Etica & Politica/ Ethics & Politics, 2006, 1

http://www.units.it/etica/2006_1/CREMASCHI01.htm

 

 

 

Sidgwick e il progetto di un’etica scientifica

 

Sergio Cremaschi

Dipartimento di Studi Umanistici

Università del Piemonte Orientale

 

 

Abstract

 

In this paper I discuss the role played by the ideas of ‘common sense’ and ‘common sense morality’ in Sidgwick’s system of ideas. I argue that, far from aiming at overcoming common sense morality, Sidgwick aimed purposely at grounding a consist code of morality by methods allegedly taken from the example provided by the natural sciences, in order to reach also in the moral field some body of ‘mature’ knowledge similar to that provided by the natural sciences. His whole polemics with intuitionist was vitiated by the a priori assumption that the widespread ethos, not the theories of intuitionist philosophers was what was really worth considering

In spite of the naïve positivist starting point Sidgwick was encouraged by his own approach in exploring the fruitfulness of coherentist methods for normative ethics. Thus Sidgwick left an ambivalent legacy to twentieth-century ethics: the dogmatic idea of a ‘new’ morality of a consequentialist kind, and  the fruitful idea that in normative ethics we can argue rationally even if without shared foundations.

 

 

1. Sidgwick fra mister Hyde e doctor Jeckyll

 

La recente biografia di Bart Schultz (1) permette uno sguardo d’insieme su Sidgwick in una luce nuova, non più quella dell’innocuo professore descritto da Brand Blanshard e da una certa agiografia analitica, attraente “non perché ha mostrato tratti individuali sorprendenti quanto piuttosto perché non l’ha fatto” (2), ma quella del personaggio problematico, tormentato, e a punti inquietante. Per chi crede nell’astrologia e nella numerologia Sidgwick morì tre giorni dopo Nietzsche. Per chi non ci crede, Sidgwick fu figlio di un parroco come Nietzsche fu figlio di un pastore, si tormentò tutta la vita per l’impossibilità di conservare la fede cristiana in cui era stato educato, si dedicò anch’egli allo studio di cose un po’ strane – nel suo caso le lingue semitiche, lo spiritismo e la politica – tanto quanto a quello della filosofia, fu anch’egli perennemente malato ed ebbe  probabilmente un’infelice vita affettiva. Vi è però la differenza – e qui cessa l’analogia con Nietzsche, ma anche l’identità con l’innocuo professore di Blanshard –  che Sidgwick fu per un momento un personaggio pubblico, assunto alla notorietà grazie a un coraggioso atto di obiezione di coscienza in nome della libertà religiosa, gesto coraggioso i cui rischi erano stati però ben calcolati e le sue conseguenze furono non l’emarginazione ma una prestigiosa carriera e costanti contatti, dal dorato esilio di Cambridge, con i vertici dello establishment britannico.

Che rilievo ha questa biografia per la comprensione dell’opera di Sidgwick? Elenco qualche interrogativo parziale cui tenterò di rispondere prima di azzardarmi a rispondere a questa domanda complessiva:

(i) gli aspetti che il lettore odierno dei Metodi dell’etica potrebbe trovare più inquietanti, come la difesa di una morale esoterica, l’idea che il senso comune non sia veramente riformabile, la sfiducia nella possibilità di fare appello alla ragione di tutti e non solo delle élite, non sono introdotti come esperimenti mentali, ma rispecchiano preoccupazioni e opinioni del Sidgwick storico che rifletteva sulle prospettive della società britannica del suo tempo;

(ii) le conclusioni enunciate nella prima edizione dell’opera consistono in un’esplicita difesa dello scetticismo in etica normativa; le conclusioni enunciate nelle edizioni seguenti sono diverse solo in quanto si propongono di evitare lo scetticismo totale in etica normativa in nome di un’esigenza pratica, ovvero l’esigenza di evitarne gli effetti indesiderabili sulla vita reale, ma senza introdurre argomentazioni che modifichino le conclusioni della prima edizione a livello teorico;

(iii) Sidgwick come figura pubblica fu una (per noi) curiosa figura di ‘progressista autoritario’, contemporaneamente anticlericale, fautore dell’emancipazione delle donne, allineato con l’imperialismo britannico, difensore di una concezione elitista della politica e della società e (calando dalle relazioni fra idee alle relazioni fra uomini) imparentato con arcivescovi anglicani e ministri Tory;

