Etica & Politica/ Ethics & Politics, 2006, 1

http://www.units.it/etica/2006_1/DICIOTTI.htm

 

 

 

Le giustificazioni interpretative nella pratica dell’interpretazione giuridica

 

Enrico Diciotti

Dipartimento di scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali

Università di Siena

 

 

Abstract

 

The question at issue in the present essay is whether there is a reason to doubt the seemingly indubitable fact that the function of interpretive justifications of judges and lawyers is to show that certain interpretive judgments are correct. The conclusion is that there is a reason to doubt this fact: the reason is that judges and lawyers do not seem to attribute this function to their interpretive justifications, because their justifications do not have the content which is needed to perform such a function. Four theses are developed to support this conclusion. First, there are three meanings in which interpretive judgments could be said correct: grounded on facts; grounded on norms belonging to the legal system; grounded on moral norms. Second, an examination of interpretive argumentation indicates that interpretive judgments are to be conceived as moral judgments, whose correctness depends on moral norms. Third, to claim that an interpretive judgment is correct, the interpretive justification which is offered must have a premise that states a methodological principle, i.e. a moral norm prescribing a hierarchy of interpretive arguments to be used to attribute a meaning to legal texts. Fourth, the premise that states a certain methodological principle is a missing element in the interpretive justifications of judges and lawyers.

 

 

La questione che affronto in queste pagine è se sia possibile dubitare di un fatto che, da una certa prospettiva, appare innegabile, cioè del fatto che le giustificazioni interpretative avanzate da giudici e giuristi hanno lo scopo di mostrare che determinati giudizi interpretativi sono giusti (nel senso di ‘non sbagliati’). La mia conclusione è che di questo fatto è possibile dubitare, per la ragione che i giudici e i giuristi non sembrano avanzare per questo scopo le giustificazioni interpretative, in quanto tali giustificazioni non hanno il contenuto che dovrebbero avere per perseguire questo scopo. Per approdare a questa conclusione, in primo luogo distinguo tre sensi in cui i giudizi interpretativi potrebbero essere ritenuti giusti: giusti nel senso di veri, cioè corrispondenti a fatti; giusti nel senso di corretti, cioè fondati su norme vigenti nell’ordinamento giuridico; giusti nel senso di validi, cioè fondati su norme morali. In secondo luogo, sulla base di un esame dell’interpretazione giuridica, sostengo che i giudizi interpretativi sono giudizi morali, che possono essere detti giusti solo nel senso di validi. In terzo luogo, individuo le premesse che dovrebbero essere presenti in una giustificazione che intendesse mostrare la validità di un giudizio interpretativo: una di queste si riferisce al principio metodologico da adottare, cioè alla norma morale che indica gli argomenti dell’interpretazione utilizzabili e li pone in una gerarchia. Infine, metto in luce come questa premessa sia assente nelle giustificazioni interpretative effettivamente avanzate da giudici e giuristi.

 

 

1. Giudizi interpretativi e giustificazioni interpretative

 

Giudici, giuristi e avvocati si occupano di norme giuridiche, sostenendo che gli individui, dato il contenuto di queste norme, hanno determinati obblighi e diritti, o devono essere sottoposti a determinate sanzioni; i giudici, inoltre, applicano norme giuridiche quando prendono decisioni su casi concreti. Le norme giuridiche sono prescrizioni generali in gran parte contenute, almeno negli ordinamenti moderni (nei quali il diritto consuetudinario occupa uno spazio molto limitato), in documenti normativi prodotti da organi autorizzati. Quali siano i documenti contenenti le norme giuridiche valide, cioè, approssimativamente, quelle che i giudici sono tenuti ad applicare, non è in genere una questione controversa: in ogni ordinamento giuridico vi è cioè un certo pacifico accordo sulle fonti del diritto. (1) Quali siano le norme giuridiche valide, cioè quale contenuto abbiano esattamente le prescrizioni che i giudici sono tenuti ad applicare, è invece una questione spesso controversa: accade frequentemente, infatti, che giudici, giuristi e avvocati si trovino in disaccordo sull’esatto contenuto dei documenti normativi prodotti da organi autorizzati. Questi disaccordi consistono in controversie interpretative.

Il termine ‘interpretazione giuridica’ è usato in vari significati, (2) ma ai nostri fini stipulo che designi l’insieme delle attività intellettuali compiute per individuare le norme contenute nei documenti prodotti da organi autorizzati, cioè espresse dai testi di legge. (3) In base a questa stipulazione, ‘interpretazione giuridica’ si riferisce sia all’attività interpretativa in senso stretto, cioè all’attività svolta dai giuristi per attribuire un significato a uno o più enunciati legislativi, sia all’attività integrativa dei giuristi, cioè all’attività svolta da essi per colmare le lacune, o più in generale per individuare norme che non sono espresse da alcun enunciato legislativo, ma che, in qualche modo, possono essere ritenute implicite nei testi di legge. (4)

Giudici, giuristi e avvocati, affermando che un testo di legge contiene determinate norme (provviste di un determinato contenuto), esprimono un giudizio interpretativo. Chi esprime un giudizio interpretativo, così come chi esprime un giudizio di qualsiasi altro genere, pretende che ciò che dice sia, in qualche senso, giusto (intendendo ‘giusto’ come contrario di ‘sbagliato’) e che vi siano ragioni per mostrare che è giusto. (5) Queste pretese non devono essere concepite come necessariamente corrispondenti a effettive credenze di coloro che esprimono giudizi interpretativi; esse dipendono infatti da regole relative agli atti linguistici e sono necessariamente implicate dall’atto linguistico compiuto nell’esprimere un giudizio interpretativo (e, più in generale, ogni altro giudizio). (6)

Adducendo ragioni a sostegno di giudizi interpretativi, gli interpreti avanzano giustificazioni interpretative. (7) Le giustificazioni interpretative vertono su questioni in qualche misura dubbie o controverse, poiché non è sensato giustificare ciò che agli occhi di tutti appare pacifico; (8) in questo campo, tuttavia, le questioni dubbie o controverse sono tanto frequenti da verificarsi raramente il caso in cui un’affermazione sul contenuto di una o più norme di legge non appaia bisognosa di alcuna giustificazione.

In ogni cultura giuridica vi è un certo accordo sulle ragioni appropriate per sostenere giudizi interpretativi. Queste ragioni, dette argomenti dell’interpretazione, possono essere variamente distinte e classificate ricorrendo a criteri diversi e sono talvolta elencate, in liste parzialmente diverse l’una dall’altra, nei testi di teoria dell’interpretazione.(9) Ai nostri fini sarà sufficiente presentarne alcune, distinguendole in cinque gruppi:

 

1) Argomento del significato letterale, che l’interprete utilizza quando, per attribuire un determinato significato a un termine, richiama il significato in cui questo è usato nel linguaggio comune o in un linguaggio tecnico di cui fa parte. (10)

2) Argomenti psicologici, o della volontà del legislatore storico, che l’interprete utilizza quando, per attribuire un determinato significato a un testo di legge, richiama la volontà di colui o coloro che hanno prodotto il testo.(11) Si può assumere che appartengano a questo gruppo l’argomento dell’intenzione del legislatore, con il quale è richiamato il senso in cui il legislatore ha usato una o più parole contenute in un testo di legge, e l’argomento degli scopi del legislatore, con il quale sono richiamati gli scopi che il legislatore intendeva conseguire con l’emanazione delle norme espresse da un testo di legge. Secondo le convenzioni seguite dagli interpreti, intenzioni e scopi del legislatore sono principalmente testimoniati dai cosiddetti lavori preparatori (cioè, ad esempio, gli atti parlamentari).

3) Argomenti sistematici, che l’interprete utilizza quando, per attribuire un determinato significato a uno o più enunciati legislativi, richiama il contenuto di altri enunciati legislativi o testi di legge.(12) Appartengono a questo gruppo: l’argomento della costanza terminologica, utilizzato per attribuire a un termine contenuto in un enunciato legislativo il significato che lo stesso termine esprime in un altro o in altri enunciati legislativi; l’argomento della coerenza del dettato legislativo, utilizzato per attribuire a due enunciati legislativi, che a prima vista sembrino esprimere norme contrastanti, significati in cui esprimono norme non contrastanti; l’argomento della conformità delle norme ai principi costituzionali, utilizzato per attribuire a un enunciato della legge ordinaria, che a prima vista sembri esprimere una norma contrastante con un principio della costituzione, un significato in cui esprime una norma non contrastante con quello; l’argomento della conformità delle norme ai principi del diritto, utilizzato per attribuire a un enunciato legislativo un significato in cui esprime una norma non contrastante con un principio del diritto, intendendo con ‘principio del diritto’ una norma, espressa da un testo di legge o implicita in esso, provvista di un particolare grado di generalità o di una particolare rilevanza in termini di valore; l’argomento economico, utilizzato per attribuire a due enunciati legislativi, che a prima vista sembrino esprimere la stessa norma, significati in cui esprimono norme diverse.

4) L’argomento teleologico, che l’interprete utilizza quando, per attribuire un significato a uno o più enunciati legislativi, richiama lo scopo per cui ragionevolmente deve essere applicata la norma espressa da tali enunciati. (13)

5) Gli argomenti integrativi, che l’interprete utilizza quando richiama ragioni in base alle quali si può ritenere che i testi di legge contengano implicitamente una norma che, in effetti, non è espressa da alcun enunciato legislativo o insieme di enunciati legislativi. Argomenti di questo genere sono utilizzati per individuare principi inespressi del diritto, applicabili a casi concreti e/o utilizzabili per attribuire significati a enunciati legislativi (nell’ambito dell’interpretazione condotta con argomenti sistematici), oppure per individuare norme da applicare a casi concreti, quando vi sia una lacuna, cioè quando si presenti un caso non disciplinato da norme espresse da enunciati legislativi. Se ci limitiamo a trattare degli argomenti integrativi utilizzati per colmare lacune, possiamo distinguere: l’argomento a contrario, utilizzato per attribuire a un caso non espressamente disciplinato una disciplina contraria a quella espressamente prevista per casi più o meno simili a quello (tipicamente, per sostenere che è permesso un comportamento non espressamente vietato); l’argomento analogico, utilizzato per attribuire a un caso non espressamente disciplinato la stessa disciplina che è espressamente prevista per casi simili a quello. (14)

