Sidgwick
e il fallimento dell’etica scientifica.
Commento
a Cremaschi
Dipartimento di Studi Filosofici ed
Epistemologici
Università di Roma “La Sapienza”
Buona
parte dell’intervento del professor Cremaschi riguarda il rapporto tra il
pensiero di Sidgwick e quello di Whewell. La tesi che viene espressa è che Sidgwick,
quando critica l’intuizionismo dogmatico, si crei un suo proprio bersaglio
polemico, che non corrisponde affatto alla filosofia di Whewell. Inoltre, le
poche conclusioni positive di Sidgwick sarebbero, in realtà, già state
espresse, e meglio, da Whewell stesso. L’analisi di Cremaschi è molto accurata:
essa tuttavia si concentra soprattutto sul confronto tra la teoria morale di
Sidgwick con le teorie a lui appena precedenti o contemporanee – quella di
Whewell appunto, e quella di Mill – piuttosto che con l’etica analitica
anglosassone del ventesimo secolo. Sul rapporto tra la teoria di Whewell e
quella di Sidgwick – se effettivamente sia vero che Whewell avrebbe espresso in
maniera più compiuta ciò a cui sarebbe giunto Sidgwick criticando erroneamente
lo stesso Whewell – si sofferma più diffusamente Gianfranco Pellegrino. Ciò
detto, vorrei occuparmi di quella parte di Sidgwick
e il progetto di un’’etica scientifica dove si discute la moralità di senso
comune secondo Sidgwick, e considerare, quindi, quale è stata la sua influenza
sulla riflessione morale successiva, facendo riferimento al tentativo che è
stato compiuto, in questo senso, da Bernard Williams. (1) La filosofia di Sidgwick viene presentata come il paradigma di
un certo modo di fare etica che, secondo Williams, ha avuto un notevole impatto
– negativo – su larga parte del pensiero morale del ventesimo secolo. Credo che
possa essere utile ripercorrere, a grandi linee, le tesi di Williams, poiché
anch’egli si pone questioni simili a quelle esemplificate da tre punti
evidenziati da Cremaschi: la natura e il metodo della filosofia, la nozione di
senso comune, la nozione di moralità di senso comune.
Per
Williams, ciò che contraddistingue il progetto filosofico di Sidgwick è il tentativo
di elaborare una teoria morale sistematica. L’obiettivo che Sidgwick si è
preposto non è tanto di mostrare come sia possibile scegliere per via esclusivamente
razionale tra le pretese dell’egoismo e le pretese della moralità, ma di dimostrare
come, attraverso un esame approfondito della moralità di senso comune, si debba
concludere che l’etica vada organizzata secondo i dettami dell’utilitarismo.
Come
G.E. Moore, dopo di lui, Sidgwick concepisce la sua come una teoria circa la
conoscenza morale (cosa che, secondo Cremaschi, Whewell anticipa). E, come
Moore, anch’egli fa uso della nozione di intuizione. A differenza di Moore,
però, Sidgwick non pensa a essa come a una presunta capacità mentale capace di
discernere verità etiche fondamentali. Egli è interessato all’intuizionismo
soprattutto come metodo: si tratta di prendere in considerazione le convinzioni
morali, più o meno riflessive, di tutti i giorni, e usarle per arrivare a
supposte verità morali certe, o per giungere a conclusioni circa casi morali
non familiari. In questo Sidgwick sarebbe più vicino alle intenzioni che, nella
seconda metà del novecento, caratterizzano l’«equilibrio riflessivo» di John
Rawls.