(iv) la nozione di “senso comune” invocata nell’opera non è – a prescindere dalle difficoltà teoriche di questa nozione – quella degli illuministi Kant e Reid, i quali credevano esistesse una natura umana universale e che il buon padre di famiglia non istruito fosse giudice infallibile nelle cose morali, ma è quella di un “senso comune” di alcuni;

(v) il “metodo dialettico” dei Metodi è una cosa meno rassicurante di ciò che i filosofi analitici e in particolare i seguaci di Rawls si immaginano; non è il metodo dell’equilibrio riflessivo, ma è invece una forma modificata di positivismo spenceriano con aggiunte di filosofia del senso comune reidiana, di neohegelismo, di epistemologia whewelliana ripresa in modo inconfessato;

(vi) la “morale del senso comune” per Sidgwick non è qualcosa da superare, come hanno immaginato i fautori della Nuova Morale che lo hanno eletto fra i propri progenitori, ma è invece qualcosa da conservare seppure correggendola, oppure è qualcosa che a volte sembra dover essere superata, a volte conservata, e a volte identificata con la moralità ‘realmente esistente’ degli ‘illuminati’.

Mi propongo di contribuire a rispondere a qualcuno di questi interrogativi riesaminando ciò che Sidgwick pensava su tre punti preliminari, cioè: (a) la natura e il metodo della filosofia e quindi il “metodo” dell’etica, (b) la nozione di “senso comune”, (c) la nozione di “morale del senso comune” e poi riesaminando una parte centrale, seppure svolta in negativo, del suo contributo teorico, quella che la letteratura critica, salvo Donagan e Schneewind, ha accettato come verità indiscussa, cioè (d) la critica al cosiddetto “intuizionismo dogmatico”.

 

 

2. I  metodi della filosofia ai tempi del positivismo

 

I metodi dell’etica è un libro strano, scritto da un autore anch’egli un po’ strano. È sembrato dapprima l’opera del terzo fra gli utilitaristi classici, quello che avrebbe definitivamente sbaragliato l’intuizionismo, poi la prima opera autenticamente accademica in filosofia morale e il prototipo di un trattato moderno di filosofia morale, in seguito la formulazione decisiva della ‘nuova morale’, quella che ha finalmente (per Peter Singer) o purtroppo (per Elisabeth Anscombe) fatto piazza pulita degli assoluti morali, e infine (per Schneewind e Schulz) non lo scacco matto agli avversari dell’utilitarismo, non l’annuncio trionfante dell’avvento della nuova morale, non un finalmente imparziale trattato accademico, ma un saggio sull’impossibilità di scoprire un ordine nel “mondo pratico”, e quindi nel mondo nel suo complesso, con l’inevitabile constatazione finale della “morte di Dio”, un saggio che termina con le parole “inevitable failure” (3).

Per ricostruire un po’ della trama che potrebbe mettere insieme questi fili interpretativi, proporrei di rileggere I metodi dell’etica come si leggono i classici, cioè non spiegando il “prima” con il “poi” ma leggendo il testo a partire dal cotesto, a sua volta composto dai testi dello stesso autore e degli interlocutori che si è storicamente in grado di individuare, per risalire alle intenzioni comunicative dell’autore nella misura in cui è possibile ricostruirle, e soltanto in seguito tentare di tradurre la terminologia adottata, ed eventualmente individuarne fonti e constatarne possibili oscillazioni, e prendere – infine – in esame i passaggi dell’argomentazione per scoprirvi – ma con la debita cautela – possibili salti logici, petizioni di principio, fallacie e circoli viziosi.

Può convenire ricostruire la precomprensione che Sidgwick aveva del ruolo dell’etica non solo nell’ambito della filosofia ma nell’ambito della vita reale. Sappiamo che le norme morali tradizionali che gli erano state insegnate gli sembravano mettere in atto “pressioni esterne e arbitrarie” (4) e gli sembravano “alquanto dubbie e confuse” (5). La difesa filosofica della morale tradizionale che Sidgwick ha in mente – è bene notarlo perché può spiegare diverse obiezioni che muove a questa morale – è quella dell’intuizionismo di Whewell, come Sidgwick riconosce quando, parlando dell’insieme di norme morali cui era stato educato ad obbedire scrive:

 

il mio antagonismo nei suoi confronti fu intensificato dallo studio di Elements of Morality di Whewell che faceva parte del piano di studi degli studenti undergraduate al Trinity College. Fu da quel libro che trassi l’impressione – che durò a lungo – che i moralisti intuizionisti fossero irrimediabilmente vaghi (in confronto con i matematici) nelle loro definizioni e assiomi (6).