Un aspetto importante degli argomenti dell’interpretazione è che molto spesso, o forse addirittura in ogni circostanza, argomenti dell’interpretazione differenti possono essere addotti per giustificare giudizi interpretativi contrastanti. Ciò è evidente per gli argomenti integrativi, poiché l’argomento a contrario e l’argomento analogico possono sempre essere utilizzati per giustificare giudizi interpretativi contrastanti, ma è abbastanza chiaro anche per gli altri argomenti dell’interpretazione: può infatti accadere che il significato letterale di un termine sia parzialmente diverso dal significato in cui questo è stato usato dal legislatore; che il significato in cui il legislatore ha espresso un enunciato sia diverso dal significato che questo assume ove sia inteso in conformità ai principi costituzionali; ecc. A ciò si può aggiungere che vi sono argomenti dell’interpretazione che possono essere usati in modo tale da fornire una giustificazione di giudizi interpretativi contrastanti: uno di questi è ad esempio l’argomento teleologico, poiché la questione di quali siano gli scopi ragionevoli di una norma può spesso essere risolta in modi diversi da interpreti diversi. (15)

 

 

2. Due questioni: lo scopo delle giustificazioni interpretative e il senso dei giudizi interpretativi

 

Almeno da un certo punto di vista, la questione del senso o dello scopo delle giustificazioni interpretative appare provvista di un’ovvia soluzione. Una giustificazione interpretativa può essere avanzata da un interprete per conseguire gli scopi più diversi (prendere una buona decisione riguardo a un caso concreto, mettere in luce la propria abilità, vincere una causa, ecc.), ma vi è uno scopo che essa inevitabilmente presenta: quello determinato dalla pretesa di giustezza che accompagna il proferimento dei giudizi interpretativi, cioè quello di mostrare che un giudizio interpretativo è giusto (nel senso di non sbagliato). (16) Infatti, non è chiaro come si potrebbe sostenere qualcosa di diverso, e ciò per quanto concerne sia le giustificazioni interpretative sia ogni altra giustificazione. Se prendiamo una qualsiasi giustificazione che faccia discendere un giudizio G da un insieme di ragioni A, B e C, non sembra che vi siano circostanze in cui l’autore della giustificazione potrebbe sensatamente affermare: «Credo che A, B e C, e credo che A, B e C implichi G, ma non intendo mostrare che G è giusto per le ragioni A, B e C»: (17) ciò per il fatto che credere qualcosa significa ritenere che qualcosa sia giusto (vero o valido), e non è chiaro in che senso qualcuno potrebbe esprimere le ragioni per cui qualcosa è, a suo parere, giusto, senza voler mostrare che è giusto. E, se non vi sono circostanze in cui questa affermazione appare sensata, allora non vi sono circostanze in cui il proferimento di una giustificazione non si accompagna allo scopo di mostrare che un certo giudizio è giusto.

L’idea secondo cui le giustificazioni interpretative hanno lo scopo di mostrare che un determinato giudizio interpretativo è giusto non implica evidentemente che ogni interprete si ponga effettivamente tale scopo nell’avanzare giustificazioni interpretative, né che tale scopo sia effettivamente conseguito da qualche giustificazione interpretativa. Questa idea, pertanto, non può essere respinta adducendo il fatto che alcuni interpreti non si pongono di fatto tale scopo nell’avanzare giustificazioni interpretative, o il fatto che tale scopo non è effettivamente conseguito dalle giustificazioni interpretative avanzate.

Ma non vi è nessun fatto che possa indurre a respingere quest’idea?

Bisogna qui notare che una completa disattenzione sul comportamento effettivo degli individui può produrre fraintendimenti del senso o della funzione dei loro atti linguistici. Prendiamo un’interrogazione che frequentemente gli individui si scambiano quando si incontrano, spesso nel darsi la mano: «Come stai?». Un’interrogazione ha lo scopo di indurre l’individuo cui è rivolta a fornire informazioni di un certo genere; eppure sarebbe sbagliato asserire che questo è lo scopo o la funzione della domanda «Come stai?». Di fatto, coloro che si scambiano questa domanda, o altre analoghe, mostrano di non intenderla in questo modo; solitamente (anche se vi sono significative eccezioni) non rispondono alla domanda informando l’interlocutore di tutti i piccoli malesseri di cui hanno sofferto ultimamente; in altri termini, in un certo senso mostrano di non prendere la domanda sul serio. D’altra parte, la spiegazione del loro comportamento è semplice: la domanda che pongono dipende da specifiche convenzioni da essi condivise, che indicano i doveri della buona educazione e della cortesia. Il senso di «Come stai?» deve cioè essere inteso nell’ambito della pratica sociale della cortesia; il suo scopo o funzione è determinato dalle convenzioni di questa pratica e non dalle convenzioni linguistiche relative all’atto dell’interrogazione.

Ebbene, l’idea secondo cui le giustificazioni interpretative sono discorsi aventi lo scopo di mostrare che determinati giudizi interpretativi sono giusti non apparirebbe quanto meno problematica qualora si accertasse che il comportamento effettivo degli interpreti non è coerente con essa, cioè che gli interpreti mostrano di non prendere sul serio le pretese che sembrano accompagnarsi al proferimento delle giustificazioni interpretative? Se si accertasse questo, non vi sarebbe una ragione per asserire che in effetti gli interpreti non intendono le giustificazioni interpretative come discorsi aventi lo scopo di mostrare che determinati giudizi interpretativi sono giusti, ossia una ragione per ritenere che la pratica giuridica di giustificare i giudizi interpretativi dipenda da regole o convenzioni condivise in base alle quali queste giustificazioni hanno altri scopi o funzioni? (18)

Non pretendo di dare qui una risposta soddisfacente a queste domande. Mi propongo però di sollevare qualche dubbio sull’idea che le giustificazioni interpretative abbiano lo scopo di mostrare che determinati giudizi interpretativi sono giusti, mettendo in luce che il comportamento degli interpreti non è coerente con quest’idea. Mi propongo infatti di mettere in luce il fatto che le giustificazioni interpretative non presentano i caratteri che dovrebbero presentare se davvero gli interpreti intendessero tali giustificazioni, le proprie e le altrui, come discorsi aventi lo scopo di mostrare che determinati giudizi interpretativi sono giusti.

Quali siano le caratteristiche che le giustificazioni interpretative dovrebbero presentare se, quali prodotti di una pratica sociale, avessero tale scopo, è una questione che diverrà più chiara in seguito. Per adesso, però, si deve osservare che agire in vista di tale scopo significa svolgere un’attività sociale, nella quale deve essere rivolta attenzione alle ragioni, ai dubbi e alle obiezioni avanzati da coloro cui la giustificazione è indirizzata; non sarebbe infatti sensato affermare: «Intendo mostrarvi che il giudizio G è giusto, ma non intendo in alcun modo rispondere ai vostri dubbi e alle vostre obiezioni riguardo alla questione se G sia giusto». Ciò rende l’attività di giustificare un’attività tendenzialmente cooperativa, tramite la quale i parlanti partecipano a una più ampia discussione svolta allo scopo di individuare concordemente i giudizi giusti che forniscono una soluzione di questioni di interesse comune.

Dunque, se gli interpreti partecipassero alla pratica giuridica di giustificare giudizi interpretativi allo scopo di mostrare la giustezza di questi, le loro giustificazioni dovrebbero poter essere concepite come i discorsi di singoli partecipanti a una discussione comune condotta al fine di individuare concordemente i giudizi interpretativi giusti. Cioè dovrebbero poter essere concepite nello stesso modo in cui sono concepibili i discorsi degli scienziati della natura, i quali discorsi, pur avendo sovente lo scopo di sostenere e giustificare ipotesi contrapposte, possono essere visti come elementi di una discussione condotta per il conseguimento di uno scopo condiviso: individuare le ipotesi scientifiche meglio fondate o vere. (19) E per poter concepire una pluralità di giustificazioni interpretative come elementi di una discussione condotta tra più soggetti al fine di individuare il giudizio interpretativo giusto, ossia l’“effettivo” contenuto di un testo di legge, è necessario che tali giustificazioni tengano conto, in qualche modo, l’una dell’altra: ad esempio che la giustificazione avanzata a sostegno del giudizio interpretativo G1 tenga conto della giustificazione precedentemente avanzata a sostegno del giudizio interpretativo G2, contrastante con G1, cioè che le ragioni addotte a sostegno di G2 siano prese in considerazione dalla giustificazione avanzata a sostegno di G1.

Per affrontare la questione se le giustificazioni interpretative, dato il modo in cui solitamente si presentano, possano essere concepite come discorsi aventi lo scopo di mostrare la giustezza di un giudizio interpretativo, bisogna anzitutto chiarire in che cosa consista la giustezza di un giudizio interpretativo, cioè che cosa significhi l’affermazione che un giudizio interpretativo è giusto, o quali requisiti siano richiesti a un giudizio interpretativo per essere detto giusto. (20) Domandarsi in che cosa consista la giustezza di un giudizio interpretativo equivale a domandarsi quali siano i caratteri delle questioni interpretative, cioè delle questioni del contenuto dei testi di legge.

Le questioni interpretative possono essere concepite essenzialmente in due modi: o come questioni teoriche, cioè questioni relative al modo in cui stanno le cose, o come questioni pratiche, cioè questioni relative al modo in cui le cose devono stare o sarebbe bene che stessero, ovvero al comportamento che uno o più individui devono tenere o sarebbe bene che tenessero. (21) Concepirle come questioni teoriche significa ritenere che, di fatto, i testi di legge contengano determinate norme e che questo contenuto possa essere oggetto di conoscenza. Concepirle come questioni pratiche significa ritenere che gli interpreti non possano determinare il contenuto dei testi di legge se non applicando norme o tenendo conto di valori di un certo genere. Concepirle come questioni pratiche non comporta però necessariamente ritenere che gli interpreti creino, in qualche misura, norme giuridiche; infatti, le norme o i valori che gli interpreti devono applicare o di cui devono tener conto possono essere concepiti in due modi: o come, in qualche senso, interni al diritto, oppure come esterni al diritto, cioè – e lo vedremo meglio in seguito – come norme o valori morali.

Dunque, vi sono fondamentalmente tre sensi in cui i giudizi interpretativi potrebbero essere detti, a seconda dei casi, giusti o sbagliati. Dire giusto un giudizio interpretativo equivale a dirlo: in un primo senso, vero, in quanto corrispondente a fatti o comunque fondato su fatti; in un secondo senso, corretto, in quanto fondato su regole o convenzioni accettate e, dunque, vigenti nella comunità giuridica; in un terzo senso, valido, in quanto fondato su “fatti morali”, su norme o valori morali “oggettivamente” esistenti, cioè esistenti a prescindere dalla loro accettazione in una qualche comunità, o comunque su norme e valori che ogni individuo razionale dovrebbe accettare o accetterebbe in determinate condizioni ideali.

Varie sono le concezioni dell’attività interpretativa che possono legarsi a queste concezioni della giustezza dei giudizi interpretativi. Tuttavia, qui sarà sufficiente ribadire che la prima e la seconda concezione della giustezza dei giudizi interpretativi si legano a concezioni dell’attività interpretativa secondo cui questa consiste in un’attività di individuazione di norme giuridiche, per così dire, già date. La terza concezione della giustezza dei giudizi interpretativi, invece, si lega a una concezione dell’attività interpretativa come attività, almeno in qualche misura, creativa di norme giuridiche.

