Etica & Politica/ Ethics & Politics, 2006, 1

http://www.units.it/etica/2006_1/MARRONE.htm

 

 

 

Che cosa resta della spiegazione. Un commento a Donatelli

 

Pierpaolo Marrone

Dipartimento di Filosofia

Università di Trieste

 

 

Dobbiamo essere grati al lavoro che ha condotto a Piergiorgio Donatelli. Questo per alcuni motivi: innanzi tutto, averci condotto, con mano sicura e scrittura del tutto amichevole verso il lettore, nei labirinti di alcune rilevanti vicende della riflessione morale contemporanea; e poi, per la disponibilità e l’accoglienza verso l’autrice introdotta. Non sono cose prive di significato, naturalmente, e qualificano tanto i temi e gli autori trattati quanto il nostro collega. Proprio per questo, però, io vorrei provare a forzare la prudenza e il pudore di Donatelli, che lo fanno collocare quasi costantemente sullo sfondo del suo scritto, avanzando una serie di osservazioni non tanto sull’autrice da Donatelli trattata quanto su alcune affermazioni di carattere generale che nel suo scritto sono evocate. Del resto, che il lavoro teorico comporti necessariamente discutere le posizioni dei colleghi non significa che non si possa e debba volgere queste posizioni a una discussione generale.

Mi rendo anche conto di quanto possa essere rischioso attribuire a Donatelli posizioni che forse non sono sue o che lui non sottoscriverebbe nella forma immediata in cui le rintraccia in altri autori. Ma, l’ho detto, il ruolo che mi sono assegnato, e che forse mi hanno assegnato i nostri amici in questi Dialoghi di etica, è quello di forzare, amicalmente, prudenza e pudore di Piergiorgio.

L’idea principale che percorre lo scritto di Donatelli a me pare essere che la vita morale non è caratterizzata dal suo essere una esibizione concettuale di strutture fatte proprie dall’agente con opera riflessiva. Questa è una distorsione prospettica causata dal fatto che i filosofi morali hanno per lo più inteso il fenomeno etico come approcciabile dal lato motivazionale. Del resto, è ovvio anche che, con questa premessa, questa distorsione si sia prodotta. Riflettere sulla motivazione dell’agente è un’operazione tanto necessaria quanto, al fondo, dotata anche di una sua ambiguità. Chi riflette, in definitiva? Il filosofo, appunto, allenato per curriculum e professione a farlo. Fin qui nulla di ambiguo si dirà; ma l’ambiguità consiste nella generalizzazione di quell’operazione a persone che non l’hanno mai svolta o che la svolgono soltanto episodicamente.

Si tratta di un’ambiguità controproducente e distorcente, perché il fenomeno morale è realmente onnipervasivo per il semplice fatto che noi interagiamo con gli altri e siamo immersi nelle relazioni con il mondo (Robinson Crusoe non è affatto amorale prima di incontrare Venerdì, perché potrebbe pur sempre devastare o prendersi cura dell’isola sulla quale è naufragato), così come è onnipervasiva la nostra relazione con la verità a un altro livello. Se si tratta di un fenomeno onnipervasivo, allora la strumentazione analitica che alcuni hanno ritenuto usuale in etica non può essere uno strumento realmente capace di cogliere la complessità della nostra esperienza etica.

Si dirà che si tratta di affermazioni ovvie. Non sono del tutto d’accordo, perché a questo punto sono aperte due strade che si dirigono in direzioni radicalmente opposte. Una è la strada dell’antiteoria, percorsa da molte correnti antirazionaliste del secolo scorso, strada pervasa magari da un indefinito vitalismo o da un biologismo senza reale portata esplicativa. Queste correnti, che purtroppo non sono rimaste limitate ai dipartimenti di filosofia e agli scaffali delle biblioteche, hanno spesso avuto un’ascendenza nietzscheana e non a caso si sono spinte a negare quello cui accennavo prima, ossia tanto l’onnipervasività del nostro rapporto con l’etico quanto l’onnipervasità della nostra relazione con il vero. Alcuni di questi esiti, meno inquietanti e più accademici sono i mantra ricorrenti che ‘non esistono fatti ma solo interpretazioni’, che ‘le prospettive morali sono irriducibili e sullo stesso piano’ (ma perché non lo si va a chiedere a chi ne è toccato, anziché affermarlo nel tepore di un’aula universitaria?), e così via. L’altra strada è quella che mi pare fatta propria da Donatelli (credo da tempo, per altro, e sulla quale ritengo abbiano avuto un influsso decisivo i suoi studi su Wittgenstein), (1) che tende a vedere il fenomeno morale come una funzione narrativa.