 

A Sidgwick non sembrava che il “complessivo sistema intelligibile di intuizioni” (7) di Whewell consistesse di intuizioni chiare e coerenti e, soprattutto, indubitabili. D’altra parte il giovane Sidgwick ritrovò e perse a più riprese la sua fede nell’utilitarismo, dibattendosi fra da un lato le ragioni dell’intuizionismo che ritrovava in Butler e quelle analoghe che ritrovava in Kant, dall’altro le ragioni dell’utilitarismo che ritrovava paradossalmente in Butler, e infine, nel mezzo, le considerazioni dettate dall’esame della “morale del senso comune” che ritrovava in Aristotele, Reid, e poi, col passare dei decenni in Spencer. Queste tensioni spiegano la sporta di ‘ritirata’, o di creazione di una cintura protettiva, annunciata nella prefazione della prima edizione, secondo la quale il libro non è “direttamente pratico” (8), e il suo “obiettivo immediato non è la Prassi ma la Conoscenza” (9). La ragione di queste cautele è la convinzione che

 

Il predominio nella mente dei moralisti del desiderio di edificare ha impedito il reale progresso della scienza etica… questa potrebbe trarre giovamento dall’applicazione della stessa curiosità disinteressata cui soprattutto dobbiamo le grandi scoperte della fisica (10).

 

L’etica concepita in tal modo si proporrebbe di “considerare semplicemente a quali conclusioni si perverrà razionalmente se partiamo da certe premesse etiche” (11), non di giustificare in qualche modo i principi ultimi che si prendono semplicemente come già presenti, fatta salva l’esigenza – se possibile – di scegliere o di porre in un ordinamento gerarchico. Perciò – afferma Sidgwick – nel corso del tentativo di “esporre il più chiaramente e pienamente possibile i diversi metodi dell’Etica che trovo impliciti nel ragionamento morale che abbiamo in comune” (12) non si può evitare di “discutere le considerazioni che dovrebbero… essere decisive nel determinare l’adozione dei principi primi etici: ma non è mio obiettivo primario stabilire questi principi; e neppure… fornire un insieme di direttive pratiche per la condotta” (13).

Converrà poi cercare alcune chiavi di lettura dell’opera etica di Sidgiwck nei suoi scritti sulla teoria della conoscenza e il metodo scientifico, collocandoli nel clima di idee del positivismo anglosassone, e tentando di tenere conto dell’evoluzione e degli eventuali cambiamenti di posizioni di Sidgwick stesso.

Il documento più ricco al proposito è Philosophy. Secondo questo testo la filosofia è una sorta di “metascienza”, o forse “superscienza”, un discorso che comprende i principi più generali comuni a tutte le scienze particolari e che

 

tratta non l’intero contenuto di qualche scienza, ma le più importanti delle sue nozioni speciali, i suoi principi fondamentali, il suo metodo peculiare, le sue conclusioni principali. La filosofia le esamina allo scopo di coordinarle con le nozioni e principi, metodi e conclusioni fondamentali di altre scienze. Può essere in questo senso chiamata ‘scientia scientiarum’ (14).

 

In altre parole, è “conoscenza completamente unificata” (15). Il suo fine è un “insieme coerente” del “pensiero umano razionale” (16); la filosofia teoretica è “uno studio dei pensieri o credenze della mente umana, al fine della loro completa sistematizzazione” (17). La filosofia è però “in ritardo” rispetto alle scienze, si trova “in uno stato rudimentale in confronto con gli studi più specializzati di quei campi di conoscenza sistematica che chiamiamo scienze” (18), non vi si trova quel “consenso degli esperti che si trova nelle questioni di geometria, fisica, botanica” (19).