 

 

3. L’interpretazione giuridica come conoscenza della volontà del legislatore

 

L’idea che l’attività interpretativa consista esclusivamente in un’attività di conoscenza di norme giuridiche ha avuto in passato una notevole diffusione e in certi periodi è stata dominante nella cultura giuridica occidentale. Sebbene essa possa essere proposta in più di una versione, (22) qui intendo accennare unicamente alla versione che ha riscosso maggiore fortuna: quella secondo cui l’attività interpretativa consiste in un’attività di conoscenza della volontà del legislatore. (23) Questa concezione può essere chiarita distinguendone i seguenti assunti: il solo organo che può produrre norme giuridiche è il legislatore (l’organo della legislazione); le norme giuridiche dipendono dunque dalla volontà del legislatore; il legislatore esprime la propria volontà nei testi di legge; dunque, l’interpretazione della legge non può che consistere in un’attività di conoscenza della volontà del legislatore.

Questa concezione non può evidentemente escludere che un singolo interprete avanzi il giudizio interpretativo che gli sembri soddisfare meglio i propri interessi o il proprio senso di giustizia, piuttosto che quello che ritenga conforme alla volontà del legislatore. Ciò che, almeno a prima vista, sembra sensatamente in grado di sostenere è che, quali che siano le motivazioni e le intenzioni di singoli interpreti, avanzare un giudizio interpretativo significhi pretendere che questo giudizio sia giusto (cioè, non sbagliato) e che tale giustezza possa essere intesa unicamente come corrispondenza del giudizio alla volontà del legislatore.

Secondo questa concezione, le questioni interpretative sono questioni teoriche, cioè questioni relative a fatti. I giudizi interpretativi, che forniscono una risposta a tali questioni, sono veri o falsi e, dunque, tipicamente provvisti della seguente formulazione: «Il testo di legge T (un enunciato legislativo o una pluralità di enunciati legislativi) ha il contenuto N (una norma espressa da uno o più enunciati legislativi o implicita nel testo)», tenendo presente che tale formulazione ha il seguente senso: «Il legislatore ha espresso, tramite il testo T, la propria volontà di produrre la norma N». Infine, le giustificazioni interpretative sono giustificazioni teoriche, che indicano le ragioni per cui si possono ritenere veri determinati giudizi interpretativi, ossia le ragioni per cui si può ritenere che davvero i fatti stiano nei modi in cui tali giudizi li rappresentano.

Una concezione di questo genere può ammettere che più o meno spesso sia difficile sapere quale norma il legislatore intendesse precisamente produrre, essendo gli indizi della sua volontà molteplici e contrastanti, oppure scarsi ed evanescenti. Quando ciò accada, gli interpreti saranno costretti ad affidarsi a congetture provviste talvolta di un fondamento assai debole e sarà possibile che sorgano controversie interpretative. Infatti, pur in mancanza di indizi affidabili, gli interpreti dovranno in qualche modo risolvere la questione interpretativa, adottando uno dei giudizi interpretativi possibili, e potrà facilmente accadere che finiscano con l’adottare giudizi interpretativi contrastanti, tra i quali non sarà possibile distinguere con certezza il vero dai falsi.

Vari sono i modi in cui questa concezione può essere respinta. Anzitutto, può essere respinta la teoria del diritto su cui si basa, e più precisamente l’idea che le norme di legge consistano nel contenuto della volontà del legislatore. (24) Inoltre, può essere messa in dubbio l’ontologia che essa presuppone, cioè l’idea che vi sia, quale fatto del mondo reale, una volontà del legislatore che sempre consenta di precisare il contenuto delle norme giuridiche. A questo proposito mi limito a ricordare le note obiezioni che mettono in evidenza come il cosiddetto legislatore sia in effetti costituito, almeno negli ordinamenti giuridici moderni, da un insieme di individui che fanno parte di forze politiche diverse; come alcune di queste forze politiche, pur componendo il corpo legislativo, di fatto manifestino frequentemente una volontà contrastante con quella della legge, opponendosi all’approvazione di essa; come le forze politiche che approvano una legge, la approvino spesso con intendimenti e per scopi differenti; come accada che la maggior parte degli individui che votano a favore di una legge faccia ciò solo per disciplina di partito e avendo solo un’idea piuttosto vaga del contenuto della legge; come sia possibile che si presentino agli interpreti casi che non siano stati immaginati da nessuno di coloro che parteciparono all’approvazione di una legge e riguardo ai quali, dunque, è impossibile che qualche membro del corpo legislativo avesse una qualsivoglia volontà. (25)

Qui, però, tralascerò queste obiezioni, per affrontare una questione in parte diversa: le giustificazioni interpretative, dato il loro effettivo contenuto, possono essere concepite come giustificazioni teoriche aventi lo scopo di mostrare che il legislatore ha manifestato, tramite un determinato testo di legge, una determinata volontà? E, più in generale, l’interpretazione giuridica, dato il modo in cui effettivamente si svolge, può essere concepita come un’attività di conoscenza della volontà del legislatore?

Ebbene, la risposta a queste domande è ragionevolmente negativa.

Anzitutto, si può osservare che molti degli argomenti dell’interpretazione che prima ho elencato, e che vengono comunemente utilizzati dagli interpreti, non fanno riferimento alla volontà del legislatore, cioè dell’autore effettivo del testo oggetto di interpretazione. È vero che alcuni di questi argomenti potrebbero anche essere intesi come argomenti che, in qualche modo, fanno riferimento a indizi della volontà del legislatore: può essere inteso così l’argomento del significato letterale, ove si supponga che il legislatore solitamente usi le parole contenute nei testi di legge nel significato in cui queste sono comunemente usate dagli altri parlanti; può essere inteso così l’argomento della costanza terminologica, ove si supponga che il legislatore usi una stessa parola sempre nello stesso significato; ecc. Però, anche se questo è vero, si deve rilevare che non tutti gli argomenti dell’interpretazione possono essere concepiti in questo modo, e anche alcuni di quelli che possono essere concepiti così, possono esserlo solo in alcuni dei loro possibili usi. Per limitarmi a un esempio, non può essere concepito così l’argomento della conformità delle norme ai principi costituzionali, quando sia usato per attribuire un significato a testi di legge prodotti precedentemente all’entrata in vigore della costituzione. Infatti, a meno di credere che il legislatore fosse provvisto di doti di preveggenza, non si può ritenere che egli avesse voluto produrre norme conformi al contenuto di una costituzione non ancora venuta ad esistenza.

Inoltre, si deve notare quanto segue: se l’interpretazione giuridica consistesse in un’attività di conoscenza della volontà del legislatore, dovrebbe accadere che, almeno nella maggior parte dei casi, gli interpreti assegnassero la maggiore rilevanza agli argomenti che indicano gli indizi più certi di questa volontà, cioè le dichiarazioni e i discorsi contenuti nei lavori preparatori. Ma ciò non accade. Almeno finché si guardi al modo in cui effettivamente procede la pratica interpretativa, il contenuto del lavori preparatori non può essere considerato decisivo per l’attribuzione di un determinato contenuto ai testi di legge, perché gli interpreti fanno spesso prevalere su di esso altre considerazioni, cioè altri argomenti dell’interpretazione, che apparentemente non hanno nulla a che fare con la volontà del legislatore, o che nel migliore dei casi possono essere concepite come indicazioni di indizi piuttosto deboli di questa volontà. (26)

Da ciò segue che la pratica dell’interpretazione giuridica non può ragionevolmente essere concepita come un insieme di attività accomunate dallo scopo della conoscenza della volontà del legislatore. Pertanto, le giustificazioni interpretative non possono essere ragionevolmente concepite come giustificazioni teoriche aventi lo scopo di mostrare che il legislatore ha manifestato, tramite un determinato testo di legge, una determinata volontà.

 

 

4. L’interpretazione giuridica come conoscenza della volontà del legislatore ideale

 

L’idea che l’interpretazione giuridica consista in un’attività di conoscenza della volontà del legislatore potrebbe però essere proposta in una diversa versione, assumendo che la volontà cui fanno riferimento gli interpreti non sia quella del legislatore che effettivamente ha prodotto il testo di legge interpretato, cioè quella degli autori reali di questo testo, ma sia quella di un ipotetico legislatore razionale, (almeno entro certi limiti) giusto e (apparentemente) onnisciente, cioè di un legislatore ideale, (27) di un autore fittizio dei testi di legge provvisto di un insieme di proprietà che non appartiene a nessun individuo effettivamente esistente. (28)

Questa concezione non trova un ostacolo nell’eterogeneità degli argomenti dell’interpretazione, poiché ognuno di questi può in qualche modo essere considerato relativo a indizi della volontà di un legislatore ideale. (29) Per fare qualche esempio, l’argomento del significato letterale può essere considerato relativo a indizi della volontà del legislatore ideale, perché si può assumere che il legislatore ideale intenda esprimersi in un linguaggio condiviso; nello stesso modo può essere concepito l’argomento della conformità delle norme ai principi costituzionali, perché si può assumere che il legislatore ideale intenda produrre norme conformi ai principi della costituzione; nello stesso modo può essere concepito l’argomento teleologico, perché si può assumere che il legislatore ideale intenda produrre norme adeguate per il conseguimento di scopi ragionevoli o giusti; ecc.

Anche questa concezione, però, non sembra accettabile. Infatti, è qui necessario scegliere una delle seguenti tesi: o gli interpreti condividono una stessa idea del legislatore ideale, oppure non la condividono. La prima tesi consente di sostenere che l’interpretazione giuridica consista unicamente nella conoscenza della volontà di qualcuno, ma ragionevolmente deve essere respinta; la seconda tesi, che invece pare corretta, non consente di sostenere che l’interpretazione giuridica consista unicamente nella conoscenza della volontà di qualcuno. Vediamo di chiarire questo punto.

Se gli interpreti convengono su una determinata figura (fittizia) di autore dei testi di legge, allora essi, avanzando argomenti dell’interpretazione diversi a sostegno di giudizi interpretativi contrastanti, adducono semplicemente indizi diversi della volontà di questo autore di dire determinate cose tramite gli enunciati che compongono i testi di legge. Essi, cioè, dissentono unicamente sulla risposta da dare a questa domanda: se l’autore dei testi di legge fosse un soggetto provvisto dei caratteri A, B e C, che cosa avrebbe inteso dire tramite questi testi?