Intendere la vita morale in questo senso non significa condannare le nostre analisi a una irrimediabile vaghezza, ma rappresenta, io ritengo, una sfida per la spiegazione. Non significa soltanto dire che accanto alla sistemazione concettuale, prima in effetti di questa, vi è il fatto che l’etico parte dall’affetto e dal sentimento, ma significa qualcosa di più, ossia che il fatto della ragione, come lo chiamava Kant, non è la ragione senza per questo essere l’irrazionale. Allo stesso tempo, significa dire che la materialità della nostra esperienza morale è un intreccio di passioni, affetti, emozioni, filtrate talvolta da una tradizione e più spesso dalla nostra storia evolutiva, ma che non si tratta di un articolazione informe sottratta in linea di principio e in virtù della sua materialità alle nostre capacità esplicative.

Per illustrare questo punto riprendo quanto Donatelli ricorda, quasi come un inciso, a proposito dell’affermazione della Ascombe sul dovere, apparentemente sottoscrivendola, ma lo volgerò in una direzione completamente opposta. Il motivo che spinse la Ascombe ad affermare che il dovere non è affatto un dovere né un termine che possiede un’articolazione concettuale era un’insoddisfazione verso posizioni che risolvevano la riflessione etica in ambito linguistico. Naturalmente, il motivo per cui Donatelli lo ricorda non è propriamente ed esclusivamente questo, ma piuttosto, mi sembra, il fatto che questa posizione era il presupposto per risolvere la filosofia morale in un esercizio metaetico. Forse dire questo è troppo ingeneroso, perché in fondo, ad esempio, erano le posizioni metaetiche di Hare che gli consentivano determinate idee sostantive sull’universalizzabilità e sulla coniugabilità di utilitarismo e kantismo. Ma non è questo il punto, quanto piuttosto il fatto che quell’insoddisfazione era motivata. E, tuttavia, non si fornisce soddisfazione a questa insoddisfazione sostenendo che quelli – tutti o alcuni – che siamo abituati a chiamare concetti morali in realtà non lo sono, perché sono incapaci di esibire un’articolazione concettuale.

Prendiamo il dovere, appunto. Lasciando perdere il lirismo kantiano sul “nome sublime e grande” e sull’analogia del dovere morale con “il cielo stellato sopra di me” (analogia ben strana, in effetti, perché ognuno prima o poi apprende che l’universo è indifferente alle nostre vite), ripensiamo al ruolo che il dovere gioca nella formazione dell’etica protestante nella misura in cui veicolerebbe lo spirito del capitalismo (almeno del capitalismo di produzione e non più di quello che stiamo vivendo noi, ossia il capitalismo di consumo). È sensato dire che si tratta di un termine privo di articolazione concettuale? Proprio nella prospettiva che sembra favorire Donatelli sembrerebbe di no. È, anzi, tale la sua saturazione con forme di vita determinate da poter produrre un intero stravolgimento della vita di miliardi di persone. In altre parole, esiste una performatività morale, di cui quelli che consideriamo concetti morali sono delle abbreviazioni utili per la riflessione. Tali abbreviazioni vanno sciolte con un paziente lavoro di scavo analitico, ad esempio, mostrando quali altre strutture oltre a quelle consegnate tradizionalmente dalle nostre eminenti tradizioni filosofiche vi sono implicate, ossia mostrando ed esibendo il peculiare gioco linguistico-materiale che vi è implicato.

Inevitabilmente, quando è in gioco qualcosa come il dovere morale è da supporre che prima o poi verremo a parlare di regole. Forse, se siamo capaci di spingere il gioco abbastanza in là, magari prima o poi parleremo anche di giustizia distributiva, a riprova del fatto che dividere filosofia morale dalla filosofia politica è un’operazione soprattutto accademica e in fondo improduttiva. Non avremo, se siamo capaci di fare qualcosa del genere, mostrato piuttosto che il concetto è implicato in una forma di vita? Non avremo forse implicato nella nostra operazione che la forma di vita, alla quale il concetto rimanda, è apparentato o addirittura discende, possiede anch’essa un’articolazione che non è sottratta in linea di principio alla spiegazione? Io penso di sì. Il concetto è un prodotto dell’anima, e non c’è motivo di abbandonare l’affermazione aristotelica che l’anima è in fondo tutte le cose, ossia che le cose alle quali diamo forma con i nostri apparati conoscitivi ed evolutivi non ci sono estranee quando entrano nella sfera del nostro interesse vitale. In questo senso, un’investigazione delle forme di vita attraverso le quali si sostanzia la nostra vita etica non è necessariamente un’operazione storicistico-idealistica, ma può altrettanto bene – e, secondo me, meglio – trovare spazio in una più generale concezione naturalistica dell’etica. Quello che tu ritieni la vita buona è ciò che è appropriato a quello che tu sei.