Sidgwick dichiara di essere complessivamente d’accordo con Herbert Spencer, salvo il disaccordo su due punti: il fenomenismo, che non ha conseguenze immediate per il tema qui esaminato e, punto per noi più importante, l’esclusione del dover essere dal campo su cui si deve esercitare la funzione sistematizzante della filosofia. Per gli aspetti su cui sembra essere d’accordo, va ricordata la definizione di conoscenza come “credenza considerata ben fondata” (20), da contrapporre al senso comune, consistente in credenze che hanno “la caratteristica dell’accettazione generale” (21) ma che “non si presentano o come esattamente autoevidenti o come conclusioni dimostrate fa premesse auto-evidenti” (22). Conoscenza per eccellenza sembrano essere, come si è detto, le scienze della natura, ma l’obiettivo ultimo è quello di un sistema complessivo delle nostre credenze che lo porti il più vicino possibile allo stato di “conoscenza”. Parte degli ostacoli in questa direzione deriva dal ruolo problematico della filosofia pratica, ma di questo si discuterà in seguito. Per ora va ricordato che la “scienza della mente” o “dell’uomo” è parte della filosofia, ed è difficile distinguere l’oggetto della filosofia “dall’oggetto della psicologia” (23) e che la stessa “filosofia teoretica” consiste in uno studio dei pensieri o credenze della mente umana, al fine di una loro completa sistematizzazione” (24). Questo fine è perseguito stabilendo un rapporto fra intuizione, errore, correzione dell’errore che passa attraverso la riflessione, con legittimo uso del ricorso al consenso con gli altri soggetti qualificati, all’introspezione, e a una sorta di analisi del linguaggio. Per esempio Sidgwick dichiara di non ritenere che “la filosofia non possa usare il metodo introspettivo” (25), e vi fa effettivamente ricorso dichiarando, di fronte a due tesi teoriche alternative in etica, di trovare “entrambe queste convinzioni fondamentali” nel suo proprio pensiero “con tanta chiarezza e certezza quanta ne può essere data dal processo di riflessione introspettiva” (26). Una circostanza curiosa è che Sidgwick sembra riconoscere autorità all’introspezione quando questa è la sua introspezione; quando si tratta dei “plain men” bisogna saper distinguere fra ciò che è veramente intuito e ciò che lo è erroneamente. Per esempio afferma: “sulla base della riflessione posso ora distinguere chiaramente tale opinione e tali sentimenti dalla conoscenza apparentemente immediate e certa che ho dei principi formali che sono stati menzionati (27) perché “gli spontanei processi primitivi della mente sono mescolati con l’errore, che può essere eliminato soltanto gradualmente attraverso una riflessione complessiva sui risultati di questi processi” (28).

Veniamo al rapporto fra filosofia teoretica e filosofia pratica. Per Spencer la conoscenza delle scienze è “di ciò che esiste o è esistito o esisterà”, ma non si può dire che la filosofia morale o politica abbia come compito il coordinamento delle coesistenze e successioni di fenomeni, e quindi bisogna affermare che la filosofia in generale deve trattare anche “i principi e metodi per determinare razionalmente che cosa dovrebbe essere” (29). Si deve quindi (a) concordare con Spencer sull’idea che il compito della filosofia è l’unificazione e sistematizzazione del sapere; (b) dissentire da Spencer riguardo alla delimitazione degli ambiti sui quali questa funzione si esercita, includendovi in primo luogo le scienze positive, in secondo luogo “i sistemi di conoscenza o pensiero ragionato che si distinguono come etica, politica e giurisprudenza” (30). La filosofia pratica è quindi un ambito diverso e parallelo rispetto a quello che Spencer chiama “filosofia”, ma nel compito della filosofia rientra anche – anzi è il suo “compito decisivo e più importante” (31) – affrontare il nesso fra filosofia teoretica e filosofia pratica, risolvere il “problema di coordinare queste due ripartizioni del suo oggetto, e connettere fatto e ideale” (32).

Non tutta l’etica è però filosofia; la casistica “certamente non è filosofia” (33) perché il compito della filosofia non è dare una soluzione dettagliata alle domande su ciò che va fatto in casi particolari. Così pure non tutta la politica e non tutto il diritto sono filosofia; etica, politica, diritto in quanto tali sono non delle scienze ma delle “arti” (34), anche se la divisione fra scienze e arti non deve essere assoluta. “Parte” del compito della filosofia (35) – accanto all’altra parte che consiste nello unificare concetti e metodi delle scienze della natura – consiste nello

 

‘unificare’ i principi e metodi di ragionamento che tendono a conclusioni pratiche che chiamiamo politici quando si riferiscono alla costituzione e azione del governo, e ‘etici’ quando si riferiscono alla condotta privata. Questa parte o funzione della filosofia può essere chiamata ‘pratica’ (36).