Ebbene, l’idea che gli interpreti dissentano solo sulla risposta da dare a questa domanda sembra tutt’altro che ragionevole. In primo luogo, pare improbabile che gli interpreti concordino tacitamente su una stessa figura di autore fittizio dei testi di legge (in che modo può essersi formato un accordo di questo genere? e perché non è mai stato reso palese? e perché nessun interprete non ha mai esposto il contenuto dell’accordo, cioè espressamente indicato i caratteri di questa figura di autore fittizio?). In secondo luogo, le controversie interpretative, per il modo in cui effettivamente si presentano, sembrano smentire che questo accordo vi sia. Si deve infatti osservare – come già abbiamo fatto poc’anzi – che i diversi argomenti dell’interpretazione, se concepiti come relativi a indizi della volontà di un autore fittizio, presuppongono caratteri diversi di tale autore: ad esempio, l’argomento del significato letterale presuppone che il legislatore ideale si esprima in un determinato linguaggio, mentre l’argomento teleologico presuppone che il legislatore ideale emani, tramite i testi di legge, norme adeguate per il conseguimento di scopi ragionevoli o giusti. Ebbene, se l’uso di argomenti diversi si accompagna alla presunzione che l’autore dei testi di legge abbia caratteri differenti, allora si deve concludere che gli interpreti, quando ricorrono ad argomenti diversi per giustificare giudizi interpretativi contrastanti, presuppongano figure differenti del legislatore ideale: ad esempio, da una parte la figura di un legislatore ideale che sempre si esprime in un linguaggio condiviso dagli altri parlanti; dall’altra parte la figura di un legislatore ideale che talvolta utilizza le parole in un significato peculiare, diverso da quello in cui sono comunemente usate dagli altri parlanti, ma che sempre produce norme adeguate per il conseguimento di scopi ragionevoli o giusti.

Dunque, non sembra sostenibile che tutti gli interpreti svolgano la loro attività per rispondere a una stessa domanda così formulata: «Se l’autore dei testi di legge fosse un soggetto provvisto dei caratteri A, B e C, che cosa avrebbe inteso dire tramite questi testi?» Ove si voglia raffigurare l’interpretazione come un’indagine sulla volontà di un autore fittizio, bisogna assumere non vi sia un accordo sui caratteri di quest’autore e che l’indagine di interpreti diversi abbia ad oggetto la volontà di autori fittizi differenti.

Ma, se si ammette che l’indagine di interpreti diversi abbia ad oggetto la volontà di autori fittizi differenti, diviene insostenibile la concezione secondo cui l’interpretazione giuridica consiste unicamente nella conoscenza della volontà di qualcuno.

Infatti, se gli interpreti si occupassero unicamente della volontà di autori fittizi provvisti di caratteri differenti, l’interpretazione giuridica non potrebbe essere considerata come una pratica comune degli interpreti. Essi condurrebbero imprese conoscitive diverse, non avrebbero nulla da obiettare l’uno all’altro e l’idea stessa che l’uso di argomenti dell’interpretazione differenti possa dar luogo a controversie interpretative dovrebbe essere abbandonata: vi sarebbero controversie di questo genere solo quando gli interpreti, utilizzando gli stessi argomenti dell’interpretazione, presupponessero una stessa figura di autore fittizio dei testi di legge. Quando ciò non accadesse gli interpreti, pur attribuendo contenuti diversi a uno stesso testo di legge, avanzerebbero giudizi interpretativi non contrastanti, perché (eventualmente) veri in quanto corrispondenti a fatti diversi e congiuntamente possibili: ad esempio, da una parte il fatto che un legislatore ideale provvisto dei caratteri A, B, C e D avrebbe inteso esprimere, tramite il testo di legge T, la norma N1; dall’altra parte il fatto che un legislatore ideale provvisto dei caratteri A, B, C ed E avrebbe inteso esprimere, tramite il testo di legge T, la norma N2.

Inutile dire che quest’immagine dell’interpretazione giuridica male si accorda con il modo in cui la pratica interpretativa sembra effettivamente svolgersi; gli interpreti, infatti, non sembrano disposti ad ammettere che tra di essi non vi siano dissensi e sembrano invece animati dalla volontà di opporsi ad attribuzioni di significato che mostrano di non condividere. Essi, dunque, oltre a riferirsi a figure diverse del legislatore ideale, sembrano anche manifestare un disaccordo sui caratteri che dovrebbero essere attribuiti alla figura del legislatore ideale. In altri termini, sembrano ritenere che vi sia una risposta giusta (nel senso di non sbagliata) alla questione dei caratteri che dovrebbero essere assegnati alla figura del legislatore ideale, pur non trovandosi d’accordo sul contenuto di questa risposta.

 

 

5. L’interpretazione come applicazione di regole giuridiche

 

Nel secondo paragrafo ho chiarito che concepire le questioni interpretative come questioni pratiche non comporta necessariamente ritenere che gli interpreti creino, in qualche misura, norme giuridiche. Infatti, è possibile che le norme o i valori che gli interpreti applicano o di cui tengono conto per rispondere a tali questioni siano concepibili, per il fatto di essere generalmente condivisi da coloro che operano all’interno della comunità giuridica, come interni al diritto.

La tesi che l’interpretazione sia disciplinata da regole che, per la loro effettiva vigenza nella comunità giuridica, possono essere considerate parte del diritto della comunità, potrebbe da un certo punto di vista apparire plausibile. Gli interpreti, infatti, sembrano effettivamente condividere l’idea che alcune ragioni, ovvero alcuni argomenti dell’interpretazione, e non altre siano appropriate per attribuire un contenuto ai testi di legge, e dunque per giustificare i giudizi interpretativi. E, se condividono quest’idea, si può allora assumere che accettino un’insieme di regole che indicano il modo in cui l’interpretazione giuridica deve essere condotta. (30)

La tesi che gli interpreti sono vincolati da regole giuridiche dell’interpretazione non consente però da sola di sostenere che gli interpreti non creano diritto. Per sostenere questo è necessaria anche un’altra tesi: quella secondo cui l’applicazione di queste regole è sufficiente per dare una risposta corretta alle questioni interpretative.

Soltanto se l’applicazione di regole dell’interpretazione interne al diritto fosse sufficiente per dare una risposta alle questioni interpretative, si potrebbe asserire che il contenuto delle norme espresse dai testi di legge è determinato dal diritto stesso e non dall’attività creativa degli interpreti, così come si può asserire che il risultato di una somma o una sottrazione è determinato dalle regole della matematica e non da un’attività creativa di chi materialmente lo scrive su un foglio di carta. Soltanto in questo caso sarebbe possibile distinguere, in ogni possibile insieme di giudizi interpretativi contrastanti, un solo giudizio corretto, in quanto effettivamente implicato da quelle regole.

Ebbene, l’idea che le regole dell’interpretazione condivise dagli interpreti siano sufficienti per dare sempre una risposta corretta alle questioni interpretative non è certamente sostenibile. Ove si assuma che gli interpreti condividano un insieme di regole dell’interpretazione, non si potrà poi negare che queste regole implicano una pluralità di giudizi interpretativi contrastanti e non, tranne forse in alcuni casi, un giudizio interpretativo corretto.

Come ho già detto, infatti, è vero che gli interpreti utilizzano determinati argomenti dell’interpretazione, mostrando di essere d’accordo sull’adeguatezza di questi; ma è anche vero che gli interpreti utilizzano argomenti dell’interpretazione diversi per giustificare giudizi interpretativi contrastanti. Pertanto, se il contenuto delle regole dell’interpretazione accettate dagli interpreti deve desumersi dall’attività degli interpreti, bisogna concludere che queste regole indicano un insieme di argomenti dell’interpretazione appropriati per giustificare giudizi interpretativi, ma che vi sono questioni interpretative alle quali esse non sono in grado di fornire un’unica risposta. In altri termini, queste regole si limitano a consentire l’uso di un insieme di argomenti dell’interpretazione, senza stabilire quale o quali argomenti, tra quelli che fanno parte dell’insieme, debbano essere utilizzati quando argomenti differenti implichino giudizi interpretativi contrastanti.

Quindi, si può ritenere che vi siano regole dell’interpretazione vigenti nella comunità giuridica, e dunque interne al diritto; però, non si può ritenere che queste regole siano congiuntamente configurabili come un principio metodologico dell’interpretazione, cioè come un principio che, oltre a indicare gli argomenti dell’interpretazione utilizzabili, stabilisca una gerarchia di questi argomenti, indicando quale argomento o quali argomenti debbano prevalere sugli altri quando argomenti differenti implichino giudizi interpretativi contrastanti. (31)

Se vogliamo pensare all’interpretazione come a un’attività interamente soggetta a regole, dobbiamo allora assumere che ogni interprete, nell’avanzare un giudizio interpretativo, si basi su uno dei molti principi metodologici dell’interpretazione possibili, dato l’insieme degli argomenti dell’interpretazione che sono ritenuti utilizzabili nella comunità giuridica. Inoltre, considerando il fatto che ogni interprete pretende che il proprio giudizio interpretativo sia giusto (cioè non sbagliato), dobbiamo assumere che ogni interprete, nell’avanzare un giudizio interpretativo, implicitamente pretenda che sia da applicare il principio metodologico che implica tale giudizio e non un altro principio metodologico.

La conclusione del precedente paragrafo è stata che gli interpreti manifestano, nelle controversie interpretative, un disaccordo sui caratteri da attribuire al legislatore ideale, cioè a una figura fittizia per la conoscenza della cui volontà si può assumere che sia condotta l’interpretazione giuridica. La conclusione di questo paragrafo è invece che gli interpreti manifestano, nelle controversie interpretative, un disaccordo sul principio metodologico dell’interpretazione da seguire, cioè sul principio che stabilisce una gerarchia degli argomenti dell’interpretazione il cui uso è ammesso nella comunità giuridica. Poiché un disaccordo sui caratteri del legislatore ideale, così come un disaccordo sul principio metodologico dell’interpretazione, è un disaccordo sugli argomenti dell’interpretazione da utilizzare in determinate circostanze, queste conclusioni, sebbene in modo diverso, dicono una stessa cosa.

 

 

6. L’interpretazione come applicazione di norme morali

 

Se gli interpreti si trovano in disaccordo sul principio metodologico dell’interpretazione da seguire, ovvero sui caratteri da attribuire al legislatore ideale, sorge l’esigenza di chiarire di che genere sia questo disaccordo, cioè di rispondere alla seguente domanda: di che genere è la questione del principio metodologico dell’interpretazione che dovrebbe essere seguito da tutti gli interpreti?

La risposta è che tale questione è (a) una questione pratica (b) che non può essere risolta se non sulla base di norme o valori morali “oggettivamente” esistenti, cioè esistenti a prescindere dalla loro accettazione in una qualche comunità, o comunque di norme e valori che ogni individuo razionale dovrebbe accettare o accetterebbe in determinate condizioni ideali. (32)

Il fatto che sia una questione pratica, e non teorica, appare piuttosto ovvio, considerando che essa non è relativa al modo in cui le cose stanno o, date certe condizioni, starebbero, ma è relativa al modo in cui gli interpreti dovrebbero svolgere la loro attività. Altrettanto ovvio appare poi il fatto che tale questione non sia risolvibile se non sulla base di norme o valori morali “oggettivamente” esistenti a prescindere dalla loro effettiva accettazione da parte di insiemi più o meno ampi di individui. Anzitutto, tale questione ha un evidente rilievo morale, in quanto concerne il modo in cui gli interpreti dovrebbero individuare o stabilire gli obblighi e i diritti degli individui e le sanzioni associate alla violazione di essi; inoltre, come già abbiamo visto, essa non può essere risolta sulla base di norme o valori generalmente accettati, e che dunque possano essere ritenuti vigenti in una determinata comunità.

