Mi
rendo anche conto di quanto possa essere rischioso attribuire a Donatelli
posizioni che forse non sono sue o che lui non sottoscriverebbe nella forma
immediata in cui le rintraccia in altri autori. Ma, l’ho detto, il ruolo che mi
sono assegnato, e che forse mi hanno assegnato i nostri amici in questi Dialoghi di etica, è quello di forzare,
amicalmente, prudenza e pudore di Piergiorgio.
L’idea
principale che percorre lo scritto di Donatelli a me pare essere che la vita
morale non è caratterizzata dal suo essere una esibizione concettuale di
strutture fatte proprie dall’agente con opera riflessiva. Questa è una
distorsione prospettica causata dal fatto che i filosofi morali hanno per lo più
inteso il fenomeno etico come approcciabile dal lato motivazionale. Del resto,
è ovvio anche che, con questa premessa, questa distorsione si sia prodotta.
Riflettere sulla motivazione dell’agente è un’operazione tanto necessaria
quanto, al fondo, dotata anche di una sua ambiguità. Chi riflette, in
definitiva? Il filosofo, appunto, allenato per curriculum e professione a farlo. Fin qui nulla di ambiguo si dirà;
ma l’ambiguità consiste nella generalizzazione di quell’operazione a persone
che non l’hanno mai svolta o che la svolgono soltanto episodicamente.
Si
tratta di un’ambiguità controproducente e distorcente, perché il fenomeno
morale è realmente onnipervasivo per il semplice fatto che noi interagiamo con
gli altri e siamo immersi nelle relazioni con il mondo (Robinson Crusoe non è
affatto amorale prima di incontrare Venerdì, perché potrebbe pur sempre
devastare o prendersi cura dell’isola sulla quale è naufragato), così come è
onnipervasiva la nostra relazione con la verità a un altro livello. Se si tratta
di un fenomeno onnipervasivo, allora la strumentazione analitica che alcuni
hanno ritenuto usuale in etica non può essere uno strumento realmente capace di
cogliere la complessità della nostra esperienza etica.
Si
dirà che si tratta di affermazioni ovvie. Non sono del tutto d’accordo, perché
a questo punto sono aperte due strade che si dirigono in direzioni radicalmente
opposte. Una è la strada dell’antiteoria, percorsa da molte correnti
antirazionaliste del secolo scorso, strada pervasa magari da un indefinito
vitalismo o da un biologismo senza reale portata esplicativa. Queste correnti,
che purtroppo non sono rimaste limitate ai dipartimenti di filosofia e agli
scaffali delle biblioteche, hanno spesso avuto un’ascendenza nietzscheana e non
a caso si sono spinte a negare quello cui accennavo prima, ossia tanto
l’onnipervasività del nostro rapporto con l’etico quanto l’onnipervasità della
nostra relazione con il vero. Alcuni di questi esiti, meno inquietanti e più
accademici sono i mantra ricorrenti che ‘non esistono fatti ma solo
interpretazioni’, che ‘le prospettive morali sono irriducibili e sullo stesso
piano’ (ma perché non lo si va a chiedere a chi ne è toccato, anziché
affermarlo nel tepore di un’aula universitaria?), e così via. L’altra strada è quella
che mi pare fatta propria da Donatelli (credo da tempo, per altro, e sulla
quale ritengo abbiano avuto un influsso decisivo i suoi studi su Wittgenstein),
(1) che
tende a vedere il fenomeno morale come una funzione narrativa.
Intendere
la vita morale in questo senso non significa condannare le nostre analisi a una
irrimediabile vaghezza, ma rappresenta, io ritengo, una sfida per la
spiegazione. Non significa soltanto dire che accanto alla sistemazione
concettuale, prima in effetti di questa, vi è il fatto che l’etico parte
dall’affetto e dal sentimento, ma significa qualcosa di più, ossia che il fatto
della ragione, come lo chiamava Kant, non è la ragione senza per questo essere
l’irrazionale. Allo stesso tempo, significa dire che la materialità della
nostra esperienza morale è un intreccio di passioni, affetti, emozioni,
filtrate talvolta da una tradizione e più spesso dalla nostra storia evolutiva,
ma che non si tratta di un articolazione informe sottratta in linea di principio
e in virtù della sua materialità alle nostre capacità esplicative.