 

Va ricordato, per meglio comprendere la distinzione fra etica filosofica e casistica, che Whewell riteneva che la “filosofia della morale” vertesse su questioni di giustificazione che possono venire svolte proficuamente soltanto dopo che è stato costruito in modo coerente un sistema del sapere positivo nel campo della morale. Come la filosofia della geometria si chiede “Da dove viene la cogenza di una prova geometrica? Qual è l’evidenza degli assiomi e definizioni?” (37), così la filosofia della morale sarà in grado di discutere con maggiore chiarezza le “questioni disputate e oggetto di dubbio che sono considerate parte della filosofia della morale” (38) dopo che i moralisti avranno prodotto un “corpo sistematico di verità nel campo della morale” (39). L’ambito e il ruolo della casistica sembrano per Sidgwick essere definiti in un modo che è derivato tale quale da Whewell e di conseguenza, anche la definizione dell’ambito e del ruolo della filosofia in quanto “pratica” segue la suddivisione di Whewell. I punti di divergenza sono che (a) Sidgwick accosta questa distinzione nel modo che si è detto a quella spenceriana fra scienza positiva e filosofia, (b) Sidgwick si preclude la possibilità di giustificare i principi della parte pratica della filosofia nel modo di Spencer, ossia per via empirica, perché nega che questa parte sia riducibile a una scienza di fatti, e si preclude di fondarli nel modo di Whewell, ossia per via razionale a priori, perché nega che principi come i cinque principi fondamentali di Whewell possiedano un’evidenza che ne imponga l’accettazione sotto pena di contraddizione logica. Sidgwick perciò assegna come compito al ramo della filosofia pratica chiamato etica l’unificazione dei principi e metodi del ragionamento rivolto a conclusioni pratiche, unificazione nella quale si può presumere rientri la correzione degli errori. Ma in questo compito non rientra la “giustificazione” perché nella parte pratica della filosofia quest’ultima per Sidgwick è impossibile. Se poi, come afferma la conclusione della prima edizione dei Metodi, anche la determinazione univoca dei doveri è un “inevitabile fallimento”, pure il compito dell’unificazione e correzione degli errori è non soltanto privo di fondamenti ma anche impossibile da portare a buon fine in modo coerente.

La fonte da cui trarre i “principi e metodi” dei ragionamenti diretti a conclusioni pratiche è quindi solo e unicamente l’onnipresente “senso comune” ovvero “the thought which we all share” (40), perché “vogliamo conservare l’armonia con il senso comune” (41) e non possiamo adottare alcune conclusioni “senza fare violenza alle nostre più profonde convinzioni” (42). Ma la filosofia

 

 – in quanto non costruisce il suo sistema… completamente a priori – usa primariamente ciò che potrei chiamare il metodo dialettico, cioè il metodo di riflessione sul pensiero che noi tutti condividiamo, con l’ausilio del simbolismo che noi tutti condividiamo, il linguaggio (43)

 

Si noti che la fonte dei materiali usati dalla filosofia è quindi il senso comune, ma il criterio della giustificazione sembra però essere coerentistico, e inoltre che il metodo è qualificato come “dialettico”. In questo Sidgwick sembra aggiungere all’idea positivistica di sistematizzazione anche un elemento idealistico hegeliano ripreso da Bradley. Così, partendo dal (i) senso comune come fonte e passando attraverso lo (ii) a priori della logica e la (iii) riflessione del metodo dialettico condotta per mezzo del linguaggio, la filosofia punta all’obiettivo della (iv) conoscenza. In altre parole, l’obiettivo consiste in “credenze vere o valide quali si possono concepire esistenti per una mente ideale indipendentemente non solo dagli errori ma da particolarità della crescita e sviluppo di particolari menti finite” (44) ovvero in “conoscenza”, cioè “credenze assunte come ben fondate” (45).

