Etica & Politica/ Ethics & Politics, 2006, 1

http://www.units.it/etica/2006_1/MORDACCI.htm

 

 

 

Grande divisione e modelli alternativi di fondazione dell’etica. Commento a Zecchinato

 

Roberto Mordacci

Facoltà di Filosofia

Università San Raffaele - Milano

 

 

1. Non posso che essere d’accordo con la sintetica e acuta contro-argomentazione offerta da Zecchinato sul libro di Putnam. Quest’ultimo in effetti tradisce un’idea del dibattito sul tema piuttosto datata (ferma all’incirca agli anni Trenta del Novecento): non solo considera un po’ sommariamente tutto il dibattito, che dura ormai da cinquant’anni, sulla legge di Hume in etica, e quindi sceglie come bersaglio critico argomentazioni ampiamente superate, ma presenta della legge di Hume una concezione piuttosto rozza e decisamente limitata. Rispetto a tale concezione (in sostanza quella del primo positivismo logico), lo sviluppo della filosofia del linguaggio e soprattutto della filosofia della mente, cui lo stesso Putnam ha dato un significativo contributo, ha reso quasi un luogo comune una serie di obiezioni profonde: basti pensare, per restare su un terreno familiare a Putnam, alle critiche alla concezione idealizzata dei «fatti» (e a quella incomprensibilmente «aliena» dei valori) che già nei giorni aurei del positivismo subiva gli attacchi  endogeni derivanti dal principio di indeterminazione, la fisica quantistica, la relatività. (1)

Va osservato, a parziale discolpa di Putnam, che il suo obiettivo esplicito, in questo libro non è tanto l’opposizione fatti-valori nel dibattito etico-filosofico, bensì la sua persistente presenza nell’area delle scienze economiche, o almeno nella vulgata che alimenta la gran parte delle dinamiche consapevoli degli operatori ai vari livelli dell’economia mondiale. Putnam fa mostra di volersi occupare, da filosofo, della nefasta influenza di un’interpretazione troppo radicale e insostenibile della distinzione fra fatti e valori sulle discipline economiche e sulle dinamiche indotte nell’economia mondiale da questa immagine del rapporto fra il mondo «reale» (quello materiale ed economico) e l’orizzonte dei valori (etici, politici ed estetici). Sembra questa separazione, popolare e imprecisa, il vero bersaglio della polemica di Putnam, che vi rivolge contro un armamentario non proprio nuovissimo ma abbastanza collaudato. Visto così, il titolo del libro può anche suonare, invece che come il pretenzioso proclama di una confutazione definitiva, come la presa d’atto di un processo lungo e complesso, che raggiunge ora anche settori meno filosoficamente impegnati di quanto lo siano l’epistemologia e la logica.

Per un ampio periodo, la Grande Divisione (GD) ha svolto il ruolo di criterio di demarcazione fra discipline che promettono la validità oggettiva delle procedure e la possibilità sistematica della verifica intersoggettiva dei risultati da un lato, e discipline in cui la ricerca di oggettività non può basarsi sull’appello ai fatti d’esperienza (ovviamente intesa solo nel senso di esperienza sensibile) dall’altro. Si è trattato di un fondamentale esercizio di chiarificazione dei confini di quella che Husserl chiamava «una pura scienza di fatti», che non ha naturalmente nulla da dirci – proseguiva lo stesso Husserl – sui valori e sul senso. Tuttavia, nessuno più crede che la GD da sola costituisca una base sufficiente per negare in radice all’etica e alla riflessione sui valori qualunque legittimità e per chiudere qualunque spazio per la definizione di criteri di validità intersoggettiva diversi da quelli della verifica esclusivamente in base ai puri «fatti». C’è anzi da chiedersi, come fa Zecchinato, se a questo potere dissolutorio della GD nei confronti dell’etica ci abbia mai davvero creduto qualcuno (certamente non David Hume).

