Etica & Politica/ Ethics & Politics, 2006, 1

http://www.units.it/etica/2006_1/DONATELLI01.htm

 

 

 

Etica e analisi concettuale.

La riflessione morale di Cora Diamond

 

Piergiorgio Donatelli

Dipartimento di studi filosofici ed epistemologici  

Università di Roma “La Sapienza”

 

 

Abstract

Donatelli’s paper offers a critical reconstruction of Cora Diamond moral philosophy.

 

1. Premessa

 

In questo testo mi occupo del pensiero morale di Cora Diamond. Diamond è nota in larga parte per il suo lavoro su Wittgenstein. La pubblicazione del suo volume The Realistic Spirit nel 1991 (1) ha avuto un enorme impatto e ha impo­sto una nuova e originale prospettiva nella lettura del Tractatus e dell’intera fi­losofia di Wittgenstein che è ora al centro di un dibattito molto ricco e fertile. (2) Ma Diamond ha elaborato anche una posizione molto originale in filosofia mo­rale. Diamond sostiene che la vita morale delle persone è una vita propria­mente concettuale; ma vuole difendere anche due idee che in genere non sono state messe assieme a questa tesi: l’idea che l’etica è anche il campo di espres­sione dei sentimenti e dell’esperienza e l’idea che in etica il punto di vista perso­nale, come lo ha chiamato Bernard Williams tra gli altri, è qualcosa di irrinun­ciabile. Per illustrare questa posizione vorrei porre il pensiero di Diamond in prospettiva. Credo, infatti, che essa recuperi una certa tradizione dell’etica ana­litica che è stata poco frequentata. In questo modo la riflessione su questa posi­zione ci aiuta anche a fare luce sulla storia dell’etica analitica, sulle varie linee che sono operanti in questa tradizione.

Il testo che segue riprende alcune sezioni del saggio introduttivo al volume di Cora Diamond, L’immaginazione e la vita morale, a cura di P. Donatelli (Carocci, Roma 2006). I riferimenti tra parentesi nel testo rimandano ai saggi tradotti in questo volume.

 

 

2. Diamond e la tradizione dell’etica analitica

 

Nella Prefazione al volume L’immaginazione e la vita morale Diamond richiama l’influsso che sui suoi scritti ha avuto il pensiero di Iris Murdoch (p. 53). Po­tremmo però provare a collocare alcuni motivi di fondo che si ritrovano nei saggi di Diamond in un più ampio approccio alla filosofia morale che Murdoch condivideva, negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento (e fino agli anni Settanta), con altri filosofi in quella prima fase della filosofia analitica inglese (3). A monte di questo dibattito vi era l’idea che la filosofia dovesse fare atten­zione al contesto linguistico in cui si collocavano i fenomeni che si volevano spiegare, ad esempio la vita morale delle persone (o la loro mente ecc.). Possiamo però vedere subito due modi differenti in cui è stata interpretata questa idea. R.M. Hare aveva presentato sin dall’inizio la sua riflessione sulla morale come una descrizione del linguaggio morale, cioè degli usi linguistici attraverso i quali le persone esprimono pensieri morali, e cioè valutazioni delle situazioni e raccomandazioni sulla condotta da intraprendere. (4) Ma Hare aveva concepito lo studio degli usi linguistici come l’analisi delle regole formali caratteristiche del linguaggio morale. Tali caratteristiche – la prescrittività e l’universalità, a cui in seguito aggiunse la soverchianza (5) – sono considerate da Hare, cioè, come proprie del linguaggio morale in quanto tale indipendentemente dal contenuto che esso esprime, e cioè dai pensieri che esso comunica. In questo Hare poteva in realtà dare una versione linguistica della tradizione formalista kantiana e in particolare del test della universalizzabilità. La stessa prescrittività, e cioè l’elemento che dava conto del carattere direttivo degli enunciati morali, del fatto che essi sono legati alla condotta, veniva concepita essa stessa come una caratteristica formale degli enunciati, indipendente da chi pronuncia quegli enunciati e dal contesto concreto in cui si trova. L’opposizione tra regole formali e contenuto era intenzionale: attraverso di essa Hare rielaborava, come si è detto, la tradizione kantiana e riprendeva inoltre la grande divisione tra logica degli enunciati e contenuto empirico che era al centro delle filosofie neopositiviste ed emotiviste in etica.

Si può comprendere, perciò, che una serie di filosofi abbia cercato invece di svolgere l’idea dell’attenzione al contesto in modo diverso da Hare, prendendo le distanze sia dalla tradizione kantiana sia da quella neopositivista. Era l’idea che la logica degli enunciati (morali) fosse appurabile indipendentemente e appartenesse a un speciale regno sconnesso con il contenuto degli enunciati stessi che veniva radicalmente criticata. Negli Stati Uniti questa idea trovava uno speciale sviluppo nel naturalismo di W.V.O. Quine. (6) Ma a noi interessano qui le critiche che a Hare venivano mosse a Oxford e in Inghilterra. Queste critiche erano rivolte contro il kantismo di Hare, che era anche espressione della sua teoria del significato. Filosofi tra loro molto diversi, come Philippa Foot, Elizabeth Anscombe, Peter Geach, Iris Murdoch e Bernard Williams, erano accomunati dalla critica severa che muovevano all’idea che la moralità possa essere racchiusa come per magia in concetti morali come quello di dovere. L’idea che la nozione di dovere raccolga tutta su di sé la forza morale di una considerazione e che la proietti, per così dire, sull’enunciato a cui tale nozione è applicata veniva vista, ad esempio da Anscombe, come l’esito di una mera suggestione ipnotica. Il concetto di dovere morale (moral ought) non può affatto riuscire a fare questo perché non è affatto un concetto, è solo un termine che conserva una forza psicologica ma che non possiede alcuna articolazione concettuale. (7) Se vogliamo comprendere cosa significhi esprimere una raccomandazione a proposito di un certo corso di azione o una valutazione su uno stato di cose dobbiamo considerare il contesto in modo diverso da come faceva Hare. Il carattere morale dell’enunciato dipende interamente dal contesto più ampio in cui facciamo un’affermazione morale. Anscombe e Geach sviluppavano da questa critica una certa via naturalista. Geach riteneva che i concetti più tipicamente etici, che Williams chiamò in seguito sottili, come «dovere» e «buono», non avessero in sé alcun significato ma che lo assumessero in virtù della situazione a cui sono applicati. Un buon giocatore di tennis, un buon insegnante, una buona madre, hanno un significato in riferimento a ciò che significa giocare a tennis o fare l’insegnante o tirare su la prole. È perché sappiamo già in cosa consistono queste attività che comprendiamo cosa voglia dire fare bene queste cose (8). Per il resto, aggiungeva Anscombe, i termini che descrivono in modo generale il bene degli esseri umani, e cioè le virtù (il coraggio, la temperanza, la giustizia e così via), dipendono allo stesso modo da una conoscenza di ciò che sono gli esseri umani, presi nel contesto delle loro attività di pensiero e di scelta. Per questa via Anscombe poteva suggerire una teoria aristotelica dell’etica, in cui le virtù sono derivate dalla conoscenza di ciò che è caratteristico della specie umana. In questo modo Geach e Anscombe finivano con il sottovalutare un altro aspetto che era centrale per l’etica kantiana, e cioè la peculiarità della dimensione morale rispetto alle altre sfere pratiche, e che Hare aveva rappresentato attraverso l’idea che le considerazioni morali soverchiano sempre le altre (ad esempio quelle estetiche). Nel mettere in collegamento l’etica ai diversi contesti e alle diverse nozioni di bene di volta in volta chiamate in causa, non era più possibile identificare una certa sfera della valutazione e della condotta come morale. Con il rifiuto dell’indipendenza del concetto di dovere morale cadeva anche l’idea che la moralità fosse nettamente distinta da altre forme di bene. Questa idea fu sviluppata in seguito da Williams, che ha criticato spesso nei suoi scritti il carattere moralistico di molta filosofia morale e cioè la sua concentrazione su un certo tipo di considerazioni (il dovere per il dovere ad esempio) a discapito di altre, e cioè dei molti modi in cui le situazioni possono colpire, interessare, risultare gradevoli o dolorose (9).

Foot in quegli anni seguiva invece una strada diversa. Anche lei era insoddisfatta dell’idea che la morale fosse racchiusa nel concetto di dovere a prescindere dalle circostanze. Ma rispondeva con argomenti che traevano da Hume la loro ispirazione. In un primo momento sostenne che le virtù con cui approviamo e disapproviamo le persone hanno un significato perché fanno riferimento agli interessi personali. Capiamo cosa sia l’interesse di una persona e capiamo allora cosa significhi attribuirgli una ragione per agire (10); le virtù hanno un significato perché descrivono quanto è necessario agli esseri umani per ottenere ciò che desiderano. In una fase successiva Foot arrivava a respingere la tesi della connessione necessaria tra virtù e interesse personale. Sosteneva che possiamo comprendere le virtù perché sono legate alla promozione di una varietà di scopi, che non sono solo l’interesse personale. Comprendiamo cosa significa soffrire e cosa significa riuscire a identificarsi con tale sofferenza, perciò capiamo cosa vogliano dire le raccomandazioni che ci fa la virtù della carità quando ci spinge ad aiutare gli altri (11). Ma in entrambi i momenti della sua riflessione Foot voleva comunque dissolvere l’idea che la forza morale di una raccomandazione sia indipendente dagli interessi e dai legami che definiscono la vita delle persone.

Anche Murdoch muoveva le sue critiche all’idea che la morale possa essere contenuta in un singolo concetto indipendentemente dalle circostanze. (12) «Un concetto morale», scriveva, «non sembra affatto come un anello che si può muovere ed estendere fino a coprire una certa regione dei fatti, ma appare piuttosto come una differenza complessiva di Gestalt» (13). Murdoch criticava l’idea che la moralità faccia la sua comparsa solo nel momento della scelta, nei termini di una raccomandazione all’azione che si applica a una certa sfera della realtà. Questa idea, naturalmente, era congeniale agli altri assunti della metaetica analitica di quel tempo, come la divisione tra fatti e valori. Si poteva pensare infatti, in questo modo, che la morale potesse essere contenuta in concetti speciali, come «dovere» e «buono», che entrano in scena al momento della scelta, e che il resto della vita delle persone e del mondo costituisse solo lo sfondo dei fatti su cui cadeva la scelta. Murdoch suggeriva di pensare invece alla moralità in un altro modo, «come qualcosa che va avanti continuamente e non come qualcosa che sia possibile spegnere tra una scelta morale esplicita e un’altra». (14) La morale ha un aspetto complessivo, una visione ramificata delle cose che appare in tanti aspetti, nelle più diverse reazioni, nelle parole e nei silenzi, in ciò che si trova divertente o interessante o ammirevole, nelle scelte, certo, e soprattutto nei concetti che si hanno. Avere o meno un certo concetto, abitare in una certa dimensione concettuale, non è una semplice questione di scelta, ma riguarda la storia, che ci ha consegnato certe possibilità concettuali anziché altre, e riguarda personalmente ciascuno, la propria capacità di fare qualcosa della propria dimensione concettuale, di approfondirla, di trasformarla o abbandonarla. (15) Murdoch insisteva sull’importanza di rendere conto delle differenze che in morale separano intere visioni complessive. Sono differenze che è possibile spiegare solo articolando una visione del mondo. Essa vedeva che la filosofia analitica del suo tempo aveva un’inclinazione a semplificare, a cercare una formula universale. (16) Come Anscombe, Murdoch era alla ricerca del più ampio contesto concettuale della vita morale delle persone; ma era interessata alla trasformazione personale dei concetti, alle differenze che le singole persone impongono a una dimensione concettuale con la loro attenzione e la loro energia, qualcosa che non trovava molto spazio in Anscombe.