Alla luce di questa definizione del compito della filosofia, sembra che ciò che può fare la filosofia in campo pratico è però nulla più che (i) individuare eventuali “intuizioni” giustificabili in campo pratico, (ii) riflettere sul patrimonio di credenze che “noi” (coloro che fanno parte di questo “noi”) condividiamo, (iii) cercare incoerenze e in questo corpo di credenze, (iv) cercare incoerenze fra questo e l’insieme dei risultati delle scienze naturali in quanto insieme di credenze fondate e fra loro coerenti con le quali armonizzare le credenze del “senso comune”. Quanto questo procedimento possa fruttare in termini di “conoscenza” è il punto su cui si concentrano i dubbi più gravi di Sidgwick, oscillando dal riconoscimento del fallimento nel capitolo conclusivo della prima edizione alla diagnosi sull’impossibilità di conciliare i diversi “metodi” nel capitolo conclusivo delle edizioni successive.

 

 

3. L’idea di senso comune al tempo dei Metodi dell’etica

 

La nozione di senso comune di cui parlava Sidgwick era una nozione filosofica con una storia illustre, storia che i suoi lettori avevano in una certa misura presente. Il sensus communis, nozione in origine platonica e poi aristotelica, era presentato da Cicerone e poi dagli stoici latini come ciò che formava oggetto di consenso del genere umano, un insieme di credenze naturali e innate alla natura umana, non in opposizione alle verità filosofiche ma in continuità con queste (46). Nella filosofia moderna la nozione fu ripresa diverse volte come base di argomenti antiscettici, ad esempio da parte di Vico che la definisce “un giudizio senza alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano” (47) e poi da parte di Thomas Reid che diede inizio alla scuola del senso comune con la sua confutazione del supposto scetticismo humiano e la riduzione di tutta la filosofia moderna a partire da Cartesio e Locke a una sorta di premessa dello scetticismo (48). Secondo Reid i filosofi moderni avevano isolato ingiustificatamente una sola fra le credenze del senso comune, cioè che le idee sono presenti alla nostra mente, e preteso di derivare le altre, come la credenza nell’esistenza di oggetti esterni, da questa. Al contrario, le credenze del senso comune devono necessariamente essere accettate come ultime e con pari dignità, non perché abbiamo alcuna prova della loro verità ma perché il tentativo di rifiutarne o di derivarne qualcuna porta a conclusioni paradossali e contraddittorie per due ragioni principali: (a) il senso comune governa il linguaggio e il comportamento anche di chi lo ripudia, al punto che non è possibile la formulazione coerente di dottrine contrarie o una condotta coerente contraria ad esso; (b) il giudizio dei filosofi non ha più autorità su queste materie di quanta ne abbia il giudizio del “volgare” perché in “questioni di senso comune, ognuno è giudice non meno competente di quanto lo sia un matematico in una dimostrazione matematica” (49). La scuola scozzese nell’ultimo decennio del Settecento e nei primi decenni dell’Ottocento proseguì lungo la linea indicata da di Reid, e la versione cronologicamente più vicina a Sidgwick della filosofia del senso comune fu la sua riproposizione combinata con la filosofia kantiana da parte di William Hamilton (50), una delle non poche vittime degli attacchi polemici di John Stuart Mill che lo trattò nello stesso modo in cui aveva trattato Whewell, cioè da reazionario dogmatico, proponendo, in alternativa al metodo “introspettivo” di Hamilton, il metodo “psicologico”, cioè la teoria associazionista di James Mill, come via per dimostrare che le credenze indubitabili del senso comune avevano invece avuto una genesi che aveva dato loro gradatamente l’apparenza dell’ovvietà (51).