Sidgwick
rifiuta l’intuizionismo «dogmatico», che viene adottato da quelle teorie che
provano a ricavare dal senso comune un insieme di principi morali chiari e
abbastanza specifici da riuscire a decidere i casi incerti. Al contrario, a suo
avviso l’intuizionismo si presenta come un metodo valido solo quando va alla ricerca
di una spiegazione più profonda del perché la condotta che viene generalmente
giudicata buona è in effetti tale. Se quindi, da una parte, Sidgwick riconosce
la moralità del senso comune come in larga parte valida, dall’altra, tuttavia,
egli è alla ricerca di una base filosofica che la moralità del senso comune, in
quanto tale, non offre. Bisogna passare a un intuizionismo «filosofico»: si
tratta di individuare uno o più principi veri ed evidenti, da cui possano venire
dedotte regole coerenti.
Il
problema di Sidgwick è dunque di elaborare un sistema che sia coerente. Si
prendono le mosse dall’opinione morale ricevuta, che viene giustificata e spiegata
in buona parte nei termini di principi più generali. Questi stessi principi più
generali vengono quindi utilizzati per criticare quelle parti dell’opinione
ricevuta che non stanno coerentemente insieme con il resto. Ciò può essere
fatto attraverso i principi dell’utilitarismo. Per Sidgwick, l’obiettivo
intuizionista può venire centrato solo grazie all’utilitarismo; a sua volta, la
sola giustificazione dell’utilitarismo può aversi riferendosi a principi
generali che sono anch’essi intuitivi. Ma, secondo Williams, Sidgwick va
incontro a una serie di problemi.
In
primo luogo, a Sidgwick manca una prospettiva sulla morale del suo tempo che
non sia quella utilitarista: l’utilitarismo si offre come il solo tentativo di
strutturare la moralità di senso comune. Non viene presentato alcun modello intuizionista
distinto dall’utilitarismo, attraverso il quale le opinioni di senso comune
possano venire testate; vale a dire, manca un ideale di teoria intuizionista
alternativo. Inoltre, sebbene Sidgwick critichi coloro che vogliono presentare
una morale razionale distinta dall’utilitarismo, condivide la loro aspirazione
ad avere una morale razionale. Una morale, cioè, che si offra come un sistema
che sia idealmente chiaro, riflessivo e coerente, tale che le persone prive di
pregiudizi possano, grazie a esso, raggiungere un accordo generale. In questo
modo, si ha la pretesa di fare fronte a ciò che è irrazionale, meramente
personale e solo abituale. Questa sistematicità non può venire ricavata
limitandosi a considerare i principi dell’azione e i modelli di condotta
virtuosa che si trovano nella moralità ordinaria. Per questo l’intuizionismo
dogmatico non funziona: perché non riesce a garantire quella certezza
geometrica che sta alla base di un consenso universale. Cosa che invece
riuscirebbe all’intuizionismo filosofico.
L’intuizionismo
filosofico, secondo Sidgwick, è contraddistinto da tre principi fondamentali.
Il primo principio corrisponde alla regola aurea: se una condotta che per me è
giusta, o sbagliata, non è tale anche per qualcun altro, ciò è dovuto a una
differenza tra i due casi, una differenza ulteriore rispetto al fatto che io e
lui siamo due persone diverse. Il secondo principio, invece, afferma che
bisogna adottare una forma di imparzialità verso il tempo che compone la
propria vita. In questo senso, un più piccolo bene presente non può essere
preferito a un maggiore bene futuro. Il terzo principio, infine, è quello della
benevolenza universale: ognuno è moralmente tenuto a considerare il bene di
qualsiasi altro individuo allo stesso modo del proprio, a meno che non lo
giudichi minore da una prospettiva imparziale. Questi tre principi, presi
insieme, condurranno a una riorganizzazione della moralità in un senso
utilitarista.