Dunque, la questione del giudizio metodologico da adottare è una questione morale; da ciò segue che un giudizio sul principio metodologico da adottare è un giudizio morale e che il principio metodologico da adottare, se ve n’è uno, è una norma morale. Per quanto concerne il fatto che il principio metodologico dell’interpretazione consiste in una norma morale, basti ripetere le osservazioni già fatte a proposito della questione relativa al principio metodologico: un principio metodologico consiste in una prescrizione o un criterio di valutazione per attività provviste di indubbio rilievo morale; inoltre, non vi è un principio metodologico generalmente accettato dagli interpreti e che dunque possa essere ritenuto vigente nella comunità giuridica.

Se il principio metodologico dell’interpretazione è una norma morale, e se sono giudizi morali i giudizi sul principio metodologico da seguire, si può affermare che sono giudizi morali anche i giudizi interpretativi, ove si assuma che ogni giudizio implicato da un giudizio morale sia anch’esso un giudizio morale, almeno nel caso in cui non riprenda il contenuto di una prescrizione di soggetti ai quali sia generalmente riconosciuto il potere di emanare prescrizioni vincolanti (cioè il contenuto di una legge o di un altro atto giuridico) o il contenuto di una regola sociale comunemente seguita (cioè il contenuto di una consuetudine). (33)

Sia un giudizio sul principio metodologico, sia il principio metodologico, indicando gli argomenti dell’interpretazione utilizzabili e stabilendo una gerarchia di essi, avranno approssimativamente questa formulazione: «Si deve ascrivere ai testi di legge il contenuto che essi mostrano di avere quando siano letti in conformità ai valori V, W, X e ai fatti A, B, C, oppure ai fatti D, E, F, nel caso in cui non vi sia un’evidenza dei fatti A, B, C o nel caso in cui questi non consentano di ascrivere ai testi di legge un contenuto sufficientemente preciso, oppure ai fatti G, H, I, ecc.». Si deve di conseguenza assumere che i giudizi interpretativi, essendo implicati da giudizi sul principio metodologico, abbiano il seguente contenuto: «Si deve ascrivere al testo di legge T il contenuto N». (34)

A questo punto appare evidente che la questione della validità dei giudizi interpretativi, se posta in questi termini, ha a che fare con una questione fondamentale della filosofia morale, che qui non può essere esaminata. Cioè ha a che fare con la questione se i giudizi morali dipendano unicamente da opinioni condivise di fatto da insiemi più o meno ampi di individui, ma sprovviste di ogni effettivo fondamento, oppure se al contrario vi siano “fatti morali”, o norme o valori morali esistenti in modo analogo a quello in cui esistono i fatti che costituiscono l’oggetto della conoscenza scientifica, o almeno vi siano giudizi morali che ogni individuo razionale dovrebbe accettare o accetterebbe in determinate condizioni ideali. (35) Se denominiamo non-cognitivista la prima posizione concernente la natura della morale e cognitivista la seconda, possiamo asserire che la posizione non-cognitivista implica che non vi sia alcun principio metodologico dell’interpretazione “oggettivamente” esistente, ovvero che nessun giudizio sul principio metodologico sia in effetti valido (anche se gli interpreti potrebbero erroneamente credere che qualcuno di questi giudizi sia valido). (36) Dunque, la posizione non-cognitivista implica anche che non vi siano giudizi interpretativi effettivamente validi, sebbene gli interpreti mostrino di credere che ve ne siano. In definitiva, implica che la pretesa di giustezza che accompagna il proferimento di un giudizio interpretativo, così come quella che accompagna il proferimento di ogni altro giudizio morale, sia una pretesa vuota, che non può essere soddisfatta.

Tutto ciò ha una innegabile rilevanza per la nostra discussione. Tuttavia, dato che non possiamo affrontare la questione del fondamento dei giudizi morali, conviene lasciare da parte tale questione e soffermarsi invece sulle condizioni che dovrebbero essere immediatamente soddisfatte affinché un giudizio fosse valido e sul contenuto che dovrebbe avere una giustificazione interpretativa che intendesse mostrare che un determinato giudizio interpretativo è valido.

Le condizioni che dovrebbero essere immediatamente soddisfatte affinché un determinato giudizio interpretativo fosse valido, sono già state chiarite. Un giudizio interpretativo che ascriva a un testo di legge T il contenuto N è valido solo (a) se è valido un determinato giudizio P, che propone un certo principio metodologico dell’interpretazione, dicendo che i testi di legge devono essere letti in conformità a determinati fatti A, B, C e valori V, W, X, e (b) se è vero che il testo di legge T mostra di avere il contenuto N quando sia letto in conformità ai fatti A, B, C e valori V, W, X. Ma, se queste sono le condizioni che dovrebbero essere immediatamente soddisfatte affinché un determinato giudizio interpretativo fosse valido, allora una giustificazione interpretativa che intendesse mostrare che un determinato giudizio interpretativo è valido dovrebbe contenere (a) un giudizio P, che indica i fatti A, B, C e i valori V, W, X, in conformità ai quali devono essere letti i testi di legge, e (b) il giudizio che un testo di legge T mostra di avere un determinato contenuto N quando sia letto in conformità ai fatti A, B, C e ai valori V, W, X, oltre a (c) indicazioni di qualche prova relativa ai fatti A, B, C.

Tralasciando per semplicità la premessa (c), necessaria per fornire un fondamento alla premessa (b), ecco lo schema di una giustificazione interpretativa provvista di questo contenuto:

 

(a)                      Si deve ascrivere ai testi di legge il contenuto che essi mostrano di avere quando siano letti in conformità ai fatti A, B, C e ai valori V, W, X.

(b)                     Il testo di legge T mostra di avere il contenuto N quando sia letto in conformità ai fatti A, B, C e ai valori V, W, X.

(c)                      Dunque, si deve ascrivere al testo di legge T il contenuto N.

 

Sulla base di questo quadro, l’attività interpretativa è un’attività (in qualche misura) creativa di norme giuridiche, dato che ricavare norme da testi di legge non significa compiere una semplice attività di conoscenza di fatti, né una semplice attività di applicazione di regole che, essendo generalmente accettate nella comunità giuridica, possono essere considerate in essa vigenti. Da ciò non segue però che l’attività interpretativa sia un’attività (in qualche misura) arbitraria, e neppure un’attività creativa tout court. La questione se sia un’attività (in qualche misura) arbitraria o creativa tout court dipende infatti dalla questione delle corrette concezioni del ragionamento morale, dell’argomentazione morale e della validità dei giudizi morali, cioè dalla questione filosofica cui ho prima accennato e che ho prudentemente accantonato.

 

 

7. L’“incompletezza” delle giustificazioni interpretative

 

Nel precedente paragrafo ho presentato lo schema delle ragioni che devono essere addotte in una giustificazione che intenda mostrare che un certo giudizio interpretativo è valido. Secondo tale schema, una giustificazione di questo genere deve contenere una premessa relativa al principio metodologico dell’interpretazione da seguire.

Adesso, bisogna dire che un esame delle giustificazioni effettivamente avanzate dagli interpreti rivela inequivocabilmente che queste, quando siano confrontate con questo schema, appaiono incomplete. Ciò in quanto non contengono una premessa relativa al principio metodologico dell’interpretazione da seguire.

Questa incompletezza è raramente presa in considerazione dalla teoria dell’interpretazione giuridica. Probabilmente, alcuni ritengono che essa sia solo apparente, per il fatto che una premessa relativa al principio metodologico dell’interpretazione da seguire, sebbene non sia esplicitata nelle giustificazioni interpretative, può esservi ritenuto implicita. (37)

L’idea dell’incompletezza apparente non è, ovviamente, peregrina: le giustificazioni interpretative sono discorsi e, non diversamente da ogni altro discorso, è possibile che abbiano un contenuto implicito intuibile e precisabile, a seconda dei casi, con maggiore o minore difficoltà. Se qualcuno asserisce che Socrate è mortale per la ragione che è un uomo, anche se non enuncia la premessa secondo cui tutti gli uomini sono mortali, noi possiamo ben ritenere che tale premessa sia implicita nel suo discorso. E analogamente, se qualcuno sostiene che si deve ascrivere al testo di legge T il contenuto N per la ragione che T esprime N quando sia letto in conformità alle intenzioni del legislatore, anche se non enuncia la premessa secondo cui si deve ascrivere a T il contenuto che questo esprime in conformità alle intenzioni del legislatore, noi possiamo ben ritenere che tale premessa sia implicita nella sua giustificazione interpretativa.

Però, come dovrebbe precisamente essere intesa l’idea che una certa premessa P, pur non essendo espressa in una certa giustificazione interpretativa, è in essa implicita? In primo luogo, quest’idea potrebbe essere intesa nel senso che il parlante ha omesso coscientemente di esprimere P per ragioni di economia, per evitare inutili pedanterie, avendo la consapevolezza che gli ascoltatori l’avrebbero immediatamente colta anche se taciuta; se intesa così, essa implica che il parlante contragga coscientemente l’impegno a sostenere P. In secondo luogo, quest’idea potrebbe essere intesa nel senso che P è da ascrivere al contenuto della giustificazione date le convenzioni, le conoscenze e le convinzioni condivise dalla gran parte di coloro che appartengono alla comunità linguistica o alla più ristretta comunità degli interpreti O alla quale si rivolge il parlante; se intesa così, essa implica che il parlante contragga oggettivamente (quale che fosse il suo atteggiamento mentale nel momento in cui ha proferito la giustificazione) l’impegno a sostenere P, perché secondo le convenzioni vigenti in O contrae un impegno di quel genere chi avanza una giustificazione di quel genere. In terzo luogo, questa premessa potrebbe essere intesa nel senso che P è da ascrivere al contenuto della giustificazione a prescindere dalla consapevolezza del parlante e dalle convenzioni, conoscenze e convinzioni condivise nella comunità cui si rivolge, ma date alcune innegabili regole del discorso, fatti o norme; se intesa così, essa implica che il parlante contragga oggettivamente (quale che fosse il suo atteggiamento mentale nel momento in cui ha proferito la giustificazione e quali che siano le convenzioni vigenti nella comunità O alla quale egli si rivolge) l’impegno a sostenere P, perché vi sono innegabili regole del discorso secondo cui contrae un impegno di quel genere chi avanza una giustificazione di quel genere.