Larga parte dello sviluppo successivo dell’etica analitica, e ciò in particolare in virtù della sua ispirazione fortemente kantiana, ha come reso invisibile il contributo di questo gruppo di autori. Vi sono delle notevoli eccezioni su cui ora non mi soffermo, se non per menzionare il lavoro in etica di John McDowell che costituisce a suo modo una continuazione di quello stile filosofico. (17) Avremo modo di tornare ancora sui collegamenti tra McDowell e Diamond. Quel gruppo di filosofi erano interessati a sviluppare, in modi molto diversi tra loro, l’idea, tipica della filosofia analitica di quel tempo, che le considerazioni morali trovano il loro fondamento, e cioè il loro punto e la loro dimensione, in un determinato contesto. Ma abbiamo visto subito che nel seguire questa idea essi erano tutti critici di Hare e di un certo modo di riprendere sia la tradizione kantiana sia la famiglia delle filosofie neopositiviste. Hare concepiva il contesto come una questione di caratteristiche formali del linguaggio. Questi autori pensavano al contesto, invece, come al tessuto complesso di aspetti che caratterizza la vita umana in cui hanno un posto le considerazioni morali. Anscombe e Foot (con idee filosofiche e autori diversi in testa: Aristotele e Hume) guardavano al contesto più naturale e biologico: gli interessi e le necessità vitali degli esseri umani. Murdoch pensava più al contesto concettuale, alle visioni, storiche e personali, in cui è avvolto il modo in cui guardiamo alle cose e ci muoviamo e agiamo nel mondo. Questi autori non ritenevano che il contesto che rende intelligibile una considerazione morale potesse cristallizzarsi nelle caratteristiche formali di certi enunciati, ma sostenevano al contrario che alcune parole, come «dovere» e «buono» e molte altre con loro, potessero svolgere quel ruolo, avere quella forza, solo in virtù di un più ampio contesto spesso sotterraneo. Essi perciò rovesciavano l’immagine di Hare. In un senso lato, come ho detto, la loro operazione correva parallela a quella di altri naturalismi, come quello di Quine, che si proponevano precisamente di rendere conto degli aspetti normativi e regolativi nei termini di ciò che essi normano e regolano, cioè del contesto in cui norme e regole operano. Ma la specificità di questi autori era invece nella loro idea di contesto, che andava cercato in questa rete complessa di aspetti che mescolava fatti naturali e concettuali, storici e personali. Vi sono differenze molto marcate tra questi singoli autori ma essi indicano tuttavia anche uno stile comune, un certo interesse filosofico condiviso.

Possiamo perciò vedere la contrapposizione tra Hare e questi autori anche come il dispiegarsi di diverse interpretazioni di quali siano i metodi e gli scopi della filosofia analitica. Alle spalle di tutti vi era la lezione di Wittgenstein e i modi differenti in cui essi la interpretarono. (18) Possiamo inserire la prospettiva di Diamond in questo snodo. Vorrei caratterizzare il suo lavoro in filosofia morale (ma anche negli altri campi) come una particolare ricerca del contesto che dà significato alle nostre considerazioni morali. Vi è molto di personale e distintivo nel modo in cui Diamond procede a delucidare concetti e questioni morali, in cui l’analisi concettuale si mescola all’uso della letteratura e a un più vasto impiego della critica culturale, ma potremmo leggerlo anche come uno sviluppo del complesso stile filosofico a cui ambiva questo gruppo di autori, e quindi come uno sviluppo di una certa tradizione della filosofia analitica, in etica ma non solo. Quindi possiamo essere introdotti al lavoro di Diamond in questo modo. Troviamo in Diamond un ritorno a questo stile dell’etica analitica, al problema dei modi migliori di delucidare il contesto delle nostre considerazioni morali. In particolare, come vedremo, Diamond riprende molti temi che aveva sviluppato Murdoch ma presenta anche un’interessante e complessa rielaborazione di alcuni aspetti centrali della filosofia di Anscombe. Al contempo, la continuazione di questo stile filosofico le è reso possibile dalla sua lettura di Wittgenstein. Essa sviluppa una lettura di Wittgenstein in cui è resa chiara e centrale l’idea della delucidazione concettuale del contesto delle nostre affermazioni, delle affermazioni che troviamo problematiche e che chiamano in causa gli strumenti della filosofia. La sua riflessione morale si inserisce in questa rilettura e rielaborazione della filosofia di Wittgenstein.

 

 

3. La lezione di Wittgenstein

 

Vediamo ora di chiarire il collegamento tra l’approccio filosofico in etica e la lezione di Wittgenstein. In effetti potremmo caratterizzare la prospettiva filosofica complessiva di Diamond e, quindi, la sua lettura di Wittgenstein come il tentativo di chiarire cosa significhi rendere perspicuo il contesto concettuale delle attività umane (in etica, in matematica, nella conoscenza del mondo e delle persone e così via), la vita dei concetti, come Diamond si esprime spesso. L’intero suo lavoro filosofico può essere visto come l’esplorazione di cosa sia questa vita nei diversi casi che essa esamina. Vorrei dare una descrizione schematica dell’approccio di Diamond. Diamond riprende da Wittgenstein l’idea della difficoltà di portare alla luce la vita in cui sono intessute le nostre attività. Wittgenstein torna spesso su questa difficoltà e sulla nostra costante inclinazione a sfuggire alla vita dei concetti, che è per altro verso dischiusa di fronte a noi. Egli insiste su questo punto osservando quanto sia difficile descrivere ciò che facciamo, la massa complessa e articolata di cose che sono intrecciate e sottendono qualsiasi nostra singola attività. Le Ricerche filosofiche cominciano precisamente con questo tema, che ricorre poi in infinite riformulazioni lungo l’intero arco di esempi, casi e questioni che Wittgenstein affronta nei suoi scritti. (19) Per mettere in luce l’approccio di Diamond potremmo aiutarci usando la descrizione che dei capoversi iniziali delle Ricerche ha dato Stanley Cavell. (20) Vi sono delle affinità tra la lettura che Cavell e Diamond hanno dato di Wittgenstein e ve ne sono anche tra alcuni momenti della loro riflessione morale. (21) Si potrebbe anzi provare a leggere questi due filosofi americani come, tra l’altro, due elaborazioni indipendenti e distintive, ma anche a loro modo simili in alcuni punti, delle stesse correnti della filosofia analitica britannica.

Cavell mostra come nei capoversi di esordio delle Ricerche Wittgenstein sia interessato a farci comprendere quanto sia facile eludere la realtà del linguaggio e delle attività in cui sono intessuti i nostri concetti. Perciò, il compito di delucidare tale realtà va concepito come qualcosa che noi facciamo contro l’inclinazione molto forte a non osservare e a imporre invece una qualche visione preconcetta di come stanno le cose. Ciò appare chiaramente nei capoversi iniziali che trattano la questione della denominazione, di cosa conta come nominare un certo oggetto. A questo proposito Wittgenstein introduce l’idea dei giochi linguistici, e cioè di esempi in cui attività sono connesse a parole e a circostanze particolari. Cavell osserva come nel secondo capoverso Wittgenstein voglia suscitare la nostra meraviglia e incredulità di fronte alla sua richiesta di considerare il gioco linguistico dei muratori come «un linguaggio primitivo completo». La situazione che immagina è quella di due muratori A e B che si porgono mattoni, pilastri, lastre e travi: «A grida queste parole; – B gli porge il pezzo che ha imparato a portargli quando sente questo grido». Ma se immaginiamo veramente che queste siano le sole cose che questi due esseri fanno l’intera scena ci appare troppo meccanica e incredibile. Potremmo pensare naturalmente che questa è solo una porzione della loro vita, che stiamo descrivendo un momento singolo di una scena più vasta. Oppure, come Wittgenstein stesso suggerisce (§§ 5 e 6), una circostanza così scarna potrebbe descrivere una scena di apprendimento: «I bambini vengono educati a svolgere queste attività, a usare, nello svolgerle, queste parole, e a reagire in questo modo alle parole altrui»(§ 6). Ciò che emerge lentamente è, tuttavia, che se immaginiamo la descrizione dei muratori come l’intera situazione essa ci appare forse come la scena in cui si muovono due automi o due persone ipnotizzate, ma non riusciamo a scorgervi l’umanità e la varietà di aspetti che ci permette di vedere quello che fanno A e B come il chiamare mattone un mattone. A meno di non immaginare una scena più vasta e articolata, un contesto più ricco.

Questa è la lezione che si insinua, dunque. Nel primo capoverso, con il passo tratto da Agostino, Wittgenstein ci suggerisce un’immagine molto comune, secondo cui l’essenza del linguaggio consiste nel denominare oggetti e cioè che la denominazione, la relazione tra nome e oggetto, è a fondamento delle nostre attività linguistiche o di una larga parte di esse. Ma poi, immaginando diversi giochi linguistici, egli mostra come l’idea che la denominazione, che la semplice relazione tra nome e oggetto, sia a fondamento del linguaggio è un’immagine confusa che noi imponiamo ai fenomeni linguistici senza prenderci la briga di osservarli. Il caso dei muratori sembra come rovesciare la nostra immagine iniziale. Non è tanto che la relazione nome-oggetto è a fondamento dell’intero linguaggio, quanto che abbiamo bisogno dell’intero linguaggio, e cioè di un contesto di attività linguistiche e umane sufficientemente esteso, per riuscire ad annoverare quella cosa che fanno i muratori A e B come chiamare mattone un mattone, nominare un mattone. Cioè, già in questi primi passaggi delle Ricerche, spiega Cavell, Wittgenstein si impegna a mostrare come il concetto di denominazione vada cercato nella forma di vita in cui esso ha un posto e come sia difficile rendere perspicua questa vita concettuale e quanto sia invece facile imporre una certa immagine, imporre l’idea che la denominazione in quanto tale ha un suo significato che riscontriamo poi in varie situazioni.

Il metodo filosofico di Wittgenstein è diretto a questo scopo: a dissolvere le immagini che imponiamo alla realtà e a descrivere quella realtà: ad esempio, a vedere cosa annoveriamo come l’attività del nominare nei vari casi, osservando le varie situazioni, riconoscendo che il nominare è quella certa attività in quanto fa parte di quella complessa situazione. Allora riusciremo a vedere i modi molto diversi in cui usiamo le parole, in cui le parole hanno per noi un significato. Ma se partiamo con l’idea che le parole hanno come tali un significato, senza osservare come lo hanno, come sono usate, allora un tale «concetto generale di significato della parola» finisce con il circondare «il funzionamento del linguaggio di una caligine, che rende impossibile la visione chiara. – La nebbia si dissipa quando studiamo i fenomeni del linguaggio nei modi primitivi del suo impiego, nei quali si può avere una visione chiara e completa dello scopo e del funzionamento delle parole»(§ 5). I giochi linguistici, e cioè questo metodo immaginativo in filosofia, che Diamond sviluppa in modo sempre originale, fresco e ingegnoso, sono diretti a riconoscere che le nostre parole (quelle coinvolte nell’attività della denominazione o in qualsiasi altra attività) sono sempre parole vissute e che la possibilità di dire certe cose, di intendere con le proprie parole una certa cosa, è allo stesso tempo la possibilità di una certa forma di vita. (22) Abbiamo quelle parole che ci significano qualcosa perché abbiamo una tale vita in cui esse sono intessute. La nostra inclinazione è invece quella di dimenticare questa vita, questo contesto, di lasciarlo dietro di noi. Diamond ha dato il titolo di The Realistic Spirit alla sua raccolta di saggi del 1991. Il realismo, per come essa lo intende, ha a che fare precisamente con la possibilità di recuperare questa realtà complessa in cui sono inserite le nostre attività concettuali, contro l’inclinazione di imporre invece una nostra idea, di imporre richieste alla realtà (laying down requirements, come Diamond scrive spesso). Come abbiamo visto nel caso della denominazione, vi è la tendenza a imporre una certa immagine dell’uso che facciamo della relazione tra nome e oggetto senza andare a vedere. L’impressione di sapere già in anticipo cosa sia il denominare non ci consente di andare a vedere cosa stanno veramente facendo i muratori dell’esempio wittgensteiniano, quale sia il posto che il pronunciare il nome lastra e mattone hanno in quelle circostanze.