Ora,
fa notare Williams, il progetto di Sidgwick è segnato da una tensione tra i
principi utilitaristi che possono portare a cambiamenti radicali nella
moralità, e l’applicazione di questi stessi principi per garantire, invece, lo
status quo. Ma, soprattutto, Sidgwick concepisce la moralità in maniera tale
che non è necessario che le azioni vadano intraprese come il risultato di un
calcolo razionale consapevole, sia
esso di tipo prudenziale oppure compiuto in nome del bene universale: per
giungere al bene maggiore non è necessario avere la motivazione di puntare al
bene maggiore. In questo senso, non si deve sempre incoraggiare una coscienza
di tipo utilitarista: ci sono ampie parti della moralità di senso comune che,
da un punto di vista utilitarista, vanno lasciate così come sono, ad esempio i
valori della giustizia, del dire la verità, o l’affetto spontaneo. Tuttavia,
continua Williams, dal fatto che spesso ci si riferisca a considerazioni circa
l’utilità o la più grande felicità per risolvere conflitti tra valori non segue
che questi valori debbano sempre essere espressione – direttamente o
indirettamente – del fine dell’utilità o della più grande felicità.
L’errore
fondamentale che Sidgwick compierebbe, cioè, è di non distinguere tra teoria e
pratica. Da una parte, c’è il punto di vista della coscienza teleologica utilitarista,
da cui si calcola che cosa realmente conta; dall’altra, ci sono una serie di
disposizioni (a dire la verità, a essere leali, eccetera) che per funzionare in
maniera tale da massimizzare l’utilità o la felicità – vale a dire, perché
possano fare ciò che a questo scopo andrebbe fatto, secondo quanto stabilito
dal punto di vista della coscienza teleologica utilitarista – devono essere
viste da coloro che le posseggono come nient’affatto strumentali, ma dotate di
valore intrinseco.
Quindi,
se è vero, come Sidgwick crede, che la teoria utilitarista spiega e giustifica
larga parte della moralità di senso comune in termini che altri ritengono intuizionisti,
e se il progetto di Sidgwick di riconciliare utilitarismo e intuizionismo
rendendo conto in termini utilitaristi di molti fenomeni su cui insistevano gli
intuizionisti ha successo, allora deve darsi il caso che si presentino disposizioni
che non appaiono affatto strumentali a chi le possiede. Secondo Williams,
questo genera una frattura inconciliabile nella teoria di Sidgwick, tra lo
spirito di ciò che si suppone venga giustificato e lo spirito della teoria che
deve giustificare. Da una parte, infatti, sorge il problema se la teoria
utilitarista vada resa nota. Si corre cioè il rischio di fare dell’utilitarismo
una morale d’élite, a cui possono avere accesso solo in pochi, finendo per
cadere in quello che Williams chiama «utilitarismo governativo» (2). In particolare, una teoria come quella di Sidgwick fallisce
il test dell’accessibilità, vale a dire, il requisito per cui, se una certa
teoria governa la pratica di un determinato gruppo, allora deve essere possibile
per ogni membro di quel gruppo sapere che lo fa. Un test che invece vene
superato da altre teorie morali, come ad esempio quella di Rawls. Dall’altra,
lo iato tra teoria e pratica si presenta allo stesso teorico utilitarista nel
momento in cui deve agire. Dall’ottica della coscienza individuale, si tratta
della questione dell’«ora fredda» (3). Si
sostiene che c’è un tempo in cui si teorizza, in cui prescindiamo dalla nostra
condizione di individui particolari e ci poniamo nel «punto di vista
dell’universo», perfettamente impersonale e pienamente informato. Ma anche che
c’è un tempo in cui si smette di teorizzare e si agisce, nuovamente come
individui particolari. Come è possibile passare dall’uno all’altro?
In
realtà, osserva Williams, quando si ragiona nell’ora fredda si ha solo
l’illusione di essere nel punto di vista dell’universo. Al contrario, è molto
probabile che l’atteggiamento che adotteremo risenta, inconsapevolmente,
proprio di quelle affezioni, atteggiamenti e disposizioni particolari che sono
oggetto della nostra indagine, che dunque ci contraddistinguono sia quando
agiamo sia quando smettiamo di farlo e riflettiamo. Affezioni, atteggiamenti e
disposizioni che non soltanto sono contingenti, ma che spesso non sono
trasparenti neanche a chi li ha. Da qui la discrepanza che si riscontra tra
teoria e pratica. Perché si ottenga la massimizzazione dell’utilità o felicità
si deve agire secondo certe affezioni, certi atteggiamenti e certe disposizioni
di primo livello che generano di frequente conflitti e divergenze tra loro.
