Etica & Politica/ Ethics & Politics, 2006, 1

http://www.units.it/etica/2006_1/MAGNI.htm

 

 

 

Etica e analisi concettuale. Commento a Donatelli

 

Sergio Filippo Magni

Dipartimento di Filosofia

Università di Pavia

 

 

In questo breve commento dell’interessante e ricco saggio di Piergiorgio Donatelli, non entrerò direttamente nella discussione del pensiero di Cora Diamond, né sull’interpretazione del secondo Wittgenstein; non ne avrei del resto la competenza. Mi concentrerò invece sul modello di analisi filosofica che emerge dalla posizione di Diamond, e cercherò di farlo prima ponendo alcune domande (sette, ad essere precisi),  che serviranno a isolare alcune tesi, e poi aggiungendo qualche osservazione.

1) La prima questione da porre è se la concezione dell’analisi filosofica che emerge dal lavoro di Diamond, e che Donatelli implicitamente ripropone, sia davvero condivisibile; se essa cioè possa esserci utile e vada seguita nella pratica della filosofia morale.

Questa è una prima domanda ed è fin troppo generale. Cercherò allora di andare più nello specifico:

2) Dall’intervento di Donatelli emerge che cosa sia per Diamond fare analisi del significato e comprendere il significato di un termine o di un enunciato. Comprendere il significato, dice Donatelli, è sempre comprendere la forma di vita e le pratiche da cui esso è prodotto, la vita che sta dietro al concetto, e quindi il contesto in un senso ampio. Come scrive: «le nostre parole sono sempre parole vissute» (p. 8). Mi sembra che ci sia qui un elemento affine alla tradizione ermeneutica e all’opposizione fra lo spiegare (Erklären) e il comprendere (Verstehen): per analizzare certi fenomeni, come il significato di un enunciato occorre una prospettiva partecipante, occorre rivivere il vissuto, mentre non serve la mera spiegazione. L’analisi del significato è comprensione, non spiegazione. È una concezione dell’analisi condivisibile?

3) Non solo, Donatelli aggiunge che per Diamond la vita che sta dietro al concetto è intessuta di emozioni: pensare bene coinvolge un pensiero carico del sentimento appropriato. E qui si riallaccia a MacDowell che critica il non-cognitivismo, perché guarda dall’esterno il rapporto sentimento-pensiero morale: il sentimento non colora un pensiero cognitivo già compiuto, esso è inestricabile dall’elemento cognitivo. Viene allora da chiedersi se sia condivisibile anche questa critica, che fra l’altro si porta con sé il rifiuto della distinzione fra elementi descrittivi e valutativi del linguaggio, fra fatti e valori, dato che ci sono termini, i cosiddetti concetti etici “spessi”, in cui essi sono inestricabilmente compenetrati.

4) Quindi, la forma della vita che sta dietro al concetto analizzato è anche una forma di vita emozionale: occorre rivivere un mondo che è anche emozionale. Per fare questo c’è bisogno di una comprensione interna e deve essere rifiutata la prospettiva esterna: le emozioni non sono tanto oggetti di studio di un osservatore imparziale, ma vanno riconosciute come proprie, dall’interno. Altrimenti si semplificherebbe, si disconoscerebbe la complessità delle cose, e Diamond è d’accordo con James che «la mente che teorizza tende sempre alla semplificazione eccessiva dei suoi materiali» (p. 23). Va condiviso anche questo indebolimento di una prospettiva esterna?

5) Nell’impostazione di Diamond c’è dunque bisogno di una comprensione intima, e questa comprensione porta a una trasformazione di sé. Con Wittgenstein, «l’attività filosofica è una forma di trasformazione interiore» (p. 13). Per cui comprendere il significato implica un rivivere immaginativamente il contesto e modificare se stessi, un risveglio emotivo. L’analisi filosofica è allora trasformazione interiore. Mi chiedo se sia da condividere anche questo, che la filosofia morale debba mirare alla trasformazione interiore, debba assumere, cioè, il compito che storicamente è stato affidato alla figura del “moralista” più che a quella del filosofo morale.

6) Per fare questo la filosofia può usare uno stile particolare, che adopera oltre all’argomentazione filosofica anche la letteratura e la poesia, che servono a ridestare «mondi affettivi». Ancora una volta, anche questa ibridazione dei linguaggi, questo libero ricorso a letteratura e poesia, deve essere condiviso?

