia la felicità. Per Bentham e per Mill, il principio primo si
completa con l’idea che la felicità possa venire distribuita più o meno
ampiamente – e che una distribuzione ampia, sia nei differenti momenti della
vita di una persona, che fra persone diverse, sia migliore di una ristretta. (13)
Sidgwick
si differenzia dai predecessori sotto due aspetti: egli ritiene che la distribuzione
da preferire non sia quella maggiore di una certa distribuzione data, ma la
migliore possibile; (14)
inoltre, Sidgwick non vede argomenti a favore di una distribuzione ampia della
felicità fra le persone, nel momento in cui ci siano possibilità di una
distribuzione ottimale all’interno della vita del singolo. (15) E questo è il dualismo della
ragion pratica.
Per
gli utilitaristi, i principi intermedi sono quelle regole relative alla
tendenza di alcune azioni o classi di azoni a promuovere la felicità. Si tratta
abbastanza evidentemente di regole empiriche: esse dicono, ad esempio, che in
certe occasioni una determinata azione producono maggiore o minore felicità. È
ovvio che queste regole possono coinvolgere regole morali concrete, viste
maniere per far riferimento a classi di
azioni: dire la verità, o mantenere le promesse, generalmente promuove la
felicità. Questa impostazione però prevede che la validità di queste regole
concrete non sia autonoma, bensì derivi proprio dal fatto che la conformità ad
esse promuove il fine sommo stabilito dal principio primo. Non è che si debba
dire la verità perché è giusto così, e basta. La si deve dire perché la
conformità generalizzata a questa regola produce la massima felicità.
Ma
quest’idea non è tipicamente utilitarista: essa è comune a pensatori come
Butler e Whewell, ad esempio. (16) Basta
cambiare il principio primo da cui si deduce la validità della regola
intermedia. Si deve dire la verità perché questo è uno dei modi di rispettare
la volontà divina, oppure uno dei modi per non contraddirsi, o uno dei modi per
rispettare la dignità degli esseri umani.
E
l’adozione di questa impostazione – ci sono principi primi e tutte le regole secondarie
derivano la propria validità da essi – può distinguere alternative differenti anche all’interno del campo
dell’intuizionismo o del razionalismo. Ad esempio, quest’impostazione non viene
condivisa da un pensatore come Price. Ques’ultimo, infatti, sostiene che le singole azioni hanno proprietà morali
specifiche, la cui esistenza e validità si dà nella realtà esterna e non
dipende affatto da principi generali – è un dato di fatto della realtà morale
che ci sta attorno. (17)
(Cremaschi parrebbe avvicinare Price e
Whewell: sarei scettico su questo, proprio in forza della differente metafisica
ed epistemologia dei due pensatori. Whewell è ovviamente cognitivista, ma forse
non si impegna sulla realtà delle proprietà morali delle singole azioni. Price,
invece, lo fa. E questo implica una concezione diversa dello status di regole morali come dire la
verità o mantenere le promesse, ecc.)
La
differenza fra molti dei partecipanti a questo ampio fronte eudemonista e
l’eudemonismo specificamente utilitarista arriva ad uno snodo ulteriore. A differenza
di altri, infatti, gli utilitaristi non ritengono semplicemente che i principi
intermedi di fatto, o nel lungo periodo,
già conducano alla felicità, ma pensano che questa tendenza sia solo approssimativa,
e possa venire migliorata – o, comunque, pensano (come si è visto) che questo
miglioramento, aumentare la felicità,
sia ciò che viene prescritto dal principio primo dell’etica.