Per
illustrare questo punto riprendo quanto Donatelli ricorda, quasi come un
inciso, a proposito dell’affermazione della Ascombe sul dovere, apparentemente
sottoscrivendola, ma lo volgerò in una direzione completamente opposta. Il
motivo che spinse
Prendiamo
il dovere, appunto. Lasciando perdere il lirismo kantiano sul “nome sublime e
grande” e sull’analogia del dovere morale con “il cielo stellato sopra di me”
(analogia ben strana, in effetti, perché ognuno prima o poi apprende che
l’universo è indifferente alle nostre vite), ripensiamo al ruolo che il dovere
gioca nella formazione dell’etica protestante nella misura in cui veicolerebbe
lo spirito del capitalismo (almeno del capitalismo di produzione e non più di
quello che stiamo vivendo noi, ossia il capitalismo di consumo). È sensato dire
che si tratta di un termine privo di articolazione concettuale? Proprio nella
prospettiva che sembra favorire Donatelli sembrerebbe di no. È, anzi, tale la
sua saturazione con forme di vita determinate da poter produrre un intero
stravolgimento della vita di miliardi di persone. In altre parole, esiste una
performatività morale, di cui quelli che consideriamo concetti morali sono
delle abbreviazioni utili per la riflessione. Tali abbreviazioni vanno sciolte
con un paziente lavoro di scavo analitico, ad esempio, mostrando quali altre
strutture oltre a quelle consegnate tradizionalmente dalle nostre eminenti
tradizioni filosofiche vi sono implicate, ossia mostrando ed esibendo il
peculiare gioco linguistico-materiale che vi è implicato.
Inevitabilmente,
quando è in gioco qualcosa come il dovere morale è da supporre che prima o poi
verremo a parlare di regole. Forse, se siamo capaci di spingere il gioco
abbastanza in là, magari prima o poi parleremo anche di giustizia distributiva,
a riprova del fatto che dividere filosofia morale dalla filosofia politica è
un’operazione soprattutto accademica e in fondo improduttiva. Non avremo, se
siamo capaci di fare qualcosa del genere, mostrato piuttosto che il concetto è
implicato in una forma di vita? Non avremo forse implicato nella nostra
operazione che la forma di vita, alla quale il concetto rimanda, è apparentato
o addirittura discende, possiede anch’essa un’articolazione che non è sottratta
in linea di principio alla spiegazione? Io penso di sì. Il concetto è un
prodotto dell’anima, e non c’è motivo di abbandonare l’affermazione
aristotelica che l’anima è in fondo tutte le cose, ossia che le cose alle quali
diamo forma con i nostri apparati conoscitivi ed evolutivi non ci sono estranee
quando entrano nella sfera del nostro interesse vitale. In questo senso,
un’investigazione delle forme di vita attraverso le quali si sostanzia la
nostra vita etica non è necessariamente un’operazione storicistico-idealistica,
ma può altrettanto bene – e, secondo me, meglio – trovare spazio in una più
generale concezione naturalistica dell’etica. Quello che tu ritieni la vita
buona è ciò che è appropriato a quello che tu sei.
In
questo senso, ha ragione Donatelli a ricordare che avere o meno un concetto e
abitare o meno la relativa dimensione concettuale (espressione con la quale io
ritengo Piergiorgio intenda la rete di rimandi
linguistico-concettuali-materiali che un determinato concetto implica),
significa porre la questione che la storia ci ha consegnato determinate
possibilità concettuali e materiali e non altre, ma, allo stesso modo, io
aggiungo, significa porre una questione che riguarda anche l’ontologia, il
fatto che abitiamo un mondo dalle risorse scarse, ad esempio, e la storia di
questa ontologia, che non è l’oblio dell’essere, ma il modo in cui noi ci siamo
evoluti, ad esempio. Tutte operazioni concettuali ed empiriche, insomma.