In questo senso, ha ragione Donatelli a ricordare che avere o meno un concetto e abitare o meno la relativa dimensione concettuale (espressione con la quale io ritengo Piergiorgio intenda la rete di rimandi linguistico-concettuali-materiali che un determinato concetto implica), significa porre la questione che la storia ci ha consegnato determinate possibilità concettuali e materiali e non altre, ma, allo stesso modo, io aggiungo, significa porre una questione che riguarda anche l’ontologia, il fatto che abitiamo un mondo dalle risorse scarse, ad esempio, e la storia di questa ontologia, che non è l’oblio dell’essere, ma il modo in cui noi ci siamo evoluti, ad esempio. Tutte operazioni concettuali ed empiriche, insomma.

Allora perché c’è un’aria, forse equivocamente, anti-intellettualistica e anti-concettuale nel tono, se non nella sostanza, di molto di ciò che Donatelli dice? La risposta che posso azzardare qui è unicamente una congettura, ma proprio per lo stile dei nostri incontri mi sento di avanzarla egualmente. Io credo che Piergiorgio sia giustamente scettico verso quello che chiamerò il demone della spiegazione completa. Questo demone – il demone di Laplace, se vogliamo – è in effetti una tentazione ricorrente in ogni impresa teorica e quindi anche in etica. Ma dal momento che Donatelli è scettico verso la modellizzazione in etica allora questo lo fa propendere, credo, verso una sorta di interpretazione di alcuni modelli morali come il primo passo di un piano scivoloso che condurrebbe verso le pretese inattuabili di quel demone.

È una preoccupazione di questo genere che, a mio avviso, ha giustificato anche le recenti teorizzazioni particolariste in etica, ad esempio quella di Dancy. (2) Ma, senza assolutamente voler attribuire a Donatelli posizioni metaetiche che non sono certamente sue, è però interessante notare come proprio teorizzazioni per così dire anti-teoriche, come quella particolaristica, ricadano proprio nell’aporia che vorrebbero evitare e che rimproverano alla modellizzazione. Se la spiegazione dell’atto morale è, infatti, particolare, che cosa distingue l’obbligazione di adempiere alla promessa A dall’obbligazione di adempiere alla promessa B? Unicamente la storia completa delle circostanze che hanno condotto alla prima, in quanto costituiscono una serie peculiarmente differente dalla storia completa delle circostanze che hanno condotto alla seconda. Questa sorta di deontologismo dell’atto che rivaluta le spiegazioni idiomatiche, sottovaluta però il fatto che anche laddove le spiegazioni idiomatiche mostrano i loro pregi maggiori – ad esempio, nelle spiegazioni storiche –, però da sole non bastano affatto. Infatti, nemmeno in quell’ambito si rinuncia ad agganciare la particolarità a circostanze generali. Ad esempio, questo è stato fatto da molti storici e studiosi per spiegare la singolarità dell’Olocausto nazista. Il fatto di avanzare spiegazioni parziali legate a fattori generali, quali la stratificazione sociale, il senso di frustrazione di ampi settori delle classi medio-basse, il ruolo del paganesimo nazista in quale senso ci fa perdere di vista l’unicità dell’evento e la sua tragicità? Questa tragicità e unicità non sarebbe esaltata da una descrizione minuto per minuto della storia della Germania dal fallito putsch di Monaco al suicidio di Hitler nel 1945. Al contrario, nessuno avrebbe difficoltà a capire che si tratterebbe di un classico caso di visione particolareggiata dell’albero senza nessuna visione della foresta. L’idea della spiegazione particolarista in quanto implica una spiegazione completa può, quindi, trasformarsi in una falsa spiegazione, dal momento che ciò di cui andiamo in cerca nella spiegazione sono comportamenti caratteristici e non singolarità inesplicabili.

Ma questa è unicamente una deriva possibile di certe tesi illustrate da Piergiorgio e sicuramente non corrisponde a quanto lui ha in mente, quando ci ricorda che ogni modellizzazione deve articolare una storia che ci riguarda per essere plausibile, per apparirci come accettabile, per essere, in altre parole, una buona candidata a illustrare la complessità delle nostre motivazioni e delle nostre scelte e il legame delle nostre spiegazioni con quanto ci ostiniamo ancora a chiamare verità.

 

 

Note

 

(1) P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Roma-Bari, Laterza, 1998.

(2) J. Dancy, Ethics Without Principles, Oxford, Clarendon Press, 2004.