Diamond ha chiarito una volta questa idea centrale per la sua filosofia e per la filosofia di Wittgenstein commentando un passo tratto da Zettel. (23) Wittgenstein scrive:

 

Se in generale gli uomini non concordassero sui colori delle cose, se i casi indeterminati non fossero eccezioni, il nostro concetto di colore non potrebbe esistere. No: – il nostro concetto di colore non esisterebbe. (24)

 

C’è un modo molto facile di fraintendere questo passo di Wittgenstein. Si può pensare che vi siano due cose, da una parte il concetto di colore e dall’altra l’insieme di circostanze sulle quale gli esseri umani si trovano d’accordo. Allora l’argomento segue in questo modo. Per avere il concetto di colore c’è bisogno che vi sia una certa comunità di esseri umani che fanno e dicono quelle cose, c’è bisogno di certe convenzioni e forme di vita. Così convenzioni e forme di vita diventano ai nostri occhi il fondamento, variamente inteso, di quel concetto: inteso, ad esempio, come ciò su cui convergono pratiche e regole o come uno sfondo in qualche maniera trascendentale. (25) Ma Diamond mostra come il punto di Wittgenstein sia interamente differente. In effetti, se pensassimo che vi sono queste due cose, allora potremmo effettivamente dire che le persone non potrebbero avere il concetto di colore se non concordassero tra loro nel modo in cui fanno. Ma Wittgenstein risponde che se quelle persone non concordassero in quel modo, se non avessero quella forma di vita e quelle convenzioni, in ciò consisterebbe il loro non avere il concetto di colore. Questa appare la lezione più difficile per Wittgenstein e Diamond, quella di riuscire a vedere che la possibilità di intendere il concetto di colore è precisamente la possibilità di quella complessa forma di vita. Mentre l’inclinazione è quella di pensare che abbiamo concetti in isolamento dalle pratiche e dalle attività in cui essi hanno un posto. Diamond si propone di mostrare le conseguenze di questo modo di vedere nella varietà di casi che essa affronta nei suoi scritti.

Vediamo quindi la connessione con l’altra tradizione, quella che in etica criticava Hare e una certa interpretazione della filosofia analitica, e faceva appello al contesto della vita morale. Diamond continua quella linea attraverso la sua rielaborazione dell’approccio filosofico di Wittgenstein. Con Anscombe e Murdoch (e gli altri autori), Diamond sostiene che i problemi filosofici che ci poniamo riguardo la natura del pensiero morale vanno risolti recuperando il contesto in cui il pensiero morale ha un posto. Ma legge la ricerca di tale contesto nella prospettiva di Wittgenstein come una forma peculiare di delucidazione concettuale, come la ricerca della vita in cui è intessuto il pensiero morale.

 

 

4. Il ruolo dei sentimenti e dell’esperienza

 

Inoltriamoci ora nella riflessione morale di Diamond. Vorrei cominciare con il segnalare due possibili chiavi di lettura del suo lavoro; attengono entrambe all’importanza della ricerca del contesto del pensiero morale. La prima ha a che fare con l’importanza della vita emotiva e più in generale dell’esperienza personale; la seconda riguarda invece l’importanza dei concetti in etica. Diamond mostra di tenere molto sia all’importanza di riconoscere che la vita morale è carica di emozioni e affettività sia che essa è una vita propriamente concettuale. Affrontiamo ora il punto circa l’importanza delle emozioni e dell’esperienza. La vita che è intessuta nei nostri problemi morali è una vita di sentimenti, di emozioni e di esperienze. In etica, come essa scrive, «pensare bene coinvolge un pensiero carico del sentimento appropriato». (26) Una visione ristretta e impoverita del pensiero morale ha presente unicamente la capacità di pensare bene che collochiamo nella testa e non nel cuore. Vede i meriti di un certo ideale di razionalità, che consiste nell’essere capaci di porre i principi in un insieme di premesse coerenti tra di loro e di riuscire a trarre le conseguenze che ne seguono. Ma una tale visione è del tutto chiusa rispetto alla varietà ben più ampia di modi in cui possiamo pensare bene o male in etica. Molti di questi modi hanno a che fare con le capacità affettive, con la capacità di chiamare in causa la propria esperienza nel modo appropriato.

Diamond sostiene che un pensiero morale è qualcosa di vivo per noi in quanto è pervaso da una certa dimensione affettiva. Ma mostrare la forza e l’articolazione di tale dimensione non è un compito facile. Come essa scrive: «non è un affare facile riuscire a trovare come scrivere in modo illuminante sull’esperienza umana». (27) Il compito di Diamond qui è quello di presentare l’intera tessitura in cui il sentimento collabora con molti altri elementi in modo da fare di quella tessitura qualcosa capace di dominare e organizzare la vita interiore e la condotta di una persona. La difficoltà qui ha a che fare con i temi wittgensteiniani menzionati sopra. Come vedremo, Diamond sviluppa una sua personale concezione delle difficoltà che si incontrano e delle risposte che la filosofia e il pensiero può dare loro; ma possiamo vedere subito una sua sintonia con una certa critica che è stata mossa alla ricognizione dei sentimenti in etica. Come sappiamo, il ruolo dei sentimenti e della vita emotiva in etica è stato sostenuto dal non cognitivismo e dal sentimentalismo etico. (28) Vi sono molte linee filosofiche diverse tra loro che possono essere raggruppate sotto queste etichette. Diamond condivide comunque la critica che John McDowell ha mosso verso una certa versione di queste teorie. (29) McDowell critica l’idea che del contributo sentimentale si possa guadagnare una visione, per così dire, di traverso, come se vedessimo il modo in cui il sentimento riempie il pensiero del proprio contribuito dall’esterno. McDowell ha insistito, invece, che nella vita morale noi siamo sempre interni a una certa sensibilità affettiva che coinvolge sia la capacità di selezionare certi oggetti e di raggrupparli assieme (ad esempio come situazioni di coraggio) sia di provare nei loro confronti un sentimento appropriato. Il sentimento e l’elemento cognitivo sono legati in modo indissolubile e rimandano a dimensioni di sensibilità individuale e di coltivazione dell’io. Vedremo poi come Diamond complichi e trasformi questo quadro in molti modi; ma certamente condivide questa critica contro una certa linea del sentimentalismo etico, caratterizzata dal fatto di non vedere alcuna difficoltà nel rintracciare il ruolo del contributo emotivo in un pensiero morale. Tornando al modo in cui Wittgenstein vedeva le difficoltà in filosofia, potremmo leggere l’appello al ruolo dei sentimenti nel sentimentalismo che è oggetto della critica di McDowell come un modo di evadere il complicato intreccio di elementi coinvolti nella vita del pensiero morale. Indicare il ruolo quasi-idraulico del sentimento (come lo chiama McDowell) (30) sembra precisamente un modo in cui ci liberiamo della difficoltà di guardare a questa vita, e cerchiamo subito un elemento fondativo, il sentimento, capace di rendere conto della moralità di un certo pensiero. Così come nei capoversi iniziali delle Ricerche Wittgenstein mostrava come la relazione nome-oggetto diventasse subito un’immagine che veniva imposta alla realtà e che impediva di andare a vedere cosa contasse nei vari casi il nominare quel certo oggetto, quale vita complessa rendesse il nominare quella particolare attività per quegli esseri umani, analogamente – si potrebbe dire – nel caso di un certo sentimentalismo etico l’indicazione del sentimento gioca un ruolo analogo. Impedisce di guardare a come la vita affettiva e l’esperienza personale trasformano la visione delle persone, impedisce di descrivere la varietà di casi e impone un modello unico, quello del sentimento che colora un certo pensiero cognitivo già compiuto. Ma come sappiamo questa era l’immagine che anche Hare aveva sviluppato del pensiero morale. Possiamo vedere ora come Diamond risponda a quell’immagine, come essa prosegua la critica di quel gruppo di filosofi che ho menzionato sopra.

Diamond vede la vita di un pensiero morale e la sua dimensione affettiva come un intero mondo in cui si deve entrare, un mondo in cui vari aspetti si tengono assieme, una visione complessiva (come osservava Murdoch) che si deve fare propria. Vorrei riprendere due esempi tratti dagli scritti di Diamond. Il primo esempio riguarda il senso di umanità. Diamond torna molte volte nei suoi scritti su come un senso di umanità verso le persone e gli animali sia nutrito da vari aspetti, da una varietà complessa di esperienze. L’esempio che voglio presentare riguarda il modo in cui il senso di umnanità è connesso con il fatto di essere stati bambini. Dickens è un autore molto importante per Diamond. Le descrizioni che Dickens ci dà della vita dei bambini «contribuiscono al nostro profondo senso della vita, e di ciò che è interessante e importante». (31) Nel suo saggio L’importanza di essere umani, essa commenta il Canto di Natale di Dickens. Dickens, scrive Diamond,

 

cerca di mostrarci come negli atti di umanità possa essere presente un senso immaginativo della capacità di commuovere dell’infanzia legato al senso di noi stessi in quanto bambini, e come la sua assenza possa essere percepita anche in ciò che facciamo e in ciò che siamo capaci di sentire (p. 95).

 

Diamond vuole mostrare come un senso di umanità sia carico di sentimento e come questa capacità di sentire sia connessa con una varietà di emozioni che sono collegate assieme nello sguardo che un bambino rivolge alle cose. È la «vulnerabilità dei bambini, l’intensità delle loro speranze, la profondità delle loro paure e delle loro sofferenze, il loro piacere nei giochi, la loro gioia nell’ascoltare le storie» (p. 95, trad. modificata) e molte altre cose ancora, che costituscono il senso che abbiamo di noi stessi come bambini e che è parte del senso di umanità. Perciò la scoperta della capacità di sentire, che è propria del senso di umanità, chiama in causa un’attenzione alla complessità dell’esperienza dei bambini, un’attenzione che Diamond riesce a ridestare attraverso il suo stile narrativo – non descrivendo nello stile della psicologia empirica la vita dei bambini ma aiutandosi con Dickens a mostrare una visione complessiva che troviamo nei bambini, un intero arco di capacità affettive, un mondo intero che possiamo rivivere immaginativamente dentro di noi.

Vediamo qui all’opera, quindi, sia la ricerca del contesto che aveva mosso le riflessioni di Murdoch, Foot, Anscombe ecc., sia la peculiare lezione di Wittgenstein. Se ci domandiamo come operi il senso di umanità, la virtù dell’umanità, andiamo alla ricerca del contesto in cui il senso di umanità trova un posto. Esso è dato da una complessa vita dei sentimenti di cui possiamo specificare un importante contribuito, il senso di gioia, di intensità, di sorpresa che è caratteristico dei bambini. Questa specifica trama di sentimenti contribuisce a riempire di significato la virtù dell’umanità (rende viva per noi, e cioè attiva e operante, tale virtù). Ma la spiegazione di Diamond mostra anche l’influsso di Wittgenstein. Con Wittgenstein, Diamond mostra che se ci si chiede come operi questa virtù non si deve cercare fuori, andare oltre i nostri dubbi sul funzionamento di tale virtù, ma tornare indietro al punto in cui abbiamo dimenticato o abbiamo perduto una trama di sentimenti che sono la fonte della virtù dell’umanità. Noi offriamo criteri su come funziona la virtù dell’umanità recuperando il contesto che abbiamo perduto e che non riusciamo più a vedere, il contesto fatto tra l’altro da quel complesso insieme di sentimenti che riconosciamo in un bambino.