Resterebbe comunque da vedere se la GD, una volta ridimensionatane l’interpretazione, non possa svolgere un ruolo importante nella costruzione stessa dell’etica, così come nelle discipline storiche, politiche ed economiche. Il profilo di un’interpretazione meno ingenua della GD mi pare esattamente delineato nella caratterizzazione offerta da Zecchinato:

 

La Grande Divisione è un teorema logico-linguistico che riscontra nell’uso e raccomanda una distinzione irriducibile fra proposizioni con funzione eminentemente conoscitiva e proposizioni con funzione eminentemente direttiva; essa vieta di derivare enunciati dell’un tipo da soli enunciati dell’altro tipo. (p. 3)

 

Tuttavia, Putnam non va così per il sottile: attacca frontalmente la GD e fa di questo attacco la base per proporre un’idea (per la verità già affacciata nelle sue opere precedenti) di validità epistemica come «asseribilità garantita» che dovrebbe unificare i campi, che la GD intende tenere distinti, delle scienze descrittive e di quelle valutative. Paradossalmente, l’esigenza di negare totalmente la validità della GD deriva dalla condivisione dei presupposti della sua interpretazione «fanatica», che pretende di farne lo strumento logico-linguistico principale della critica a ogni forma di cognitivismo e di oggettivismo in etica. Vale a dire: si ritiene che la fondazione dell’etica possa avvenire soltanto attraverso la riconduzione del suo criterio di validità a qualche versione del criterio di validità della conoscenza scientifica. Anche se quest’ultima è intesa in senso più ampio rispetto all’interpretazione riduttivista tipica del neopositivismo, si tratta pur sempre di ricondurre la normatività pratica dei giudizi morali a criteri teoretici di verità. Negare la GD significa, in un certo senso, rivendicare la possibilità di riscontrare in qualche forma di esperienza la dimensione assiologica del reale e ritenere che l’autorità normativa dei giudizi morali dipenda essenzialmente dalla loro capacità di rispecchiare tale dimensione. Ora, se questo è un criterio plausibile per la conoscenza teoretica, è quanto meno discutibile che lo sia per l’agire pratico: quest’ultimo non deve adeguarsi al mondo per essere vero, bensì si proietta nel mondo come «aver da essere» e tenta di adeguare il mondo al volere. Come è noto, questa distinzione, che ha origine kantiana, è stata frequentemente ribadita nel dibattito recente, in particolare nella formulazione suggerita da Elisabeth Anscombe: la «direzione di adeguazione» del giudizio conoscitivo è mind-to-world, quella dei giudizi pratici è world-to-mind. Trascurare questo aspetto essenziale significa travisare il funzionamento della ragion pratica assimilandola al modello di validità della ragion teoretica.

Ma allora, appunto, perché negare la GD? Si tratta, certo, di ridimensionarne la portata rispetto ad interpretazioni «assolutiste» o fanatiche, le quali pretendono di derivarne l’insensatezza o l’infondatezza del discorso morale. Tuttavia, non sembra che i moralisti siano mai stati molto impressionati dalla potenza di questa distinzione: basti considerare, in proposito, la vicenda dell’intuizionismo classico (in primo luogo Price, ma anche i neointuizionisti del Novecento) e soprattutto la grande lezione kantiana. Lo stesso Hume, in fondo, affida la fondazione della normatività del discorso morale a una dinamica che combina l’elemento pratico (la capacità – indiscussa per Hume – dei giudizi morali di essere moventi efficaci dell’azione) con un elemento esperienziale (la percezione del «piacere particolare» che suscita la virtù), tenendo però rigorosamente distinti i criteri di validità teorici da quelli pratici. (2) La GD non è stata considerata un avversario invincibile dai filosofi morali; anzi, essa è stata in qualche caso utilizzata, come hanno fatto gli intuizionisti, come uno strumento di difesa dalle pretese colonialiste della scienza, mentre si cercava una fondazione dell’etica nell’orizzonte pratico, prendendo le mosse, anziché da una concezione del bene e dell’ordine del mondo, dalla struttura dell’agire umano o dal linguaggio morale. Forse, in parte, la distorsione del discorso di Putnam rispetto all’evoluzione recente della filosofia morale dipende, oltre che dal già citato riferimento all’economia, dal fatto che Putnam non è propriamente un filosofo morale, ma un filosofo della logica e del linguaggio che di tanto in tanto sconfina nelle questioni etiche. Per altro, questo potrebbe spiegare perché, in fondo, Putnam in realtà mostri di continuare a condividere il presupposto neopositivista secondo cui l’etica può trovare fondamento, se mai lo può, soltanto attraverso una fondazione «empirica» e perciò negando la GD; anche i moralisti di orientamento naturalistico o empiristico sono ormai restii a prendere questa strada.