Secondo
Butler, ad esempio, era ovvio che la felicità fosse il sommo bene, e che
l’Autore della Natura desiderava la felicità delle sue creature. Ma,
riprendendo un tipico argomento del dibattito sulla teodicea, egli sosteneva
che gli uomini non possono comprendere se e come arrivare alla felicità, né il
loro giudizio su eventuali tendenze non felicifiche del conformarsi alle regole
intermedie (insomma, sul male che può toccare anche ai buoni) ha validità
alcuna. Certe regole morali sono ovviamente volontà divina, riflette Butler. E
la felicità umana è ovviamente il fine di Dio. Allora, si seguano tali regole –
senza occuparsi del fatto che, in certi particolari contesti, esse possano o no
produrre la felicità. A differenza di Butler (e di Whewell che fa affermazioni
simili), gli utilitaristi pretendono di indagare quali regole intermedie, e quando,
producano maggiore felicità. Questo è forse un frutto del secolarismo di questi
utilitaristi, (18) ma
si tratta comunque di una deviazione all’interno di una prospettiva comune.
A
questo punto, però, agli utilitaristi secolari insorgono degli ulteriori
obblighi: risolvere un problema di calcolo e un problema di applicazione. Per
stabilire quali regole intermedie portino alla felicità bisogna stabilire quali
azioni singole portino alla felicità, di volta in volta. Infatti, la felicità
si raggiunge quando ci si conforma a certe regole, abbiamo detto. Conformarsi
significa compiere le azioni prescritte, in tutti i casi richiesti. Ma – come
viene fatto osservare da tutti gli oppositori dell’utilitarismo (e segnatamente
da Whewell, e questo rileva per la presente discussione) (19)– ciò implica un calcolo
quasi impossibile: bisognerebbe sapere quali sono gli effetti complessivi di
ciascuna azione, nel singolo contesto nella quale viene fatta. E bisognerebbe
capire se compiere quest’azione aumenterebbe la felicità. ove tutti la
compissero. E questo è un problema irrisolvibile. E quindi l’impostazione per
cui bisogna affidarsi alle regole morali intermedie che già abbiamo e lasciare
fare alla mano di Dio va preferita all’interventismo utilitarista – sostengono
pensatori come MacIntosh e Whewell. Peraltro, e questa è la seconda critica
(che mette in luce il problema di applicazione), gli utilitaristi, indebolendo
l’accettazione delle norme morali esistenti, senza avere un’alternativa
altrettanto potente dal punto di vista motivazionale, rischiano di fare più
male che bene – vale a dire di creare più infelicità che felicità.
Queste
obiezioni strutturano una seconda controversia tra gli utilitaristi e i loro
oppositori – di cui Cremaschi pare non tenere conto. Sidgwick vuole rispondere
a queste obiezioni. Egli non è interessato a difendere l’epistemologia
dell’utilitarismo classico. Cremaschi guarda troppo alle critiche epistemologiche
degli utilitaristi agli intuizionisti, (20) e non tiene conto di queste
altre critiche. (21) Bisogna
distinguere la critica all’utilitarismo come teoria metaetica riduzionista, razionalista
e deduttiva (a questo Sidgwick non risponde, ma cede le armi, mutando
l’epistemologia del proprio utilitarismo. La risposta a questo tipo di
critiche, e l’attacco al razionalismo, fu l’obiettivo di Mill), dalle critiche
(spesso, provenienti dai medesimi autori) all’utilitarismo come teoria etica normativa
eccessivamente revisionista e deliberativamente inattuabile – rovinata da
quello che secondo Macintrosh era l’errore fondamentale di Bentham,: fare
dell’utile un movente.
Questo
tipo di critiche costituiscono la preoccupazione principale di Sidgwick: ad
esse egli risponde mostrando la via per evitare calcoli impossibili pur utilizzando
a fini utilitaristici le regole intermedie della morale convenzionale (mentre
James Mill aveva risposto riproponendo la distinzione fra moventi e intenzioni
che si trovava in Bentham, (22) e
John Stuart Mill aveva risposto allargando la base informativa del proprio
empirismo, e mostrando anch’egli la via per evitare calcoli impossibili pur
facendo uso della moralità di senso comune per applicare l’utilitarismo) (23).