Già da questo esempio possiamo vedere anche il ruolo che la letteratura, i romanzi, la poesia, rivestono nella filosofia di Diamond. Il recupero del contesto che rende vivi i nostri interessi morali, ad esempio la virtù dell’umanità, riguarda il modo in cui possiamo risvegliare in noi la connessione tra certe esperienze, ad esempio come possiamo mettere in collegamento il senso dell’umanità con il senso di intensità e freschezza dei bambini. La comprensione della virtù dell’umanità comporta la capacità di fare un tale tipo di connessioni, di guadagnarle per sé in quel modo speciale che coinvolge una comprensione intima, una trasformazione di sé. Ora Diamond vede nella letteratura (in particolare, in una sezione interessante della letteratura che ha al suo centro il romanzo realista ottocentesco, assieme a molte altre cose) proprio questo tipo di uso del linguaggio, finalizzato non a comunicare fatti ma a risvegliare emozioni, a destare nei lettori intere visioni delle cose, interi mondi affettivi. Questa idea della letteratura accomuna Diamond a Murdoch, che nutriva questo tipo di interesse non solo come filosofa ma anche come grande scrittrice; ma la accomuna anche a Martha Nussbaum che ha espresso un simile interesse per l’importanza morale dei romanzi e della letteratura e per il modo in cui la forma che le parole assumono è internamente connessa con il contenuto che esse comunicano. (32) Ma questo punto chiama in causa di nuovo Wittgenstein e il modo in cui egli pensava all’attività filosofica come a una forma di trasformazione interiore. È in questo quadro che possiamo provare a riconoscere il carattere distintivo dello stile di Diamond, che è un insieme di argomentazione filosofica tradizionale, dove si fa leva sulla logica e su quel tipo di capacità della mente, di comprensione immaginativa, di uso della letteratura per portare il lettore a sentire e a vedere certe cose. Ma come ho suggerito, è anche un modo originale di continuare la lezione di Wittgenstein, non ciò che molti filosofi analitici hanno voluto leggere in lui, ma il suo stesso stile fatto di ascolto a ciò che di volta in volta siamo inclini a dire, di correzioni di ciò che vorremmo dire, di esempi, di argomentazioni, di aforismi filosofici, di istruzioni date al lettore e ancora altro. (33)

Vediamo ora il secondo esempio: esso riguarda l’importanza della vita individuale. Il compito di Diamond, anche in questo caso, è di mostrare ciò che è coinvolto nell’affermazione circa l’importanza della vita individuale delle persone, la massa complicata di sentimenti e di esperienza che è intessuta in questo tipo di affermazione e che ce la rende viva e piena di significato. Abbiamo un certo numero di teorie filosofiche che ribadiscono l’irrinunciabilità di questo aspetto. John Rawls nella Teoria della giustizia ha sostenuto l’importanza di pensare alle persone come esseri separati gli uni dagli altri, ad esempio in contrasto con il modo in cui l’utilitarismo concepisce il valore della vita individuale. Diamond non è in disaccordo con Rawls circa la verità della sua affermazione, ma è in disaccordo in merito a ciò che comporta fare una tale affermazione, in merito a ciò che è coinvolto in essa. È in disaccordo circa il tipo di esperienza che rende tale affermazione un’affermazione viva per noi. Nel saggio Le fonti della vita morale Diamond tratta in dettaglio la questione; scrive che Rawls riconosce l’importanza della vita individuale perché ne vede il collegamento con l’importanza che le persone hanno in quanto agenti morali, come portatori di personalità morale. Ciò che vi trova di sbagliato è che una visione troppo ristretta dell’importanza della vita individuale. Scrive infatti:

 

la riflessione morale è resa ciò che è dalla riflessione sulla vita: ma da una riflessione che coglie, interpreta ed è infinitamente toccata da una varietà di cose della vita, non soltanto dalla personalità morale. [Da cose come] i nostri pensieri sulla vita, la morte, il caso, la felicità, il tempo, l’amore e così via […] (p. 144).

 

Ciò che non va in Rawls è che egli propone una spiegazione troppo limitata del tipo di esperienza che può riempire di significato la sua affermazione sulla separatezza delle persone. Ciò che dà significato alla sua affermazione è il senso (kantiano) dell’importanza, del rispetto, della reverenza e così via, nei confronti delle persone in quanto persone morali. Diamond sostiene invece che ciò che riempie quel pensiero di significato è un bagaglio ben più ampio di esperienze: pensieri sulla mortalità e il caso, sulla gioia e il divertimento, ad esempio. Questo tipo di pensieri ha un ruolo nelle teorie contrattualiste (come quella di Rawls) solo in quanto vi rientrano come il possibile contenuto delle concezioni che le persone hanno del proprio bene; non hanno un ruolo nel formare la nostra nozione del perché diamo valore al fatto che le persone siano libere di avere tali concezioni del bene e di vivere in integrità con esse. Diamond sostiene invece che la varietà complessa di modi in cui siamo toccati dalla vita dà forma alla nostra concezione del valore delle persone, del senso di rispetto e di importanza nei confronti di ogni singola vita individuale. Una tale concezione del rispetto e del valore è nutrita dai modi diversi in cui la vita ci tocca e ci sorprende o ci inquieta come speciale, strana, commovente.

Diamond offre molti esempi dell’ampio arco di esperienze che illuminano ciò che intendiamo quando diciamo che siamo legati all’importanza delle vite individuali. Un esempio che voglio riprendere ha a che fare con l’importanza della verità e della precisione. Vi è un saggio dedicato a questi temi, Truth: Defenders, Debunkers, Despisers. (34) Diamond sostiene qui che la verità, questo concetto centrale in epistemologia e in molte altre aree del pensiero, è un concetto essenziale anche in etica. L’esempio che porta è quello del poeta polacco Zbigniew Herbert, che ha scritto che la mancanza di accuratezza nel contare il numero delle vittime morte contro un potere disumano è intollerabile. Come scrive Herbert nella sua poesia Il signor Cogito e la necessità dell’esattezza: (35)

 

[…] in queste cose

ci vuole accuratezza

non è lecito sbagliarsi

neppure di uno

 

siamo malgrado tutto

custodi dei nostri fratelli

 

l’incertezza sui dispersi

incrina la concretezza del mondo

 

spinge nell’inferno delle apparenze

nella diabolica rete della dialettica

 

proclamante che non c’è differenza

tra sostanza e spettro

 

dobbiamo perciò sapere

contare esattamente

chiamare per nome

[…]

 

Diamond commenta in questo modo: «Abbiamo bisogno di un mondo fondato sulla verità in cui una menzogna è solo una menzogna, in cui vi sono archivi, in cui la realtà di ciascuno di noi è affidata agli altri, in cui la distruzione delle vite umane non è cancellabile». (36) Il fatto che la verità è un concetto che struttura la realtà in quel modo, con l’esistenza della matematica, di archivi e anagrafi e con l’attività degli storici, tutto ciò è essenziale al nostro interesse per le vite individuali. Questo interesse, questo senso di importanza, è connesso con il fatto che la verità ha quel posto nel nostro mondo. Possiamo renderci vividamente consapevoli di ciò quando immaginiamo regimi in cui questo insieme di attività è assente, come fa Herbert nella sua poesia. Così, in questo caso, l’esperienza del nostro mondo ordinario in cui conserviamo la memoria scritta delle persone che muoiono, in cui una menzogna è solo una menzogna, questo tipo di esperienza contribuisce a dare significato al nostro interesse per le vite individuali, contribuisce a rendere quel senso di importanza qualcosa di vivo per noi.

 

 

5. Il ruolo dei concetti

 

Ho portato alcuni esempi tesi a mostrare come la vita dei nostri interessi e considerazioni morali sia una vita pervasa dal sentimento e dall’esperienza. Vorrei ora fermarmi sull’altro aspetto che illustra il modo in cui Diamond esplora il contesto dell’etica, e cioè il ruolo dei concetti. Diamond sostiene che la forza che appartiene all’interesse morale che si è formato con l’esperienza e gli affetti è anche il tipo di forza che appartiene ai concetti. La vita delle emozioni e dell’esperienza ha la capacità di farci entrare in un mondo concettuale. Torniamo a Dickens. Il complesso risveglio delle emozioni e dei sentimenti di Scrooge nel Canto di Natale, per come lo legge Diamond, è anche la riconquista di una prospettiva concettuale. Attraverso il fatto di essere toccato nuovamente dalla vulnerabilità, dalla gioia e dall’intensità dei bambini, Scrooge arriva a vedere le attese e le speranze dei bambini come parte dei bisogni degli esseri umani. Questo miglioramento emotivo contribuisce alla sua possibilità di guadagnare per sé una prospettiva propriamente concettuale: cioè una prospettiva in cui comprende che il suo riuscire a intendere il concetto di essere umano coinvolge la capacità di vedere che vi appartengono certi fatti, come ad esempio il fatto di avere certi bisogni connessi con il mondo emotivo dei fanciulli. Diamond presenta la delucidazione concettuale – e cioè il fatto che intendere un certo concetto porta con sé anche l’intendere altre cose – come una forma di risveglio emotivo. (37)

Emerge qui una concezione che potremmo chiamare pratica di ciò che conta come padroneggiare un concetto, dove torna la lezione di Wittgenstein. Come abbiamo visto, nell’interpretazione che di quella lezione danno Diamond e Cavell, la capacità di padroneggiare un concetto coinvolge la partecipazione a una varietà di attività, di pensieri e di esperienze, cioè il fare e il sentire una quantità di cose. Nel caso del pensiero morale, Diamond mostra come questa dimensione pratica sia pervasa dalla capacità di sentire. Perciò un’educazione delle emozioni, lo sviluppo di una sensibilità morale, corrisponde alla conquista di una certa prospettiva concettuale: una tale educazione o trasformazione dell’io porta la persona dentro un mondo concettuale – e lo fa in molti modi come suggerirò più avanti. Possiamo esprimere quindi la delucidazione della vita morale, sottolineando questa doppia enfasi sugli affetti e sui concetti. Diamond stessa presenta la sua argomentazione in questo modo. Voglio riprendere quanto scrive nel saggio L’importanza di essere umani. La sua operazione in questo scritto è molto interessante. Diamond critica Annette Baier, e una certa linea in filosofia ispirata al pensiero di Hume, per il modo in cui viene trattata la natura umana. Una tale prospettiva tratta le emozioni, i sentimenti e le esperienze umane come oggetti di studio a cui noi prendiamo parte in qualità di osservatori e di teorizzatori. La conoscenza che ne deriva fa parte della più ampia sfera della conoscenza empirica. Diamond sostiene invece che il tipo di miglioramento emotivo coinvolto, ad esempio, nei cambiamenti a cui va incontro lo Scrooge dickensiano non può essere descritto in questo modo. Siamo di fronte a una trasformazione che tocca l’io in modo più intimo di questo. Diamond perciò fa uso dell’altra linea in filosofia, quella kantiana. È più appropriato sostenere che il modo in cui Scrooge è toccato dal mondo emotivo dei bambini è analogo al modo in cui Kant afferma che dovremmo riconoscere la razionalità e la personalità morale come parte di ciò che noi siamo. Scrive in proposito:

 

Ora voglio sviluppare un paragone tra lo Scrooge di Dickens e uno Scrooge kantiano, il quale (per esempio) potrebbe dare qualche penny al bambino sulla porta in virtù di un rispetto di tipo kantiano per l’umanità del bambino, un rispetto (vale a dire) per la natura razionale del bambino, là dove questo rispetto è inseparabile dal rispetto dello Scrooge kantiano per se stesso in quanto essere razionale, dalla sua comprensione di sé come un essere capace sia di imporre a se stesso la legge morale sia di obbedirgli. Questa comprensione di sé dello Scrooge kantiano è molto diversa dalla comprensione che egli possiede in quanto osservatore empirico di se stesso o in generale degli esseri umani come parte della natura (p. 95).