 

2. Gli argomenti di Putnam sono sottoposti da Zecchinato ad un’analisi piuttosto efficace. In questa sede si può cercare di interpretare tali argomenti in un modo che li faccia apparire, possibilmente, meno«stranamente sfocati» di come li vede Zecchinato.

Il primo argomento richiama la distinzione analitico-sintetico e ne critica l’interpretazione esasperata o «metafisica». Credo che la tesi che Putnam intende criticare sia piuttosto un complesso di argomenti che una semplice distinzione. In sostanza, l’opposizione fra analitico e sintetico consentirebbe di dire che, poiché l’etica non può contenere proposizioni sintetiche (né a priori né a posteriori), essa è destituita di ogni fondamento possibile. La tesi centrale è quella per cui in etica non si danno proposizioni sintetiche. Ciò a sua volta presuppone due elementi impegnativi: a) la tesi per cui gli enunciati significanti sono soltanto quelli riconducibili a referti d’esperienza e b) la Grande Divisione. Poiché l’etica non può basarsi su enunciati conoscitivi di tipo empirico, a causa della irriducibilità del prescrittivo al descrittivo, e poiché altri tipi di enunciati non sono significanti (o non sono comunque verificabili), allora l’etica non può avere fondamento. Per fondarsi, l’etica avrebbe bisogno di proposizioni sintetiche, le quali però, a causa della GD, nel caso dei giudizi morali non possono congiungere elementi descrittivi ed elementi prescrittivi. Putnam sembra voler ridurre la portata della distinzione analitico-sintetico per riaprire la porta all’etica; tuttavia, non è affatto necessario accettare la premessa, cioè che in etica (come nella conoscenza teoretica) non siano possibili giudizi sintetici a priori. Ciò consentirebbe ovviamente di fondare l’etica su qualcosa di diverso dall’esperienza sensibile, per esempio una procedura razionale o un atto riflessivo della ragion pratica. Come è noto, quest’ultima è la strada intrapresa da Kant (la prima è quella dei contrattualisti): in quest’ottica, l’imperativo categorico è precisamente ciò di cui si ha bisogno per fondare l’autorità dei giudizi morali senza né negare la distinzione analitico-sintetico né pretendere che vi siano proposizioni etiche sintetiche a posteriori. È proprio l’aver assunto, insieme a quella distinzione, i pregiudizi del neopositivismo a motivare le preoccupazioni di Putnam. Mi pare quindi che Zecchinato abbia visto giusto.

Il secondo argomento intende, di nuovo, ridurre la portata della tesi della neutralità assiologica dei fatti: Putnam richiama la tesi per cui non ci sono «puri fatti», ovvero fatti del tutto «value free», e sostiene che l’intreccio fra assiologico e ontologico non sia districabile in maniera netta. Tutte le forme di nuovo naturalismo (McDowell e Wiggins, ad esempio, ma anche Brink, almeno per certi aspetti) traggono vantaggio da una tesi come questa, ma è dubbio che essa sia necessaria per sostenere l’oggettività dell’etica. In primo luogo, l’intreccio fatti-valori, se pure è inestricabile, non è detto che sia univoco: la coloritura assiologica di certi fatti (azioni o eventi che siano) potrebbe non essere sistematica in tutte le culture e le tradizioni morali e, anzi, in molti casi non lo è affatto. Con ciò, resta vero che i fatti hanno sempre una coloritura assiologica, ma non è possibile indicare, al di fuori di un contesto storico determinato, quale sia la particolare coloritura assiologica che pertiene a un certo fatto. In tal senso, il lavoro ermeneutico e genealogico sulle pratiche (per esempio, quello svolto da Foucault sulla nozione di epimeleia heautou) può mostrare una profonda diversità di strutture assiologiche associate a pratiche esteriormente molto simili. In secondo luogo, come Zecchinato nota più avanti, se interpretiamo la GD come uno strumento di distinzione fra usi diversi del linguaggio, la commistione di fatti e valori non costituisce di per sé un argomento contro la possibilità di mantenere una distinzione di «punti di vista fenomenologici» sugli oggetti, tale per cui resta significativa la distinzione fra un uso prescrittivo e un uso descrittivo senza che ciò comporti la separazione «ontologica» di fatti e valori: dei medesimi «fatti» parliamo per descriverli o per determinarci ad agire in merito, ma lo facciamo con due funzioni diverse del linguaggio. Qui direi che Zecchinato non si discosta molto da Putnam: quest’ultimo non sembra voler abolire del tutto la possibilità di parlare dei fatti da un punto di vista ora pratico ora teoretico; diversamente, sarebbe assai difficile spiegare la innegabile differenza logica fra linguaggio descrittivo e prescrittivo. E non mi pare che Putnam sia disposto a fare questo.