La nozione di senso comune in relazione all’etica ebbe però un peso maggiore fra i filosofi di Cambridge nell’Ottocento fra i quali Schneewind ha proposto di includere il poeta Samuel Taylor Coleridge (52) e poi William Whewell (53), John Grote (54), e John Frederick Denison Morice (55). Ciò che questi autori hanno in comune – al di là della differenza fra il romanticismo di Coleridge e del razionalismo di Whewell – è il fatto di difendere una visione del mondo religiosa contro la filosofia degli utilitaristi e di opporsi all’empirismo che vedevano in qualche modo connesso con l’irreligiosità. Coleridge sosteneva l’idea, derivata dai platonici di Cambridge e poi ripetuta da Morice e Grote, che i dati della nostra esperienza morale che attesterebbero la presenza di giudizi morali in qualche modo universali e l’autorità della coscienza contribuirebbero, insieme ai dati dell’esperienza del mondo fisico, a corroborare la tesi di un ordine vigente nell’universo, che a sua volta proverebbe la tesi dell’esistenza di un autore di questo ordine. Inoltre questi autori ripresero due idee non ignote alla Cambridge del Settecento: la prima era che la natura ci insegna verità morali e religiose poi confermate dalla rivelazione per cui la “teologia naturale” è la parte decisiva della teologia (idea avversata invece dagli “evangelici”, il movimento pietista in forte crescita nell’anglicanesimo dell’Ottocento che insistevano sul primato della “teologia positiva”), la seconda era che vi sarebbe una sorta di “rivelazione progressiva” nel corso della storia umana, per cui le verità religiose e morali sarebbero rese note all’umanità nel linguaggio che essa è in grado di intendere e vengono comprese progressivamente in modo più perfezionato e astratto. Whewell, pur condividendo l’antiempirismo e l’antiutilitarismo, si distaccava nel puntare invece sulla possibilità di una comprensione delle verità morali grazie a un metodo analogo a quello delle scienze della natura, che nella sua ricostruzione si basava su una circolarità fra fatti e idee a priori (56). Whewell affermava, come Price,che la morale nasce dall’intelletto e non dal Sense (57), ma per qualche motivo sentì la necessità di aggiungere, nella Prefazione alla seconda edizione, che

 

La morale ha le sue radici nella comune natura dell’uomo; e nessun sistema di morale può essere vero, eccetto un sistema in accordo con il Senso Comune del genere umano, finché il senso comune è coerente con se stesso, comprendendo nel termine Senso Comune sia le convinzioni degli uomini su ciò che è giusto sia i loro sentimenti su ciò che è moralmente buono (58).

 

E precisava che la sua concezione della morale era in accordo con le “common notions” dell’umanità. Perché Whewell ritenne di dover introdurre questa precisazione? In quale misura questa costituiva una gesto di pacificazione nei confronti degli altri filosofi di Cambridge influenzati da Coleridge? E soprattutto che cosa intendeva Whewell per “senso comune”? È chiaro che per lui il senso comune non svolge la stessa funzione che per Reid, in quanto è più razionalista, e tanto meno la stessa funzione che per Coleridge, Morice e Grote, in quanto non tenta di risalire dalla constatazione dell’esistenza dei giudizi morali alla prova dell’esistenza di un ordine del mondo, ma si limita a porre in circolo il sapere vago delle nozioni comuni dell’umanità con le idee chiare ma relativamente vuote evidenti a priori per giungere a un sistema di verità morali che sono da un lato vertenti sul mondo storicamente dato ma dall’altro necessarie per evidenza razionale, ovvero a dimostrare che l’eguaglianza degli esseri umani è un assioma evidente e che questo implica nelle condizioni storicamente date il dovere di adoperarsi per l’abolizione della schiavitù, la quale va abolita incondizionatamente, anche nel caso in cui un calcolo delle conseguenze ci provasse che la sua conservazione sarebbe tutto sommato più “felicifica” che la sua abolizione. La morale vera è un sistema di doveri fra loro in ordine gerarchico, di cui il più elevato è la legge suprema che è uno ought non appoggiato ad altri ought. In tal modo la morale del senso comune ha per l’intuizionista razionalista Sidgwick un ruolo inferiore a quello che aveva per gli intuizionisti sentimentalisti Coleridge, Morice, Groote.

Curiosamente questa “morale del senso comune” venne rivalutata da Mill nel suo ripiegamento tattico che seguiva l’attacco frontale mosso da Bentham contro il pregiudizio in genere e contro ogni dottrina precedente. Mill in Utilitarianism argomentò che l’esperienza dell’umanità ha accumulato norme morali basate su un “utilitarismo inconsapevole” (59). Così, a partire da metà secolo furono i seguaci di Mill a difendere la morale del senso comune e i seguaci di Whewell a sminuirla e comparve la nozione di utilitarismo inconsapevole che tanto peso avrà in Sidgwick. Va ricordato che nello stesso periodo comparve anche, ad opera di Groote, l’idea del fondamento “intuitivo” dell’utilitarismo, che pure sarà un ingrediente centrale della ‘soluzione’ sidgwickiana.