 

Diamond sta dalla parte di Kant qui. Vuole che quel riconoscimento della razionalità sia visto non come un fatto della natura umana tra gli altri fatti ma come un fatto che riguarda noi stessi. Nella filosofia di Kant, pensare a se stessi nel modo appropriato va insieme al pensare a sé in termini di razionalità e di personalità morale. Quindi Diamond aggiunge:

 

Nello Scrooge di Dickens, questo essere commossi dall’infanzia comporta un senso vivo e l’accettazione da parte sua dello Scrooge-bambino che è in lui, come parte (una parte che gli appartiene, che egli riconosce come sua) dell’«io, Scrooge, essere umano» – proprio come nella generosità dello Scrooge kantiano è presente il senso vivo e il riconoscimento dello Scrooge-essere-razionale che è in lui (pp. 95-96).

 

Vediamo, quindi, come Diamond legga l’educazione morale di Scrooge come una riconquista di un senso delle cose, dei bisogni umani, della vulnerabilità umana, delle speranze, della gioia e della sofferenza, allo stesso modo in cui l’educazione morale dello Scrooge kantiano coinvolge il riconoscimento che egli stesso è parte della dignità che promana dalla razionalità e dalla personalità morale. Diamond vuole conservare l’interpretazione kantiana della forza con cui si impongono le considerazioni morali come una forza autenticamente concettuale, cioè il tipo di forza che è all’opera quando vediamo ciò che si tiene assieme concettualmente; ma rifiuta di accettare la lettura kantiana circa l’origine di tale forza. Contro Kant, come abbiamo visto nella discussione di Rawls e delle teorie contrattualiste, essa sostiene che un autentico riconoscimento concettuale di se stessi come esseri umani comporta un riconoscimento di sé in quanto esseri capaci di sentimento e di immaginazione e di molte altre cose ancora. Perciò, in questo rifiuto del modo in cui Kant si concentra sulla sola razionalità, a esclusione della sfera delle passioni e delle inclinazioni e delle altre contingenze della vita, Diamond sta, in un certo senso, difendendo l’altra linea filosofica. (38)

Questa doppia insoddisfazione nei confronti di entrambe le linee filosofiche mostra bene il tipo di esplorazione della vita dei concetti morali che Diamond sviluppa. Il rifiuto della limitatezza della linea kantiana verso i contenuti del pensiero morale rimanda all’importanza a non semplificare, a non cercare una formula universale che tralasci la varietà di cose di cui è nutrito il nostro interesse morale verso il mondo. Ma il rifiuto della linea humeana, di come essa tratta questa varietà di aspetti, riguarda il modo in cui essi rendono vivi i nostri pensieri. Li rendono vivi non come fatti tra gli altri fatti ma come la fonte dei nostri interessi morali, li rendono vivi dall’interno. L’importanza delle singole vite, ad esempio, è quel tipo di pensiero, quella considerazione morale, perché sentiamo e facciamo e viviamo in un certo modo. Queste cose, per noi che sentiamo il valore della vita individuale (se lo sentiamo), non sono solo fatti che contempliamo come osservatori esterni, ma si tengono tutti assieme internamente, cioè concettualmente.

Possiamo tornare ora brevemente a McDowell. Nei saggi in cui criticava il non cognitivismo, McDowell era interessato a mostrare come nell’interesse morale che nutriamo verso le cose, cioè nella dimensione della virtù se vogliamo, il contributo non cognitivo del sentimento non è un contributo esterno, che rende morale la considerazione cognitiva di una situazione accompagnandosi a essa, colorando tale situazione con la forza del sentimento. McDowell ritiene invece che vi sia una collaborazione interna tra il sentimento e la considerazione cognitiva. Non potremmo raggruppare quelle azioni insieme come azioni coraggiose, ad esempio, se non fossimo già interni alla dimensione affettiva appropriata, che è quella che ci rende sensibili nei confronti del coraggio. Come abbiamo già visto, Diamond è d’accordo con McDowell su questo punto. Anche lei è interessata a mostrare come nella prospettiva del pensiero morale i sentimenti e le altre contingenze della natura umana non entrano nel pensiero sideways-on, come dice McDowell, di traverso, rendendosi cioè disponibili a una descrizione meramente empirica, quella che ci impegna come osservatori e teorizzatori. Ma questa critica costituisce il punto di partenza per Diamond, per mettere in luce il tipo di varietà di aspetti e di fatti che si tengono assieme concettualmente nella vita delle nostre considerazioni morali. L’elemento più interessante e originale della sua riflessione consiste proprio in questa esplorazione della varietà di cose in cui consiste il nutrire un certo interesse morale. Nei saggi di McDowell può sembrare che la virtù consista solo nel modo concettuale in cui il sapere raggruppare le cose (quel tipo di capacità cognitiva) si tiene assieme al provare sentimenti appropriati. (39) Diamond prende esplicitamente le distanze da McDowell su questo punto nel saggio Perdere i propri concetti. Osserva che «afferrare un concetto (perfino un concetto come quello di essere umano, che è un concetto descrittivo se mai ve ne sono) non è solo una questione di sapere come raggruppare cose sotto quel concetto: significa essere in grado di partecipare alla vita-con-il-concetto» (p. 71). Diamond è interessata a esplorare la varietà di cose che si tengono assieme, la varietà di sentimenti e il modo in cui sono intrecciati con molte attività, con molti fatti. Così il senso dell’importanza delle vite individuali è ricondotto al senso di importanza della verità, negli esempi che essa dà: il fatto di avere archivi e anagrafi, ma anche l’esistenza della matematica, l’importanza della precisione e dell’accuratezza. Qui varie attività umane, il posto pratico, affettivo, e ancora altro, che esse hanno nelle nostre vite è legato a sentimenti più specifici connessi con il senso di rispetto, cura, ricordo delle persone. È questa varietà complessa di aspetti che si tiene assieme (concettualmente) che dà vita al nostro interesse per la vita individuale.

 

 

6. L’etica e l’analisi concettuale

 

Una volta intesa appropriatamente la natura dei concetti e il senso in cui la vita dei nostri interessi morali è una vita concettuale, possiamo certamente affermare che la critica riflessiva in etica ha l’aspetto dell’analisi concettuale. È in questo quadro che riusciamo anche a verificare il collegamento che il pensiero di Diamond intrattiene con quello di Anscombe e in generale con quel tipo di naturalismo filosofico in etica. (40)

Diamond sostiene che il pensiero morale è propriamente un pensiero e che le considerazioni morali sono affermazioni concettuali. Vorrei citare un passo tratto da un saggio contenuto in The Realistic Spirit, Eating Meat and Eating People: (41)

 

[…] non è per rispetto degli interessi degli esseri della classe a cui noi apparteniamo che ci diamo nomi l’un l’altro, o che trattiamo la sessualità o la nascita o la morte umane come facciamo, contrassegnandole – in vari modi – come significative e serie. E ancora, non è il rispetto per i nostri interessi a essere coinvolto nel fatto che non ci mangiamo l’un l’altro. Queste sono tutte cose che vanno a determinare che tipo di concetto è quello di «essere umano». Analogamente con l’avere doveri verso gli esseri umani. Questa non è una conseguenza di ciò che gli esseri umani sono, non è giustificato da ciò che gli esseri umani sono: è essa stessa una delle cose che vanno a determinare la nostra nozione di esseri umani.

 

Diamond ci mostra la riflessione morale come un lavoro di chiarificazione concettuale. Che qualcosa vada fatto può essere visto come parte di ciò che è coinvolto nei concetti alla luce dei quali si articola la deliberazione morale. Scopriamo cosa vada fatto come parte della scoperta di ciò che è tenuto assieme ai concetti attraverso i quali vediamo e sentiamo e descriviamo le cose. In questo senso Diamond sostiene che la scoperta che fa Scrooge della freddezza del suo cuore e dei bisogni delle persone è una scoperta di ciò che è tenuto assieme al concetto di essere umano, al rinnovato concetto di essere umano, attraverso il quale ora vede e sente se stesso.

Vi sono quindi delle analogie tra questa prospettiva e il naturalismo filosofico di Anscombe. Ma questa è anche un’occasione per vedere uno dei modi attraverso i quali Diamond ha rielaborato il pensiero di Anscombe. (42) Possiamo scorgere delle similitudini tra la concezione di Diamond e un’affermazione come la seguente: ciò che dobbiamo fare è il tipo di azione che conta come la risposta appropriata verso un essere umano. Cioè, abbiamo il concetto di essere umano perché gli esseri umani sono trattati in quel modo. Anscombe ha avanzato una posizione simile nel suo famoso articolo Modern Moral Philosophy. (43) Ha scritto che

 

così come l’uomo ha il numero di denti che ha, che non è certamente il numero medio di denti che hanno gli uomini, ma è il numero di denti della specie, così forse la specie uomo, considerato non solo biologicamente, ma dal punto di vista dell’attività di pensiero e di scelta rispetto alle varie sfere della vita – poteri, facoltà e uso delle cose di cui ha bisogno – «ha» queste-e-queste virtù: e tale «uomo» con il suo insieme completo di virtù è la «norma», così come l’«uomo» con, ad esempio, l’intera fornitura di denti è la norma.

 

Nella concezione suggerita da Anscombe, le virtù appartengono alla definizione dell’uomo, concepito non come un concetto esclusivamente biologico ma come una nozione che indica gli esseri umani nelle loro varie capacità e attività culturali e morali. Diamond collega invece la sua concezione dell’etica con la sua particolare comprensione della natura dei concetti (morali). Diamond sostiene che il pensiero morale è un pensiero che si muove e si articola nella vita dei concetti che danno forma al nostro linguaggio e alla nostra visione delle cose. Possiamo pensare agli strumenti critici che usiamo nel discorso morale come modi attraverso i quali arriviamo a riconoscere ciò che si tiene (concettualmente) con gli aspetti che troviamo problematici o su cui stiamo riflettendo. Attraverso questo lavoro di delucidazione riusciamo a mostrare il tipo di contesto concettuale che dà vita e significato ai nostri quesiti e ai nostri problemi. Ma questi strumenti ci consentono anche di riconoscere connessioni attraverso le quali tali concetti possono essere reinterpretati, modificati o estesi in nuove direzioni. Diamond è molto chiara in proposito nel suo saggio Eating Meat and Eating People. Discute la natura della nostra percezione degli animali. Gli animali sono visti in vari modi, come animali da compagnia, come gli animali selvatici che vediamo nei documentari, come gli animali che sono il nostro cibo, o quelli pericolosi per le fattorie. Sono modi molto diversi di ritrarre la vita animale che portano con sé anche atteggiamenti diversi e modi diversi di trattarli. Ora Diamond insiste però su un punto, che questa varietà di percezioni è resa possibile da una massa di risposte, reazioni, visioni, non del tutto coerenti tra di loro, ma che ha comunque un ordine sufficiente da consentirci di pensare ogni volta a questi esseri come a degli animali. Abbiamo cioè un concetto di animale, che ci permette poi di parlare di cani e gatti come quel tipo di animale, di tigri e leoni, o di mucche e polli, come insiemi ancora diversi di animali. Ma possiamo anche lavorare su questa massa di risposte e di atteggiamenti, in cui consiste il concetto di animale, per estenderne alcuni e per ridescriverne altri. In effetti, questo è ciò che Diamond fa nei suoi scritti «animalisti» (contenuti in The Realistic Spirit) o nel saggio L’importanza di essere umani. Prende alcune caratteristiche che costituiscono il concetto di animale, come il fatto di essere una creatura con una vita indipendente, una vita sua, lontana e misteriosa, e cerca di vedere le rassomiglianze con il senso di indipendenza e di mistero che troviamo nella vita umana. Suggerisce come potremmo leggere nella vita animale il senso di comunanza e solidarietà che già nutriamo nei confronti degli esseri umani. Ma ciò finisce con il ridimensionare altre caratteristiche che compongono la massa di risposte che costituisce il concetto di animale.