Dunque,
Sidgwick non sta attaccando l’intuizionismo in nome di una differente
epistemologia come Mill, bensì sta perfezionando una difesa dell’utilitarismo
con una epistemologia parzialmente simile a quella degli oppositori
intuizionisti. E sta rispondendo alle due critiche su menzionate. E, visto in
questa prospettiva, Sidgwick non è più conservatore di Mill e di molti
utilitaristi cauti – e comunque il suo conservatorismo ha più a che fare con la
necessità di rendere meno revisionista l’utilitarismo, che con le eventuali
premesse intuizioniste. Questo vuol dire, che il conservatorismo eventuale
deriva dalle difficoltà di calcolo dell’utilitarismo, non dall’epistemologia di
senso comune. Non è chiaro che Sidgwick faccia propria quest’epistemologia –
sia essa quella di ascendenza scozzese, o sia quella cantabrigese di autori
come Frederick Maurice.
Da
questa prospettiva, si dovrebbe capire il ruolo della moralità di senso comune
nell’etica di Sidgwick: si tratta di principi intermedi che riassumono gli
esiti felicifici o meno di certe classi di azioni – si tratta dei principi
intermedi che riassumono, direbbe Mill, la «sapienza morale dell’umanità».
Niente di più lontano, ovviamente, da conoscenze prodotte da una facoltà morale
sui generis, da credenze naturali o
innate della mente umana, o da altre concezioni del senso comune – che
Cremaschi fa bene a ricordare, ma che Sidgwick non si sognò mai di impiegare.
Note
(1) Presentato in H. Sidgwick, Metodi di etica (1874), il Saggiatore,
Milano, 2005, capitolo conclusivo.
(2) Vedi ivi,
libro III, cap. XI, par. 2.
(3) Si vedano le pagine in cui Sidgwick nei Metodi parla della riforma possibile
della moralità di senso comune, libro IV, cap. IV, par. 2, cap. V.
(4) Vedi Rousseau, Contratto sociale (1762), in Id., Scritti politici, vol. 2, Laterza, Roma-Bari, 1971, Libro primo, p.
83.
(5) Vedi Metodi,
libro III, cap. XIII, par. 3
(6) Peraltro, proprio a una distinzione
aristotelica (fra ciò che è a priori
in assoluto, e ciò che lo è per il soggetto conoscente) Sidgwick fa riferimento
quando spiega la funzione del consenso nella conoscenza dei principi morali
primi nel saggio “The Establishment of First Principles” (1879) (lo si veda in
H. Sidgwick, Essays on Ethics and Method,
a cura di M.G. Singer, Clarendon Press, Oxford, 2000, pp. 29-34; si veda anche
D.O. Brink, Common Sense and First
Principles in Sidgwick’s Methods, «Social Philosophy and Policy», XI, 1994,
pp. 179-201).
(7) Da qui il tono sconsolato della
conclusione della prima edizione dei Metodi,
cui Cremaschi fa spesso accenno – ed è l’unica concessione ad una certa lettura
standard e un po’ pittoresca di
Sidgwick, in un saggio che per il resto ne prende brllantemente le distanze.
(8) Nel testo suggerisco che la rinuncia al
principio di non contraddizione o del terzo escluso non implichi scetticismo,
dunque. Che sia così mi pare provato da sistemi come le matematiche
intuizioniste, che non prevedono affatto esiti scettici.
(9) Non concordo quindi con l’idea espressa da
Schneewind, secondo cui le intenzioni di Sidgwick non erano affatto
apologetiche, ma quasi esclusivamente analitiche (v. Schneewind, Sidgwick’s Ethics and Victorian Moral
Philosophy, Clarendon Press, 1977, pp. 192).