Il terzo argomento di Putnam chiama in causa la semantica «pittorialista» di Hume. Come già detto, Hume stesso si affida in realtà a una certa capacità di «sentire» la somiglianza fra il soggetto e la virtù nel dar conto dell’autorità dei giudizi morali. Si tratterebbe di una palese violazione della GD, se questa fosse interpretata «metafisicamente» da Hume; ma, appunto, proprio Hume mostra di intendere la GD in modo tutt’altro che fanatico, anche se, come vedremo subito, l’interpretazione «moderata» della GD fa sorgere qualche dubbio sulla sua rilevanza.

Zecchinato ritiene che la quarta tentata confutazione di Putnam sia «la più seria». Putnam invoca qui i concetti thick a dimostrazione dell’inestricabilità di elementi prescrittivi e descrittivi nel linguaggio morale (l’argomento si deve a Bernard Williams). È qui che, utilizzando l’approfondita analisi di Celano, viene delineato un senso della distinzione descrittivo-prescrittivo che non comporterebbe le implicazioni pretese dai neopositivisti. Anche se non viene sempre compiuta, la distinzione può sempre essere tracciata, o quanto meno si può sempre sensatamente chiedere al parlante se sta parlando in senso descrittivo o prescrittivi (per farlo risaltare si pensi a questo dialogo: «Ciò che fai è crudele» «Certamente lo è. Ma che male c’è a farlo?»). La questione qui non è tanto che la distinzione sia sempre tracciabile, quanto su quale base essa possa esserlo di principio. La GD tiene se si può mostrare che di principio è sempre possibile distinguere l’aspetto valutativo da quello descrittivo. Nel caso di «crudele» (un tipico concetto thick) ciò significa sostenere che la descrizione degli atti designabili come crudeli non è mai definita (in termini esclusivamente descrittivi) una volta per tutte e che benché ogni descrizione di un atto come crudele includa almeno implicitamente un elemento prescrittivo, quest’ultimo non dipende intrinsecamente e in maniera univoca dalla sola descrizione (osservativa) dell’atto. Solitamente, l’appello a concetti thick serve a rivendicare la presenza di un contenuto normativo non meramente formale nei concetti morali (a differenza di quanto avviene con i concetti thin, che appaiono difficilmente identificabili, in prima istanza, in termini di azioni concrete); un concetto thick include elementi descrittivi sufficienti per identificare alcune azioni come esempi di tale concetto. Ciò significa che tali concetti implicano la necessaria compresenza dei due aspetti, ma non la loro indistinguibilità di principio; se la implicassero, tutti i concetti thick sarebbero univocamente determinati in termini di azioni corrispondenti in tutte le lingue del mondo, cosa che non accade. Accade però che in ogni linguaggio questi concetti implichino il riferimento ad alcuni elementi descrittivi, che possono variare da linguaggio a linguaggio. Tuttavia, il parlante può facilmente distinguere, in ciascuno di questi contesti, l’intenzione descrittiva da quella valutativa; soltanto questa possibilità, infatti, spiega perché i concetti thick possano variare da linguaggio a linguaggio.