Torniamo ora al paragone con il naturalismo di Anscombe. Anscombe sostiene che le virtù appartengono alla definizione di essere umano, cioè che ciò che è bene per gli esseri umani è tenuto assieme concettualmente alla varietà di aspetti che rendono ciò che un essere umano è. Vi è in certi limiti una sintonia con Diamond. Diamond sostiene che le considerazioni morali hanno un significato e hanno quindi un posto (motivazionale, normativo di vario tipo) nelle nostre vite in quanto sono legate concettualmente con una varietà di concetti attraverso i quali vediamo le situazioni che ci sono moralmente interessante e salienti, tra cui il concetto di essere umano. In questo senso sostiene che la nozione di dovere è essa stessa uno di quegli aspetti che costituiscono la nozione di essere umano. Egualmente nel caso degli animali, una considerazione morale nei loro confronti ha un posto nelle nostre vite in quanto elabora ciò che gli animali sono per noi, come ci appaiono, elabora un tessuto concettuale entro cui percepiamo gli animali. La possibilità di rispettare le loro vite, di non mangiarli ad esempio, va assieme alla possibilità di vederli come esseri che come noi hanno una loro vita, indipendente, lontana e misteriosa da vivere. La nostra considerazione morale è fondata (concettualmente) sulla definizione di animale, nel senso che possiamo veramente vedere l’importanza morale di rispettare gli animali in quanto ciò esprime questo insieme di atteggiamenti: il rispetto esprime il nostro vederli come esseri con una vita indipendente e a loro modo personale. Vi è quindi un’analogia con Anscombe: le considerazioni morali sono fondate concettualmente sulle nozioni rilevanti in gioco, ad esempio quella di essere umano o di animale.

Ma possiamo vedere subito anche le differenze. In effetti questa lezione di Anscombe segna solo l’inizio della riflessione. Il modo in cui si procede da qui in avanti mostra tutte le differenze tra il naturalismo etico di Anscombe e la riflessione di Diamond e ancora altre linee filosofiche. Anscombe e quella linea del naturalismo etico è interessata a ricavare da questo approccio l’idea che le considerazioni morali sono fondate su ciò che gli esseri umani sono, una volta che li abbiamo propriamente intesi. C’è questa ricerca di ciò che è propriamente umano: è un’idea aristotelica che si ritrova in Anscombe, in Foot ma anche in autori come Nussbaum. (44) L’idea che vi sia una connessione concettuale tra la nozione di essere umano e le virtù spinge questi autori a cercare una nozione appropriata di essere umano. Essi tendono a leggere l’idea che le considerazioni morali facciano parte (concettualmente) della nozione di essere umano come premessa per una ricerca di ciò che è propriamente umano da cui derivare le considerazioni morali come sue componenti concettuali. (45) Questa è precisamente la strada che Diamond non segue. Nella prospettiva di Anscombe vi è qualcosa come ciò che un essere umano è, da cui derivare ciò che un essere umano è al suo meglio e quindi l’insieme delle virtù. Diamond vede le cose diversamente. Essa ritiene, con Anscombe, che le nostre considerazioni morali hanno una vita propriamente concettuale, che sono collocate in un contesto concettuale, costituito ad esempio dalla nozione di essere umano. Ma non vi è niente che assomigli alla scoperta di ciò che quel concetto significa da cui derivare le considerazioni morali stesse. Invece, vi sono numerosi fatti, contingenze, cioè attività che le persone svolgono, reazioni emotive, modi di vedere, atteggiamenti, percezioni sottili di ciò che è o meno appropriato fare in certe circostanze. Tutto ciò costituisce di volta in volta, per il tipo di questione che stiamo affrontando, una massa di aspetti in cui possiamo provare a leggere alcune linee dominanti, alcune connessioni centrali. Le considerazioni morali hanno la loro vita in queste connessioni, in questa rete concettuale che tiene assieme alcuni aspetti. Ma la possibilità di vedere queste connessioni, di mettere assieme quegli aspetti, è essa stessa frutto della riflessione morale, è (con Wittgenstein) l’esito di una trasformazione personale, di un miglioramento di sé. Non è tanto che vi sia qualcosa come ciò che è propriamente umano da cui deriviamo le considerazioni morali, quanto che tutto ciò che facciamo e sentiamo e così via ha un qualche peso, può essere visto come rilevante per la riflessione morale, e le considerazioni morali hanno una vita, ci dicono qualcosa, in quanto esprimono modi di tenere assieme quegli aspetti, che dipendono tuttavia dal nostro sforzo, dalla nostra energia interiore, dal tipo di persone che siamo.

 

 

7. I beni concettuali

 

Diversamente dal naturalismo etico di Anscombe, Diamond è interessata a non semplificare la vita dei concetti morali ma a mettere in luce le differenze e le distanze che separano le persone (e le epoche). Vorrei fermarmi su questo punto. Esso concerne anche la continuità che Diamond ha inteso stabilire con alcuni momenti centrali del pensiero di Murdoch, ma riguarda allo stesso tempo in modo pieno anche l’interpretazione di Wittgenstein. Nel sostenere che la vita dei nostri interessi morali è una vita concettuale Diamond fa un’affermazione in cui vuole anche tenere dentro l’idea che vi sono distanze tra le persone e le epoche che dipendono dalle concezioni in cui si articola il modo di vedere le cose e la vita. Murdoch era molto interessata a questo tema; scriveva infatti: «la comunicazione di un nuovo concetto morale non si raggiunge necessariamente specificando i criteri fattuali che sono a disposizione di ogni osservatore (‘Approva questa area!’) ma può richiedere la comunicazione di una visione completamente nuova, coerente e dalle possibili conseguenze lontane; ed è certamente vero che non possiamo sempre comprendere i concetti morali delle altre persone». (46) Ciò ha un significato sia personale sia storico. Da una parte se «sosteniamo che la moralità di un uomo non è solo nelle sue scelte ma nella sua visione, allora questa potrebbe essere profonda, ramificata, difficile da cambiare e non facilmente aperta all’argomentazione». Inoltre, «l’idea che le differenze morali sono concettuali (nel senso di essere differenze di visione) e che devono essere studiate come tali non è affatto una tesi popolare perché rende impossibile la riduzione dell’etica alla logica, dato che suggerisce che la moralità deve, fino a un certo punto almeno, essere studiata storicamente. Ciò non implica naturalmente l’abbandono del metodo linguistico ma implica piuttosto che venga preso sul serio». (47)

Diamond riprende questa lezione. Affermare che la vita dei nostri interessi morali è concettuale comporta un’attenzione alla varietà di distanze che si possono porre tra le persone e le epoche, e apre quindi anche a una varietà di possibilità di critica. Diamond si sofferma su questo tema nel suo saggio Perdere i propri concetti. Non è solo che la propria vita morale trova espressione in concetti, ma che possiamo vedere il bene insito nell’avere a disposizione un’articolazione concettuale della propria vita morale, il bene dell’espressività, come scrive Diamond, dell’avere le parole di cui si ha bisogno, anziché non averle affatto, o meglio averle in una dimensione impoverita e limitata. Marx proponeva qualcosa come l’idea di una privazione assoluta della possibilità di dare espressione alla propria condizione di lavoratori sfruttati. Anche Simone Weil dava voce a un tema simile nei suoi scritti sulla condizione delle classi lavoratrici. Diamond aggiunge altri esempi in cui altri autori parlano di una privazione locale, temporanea, di alcuni gruppi di persone, in certe epoche. Possiamo vedere il male insito in questa privazione o in questo impoverimento dell’articolazione concettuale delle proprie vite morali, e il bene connesso alla possibilità di descrivere adeguatamente in modo ricco e articolato, la propria esistenza, le proprie speranze, i propri ideali. Ma qui troviamo allora anche uno strumento di critica di tali situazioni, e tale strumento critico può essere rivolto anche contro i filosofi che parlano di queste situazioni. Se una descrizione filosofica della vita morale non ci fa vedere questo bene e le modalità della sua presenza non è una buona descrizione filosofica. C’è una varietà di successi e insuccessi, un’intera dimensione del valore della vita che passa attraverso il rapporto tra l’esperienza delle persone e il loro pensiero, le loro parole. Ma Diamond suggerisce con Murdoch che la tradizione analitica e empirista, che è la tradizione in cui si collocano, a loro modo, le due filosofe (e qui Diamond ha presente alcuni momenti: Bentham e non Mill, Frege e non Wittgenstein), ha in larga parte trascurato questa dimensione, cioè questo bene concettuale, se vogliamo esprimerci così. In quella tradizione, scrive Diamond, non c’è un problema con il tipo di parole che abbiamo a nostra disposizione. Ma se vediamo che invece c’è un tale problema, un problema e una difficoltà a esprimere la propria esperienza e differenze anche radicali nei modi in cui le persone vedono e hanno visto se stesse, diversità di visione, come scrive Murdoch, possiamo riconoscere anche il bene insito nell’avere le parole per esprimere se stessi e la propria condizione.

Una volta che riconosciamo questo tipo di bene, introduciamo un’intera dimensione della descrizione morale e della critica. Possiamo fare dei paragoni, ad esempio. Possiamo interrogarci su cosa significhi vivere con quel concetto e vivere senza di esso. Sono confronti immaginativi tra epoche e tra persone. Vediamo quindi che tipo di guadagni concettuali facciamo o che perdite subiamo passando da una visione personale all’altra, da un’epoca all’altra. Non tutti i confronti sono facili o è chiaro in che cosa possa proprio consistere un tale confronto. Si apre qui un tema interessante che Diamond ha sviluppato anche in aree non morali in altri suoi scritti. Proprio riconoscendo la natura concettuale delle nostre descrizioni e delle attività in tutte le aree, la possibilità di comprendere a sufficienza quello che pensano o fanno persone lontane da noi nella storia e nella mentalità è sempre una questione aperta. Dipende, tra l’altro, da quanto abbiamo in comune, da quante risorse concettuali condividiamo (e cioè attività e atteggiamenti e percezioni) per riuscire a spiegarci ciò che ci è invece alieno o lontano. (48) Ma se riusciamo a fare un confronto, con esso guadagniamo un importante strumento di critica: con il quale intraprendere una battaglia per un modo di vedere che è andato perduto e che vogliamo restaurare, o per apprezzare il bene che abbiamo guadagnato perdendo quel modo di vedere, o ancora per arricchire il nostro pensiero di un modello, di un termine di paragone che, come scrive Wittgenstein, ha un’utilità immensa per comprendere ciò in cui crediamo, per comprendere il fondamento delle nostre convinzioni. Possiamo guadagnare una visione nuova e fresca delle nostre convinzioni se riusciamo a vederle dal di fuori, attraverso altri occhi, altre dimensioni concettuali. Wittgenstein scriveva ad esempio: «Chi crede che certi concetti siano senz’altro quelli giusti e che colui che ne possedesse altri non si renderebbe conto di quello di cui ci rendiamo conto noi, – potrebbe immaginare certi fatti generalissimi della natura in modo diverso da quello in cui noi siamo soliti immaginarli; e formazioni di concetti diverse da quelle abituali gli diventerebbero comprensibili». (49) Questi termini di paragone possono essere immaginativi o trarre il loro contenuto dalla comprensione di visioni e dimensioni concettuali storicamente o culturalmente lontane dalle nostre. Questa prospettiva ci mostra un modo diverso rispetto al quale possiamo pensare di dare fondamento o di contestare convinzioni e sistemi di credenze. Possiamo pensare che questi confronti, questa ridescrizione attraverso termini di paragone sempre diversi e insoliti, possa rafforzare o indebolire (fino ad arrivare a fare perdere loro consistenza e presa nei nostri confronti) modi di vedere consolidati e acquisiti. È un’idea di fondazione e di critica diversa da quella perseguita dalla filosofia quando ha voluto cercare di mostrare, come scrive Wittgenstein, che «certi concetti siano senz’altro quelli giusti». (50)