Questi conflitti e divergenze sono parte integrante del mondo della pratica, e
richiedono risposte che possono venir date solo a partire dalla situazione
particolare esperita nel mondo della pratica. Una teoria che si pone nei
confronti della pratica come quella di Sidgwick non serve a eliminare questi
conflitti, sebbene siano proprio questi conflitti ciò di cui ci si lamentava
quando si esaminava il metodo dell’intuizionismo.
L’ideale
del teorico che si pone dal punto di vista dell’universo, da cui osservare da
una posizione privilegiata le disposizioni morali, i progetti e le affezioni –
tanto quelli altrui quanto i propri – si rivela, allora, essere un’illusione:
una prospettiva che voglia presentarsi come assolutamente esterna e non
appartenente a nessuno in particolare non riesce ad assegnare a essi alcun
valore, poiché possiedono una profondità che impedisce di considerarli
semplicemente come qualcosa che genera azioni o stati di cose. Queste
disposizioni, questi progetti e queste affezioni, infatti, fanno molto di più:
contribuiscono a costituire l’identità pratica degli individui – tra cui c’è lo
stesso teorico –, dando un senso alla loro vita e ragioni per viverla. Ed è
impossibile uscire da se stessi e giudicare ciò che dà sostanza alla propria
esistenza in maniera astratta e impersonale. Ciò, per Williams, inficia l’idea
stessa che è alla base di questa pretesa: quella per cui l’etica è oggetto di
una teoria, la quale va elaborata
sulla falsariga dell’ideale della scienza.
È ideale contraddistingue il progetto di Sidgwick, ed è stato ripreso e fatto
proprio da molti filosofi morali analitici. Tuttavia, ammesso che sia possibile
realizzare qualcosa come una teoria morale – una pretesa che Williams ritiene
non possa avverarsi –, essa deve rendere conto, in maniera coerente, della
relazione che esiste con la dimensione pratica dell’etica, cosa che a Sidgwick
– e ai suoi eredi contemporanei – non riesce: «Lo scopo del pensiero etico […]
è quello di aiutarci a costruire un mondo che sarà nostro, un mondo in cui
disporremo di una vita sociale, culturale e personale». (4) L’ambizione di Sidgwick di concepire l’etica come parte di una
teoria della condotta razionale, grazie alla quale giungere a verità oggettive
circa ciò che ha valore, è destinata al fallimento.
(1) Faccio
riferimento in particolare a The point of
View of the Universe: Sidgwick and the Ambitions of Ethics, in Bernard
Williams, Making Sense of Humanity and
Other Philosophical Papers 1982 – 1993, Cambridge, Cambridge University
Press, 1995, pp. 153-71, ristampato in Bernard Williams, The Sense of the Past. Essays in the History of Philosophy, a cura
di Myles Burnyeat, Princeton – Oxford, Princeton Univeristy Press, 2006, pp.
277-96; ma anche a Bernard Williams, Ethics
and the Limits of Philosophy, London, Fontana Press, 1985, trad. it. L’etica e I limiti della filosofia,
Roma – Bari, Laterza, 1987, capitolo VI.
(2) In
inglese «Government House utilitarianism». Ethics
and the Limits of Philosophy, p. 108, trad. it. cit., p. 132.
(3) L’espressione è di Joseph Butler, I quindici sermoni, Firenze, Sansoni,
1969, sermone XI.
(4) B.Williams, Ethics and the Limits of
Philosophy, p. 111, trad. it.
cit., p. 135.