Se è intesa nel terzo modo, l’idea che una premessa sul principio metodologico è implicita nelle giustificazioni interpretative potrebbe essere considerata corretta. Infatti, ove si prenda per buono quanto è stato detto nelle pagine precedenti sui caratteri degli argomenti dell’interpretazione e sul carattere pratico delle questioni interpretative, non è logicamente possibile che un giudizio interpretativo sia implicato dai soli argomenti dell’interpretazione: si deve quindi ritenere che ogni giustificazione interpretativa contenga, sebbene in modo implicito, un giudizio P sul principio metodologico. In altri termini, non si può negare che, avanzando una giustificazione interpretativa, il parlante contragga oggettivamente l’impegno a sostenere P.

È però importante rilevare che individuare l’esatto contenuto di P, quando P sia stato taciuto, è praticamente impossibile, almeno nella maggior parte dei casi. (38) Gli interpreti, infatti, non appaiono molto costanti nell’uso di determinati argomenti dell’interpretazione: chi oggi ricorre all’argomento dell’intenzione del legislatore per giustificare l’ascrizione di un certo contenuto al testo di legge T1 è probabile che ricorra all’argomento teleologico, o a qualunque altro argomento, per giustificare domani l’ascrizione di un determinato contenuto al testo di legge T2. Da ciò si dovrebbe ragionevolmente arguire che le ragioni per cui un certo argomento dell’interpretazione è utilizzato a preferenza di altri abbiano talvolta a che fare anche: (i) con la particolare occasione in cui il testo T1 viene interpretato, cioè con il caso o i casi concreti per dare soluzione ai quali è condotta l’interpretazione di T1; (ii) con i particolari caratteri di T1, cioè ad esempio con il momento in cui T1 è stato prodotto o con il fatto che T1 è un codice o un altro testo di legge provvisto di particolari caratteri; (iii) con le particolari circostanze che si determinano nell’interpretazione di T1, cioè ad esempio con il fatto che in alcune circostanze non è possibile ricorrere a un determinato argomento dell’interpretazione per la mancanza di una qualche evidenza dei fatti cui l’argomento rinvia. Ma, sfortunatamente, non è affatto chiaro fino a che punto tali ragioni valgano per i singoli interpreti: secondo alcuni, forse, valgono ben poco. Né, d’altra parte, il contenuto di una giustificazione interpretativa consente in genere di chiarire questo aspetto e, eventualmente, di precisare quelle ragioni: le giustificazioni interpretative risultano infatti alquanto lacunose ed opache, quando da esse si vogliano trarre informazioni di questo genere. Da tutto ciò segue che possiamo anche affermare che ogni giustificazione interpretativa contiene implicitamente un principio metodologico, ma quale esattamente sia questo principio non possiamo dirlo: al più possiamo congetturare che si tratti di un principio secondo cui, quando ci si trovi nella particolare occasione in cui il testo T1 viene interpretato, quando un testo di legge abbia i particolari caratteri di T1, quando ricorrano le particolari circostanze che si determinano nell’interpretazione di T1, si debba ascrivere a un testo di legge il contenuto che esso mostra di avere quando sia letto in conformità alle intenzioni del legislatore. (39)

Dunque, c’è un senso in cui si può dire che le giustificazioni interpretative presentano, sebbene in modo implicito, una necessaria premessa P; però, non è possibile dire quale sia esattamente il contenuto di P. La cosa, come si vede, è un po’ strana: è sensato asserire che un discorso ha un contenuto implicito, se non vi è un criterio per individuare questo contenuto? Tuttavia, non è di questo problema che intendo discutere. Il punto più importante è infatti un altro: il senso in cui si può (forse) dire che le giustificazioni interpretative contengono implicitamente una necessaria premessa P non è quello che rileva quando si indaghi sulla questione se queste giustificazioni abbiano un determinato scopo nell’ambito della pratica sociale dell’interpretare.

Quando si indaghi su tale questione bisogna chiedersi se l’idea del contenuto implicito delle giustificazioni interpretative possa essere ragionevolmente intesa nel secondo senso, cioè nel senso che tale contenuto è da ascrivere alle giustificazioni interpretative date le convenzioni, le conoscenze e le convinzioni condivise dalla gran parte di coloro che appartengono alla comunità linguistica o alla più ristretta comunità alla quale si rivolge il parlante. Infatti, ove si concluda che non vi sono convenzioni, conoscenze e convinzioni condivise in base alle quali una premessa contenente un principio metodologico deve essere considerata implicita nelle giustificazioni interpretative, e ove si ammetta – come si è fatto fin qui – che questa premessa è necessaria per mostrare che un giudizio interpretativo è valido, finirà con l’apparire problematica l’idea che nella pratica dell’interpretazione giuridica le giustificazioni interpretative abbiano lo scopo di mostrare che un giudizio interpretativo è valido.

Ebbene, è – mi sembra – abbastanza ovvio che non vi sono convenzioni, conoscenze e convinzioni condivise nella comunità giuridica in base alle quali si deve ritenere che una premessa contenente un principio metodologico sia implicita nelle giustificazioni interpretative. A provare ciò basta il fatto che è praticamente impossibile individuare il contenuto di quella premessa implicita in una giustificazione interpretativa; infatti, se vi fossero quelle convenzioni, conoscenze e convinzioni condivise, il contenuto di quella premessa dovrebbe immediatamente apparire piuttosto chiaro. D’altra parte, come potrebbero esservi convinzioni condivise riguardo al contenuto da assegnare a un principio metodologico se gli interpreti sembrano discordare per l’appunto sulla gerarchia degli argomenti dell’interpretazione, cioè sul contenuto che dovrebbe essere assegnato a un principio metodologico? E come potrebbero esservi convenzioni condivise riguardo alla presenza di un principio metodologico nelle giustificazioni interpretative, se questi principi sono generalmente assenti in tali giustificazioni?

Ma vi è di più. Se, nell’ambito della pratica dell’interpretazione giuridica, le giustificazioni interpretative avessero lo scopo di mostrare che determinati giudizi interpretativi sono validi, dovrebbe accadere che principi metodologici contrastanti fossero non solo espressamente addotti, ma anche discussi nelle giustificazioni interpretative. Come ho accennato nel secondo paragrafo, infatti, porsi lo scopo di mostrare che un giudizio è giusto significa rivolgere qualche attenzione alle ragioni, ai dubbi e alle obiezioni espressi da coloro cui la giustificazione è indirizzata. Ebbene, se giudizi relativi a principi metodologici fossero da ritenere impliciti sulla base delle convenzioni condivise dagli interpreti, risulterebbe del tutto chiaro agli interpreti che i loro disaccordi sulla validità dei giudizi interpretativi dipendono dai loro disaccordi sulla validità di differenti giudizi sul principio metodologico dell’interpretazione, ed essi potrebbero perseguire lo scopo di mostrare la validità di determinati giudizi interpretativi solo cercando di mostrare la validità di particolari giudizi sul principio metodologico.(40) Cioè, diversamente da quanto effettivamente avviene, le giustificazioni interpretative dovrebbe contenere anche giustificazioni di giudizi relativi al principio metodologico.

Tutto porta a concludere che le giustificazioni interpretative, per come sono recepite nella comunità giuridica, non contengano implicitamente una delle premesse necessarie per mostrare che un determinato giudizio interpretativo è valido.

Resterebbe da affrontare la questione se sia sensato ritenere che alle giustificazioni interpretative si debba ascrivere questa premessa quando si guardi a ciò che con esse il parlante intende dire. Tale questione può però essere tralasciata, limitandosi a notare che è molto improbabile che la gran parte degli interpreti sia pienamente consapevole del problema del principio metodologico e, seppure privatamente, cerchi di dare ad esso una soluzione, dato che nella comunità giuridica, di cui gli interpreti fanno parte, tale problema non emerge.

 

 

 

8. Giustificazioni interpretative e ideologia

 

Se tutto quello che ho detto fin qui è, almeno nelle sue linee essenziali, accettabile, si pone il problema del senso, o dello scopo, da attribuire alle giustificazioni interpretative. Infatti, mentre da una parte sembra innegabile che queste giustificazioni abbiano lo scopo di mostrare che un certo giudizio interpretativo è valido, dall’altra parte si può argomentare che queste giustificazioni non perseguono tale scopo, ovvero che nella comunità giuridica non sono effettivamente intese come discorsi aventi tale scopo. Come è possibile – da una parte si potrebbe dire – che le giustificazioni interpretative non siano intese dagli stessi interpreti come discorsi aventi lo scopo di mostrare che un giudizio interpretativo è giusto, se ogni giustificazione è necessariamente intesa così? E come è possibile – dall’altra parte si potrebbe replicare – che le giustificazioni interpretative siano intese dagli interpreti come discorsi aventi questo scopo, se il modo in cui essi elaborano e avanzano giustificazioni interpretative prova il contrario?

Nel secondo paragrafo ho accennato che, date le specifiche convenzioni che valgono in determinati contesti, accade talvolta che gli atti linguistici non siano quelli che potrebbe sembrare che fossero: ad esempio, l’interrogazione «Come stai?» non è effettivamente un’interrogazione, ma un atto di cortesia o un saluto. A questo punto, bisogna però dire che la questione in cui adesso ci imbattiamo, trattando di giustificazioni interpretative, è meno chiara e più complicata. Da una parte, sembra che davvero gli interpreti pretendano di avanzare giudizi interpretativi validi, e quindi di avere ragioni per ritenere che essi siano validi, che spesso si trovino tra loro in disaccordo sulla validità di alcuni giudizi interpretativi, e quindi sulla validità delle ragioni addotte a sostegno di alcuni giudizi interpretativi. Dall’altra parte, le giustificazioni interpretative che avanzano sembrano mostrare che queste pretese non sono prese sul serio e che questi disaccordi sono una finzione.

Si potrebbe pensare che questo problema potrebbe essere risolto ricorrendo alla distinzione tra scopo illocutorio di un atto linguistico e sincerità del parlante. (41) Una cosa è lo scopo illocutorio che necessariamente si accompagna all’atto linguistico della giustificazione; un’altra cosa la questione se il parlante persegua davvero quello scopo. Facendo un’affermazione un parlante pretende necessariamente di esprimere una propria credenza, ma è poi possibile che non sia sincero e che quindi non abbia effettivamente quella credenza; allo stesso modo, avanzando una giustificazione un parlante pretende necessariamente di mostrare che un certo giudizio è giusto, ma è poi possibile che non sia sincero e che quindi non intenda davvero mostrare ciò.