Diamond non sembra tanto interessata a stabilire da quale partito dovrebbe essere vinto l’argomento negli esempi che suggerisce, ma le interessa che venga visto il bene della concettualità e che si possano fare riflessioni su questo bene. C’è un esempio illuminante in proposito, ed è quello intorno alla relazione tra genitori e figli. Da una parte vediamo il tipo di bene insito nell’idea che le relazioni morali siano soggette alla nostra scelta, un’idea al centro di importanti correnti della modernità liberale, si potrebbe dire. Dall’altra vediamo una diversa dimensione concettuale, quella che vede i beni e i mali che sono connessi con il fatto che le relazioni morali non sono sempre scelte, che la responsabilità non è sempre assunta volontariamente. Questo è il caso della relazione con i propri genitori, ad esempio. Diamond osserva come ci sono mali come quello di tradire i propri genitori, che percepiamo come orrori morali, che non troverebbero espressione nell’altro linguaggio, in quello della scelta. In quel linguaggio avremmo l’idea che è molto grave tradire i propri genitori ma non avremmo questa idea di un fatto terribile. Questa idea, questo tipo di male, trova espressione solo nel linguaggio in cui la relazione dei figli verso i genitori non è reciproca e paritaria, non è soggetta alla scelta e alla libera assunzione di responsabilità ma è un altro tipo di legame. Ora Diamond tiene soprattutto che il confronto tra i due linguaggi sia fatto riflettendo su queste perdite e su questi guadagni morali concettuali. La dimensione concettuale della scelta non consente quel male e quindi neanche il bene della lealtà verso i propri genitori, che non è la stessa lealtà verso un amico o un sodale. Nella riflessione critica su questi linguaggi perderemmo qualcosa se non tenessimo presenti questi beni, se non portassimo la riflessione su di essi. (51)

Come ho accennato prima, la riflessione su queste dimensioni concettuali, e quindi su particolari beni concettuali, non procede solo per soppesare beni da una certa prospettiva ma serve anche a nutrire quella prospettiva con un termine di paragone. Si apre qui la via che sembra quella privilegiata da Diamond. Nella concezione che essa ha dei concetti, la comprensione ed eventualmente la capacità di guadagnare per sé (o per la propria cultura: qualcosa che fanno i riformatori morali) un certo bene concettuale non significa l’acquisizione di una prospettiva chiusa ma, a suo modo, di un’intera dimensione critica. L’acquisizione di un bene concettuale è solo l’inizio. Come Diamond scrive: «Conoscendo la vita con quel termine, possiamo andare avanti, in modi in cui forse nessun altro farebbe, aspettandoci che gli altri seguano ciò che abbiamo detto» (p. 74). C’è una difficoltà a comprendere questo punto che è anche relativa alla concezione che si ha del linguaggio. Scrive ancora:

 

[…] pensiamo che imparare a usare un termine equivalga a imparare a seguire le regole che ne governano l’uso; concepiamo il linguaggio in termini di regole che fissano ciò che può e non può essere fatto. Ma la cosa più essenziale a proposito dell’uso del linguaggio è che non è fissato in questo modo. Imparare a usare un termine significa introdursi nella vita con quel termine, le cui possibilità sono in larga misura ancora da determinare (p. 74).

 

Questa è anche una lezione che riguarda la filosofia di Wittgenstein. Wittgenstein è stato letto spesso come se sostenesse questa idea del linguaggio come governato da regole date, fissato in questo modo. Un contributo essenziale di Diamond è stato anche quello di smantellare una tale idea della filosofia di Wittgenstein, recuperando invece l’immagine dello spazio dei concetti come un luogo dove è sempre possibile chiedere ragione e criticare le credenziali offerte, dove ciò che possiamo fare con i nostri concetti non è già fissato in anticipo ma dipende da noi. (52) Non dobbiamo pensare, perciò, ai beni concettuali come a perimetri valutativi chiusi ma come a nuovi spazi concettuali da cui proseguire e «le cui possibilità sono in larga misura ancora da determinare». (53) Come Diamond ha scritto in The Realistic Spirit: «La comunicazione nelle questioni morali, come la comunicazione in molti altri ambiti, include l’esplorazione di ciò che consentirà gli interlocutori di raggiungersi reciprocamente: ciò non è ‘dato’ dall’esistenza di una ‘pratica’. Le nostre pratiche sono esplorative, ed è effettivamente tramite queste esplorazioni che arriviamo a vedere pienamente ciò che noi stessi pensavamo o volevamo dire». (54)

 

 

Note

 

(1) C. Diamond, The Realistic Spirit. Wittgenstein, Philosophy, and the Mind, MIT Press, Cambridge, Mass., 1991.

(2) Si vedano ad es. i seguenti volumi: A. Crary - R. Read (a cura di), The New Wittgenstein, Routledge, London - New York 2000; T. McCarthy - S.C. Stidd (a cura di), Wittgenstein in America, Clarendon Press, Oxford 2001; E.H. Reck (a cura di), From Frege to Wittgenstein. Perspectives on Early Analytic Philosophy, Oxford University Press, Oxford 2002; A.G. Gargani, Wittgenstein. Dalla verità al senso della verità, Edizioni Plus, Pisa 2003; B. Stocker (a cura di), Post-Analytic Tractatus: A Critical Reader, Ashgate, Aldershot 2004; M. Kölbel - B. Weiss (a cura di), Wittgenstein’s Lasting Significance, Routledge, London 2004.

(3) Per un quadro si veda E. Lecaldano, Le analisi del linguaggio morale. “Buono” e “dovere” nella filosofia inglese dal 1903 al 1965, Ateneo, Roma 1970.

(4) Di Hare si vedano The Language of Morals, Clarendon Press, London 1952 (trad. it. Il linguaggio della morale, Ubaldini, Roma 1968); Freedom and Reason, Clarendon Press, London 1963 (trad. it. Libertà e ragione, Il Saggiatore, Milano 1971).

(5) Si veda il suo Moral Thinking. Its Levels, Method and Point, Oxford University Press, New York 1981, cap. 3 (trad. it. Il pensiero morale. Livelli, metodi, scopi, Il Mulino, Bologna 1989).

(6) Si vedano ad es. Two Dogmas of Empiricism, in Id., From a Logical Point of View, Harper and Row, New York 1951, cap. 2 (trad. it. Due dogmi dell'empirismo, in Id., Il problema del significato, Ubaldini, Roma 1966); Epistemology Naturalized, in Id., Ontological Relativity and Other Essays, Columbia University Press, New York 1969.

(7) G.E.M. Anscombe, Modern Moral Philosophy (1958), in Id., Ethics, Religion and Politics. Collected Philosophical Papers III, University of Minnesota Press, Minneapolis 1981, p. 32.

(8) P. Geach, Good and Evil, in “Analysis”, 17, 1956, pp. 33-42; B. Williams, Morality. An Introduction to Ethics, Harper and Row, New York 1972 (trad. it. La moralità. Un’introduzione all’etica, Einaudi, Torino 2000, pp. 39-47).

(9) B. Williams, Moral Luck, Cambridge University Press, Cambridge 1981 (trad. it. Sorte morale, Il Saggiatore, Milano 1987); Ethics and the Limits of Philosophy, Fontana Press, London 1985 (trad. it. L’etica e i limiti della filosofia, Laterza, Roma-Bari 1987).

(10) P. Foot, Moral Beliefs (1958-59), in Id., Virtues and Vices and Other Essays in Moral Philosophy (1978), 2a ed., Clarendon, Oxford 2002, pp. 110-131, alla p. 127. Sullo sviluppo delle idee di Foot si veda il mio Non Basta l’umanità. Philippa Foot sulla bontà naturale, in “Iride”, 38, 2003, pp. 179-186.

(11) P. Foot, Morality as a System of Hypothetical Imperatives (1972), in Virtues and Vices, cit., pp. 157-173, alla p. 165.

(12) Sul nuovo interesse per l’approccio filosofico di Murdoch si vedano L.A. Blum, Moral Perception and Particularity, Cambridge University Press, Cambridge 1994, in particolare la prima parte; M. Antonaccio - W. Schweiker (a cura di), Iris Murdoch and the Search for Human Goodness, University of Chicago Press, Chiacgo 1996; M. Antonaccio, Picturing the Human: The Moral Thought of Iris Murdoch, Oxford University Press, Oxford 2000; AA.VV., Essays on the Moral and Political Philosophy of Iris Murdoch, in “Notizie di Politeia”, 18, 2002, pp. 5-101.

(13) I. Murdoch, Vision and Choice in Morality (1956), in Id., Existentialists and Mystics. Writings on Philosophy and Literature, Allen Lane, New York 1998, pp. 76-98, alla p. 82.

(14) I. Murdoch, The Sovereignty of Good, Routledge, London 1970, p. 37.

(15) I. Murdoch, Vision and Choice in Morality, cit., p. 95.

(16) I. Murdoch, Metaphysics and Ethics (1957), in Id., Existentialists and Mystics, cit., pp. 59-75, alla p. 75.

(17) Di J. McDowell si vedano i saggi etici in Mind, Value, and Reality, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1998.

(18) La contrapposizione tra Hare e questi autori ricalca in realtà anche le famiglie di interpretazioni che hanno dominato successivamente il panorama degli studi su Wittgenstein. L’importanza che Hare attribuiva al linguaggio in quanto dominato da regole trova riscontro nella vasta lettura in vari volumi della filosofia matura di Wittgenstein che hanno offerto ad es. P.M.S. Hacker e G.P. Baker (per una chiara enunciazione di questa idea si veda ad es. Wittgenstein. Rules, Grammar and Necessity, Blackwell, Oxford 1985, cap. II; ma si consideri il percorso autonomo che Baker ha intrapreso a un certo punto, con alcuni momenti di vicinanza con la lettura di Diamond, di cui dà conto il volume Wittgenstein’s Method: Neglected Aspects, a cura di K.J. Morris, Blackwell, Malden, Mass., 2004). Al contrario, l’idea che Anscombe esponeva nel suo saggio The Reality of the Past (1950, ora in Metaphysics and the Philosophy of Mind. Collected Philosophical Papers II, University of Minnesota Press, Minneapolis 1981, pp. 103-119) di ciò che significa applicare i metodi di Wittgenstein trova invece riscontro nel più recente gruppo di interpretazioni che si sono sviluppate attorno e in sintonia con il lavoro di Diamond (tra cui, tra gli altri, J. Conant, W. Goldfarb, M. Kremer, T. Ricketts).

(19) L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen. Philosophical Investigations (1953), 3a ed., a cura di G.E.M. Anscombe - R. Rhees, Blackwell, Oxford 1967 (trad. it. Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1983).

(20) Si v. S. Cavell, Notes and Afterthoughts on the Opening of Wittgenstein’s Investigations, in Id., Philosophical Passages: Wittgenstein, Emerson, Austin, Derrida, Blackwell, Oxford 1995, pp. 125-186. Questo testo riporta le lezioni che Cavell ha tenuto nell’arco di tre decenni dapprima a Berkeley e quindi a Harvard. Una rivisitazione di questi temi si trova in W. Goldfarb, I Want You to Bring Me a Slab: Remarks on the Opening Sections of the Philosophical Investigations, in “Synthese”, 56, 1983, pp. 265-282.

(21) Per la lettura di Wittgenstein si vedano i saggi raccolti in S. Cavell, Must We Mean What We Say? (1969), Cambridge University Press, Cambridge 1976; per interessanti connessioni con il pensiero di Diamond si veda The Claim of Reason. Wittgenstein, Skepticism, Morality, and Tragedy, Oxford University Press, Oxford 1979, parti 3 e 4 (trad. it. parziale La riscoperta dell’ordinario. La filosofia, lo scetticismo, il tragico, Carocci, Roma 2001; non include la parte 3).