7) Non solo ma l’analisi concettuale chiarendo i concetti che si portano con sé la forma di vita da cui nascono, ci dice essa stessa che cosa è bene fare: ad esempio dall’analisi del concetto di essere umano si stabiliscono i doveri verso gli esseri umani. Ogni visione del mondo porta con sé una moralità. L’elemento normativo è ineliminabile dall’analisi (con buona pace della distinzione fra etica normativa e metaetica). È una forma di naturalismo come Donatelli mette in evidenza, anche se meno semplice di quello della Anscombe, che ricava ciò che è bene dalla semplice definizione di essere umano. Quindi l’attività con cui comprendiamo i concetti è attività morale. Ma siamo proprio sicuri che l’analisi comporti una moralità?

Cioè, ricapitolando, dobbiamo condividere con Diamond sia: che fare analisi del significato è comprendere la vita; che elemento emotivo e concettuale sono inestricabili; che si coglie il significato solo da una prospettiva interna; che l’analisi filosofica è una forma di trasformazione interiore; che essa possa fare ricorso a letteratura e poesia; e che implichi di per sé un elemento normativo?

Queste domande, ovviamente nascondono tutta una serie di perplessità, che sono riassumibili in un ultima questione, che ci riporta a quella iniziale: ci è utile questa concezione dell’analisi e che modello di filosofia morale essa porta con sé? La concezione di Diamond presuppone diverse cose: assenza di sguardo oggettivo, rifiuto della scienza come interlocutore privilegiato della filosofia, vicinanza di essa alla letteratura e alla poesia, riconoscimento della centralità del vissuto soggettivo di per sé non comunicabile ma solo esperibile nell’interiorità. Donatelli nelle prime pagine della relazione inserisce Diamond in una certa linea della filosofia analitica del dopoguerra: Anscombe, Geach, Foot, Murdoch (a cui aggiunge Williams, ma qui avrei qualche dubbio): una linea che pone attenzione al contesto, in un duplice senso: sia nel senso che a) la logica dell’enunciato morale dipende dal contenuto di esso e dal contesto in cui è espresso e non ne è indipendente; sia nel senso che b) il carattere morale dell’enunciato dipende dal contesto stesso (cioè ciò che è buono dipende dalla natura umana o dall’interesse personale o dalla visione del mondo): una forma di naturalismo (ma questo non vale, mi sembra, per Williams).

Secondo Donatelli, questa linea si oppone a un’altra, quella di Hare, per cui l’analisi del linguaggio morale è ricerca di regole formali, indipendenti sia dal contenuto che dal contesto: una versione linguistica del formalismo kantiano. Tuttavia non è difficile mettere in dubbio che ci siano solo queste due tendenze (formalismo kantiano/attenzione al contesto): il panorama appare più articolato. Perché ad esempio non rifarsi ad una concezione dell’analisi che analizza il linguaggio non tanto per ricercarvi caratteristiche formali trascendentali, ma semplicemente perché è lo strumento osservabile che esprime il pensiero (che invece non è direttamente osservabile), e ne cerca di chiarire il senso specificando le condizioni e il contesto d’uso, ma non attraverso il richiamo al vissuto e alla incomunicabilità della vita interiore, bensì attraverso l’osservazione esterna di quest’uso (lo facevano ad es. Toulmin o Nowell-Smith, che stanno fuori da quelle due linee; ma anche la posizione di Hare appare più sfumata). In questa prospettiva, l’analisi filosofica assume come ausilio gli strumenti della logica e si pone in continuità con la scienza, della quale si tengono presenti le acquisizioni e si condividono alcuni obiettivi, come la comunicabilità dei risultati, l’intersoggettività della discussione e della procedura di conferma e di argomentazione, la chiarezza e il rigore. In questo modello l’analisi filosofica serve a chiarire, è meta-riflessione, non a modificare e a trasformare se stessi. Se essa abbia o meno conseguenze pratiche e direttamente normative (con buona pace anche di Hare)  è questione controversa e tutta da discutere, così come è da discutere che la distinzione fra fatti e valori sia proprio impraticabile se non altro in forme contestuali e relative.

Diversamente da Diamond e Donatelli, credo che questo sia il modello ancora oggi più utile, contro ogni tentazione retorica o speculativa. Non è certo una novità, è forse il retaggio migliore della tradizione neoilluministica e in senso lato neoempiristica. E credo che uno dei motivi per cui la linea di concepire l’analisi filosofica a cui appartiene Diamond è stata messa in secondo piano nella filosofia analitica del dopoguerra non è solo il permanere di un’ispirazione kantiana, ma soprattutto il permanere di queste acquisizioni. Potremmo dire, degli aspetti buoni del neoempirismo.