Questo modo di risolvere il problema, però, indubbiamente funziona in riferimento a singoli atti linguistici, ma come può funzionare in riferimento a tutti gli atti linguistici eseguiti in un certo ambito di discussione? Se in quell’ambito nessuno è sincero, e se tale mancanza di sincerità si rivela nei comportamenti di tutti, come è possibile che in quell’ambito continuino a sussistere convenzioni condivise in base alle quali un certo atto linguistico deve essere inteso nel modo in cui, nei fatti, nessuno mostra di intenderlo?

Una risposta potrebbe essere che, giustificando giudizi interpretativi, gli interpreti fingono di porsi lo scopo di mostrarne la validità non per ingannarsi l’un l’altro, ma per ingannare gli spettatori del loro gioco argomentativo, cioè gli altri cittadini. Però tale risposta, che in questa formulazione così decisa sembra configurare una strana teoria del complotto, (42) appare priva di ogni plausibilità.

Un’altra risposta potrebbe essere che gli interpreti non sono insinceri, ma si autoingannano: sinceramente pretendono di mostrare la validità di determinati giudizi interpretativi e credono di agire in modo coerente con questa pretesa. Ad essi si può imputare una qualche forma di cecità, ma non una mancanza di sincerità.

Forse quest’ultima risposta coglie meglio nel segno; ma è probabile che le cose siano più complicate di quanto essa dica, tanto complicate quanto lo sono spesso fenomeni psicologici e sociali. Ciò che si deve notare, comunque, è che entrambe le risposte ci portano nei paraggi di un concetto un po’ confuso e politicamente connotato, e tuttavia provvisto di qualche utilità: cioè il concetto di ideologia, inteso non tanto nel “senso debole” di apparato dottrinario di idee, quanto piuttosto nel “senso forte” di mistificazione, (auto)inganno, falsa coscienza. (43) Non è però qui possibile soffermarsi su questo aspetto, così come non è possibile discutere delle cause per cui il discorso giustificativo degli interpreti si struttura nel modo che abbiamo detto, né delle funzioni cui, così strutturato, assolve nelle decisioni dei giudici e più in generale nell’ordinamento giuridico o nella comunità giuridica, (44) né dell’immagine del diritto che emerge da tutto ciò. (45)

La domanda che ci siamo posti nel secondo paragrafo è stata se le giustificazioni interpretative debbano essere concepite come discorsi aventi lo scopo di mostrare che determinati giudizi interpretativi sono giusti, o validi. Sulla base di quanto abbiamo detto fin qui non possiamo dare una risposta precisa, ma possiamo asserire che la risposta è più problematica di quanto si potrebbe pensare. Possiamo inoltre sostenere che la teoria dell’interpretazione, ove si proponga di fornire una rappresentazione attendibile del modo in cui gli interpreti effettivamente operano, non dovrebbe concepire le giustificazioni interpretative come discorsi aventi quello scopo, o almeno non dovrebbe prendere troppo sul serio (dare troppo credito a) le pretese che, dati gli scopi illocutori degli atti linguistici, sembrano necessariamente accompagnarsi a tali giustificazioni. I fatti, cioè i comportamenti degli interpreti, smentiscono costantemente quelle pretese.

 

 

Note

 

(1) Ciò non significa che non sorgano mai dubbi o controversie a questo riguardo, e in particolare sulle relazioni gerarchiche tra alcune fonti: ad esempio vedi la questione della relazione tra diritto statale e diritto comunitario, in R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, Milano, Giuffrè, 1998, pp. 673-676.

(2) Vedi R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, Milano, Giuffrè, 2004.

(3) Ai fini del presente discorso intenderò dunque il termine ‘interpretazione giuridica’ come sinonimo di ‘interpretazione della legge’, trascurando il fatto che l’interpretazione giuridica può avere ad oggetto anche testi diversi dai documenti legislativi, come sentenze e contratti. Per una lista dei vari testi che possono essere oggetto di interpretazione giuridica, vedi G. Tarello, L’interpretazione della legge, Milano, Giuffrè, 1980, pp. 11-15.

(4) Per questa distinzione rinvio a E. Diciotti, Interpretazione della legge e discorso razionale, Torino, Giappichelli, 1999, pp. 202-219, 323-324, 451-469, 482-493.

(5) Cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo (1981), Bologna, il Mulino, 1984, vol I, cap. III, e Etica del discorso (1983), Roma-Bari, Laterza, 1985, pp. 65-70 (la terminologia di Habermas e le distinzioni che propone sono in parte diverse da quelle che qui adotto).

(6) Sui diversi atti linguistici vedi J.L. Austin, Quando dire è fare (1962), Torino, Marietti, 1974; J.R. Searle, Atti linguistici (1969), Torino, Boringhieri, 1976, e Per una tassonomia degli atti illocutori (1975), in M. Sbisà (a cura di), Gli atti linguistici, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 168-198.

(7) Negli ordinamenti giuridici moderni i giudici hanno l’obbligo di giustificare, o, come si dice, motivare, le loro decisioni; è però possibile che la motivazione di una sentenza non contenga una giustificazione interpretativa, cioè che, essendo pacifico il senso del testo di legge oggetto di applicazione, in essa non siano addotte ragioni per mostrare che tale testo deve essere inteso proprio nel modo in cui è stato inteso nell’applicarlo.

(8) Le questioni interpretative controverse hanno in genere ad oggetto qualche componente del significato di un enunciato (qualche parola o termine in esso contenuto, qualche suo aspetto sintattico) e non tutte le sue componenti, poiché il senso di alcune di queste risulta sufficientemente chiaro e pacifico (vedi E. Diciotti, op. cit., pp. 230-232, 257-259); al limite, se non fosse chiaramente riconoscibile almeno una certa struttura grammaticale dell’enunciato, non sarebbe neppure possibile asserire che un certo insieme di parole costituisce un enunciato.

(9) Tra i recenti lavori di teoria dell’interpretazione in cui compaiono liste degli argomenti dell’interpretazione ricordo P. Chiassoni, Codici interpretativi, in P. Comanducci e R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto 2003-2004, Torino, Giappichelli, 2004, pp. 55-124, alle pp. 66-73; E. Diciotti, op. cit., pp. 309-323; R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, cit., pp. 142-179; G. Tarello, op. cit., pp. 341-396.

(10) Per i vari modi in cui questo argomento può essere inteso e utilizzato vedi C. Luzzati, La vaghezza delle norme, Milano, Giuffrè, 1990, pp. 208-228. Indagini sull’interpretazione letterale e sulla problematica nozione di significato letterale sono contenute in V. Velluzzi (a cura di), Significato letterale e interpretazione del diritto, Torino, Giappichelli, 2000.

(11) Per le diverse varianti in cui può presentarsi tale argomento vedi R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, cit., pp. 150-153 (bisogna notare che una delle varianti indicate da Guastini, cioè quella in cui la volontà del legislatore è intesa come volontà della legge, nel presente elenco è concepita come un argomento distinto: l’argomento teleologico).

(12) Sull’interpretazione sistematica vedi V. Velluzzi, Interpretazione sistematica e prassi giurisprudenziale, Torino, Giappichelli, 2002.

(13) Per quanto concerne l’interpretazione teleologica, rinvio a E. Diciotti, op. cit., pp. 411-425.

(14) Su questi argomenti vedi G. Carcaterra, Analogia. I) Teoria generale, in Enciclopedia giuridica, vol II, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1988; R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, cit., pp. 153-157; P. Chiassoni, La giurisprudenza civile, Milano, Giuffrè, 1999, pp. 635-648; L. Gianformaggio, L’analogia giuridica, in L. Gianformaggio, Studi sulla giustificazione giuridica, Torino, Giappichelli, 1986, pp. 133-154; G. Tarello, op. cit., pp. 352-354.

(15) Per quanto concerne questo aspetto, comunemente riconosciuto dalla teoria dell’interpretazione, vedi tra gli altri R. Alexy, Teoria dell’argomentazione giuridica (1978), Milano, Giuffrè, 1998, p. 192; E. Diciotti, op. cit., pp. 413-417; K. Engisch, Introduzione al pensiero giuridico (1968), Milano, Giuffrè, 1970, pp. 121-122.

(16) Quest’idea, di per sé (apparentemente) tanto ovvia da essere generalmente accolta, può essere precisata in modi diversi (nell’ambito di differenti teorie dell’argomentazione giuridica): vedi ad esempio A. Aarnio, The Rational as Reasonable, Dordrecht, Kluwer, 1987; R. Alexy, op. cit.; C. Perelman, Logica giuridica nuova retorica (1976), Milano, Giuffrè, 1979.

(17) Non è forse frequente che un parlante avanzi una giustificazione dicendo «Credo che …»; è più frequente che si limiti a fare asserzioni su determinati fatti. Ma, come è noto, asserire che p implica (in qualche senso di ‘implicare’) credere che p: su questa implicazione vedi, tra gli altri, J.L. Austin, op. cit., pp. 86-88; J. Habermas, Etica del discorso, cit., pp. 89-90; P.H. Nowell-Smith, Etica (1954), Firenze, La Nuova Italia, 1974, pp. 86-91; J.R. Searle, Per una tassonomia degli atti illocutori, cit., p. 172.

(18) Per quanto concerne la relazione tra comportamenti individuali e regole sociali, vedi le note pagine di H.L.A. Hart, Il concetto di diritto (1961), Torino, Einaudi, 1965, pp. 66-72, 98-108.

(19) Cfr. J. Habermas, Discorso e verità (1973), in J. Habermas, Agire comunicativo e logica delle scienze sociali, Bologna, il Mulino, 1980, pp. 319-343, e Etica del discorso, cit., pp. 65-76.

(20) La questione del significato di ‘giusto’ e dei criteri della giustezza di un giudizio sono talvolta distinte, soprattutto quando tale giustezza consista nella verità di un’asserzione (o di una proposizione, di un giudizio, ecc.): vedi ad esempio A.J. Ayer, Linguaggio, verità e logica (1936), Milano, Feltrinelli, 1961, pp. 104-106; N. Rescher, The Coherence Theory of Truth, Oxford, Clarendon Press, 1973, pp. 1-4 (una discussione di questa distinzione si trova in A. Bottani, Verità e coerenza, Milano, Franco Angeli, 1989, pp. 13-34).

(21) Sulla grande divisione tra questioni teoriche e questioni pratiche (ragionamento teorico e ragionamento pratico, giustificazioni teoriche e giustificazioni pratiche) e sulla cosiddetta legge di Hume che la sintetizza, vedi B. Celano, Dialettica della giustificazione pratica, Torino, Giappichelli, 1994.

(22) Oltre che nella versione di cui mi occupo, tale idea può essere proposta, ad esempio, sommando una concezione realista del linguaggio a una concezione dell’ordinamento giuridico come insieme coerente e completo di norme (una versione di questo genere è ad esempio delineata da R. Guastini, Le fonti del diritto e l’interpretazione, Milano, Giuffrè, 1993, pp. 335-336).