Allora
perché c’è un’aria, forse equivocamente, anti-intellettualistica e
anti-concettuale nel tono, se non nella sostanza, di molto di ciò che Donatelli
dice? La risposta che posso azzardare qui è unicamente una congettura, ma
proprio per lo stile dei nostri incontri mi sento di avanzarla egualmente. Io
credo che Piergiorgio sia giustamente scettico verso quello che chiamerò il
demone della spiegazione completa. Questo demone – il demone di Laplace, se
vogliamo – è in effetti una tentazione ricorrente in ogni impresa teorica e
quindi anche in etica. Ma dal momento che Donatelli è scettico verso la
modellizzazione in etica allora questo lo fa propendere, credo, verso una sorta
di interpretazione di alcuni modelli morali come il primo passo di un piano
scivoloso che condurrebbe verso le pretese inattuabili di quel demone.
È
una preoccupazione di questo genere che, a mio avviso, ha giustificato anche le
recenti teorizzazioni particolariste in etica, ad esempio quella di Dancy. (2) Ma, senza assolutamente voler attribuire a
Donatelli posizioni metaetiche che non sono certamente sue, è però interessante
notare come proprio teorizzazioni per così dire anti-teoriche, come quella
particolaristica, ricadano proprio nell’aporia che vorrebbero evitare e che
rimproverano alla modellizzazione. Se la spiegazione dell’atto morale è,
infatti, particolare, che cosa distingue l’obbligazione di adempiere alla
promessa A dall’obbligazione di
adempiere alla promessa B? Unicamente
la storia completa delle circostanze che hanno condotto alla prima, in quanto
costituiscono una serie peculiarmente differente dalla storia completa delle
circostanze che hanno condotto alla seconda. Questa sorta di deontologismo
dell’atto che rivaluta le spiegazioni idiomatiche, sottovaluta però il fatto
che anche laddove le spiegazioni idiomatiche mostrano i loro pregi maggiori –
ad esempio, nelle spiegazioni storiche –, però da sole non bastano affatto.
Infatti, nemmeno in quell’ambito si rinuncia ad agganciare la particolarità a
circostanze generali. Ad esempio, questo è stato fatto da molti storici e
studiosi per spiegare la singolarità dell’Olocausto nazista. Il fatto di avanzare
spiegazioni parziali legate a fattori generali, quali la stratificazione
sociale, il senso di frustrazione di ampi settori delle classi medio-basse, il
ruolo del paganesimo nazista in quale senso ci fa perdere di vista l’unicità
dell’evento e la sua tragicità? Questa tragicità e unicità non sarebbe esaltata
da una descrizione minuto per minuto della storia della Germania dal fallito
putsch di Monaco al suicidio di Hitler nel 1945. Al contrario, nessuno avrebbe
difficoltà a capire che si tratterebbe di un classico caso di visione
particolareggiata dell’albero senza nessuna visione della foresta. L’idea della
spiegazione particolarista in quanto implica una spiegazione completa può,
quindi, trasformarsi in una falsa spiegazione, dal momento che ciò di cui andiamo
in cerca nella spiegazione sono comportamenti caratteristici e non singolarità
inesplicabili.
Ma
questa è unicamente una deriva possibile di certe tesi illustrate da
Piergiorgio e sicuramente non corrisponde a quanto lui ha in mente, quando ci
ricorda che ogni modellizzazione deve articolare una storia che ci riguarda per
essere plausibile, per apparirci come accettabile, per essere, in altre parole,
una buona candidata a illustrare la complessità delle nostre motivazioni e
delle nostre scelte e il legame delle nostre spiegazioni con quanto ci
ostiniamo ancora a chiamare verità.
Note
(1) P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica,
Roma-Bari, Laterza, 1998.
(2) J.
Dancy, Ethics Without Principles,