(22) S. Cavell, Notes and Afterthoughts on the Opening of Wittgenstein’s Investigations, cit., p. 158.

(23) C. Diamond, Rules: Looking in the Right Place, in D.Z. Phillips - P. Winch (a cura di), Wittgenstein: Attention to Particulars. Essays in Honour of Rush Rhees (1905-89), Macmillan, London 1989, pp. 12-34.

(24) L. Wittgenstein, Zettel, a cura di G.E.M. Anscombe - G.H. von Wright, Blackwell, Oxford 1967, § 351 (trad. it. Zettel, Einaudi, Torino 1986).

(25) Su ciò si veda P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 147-153.

(26) C. Diamond, Anything but Argument?, in Id., The Realistic Spirit, cit., pp. 291-308, alla p. 298.

(27) C. Diamond, Having a Rough Story about What Moral Philosophy Is, in Id., The Realistic Spirit, cit., 367-381, alla p. 379.

(28) Per alcune precisazioni su queste concezioni etiche si veda il mio La filosofia morale, Laterza, Roma-Bari 2001. Si veda inoltre J. D’Arms - D. Jacobson, Sentiment and Value, in “Ethics”, 110, 2000, pp. 722-748.

(29) Si vedano Non-Cognitivism and Rule-Following; Virtue and Reason; Values and Secondary Qualities; Projection and Truth in Ethics, tutti riediti nel suo Mind, Value, and Reality, cit.

(30) L’espressione si trova in Non-Cognitivism and Rule-Following, cit., p. 213 (trad. it. Il non-cognitivismo e la questione del “seguire una regola”, in P. Donatelli - E. Lecaldano (a cura di), Etica analitica. Analisi, teorie, applicazioni, LED, Milano 1996, pp. 159-182).

(31) C. Diamond, Anything but Argument?, cit., p. 300.

(32) Si vedano M. Nussbaum, Love’s Knowledge. Essays on Philosophy and Literature, Oxford University Press, Oxford 1990; Poetic Justice. The Literary Imagination and Public Life, Beacon Press, Boston 1995 (trad. it. Il giudizio del poeta, Feltrinelli, Milano 1996). In Form and Content, Philosophy and Literature, in Love’s Knowledge, cit., pp. 3-53, Diamond accosta la propria posizione a quella di Diamond. Diamond discute Nussbaum nel suo Martha Nussbaum and the Need for Novels, in “Philosophical Investigations”, 16, 1993, pp. 128-153. Secondo Nussbaum: “Una visione della vita viene raccontata. Il raccontare stesso – la scelta del genere, delle strutture formali, delle frasi, del vocabolario, della modalità complessiva di rivolgersi al senso della vita del lettore – tutto ciò esprime un senso della vita e del valore, un senso di ciò che ha importanza e di ciò che non l’ha, di ciò che sono l’imparare e il comunicare, delle relazioni e delle connessioni che appartengono alla vita. La vita non è mai semplicemente presentata da un testo; è sempre rappresentata come un certo qualcosa” (p. 5). Ma la posizione di Nussbaum andrebbe vista nel suo complesso, ad es. sia nella sua tesi secondo cui quella che esplora è un’alternativa sia a Kant sia all’utilitarismo, sia nella diversa tesi secondo cui è l’aristotelismo (che Nussbaum legge nella scia del realismo interno di Hilary Putnam) che riesce a fornire il quadro che valorizza il ruolo della letteratura e l’importanza dello stile per il contenuto. Come vedremo più avanti (§ 9), Diamond è interessata a presentare la sua posizione proprio in quanto non è un’alternativa, ad es., a kantismo e utilitarismo, ma in quanto costituisce un’immagine significativamente differente di quali sono le alternative. Il secondo punto è complesso e concerne le differenze che si aprono all’interno di quella che potremmo caratterizzare come un’ampia famiglia di concezioni realiste interne. Su questo e altri punti (in relazione a Diamond) si veda J. Conant, Introduction, in H. Putnam, Words and Life, a cura di J. Conant, Harvard University Press, Cambridge 1994, pp. XI-LXXVI.

(33) Sulla varietà di metodi e di usi delle parole nella filosofia di Wittgenstein si veda S. Cavell, The Availability of Wittgenstein’s Later Philosophy, in Must We Mean What We Say?, cit., pp. 44-72; The Investigations’ Everyday Aesthetics of Itself, in Wittgenstein in America, cit., pp. 250-266. Si vedano inoltre i vari saggi in J. Gibson - W. Huemer (a cura di), The Literary Wittgenstein, Routledge, London 2004. Diamond è tornata sul significato della chiarificazione in filosofia nel suo recente Criss-Cross Philosophy, in E. Ammereller -E. Fischer (a cura di), Wittgenstein at Work: Method in the Philosophical Investigations, Routledge, London 2004, pp. 201-220.

(34) Pubblicato in L. Toker (a cura di), Commitment in Reflection, Garland, Hamden 1993, pp. 195-221.

(35) Si trova in Z. Herbert, Rapporto dalla città assediata, a cura di P. Marchesani, Adelphi, Milano 1993, pp. 217-218.

(36) C. Diamond, Truth: Defenders, Debunkers, Despisers, cit., p. 210.

(37) E. Lecaldano sottolinea come Diamond presenti la trasformazione emotiva come al contempo una forma di ragionamento nel suo Le emozioni morali e l’argomentazione in etica, in T. Magri (a cura di), Filosofia ed emozioni, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 135-163, in particolare p. 157.

(38) Una mossa analoga si trova in Anything but Argument?, cit., nei confronti delle posizioni kantiane di Onora O’Neill.

(39) Ma l’impressione che si ricava dalla lettura di quei saggi andrebbe comunque messa assieme alla lettura di Mind and World, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1994, in particolare pp. 78-86 (trad. it. Mente e mondo, Einaudi, Torino 1999), dove McDowell è meno interessato a fare uso della metafora empirista delle proprietà morali come qualità secondarie (come i colori) e sviluppa invece un’immagine più aristotelica.

(40) Per maggiori precisazioni sul significato di naturalismo qui si v. P. Donatelli, La teoria morale analitica: un bilancio degli ultimi venticinque anni, in Etica analitica, cit., pp. 9-133. Il lavoro di Anscombe è stato ripreso nella riflessione più recente di P. Foot, Rationality and Virtue e Does Moral Subjectivism Rest on a Mistake?, in Id., Moral Dilemmas and Other Topics in Moral Philosophy, Clarendon Press, Oxford 2002, pp. 159-174, 189-208; Natural Goodness, Clarendon Press, Oxford 2001; nel lavoro di M. Thompson: si veda ad es. The Representation of Life, in R. Hursthouse - G. Lawrence - W. Quinn (a cura di), Virtues and Reasons. Philippa Foot and Moral Theory, Clarendon Press, Oxford 1995, pp. 247-296; di R. Hursthouse, On Virtue Ethics, Oxford University Press, Oxford 1999; e di C. Vogler, Reasonably Vicious, Harvard University Press, Cambridge 2002. Su Anscombe si veda inoltre: R. Teichmann (a cura di), Logic, Cause and Action, Cambridge University Press, Cambridge 2000; A. O’Hear (a cura di), Modern Moral Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 2004.

(41) The Realistic Spirit, cit., pp. 319-334, alla p. 324.

(42) Anscombe è una figura importante per Diamond. Questo lavoro di rilettura e riappropriazione andrebbe verificato in molte aree del pensiero di Diamond. Essa ha presentato di recente un quadro della sua lettura della filosofia di Anscombe in Elizabeth Anscombe: Notes on Her Philosophy, ancora inedito.

(43) Op. cit., p. 38.

(44) Di Nussbaum si veda ad es. Non-Relative Virtues: An Aristotelian Approach, in M. Nussbaum - A. Sen (a cura di), The Quality of Life, Clarendon Press, Oxford 1993, pp. 242-269. Per una discussione di questo punto in Nussbaum rimando al mio Valore e possibilità di vita: Martha Nussbaum, in “Rivista di filosofia”, 92, 2001, pp. 97-119.

(45) La lettura che sto offrendo di questa linea del naturalismo è certamente controversa. Alcuni dei suoi sostenitori vogliono difenderla precisamente dal mio tipo di ricostruzione. McDowell offre gli strumenti per resistervi nel suo Two Sorts of Naturalism, in Virtues and Reasons, cit., pp. 149-179. M. Thompson difende Foot da questa lettura nel suo Tre gradi di bontà naturale, in “Iride”, 16, 2003, pp. 191-197; John Finnis difende in modo analogo Aristotele e Tommaso nel suo Natural Law and Natural Rights, Oxford University Press, Oxford 1992 (trad. it. Legge naturale e diritti naturali, Giappichelli, Torino 1996, pp. 84-85).

(46) I. Murdoch, Vision and Choice in Morality, cit., p. 82.

(47) I. Murdoch, Vision and Choice in Morality, cit., p. 84.

(48) Per una discussione di questi temi in aree non morali si veda C. Diamond, How Old Are the Bones? Putnam, Wittgenstein and Verification, in “Proceedings of the Aristotelian Society”, Suppl., 73, 1999, pp. 99-134.

(49) Ricerche filosofiche, cit., parte II, sezione XII.

(50) Questa linea filosofica di Diamond, il suo modo di concepire la critica filosofica e morale, e quindi la sua lettura di Wittgenstein, consente di mettere in luce possibili convergenze con altre linee filosofiche che hanno insistito sulla critica più che sul modello della fondazione trascendentale o su quello dell’accumulazione del sapere positivo. Un interessante confronto può essere condotto con alcuni momenti della riflessione di Michel Foucault. Si veda ad es. l’Introduzione a L’usage des Plaisirs, Gallimard, Paris 1984 (trad. it. L’uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano 1991, in particolare pp. 9-18). Si veda ad es. come Foucault riassume il suo approccio: “la posta consisteva nel sapere in quale misura il lavoro di pensare la propria storia può liberare il pensiero da ciò che esso pensa silenziosamente e permettergli di pensare diversamente” (p. 14). La filosofia come liberazione è un modo importante di ripensare Wittgenstein secondo Diamond: vedi Wittgenstein and Metaphysics, in The Realistic Spirit, cit., pp. 13-38. Un autore che lavora nelle vicinanze di questa prospettiva è Arnold I. Davidson. Si veda ad es. il suo The Emergence of Sexuality. Historical Epistemology and the Formation of Concepts, Harvard University Press, Cambridge 2001. Su Davidson letto in questa luce si veda il mio Davidson tra storia e critica dei concetti, in “Iride”, 18, 2005, pp. 433-437.

(51) La riflessione di Diamond aiuta a trattare una quantità di casi. Uno interessante è quello dell’incesto e la conseguente difficoltà di spiegare l’orrore verso l’incesto in termini di scelta autonoma e di razionalità sociale. Nel suo volume Sex and Reason (Harvard University Press, Cambridge 2002, trad. it. Sesso e ragione, Comunità, Milano 1995) Richard Posner ammette questo tipo di difficoltà ma trova una facile risposta nel sentimento inveterato di disgusto (cioè un sentimento irrazionale), che chiude la strada tuttavia a ogni possibilità di spiegazione (cfr. trad. it. cit., pp. 198-202).

(52) Diamond critica l’idea che le possibilità concettuali siano limitate dai nostri giochi linguistici in Unfolding Truth and Reading Wittgenstein, in “SATS - Nordic Journal of Philosophy”, 4, 2003, pp. 24-58.

(53) Ho cercato di sviluppare il significato di questo punto nel mio Concetti e critica morale, in “Bioetica”, 8, 2000, pp. 262-283.

(54) C. Diamond, The Realistic Spirit, cit., p. 27.