Ritengo che questa argomentazione funzioni di supporto alla controconfutazione di Zecchinato. Ci si può chiedere, tuttavia, se l’interpretazione moderata della GD non ne diminuisca grandemente l’importanza. In tale ottica, infatti, la GD è compatibile con varie forme di cognitivismo, e segnatamente di naturalismo. Distinguere fra due usi del linguaggio è certamente utile al fine di evitare confusioni, ma non sembra essere decisivo per la questione del fondamento dell’etica. In fondo, sembra che, se diamo un’interpretazione logico-semantica della GD (l’interpretazione «assolutista» o «metafisica»), allora questa è uno strumento abbastanza forte (anche se forse non decisivo) di critica verso le morali metafisiche e naturalistiche; ciò però comporta l’onere di accettare in blocco una serie di presupposti tipici del neopositivismo che gran parte del dibattito novecentesco sembra aver messo profondamente in discussione (o addirittura confutato). D’altra parte, se forniamo della GD un’interpretazione moderata (definendola come una distinzione fra due usi entrambi legittimi – fino a prova contraria - del linguaggio), allora essa non ha implicazioni immediate per la fondazione dell’etica, a meno di sostenere contestualmente (come facevano i neopositivisti) che uno dei due usi del linguaggio è privo di legittimità. Essa però ha un’importante funzione positiva: se la distinzione fra i due usi del linguaggio è abbastanza netta da poter dire che essi sono, almeno di principio, reciprocamente irriducibili (ma cosa resterebbe della GD senza questo requisito?), allora la GD costituisce un forte elemento a favore del riconoscimento dell’autonomia dell’etica rispetto tanto alla scienza (o meglio: alle scienze naturali e alle scienze del comportamento) quanto alla metafisica e all’ontologia. In altri termini: se l’uso prescrittivo del linguaggio, in particolare quello morale, è distinto e irriducibile a quello descrittivo, e se tale uso è legittimo (non è privo di significato o intrinsecamente contraddittorio), allora il discorso morale ha (deve avere) un fondamento di validità diverso dalla semplice adeguazione fra mente e mondo nel senso del mero rispecchiamento. Come si vede, contrariamente a quanto pensavano i neopositivisti e, con loro, lo stesso Putnam, la GD è tutt’altro che un ostacolo per la fondazione dell’etica.

Infine, in riferimento al quinto argomento di Putnam, ci si può chiedere se la GD sia un teorema logico o se abbia «una base ermeneutica o fenomenologica», per usare le parole di Celano. Putnam ritiene che, non essendo un teorema logico, essa non abbia validità; Zecchinato, con Celano, ritiene che essa sia valida sul piano «ermeneutico-fenomenologico» proprio in quanto non è un teorema logico. Mi pare che, per quanto emerso fin qui, si possa facilmente consentire con la proposta di Zecchinato; ancora una volta, Putnam sembra lottare contro una concezione esasperata della GD, che però non è affatto necessaria. Tuttavia, mi chiedo che cosa significhi «fenomenologico» (e «ermeneutico) in questo contesto: mi pare che ci si riferisca alla «fenomenologia» degli usi linguistici, per cui la GD porta ad evidenza fenomenologica una distinzione fra usi diversi; l’intuizione eidetica cui essa apre l’accesso è allora quella di una differenza originaria e per questo irriducibile fra tali usi linguistici; si tratta allora, direi, di una distinzione linguistico-fenomenologica. Se invece si intende dire che la GD è un’evidenza fenomenologica riguardo alle «cose stesse», mi pare che ci si proietti immediatamente proprio in quella comprensione tipicamente fenomenologica (nel senso della prospettiva propria di autori come Husserl, Scheler, Stein, Reinach ecc) secondo cui – si dovrebbe dire – i modi di evidenza dei fatti e dei valori sono originariamente distinti; ciò comporta la tesi per cui l’intuizione eidetica dei valori è analoga ma distinta rispetto all’intuizione eidetica delle essenze e, insieme, tutto l’apparato fenomenologico-intuizionistico che segue a questa comprensione del linguaggio morale (accesso diretto ai valori, natura ambigua delle qualità morali, autoevidenza dei principi normativi ecc.). La questione è importante anche per il ruolo che la GD ha avuto nell’intuizionismo anglosassone: negare in toto la sua validità significa probabilmente riportare il dibattito al punto in cui lo aprì G.E. Moore con l’open question argument: se non vi è distinzione né linguistica né ontologica fra fatti e valori, allora come è possibile che la domanda se qualcosa sia buono (o giusto) resti sempre aperta per qualsiasi definizione naturalistica o metafisica di buono (o giusto)? Può darsi che, se la discussione di Putnam fosse in realtà pertinente, questo debba essere il nostro destino; ma francamente, arretrare di un secolo esatto non mi parrebbe un gran risultato per la filosofia morale.

 

 

Note

 

(1) Di fatto, questo è proprio uno degli argomenti rispolverati da Putnam per confutare la distinzione fatto-valore. Peccato che lo presenti come una sua nuova invenzione.

(2) La verità delle asserzioni conoscitive è attestata dalla congruità con le rappresentazioni percettive, mentre per i giudizi pratici non si può parlare di una «adeguazione» bensì Hume parla di una «approvazione» connaturata al piacere destato dalla virtù. Bene è ciò che si approva, vero è ciò che si esperisce.