(23) Quest’idea è in genere attribuita alla cosiddetta Scuola dell’Esegesi, sorta in Francia all’inizio del XX secolo (N. Bobbio, Il positivismo giuridico, Torino, Giappichelli, 1961, Nuova edizione 1996, pp. 72-84; G. Tarello, Scuola dell’Esegesi, in Novissimo Digesto Italiano, vol. 16, Torino, UTET, 1969, pp. 819-823; ma per una ricostruzione più problematica del metodo esegetico dell’interpretazione vedi P. Chiassoni, L’utopia della ragione analitica, Torino, Giappichelli, 2005, pp. 336-362).

(24) Cioè può essere respinta (così come è stato fatto dalle più note teorie del diritto del Novecento: vedi H.L.A. Hart, op. cit.; H. Kelsen, La dottrina pura del diritto (1960), Torino, Einaudi, 1966; A. Ross, Diritto e giustizia (1953), Torino, Einaudi, 1965) la teoria imperativista del diritto che sta alla base di questa concezione dell’interpretazione giuridica.

(25) Alcune classiche espressioni di scetticismo sulle intezioni del legislatore possono trovarsi in A. Hägerström, On the Question of the Notion of Law (1917), in A. Hägerström, Inquiries into the Nature of Law and Morals, Uppsala, Almqvist & Wiksells, 1953, pp. 56-256, alle pp. 74-85; E.H. Levi, An Introduction to Legal Reasoning, Chicago, The University of Chicago Press, 1949, pp. 27-31; M. Radin, Statutory Interpretation, in Harvard Law Review, 43, 1930, pp. 863-885. Per una critica più recente di questo concetto vedi R. Dworkin, Il foro dei principi (1981), in R. Dworkin, Questioni di principio (1985), Milano, il Saggiatore, 1990, pp. 37-86, alle pp. 39-68.

(26) Bisogna peraltro dire che le cose vanno in modi parzialmente diversi in periodi storici diversi e in differenti ordinamenti giuridici, data la diversità delle ideologie dell’interpretazione che possono diffondersi in ambienti culturali diversi; per un panorama dei modi di condurre l’interpretazione giuridica in alcuni ordinamenti giuridici contemporanei, vedi N.L. MacCormick e R.S. Summers (a cura di), Interpreting Statutes, Aldershot, Dartmouth, 1991.

(27) Sulla nozione di legislatore razionale (o ideale) presupposta (o da presupporre) nell’interpretazione della legge, vedi N. Bobbio, Le bon législateur, in H. Hubien (a cura di), Le raisonnement juridique, Bruxelles, Bruylant, 1971, pp. 243-249; J. Lenoble e F. Ost, Droit, mythe et raison, Bruxelles, Publication des Facultés Universitaires Saint-Louis, 1980, pp. 137-141 ; C.S. Nino, Introduzione all’analisi del diritto (1980), Torino, Giappichelli, 1996, pp. 288-292; L. Nowak, De la rationalité du législateur come élément de l’interprétation juridique, in Logique et analyse, 12, 1969, pp. 65-86.

(28) L’idea che l’interpretazione giuridica consista nella conoscenza delle intenzioni di un autore fittizio può evidentemente essere accostata (pur essendovi differenze rilevanti) a quella presente in alcune teorie dell’interpretazione letteraria, secondo cui l’interpretazione procede con l’elaborazione di un’ipotesi di autore modello (U. Eco, Lector in fabula, Milano, Bompiani, 1979, pp. 60-66). D’altra parte, se si prende per buona una teoria intenzionalista del significato (vedi in proposito H.P. Grice, Il significato (1957), in H.P. Grice, Logica e conversazione, Bologna, il Mulino, 1993, pp. 219-231; P.F. Strawson, Intenzione e convenzione negli atti linguistici (1964), in M. Sbisà (a cura di), Gli atti linguistici, cit., pp. 81-102), non vi è attribuzione di significato che non implichi l’ipotesi di un emittente provvisto di intenzioni.

(29) A testimonianza di ciò, gli argomenti dell’interpretazione (tutti o la gran parte di essi) vengono talvolta unitamente concepiti come relativi alla volontà del legislatore: ad esempio vedi A. Aarnio, R. Alexy e A. Peczenick, I fondamenti del ragionamento giuridico (1981), in P. Comanducci e R. Guastini (a cura di), L’analisi del ragionamento giuridico, Torino, Giappichelli, 1987, pp. 120-187, alle pp. 173-177; R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, cit., p. 143;  N.L. MacCormick e R.S. Summers, Interpretation and Justification, in N.L. MacCormick e R.S. Summers (a cura di), Interpreting Statutes, cit., pp. 511-544, alle pp. 522-525.

(30) L’idea che l’interpretazione giuridica si svolga sulla base di un insieme di regole dell’interpretazione è abbastanza diffusa nella teoria dell’interpretazione contemporanea: vedi ad esempio A. Aarnio, op. cit., pp. 95-107; R. Alexy, Interpretazione giuridica, in Enciclopedia delle scienze sociali, vol. 3, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1996, pp. 64-71, alla p. 70; P. Chiassoni, Codici interpretativi, cit., pp. 63-98; F. Ost e M. van de Kerchove, Entre la lettre et l’esprit, Bruxelles, Bruylant, 1989, pp. 34-75; J. Wróblewski, The Judicial Application of Law, Dordrecht, Kluwer, 1992, pp. 89-107.

(31) Il fatto che questa regola sia necessaria per la giustificare la scelta tra diversi metodi interpretativi è messo in rilievo da molti autori: tra questi ricordo P. Chiassoni, Codici interpretativi, cit., pp. 74-92; E. Diciotti, op. cit., pp. 277-291, 494-539; R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, cit., pp. 141-142; L. Lombardi Vallauri, Corso di filosofia del diritto, Padova, CEDAM, 1981, 53-79; C. Luzzati, op. cit., pp. 116-118; N.L. MacCormick e R.S. Summers, Interpretation and Justification, cit., pp. 527-530; U. Scarpelli, Interpretazione. Diritto, in Gli strumenti del sapere contemporaneo. Vol 2. I concetti, Torino, UTET, 1985, pp.423-427, alla p. 426; J. Wróblewski, op. cit., pp. 113-116.

(32) E. Diciotti, op. cit., pp. 494-521, e Verità e certezza nell’interpretazione della legge, Torino, Giappichelli, 1999, pp. 152-157. Sui rapporti tra morale e interpretazione giuridica vedi anche C.S. Nino, Diritto come morale applicata (1994), Milano, Giuffrè, 1999, pp. 71-107.

(33) Giudizi pratici fondati su giudizi morali, ma che si limitino a riprendere il contenuto (nella misura in cui ciò sia possibile) di prescrizioni di organi cui viene generalmente riconosciuto un determinato potere o di consuetudini che si ritengono applicabili da taluni di questi organi, potrebbero infatti essere considerati giudizi giuridici o norme giuridiche (cfr. C.S. Nino, Diritto come morale applicata, cit., pp. 92-106).

(34) L’idea che i giudizi interpretativi avanzati da giudici e giuristi siano giudizi pratici non è molto diffusa; tra i lavori di teoria del diritto in cui compare ricordo P. Comanducci, Assaggi di metaetica due, Torino, Giappichelli, 1998, pp. 76-80; E. Diciotti, Interpretazione della legge e discorso razionale, cit., soprattutto pp. 269-273, e Verità e certezza nell’interpretazione della legge, cit., pp. 152-157; F.E. Oppenheim, The Judge as Legislator, in L. Gianformaggio e S.L. Paulson (a cura di), Cognition and Interpretation of Law, Torino, Giappichelli, 1995, pp. 289-294, alle pp. 291-294.

(35) In altri termini, la questione se i giudizi interpretativi siano veri o falsi dipende dalla questione se i giudizi morali siano veri o falsi ed ha dunque diversa soluzione sulla base delle teorie etiche cognitiviste (oggettiviste) e non-cognitiviste (scettiche): vedi E. Diciotti, Verità e certezza nell’interpretazione della legge, cit., Parte terza.

(36) Ove si adotti la posizione non-cognitivista si dovrà cioè sostenere che i giudizi sui principi metodologici e i giudizi interpretativi siano, come ogni altro giudizio morale, o né veri né falsi (così come tipicamente è stato sostenuto dalle teorie etiche emotiviste: vedi ad esempio A.J. Ayer, op. cit., pp. 139-141), oppure tutti falsi (così come vuole la “teoria dell’errore” di J. Mackie, Etica: inventare il giusto e l’ingiusto (1987), Torino, Giappichelli, 2001, pp. 40-41).

(37) L’idea che le motivazioni dei giudici possano essere ricostruite in forma di catena di sillogismi è sostenuta da P. Chiassoni, La giurisprudenza civile, cit., pp. 155-184.

(38) Su questa impossibilità mi sono soffermato in E. Diciotti, Interpretazione della legge e discorso razionale, cit., pp. 527-532.

(39) Il problema che si presenta è analogo a quello che sorge quando si tratti di universalizzare una prescrizione non universale, cioè di individuare la norma universale da cui essa discende: su questo punto vedi ad esempio A. Ross, Sul ragionamento morale (una critica a Richard M. Hare) (1964), in A. Ross, Critica del diritto e analisi del linguaggio, Bologna, il Mulino, 1982, pp. 159-175, alle pp. 171-172.

(40) Vedi le regole del discorso elaborate da R. Alexy, Teoria dell’argomentazione giuridica, cit., pp. 149-163, e in particolare la regola relativa all’onere dell’argomentazione, secondo la quale «chi ha prodotto un argomento è tenuto a presentare ulteriori argomenti […] in presenza di un argomento contrario» (p. 156).

(41) J.R. Searle, Per una tassonomia degli atti illocutori, cit., p. 172.

(42) Una breve indagine storica sulle teorie sociali del complotto si trova in Z. Ciuffoletti, Retorica del complotto, Milano, il Saggiatore, 1993.

(43) La distinzione tra ideologia’ in “senso debole” e ideologia in “senso forte” si trova in N. Bobbio, L’ideologia in Pareto e in Marx (1968), in N. Bobbio, Saggi sulla scienza politica in Italia, Bari, Laterza, 1971, pp. 109-122, alle pp. 114-116. Varie accezioni di ‘ideologia’ (in “senso debole” e in “senso forte”) sono distinte da F. Rossi-Landi, Ideologia, Milano, ISEDI, 1978, pp. 37-50.

(44) Mi sono soffermato su questi aspetti in E. Diciotti, Interpretazione del diritto e discorso razionale, cit., pp. 532-539, e Regola di riconoscimento, controversie giuridiche e retorica, in M. Manzin e P. Sommaggio (a cura di), Argomentazione retorica e linguaggio normativo, Milano, Giuffrè, in corso di stampa.

(45) Qualche indicazione a questo riguardo ho cercato di darla in E, Diciotti, Regola di riconoscimento, controversie giuridiche e retorica, cit.