(10) Si tratta di un’eredità proveniente
sicuramente da Bentham e Mill, come si vedrà immediatamente dopo. Ma forse la
visione dell’etica presupposta dagli utilitaristi era anche più diffusa, prima
e durante il periodo di fioritura dell’utilitarismo classico. In particolare,
il lascito baconiano di questo modo di concepire l’etica è comune a pensatori
non impegnati nell’utilitarismo. Curiosamente, si tratta di una impostazione
presente non solo negli utilitaristi, ma anche nei pensatori di orientamento
deontologico – di svariate impostazioni epistemologiche, in un insieme che va
appunto da Price a Butler e a Whewell, ma è presente anche negli scozzesi
sostenitori del senso comune. È un modo di procedere differente rispetto
all’impostazione newtoniana ed esplicativa delle etiche dell’empirismo –
esposte da personaggi come Hume e Smith. È un modo di procedere, tuttavia, che
tramontò definitivamente con Sidgwick e Whewell. Moore e Ross hanno una impostazione
differente, anche se a volte vengono ritenuti degli intuizionisti vicini a
Sidgwick (su questo si veda). Non discuterò oltre questi punti qui.
(11) Sidgwick rifiuta il linguaggio classico
delle facoltà, anche nella sua epistemologia – stranamente questo non compare
nel resoconto di Cremaschi nel paragrafo 3. Ma è evidente anche e soprattutto
nelle svariate critiche allo psicologismo che Sidgwick presenta in molte opere
(si veda Metodi, cit., libro I, cap.
III, par. 1). Cremaschi riconosce l’anti-psicologismo di Sidgwick, ma pare ritenerlo
privo di conseguenze significative. A parere di chi scrive, qualsiasi accordo
verbalmente espresso da Sidgwick con pensatori come Spencer, una volta che si
tenga conto della sua impostazione anti-psicologista, perde molta della sua portata.
Ma non approfondirò questo punto qui.
(12) Bentham dice chiaramente che il
principio di utilità è un principio primo e non è suscettibile di prova
ulteriore (si veda J. Bentham, Introduzione
ai principi di morale e legislazione (1789), Utet, Torino, 1998, cap. I,
par. 2 n. a). Mill attribuisce a Bentham questa tesi, e la adotta egli stesso
(si veda J.S. Mill, “Bentham”, 1838 e Id., Utilitarismo,
in Id., La libertà, L’utilitarismo,
L’asservimento delle donne, Rizzoli, Milano, 1999, cap. V, pp. 291-2).
Sidgwick, ovviamente, ritiene che i principi dell’intuizionismo filosofico
siano assiomi primi – vale a dire non ulteriormente deducibili da altri
principi, o dall’esperienza (vedi Metodi,
cit., libro III, cap. XI, par. 2, cap. XIII, par. 3).
(13) Come dovrebbe essere chiaro dalla
formulazione, ritengo che Bentham e Mill non abbiano una concezione otttimifica dell’utilitarismo – ma solo quantitativa.
Ma anche questo punto richiederebbe più spazio per venire articolato.
(14) Sidgwick, quindi, inaugura l’utilitarismo
ottimifico.
(15) I due aspetti sono connessi: in altre parole,
secondo questa interpretazione, il dualismo della ragione pratica è una
conseguenza indesiderata di un utilitarismo ottimifico.
(16) J.
Butler, Sermons, (1726), Sermone XII,
nota, § 242, W. Whewell, Lectures on the
History of Moral Philosophy in England. London: Parker, [1852] 18622,
, Introductory Lecture, pp. xx-xxi.
(17) Si veda Price, Rassegna delle principali questioni della morale (1758), Bompiani,
Milano 2004, cap. I, sez. III.
(18) Gli utilitaristi teologici, come William
Paley e John Austin, spesso fanno discorsi molto simili a quelli di Butler
ricordati prima.
(19) Si
veda W. Whewell, Lectures, cit.,
Lect. XIV, pp. 210-3.
(20) Principalmente le critiche benthamiane
alle etiche del capriccio nel secondo capitolo dell’Introduzione, e quelle di Mill in “Dr. Whewell on Moral Philosophy”
(1852).
(21) Si
tratta delle critiche espresse da James Mackintosh, Dissertation on the Progress of Ethical Philosophy chiefly during the
17th and 18th Century, 1836, e Adam Sedgwick, Discourse on
the Studies of the University, 1832, di W. Macaulay, “Utilitarian Logic and
Politics”, 1829.
(22)
Vedi J. Mill A Fragment on Macintosh, 1835.
(23) Vedi Utilitarianism,
cap. V.