 

 

4. Le virtù della common-sense morality

 

Sidgwick così aveva respirato l’idea di senso comune nell’ambiente cantabrigense, lo aveva ritrovato in Mill, e gli assegna un ruolo assolutamente centrale nei Metodi. Il sospetto di chi scrive è che questo ruolo sia centrale ma anche ambivalente, perché Sidgwick non ha del tutto chiaro se mira a confermare o a squalificare il ruolo del senso comune in etica. Secondo Sidgwick non è difficile individuare i principi generali del giusto e dell’ingiusto:

 

è sufficiente solamente un poco di riflessione e di osservazione sul discorso morale degli uomini per riuscire a individuare un insieme di queste norme generali sulla cui validità c’è un apparente accordo, almeno da parte delle persone morali della nostra epoca e civiltà che coprirebbe con una certa completezza l’insieme della condotta umana. Questo insieme, considerato come un codice imposto all’individuo dall’opinione pubblica della comunità cui appartiene, è ciò che qui abbiamo chiamato la Morale Positiva della comunità, ma quando è considerato come un corpo di verità morali, garantito essere tale dal consenso dell’umanità – o almeno da quella parte dell’umanità che a un’adeguata apertura intellettuale unisce un serio interesse per la morale – viene indicato in maniera più significativa come la morale del Senso Comune (60).

 

Si possono fare i seguenti commenti al passo riportato:

a) il rapporto fra morale del senso comune e morale razionale non è di superamento o sostituzione ma di sistematizzazione; questa a sua volta si svolge facendo ricorso a introspezione e consenso e implica una idea di filosofia come scienza o superscienza nel senso del positivismo ottocentesco, non come analisi del linguaggio o come critica della giustificazione degli asserti delle scienze e di altri ambiti di discorso nel senso della filosofia analitica del Novecento;.

b)morale positiva e morale di senso comune sono due facce di una moneta; una volta che ci si rende conto che la morale  positiva consiste in codici di norme condivisi nelle diverse società, si apre la via alle ricerche storiche, sociologiche, antropologiche sulle morali, quelle che la scienze sociali intrapresero proprio negli ultimi due decenni dell’Ottocento, nella fase del declino del Positivismo; ma per quali motivi e con quale giustificazione le morali positive possano essere considerate anche come “corpo di verità morali” è una cosa misteriosa. Tutto l’onere della prova riguardo alla possibilità e legittimità della distinzione fra le due ricade su Sidgwick; e non è chiaro dove Sidgwick abbia dato questa prova;

c) la seconda faccia della moneta, la morale di senso comune, può essere riconosciuta come un corpo di verità in base all’argomento del consenso;

d) questo consenso, lasciando in sospeso come Sidgwick, sulla base delle sue stesse premesse generali, possa ammettere il consenso come un argomento, è però quello di una parte dell’umanità;

e) la parte è scelta per via della sua superiorità intellettuale e della sua superiorità morale.

Sono legittime le seguenti domande: chi sceglie la parte? Chi riconosce la superiorità intellettuale? Chi riconosce la superiorità morale? In attesa di risposte plausibili, a chi scrive resta l’impressione che Sidgwick sia giunto verso fine carriera ad adottare il relativismo etico descrittivo dato che era impossibile negare o ignorare questa tesi e che d’altra parte abbia conservato un assolutismo etico antropocentrico che si applica alla comunità dei britannici maschi, adulti, anglicani o agnostici (più o meno la posizione che dichiaravano di assumere a proposito della religione gli autori del Settecento: quanto segue vale per tutte le religioni, fatta eccezione per la nostra che è la religione rivelata);

f) la credenza nell’esistenza di un progresso morale in atto può forse, in mancanza di giustificazioni plausibili, avere svolto un ruolo di surrogato nel far credere a Sidgwick che il problema non fosse così grave; Sidgwick ‘constata’ che la morale del senso comune sta migliorando” e invita a “considerare l’attuale morale civilizzata del tempo presente semplicemente come uno stadio in un lungo processo di sviluppo nel quale la mente umana si è… gradualmente mossa verso una comprensione più fedele di ciò che deve essere. Non troviamo soltanto cambiamento… vediamo progresso” (61). Questo progresso sembra consistere in cambiamento concettuale e uscita da errore, confusione, incertezza, grazie a una “più ampia esperienza, più piena conoscenza, più estese e raffinate simpatie” (62). Non vi è ragione di supporre che lo sviluppo sia già completo; possiamo credere che vi siano deficienze nella nostra morale attuale. L’utilitarismo sembra essere però il punto di arrivo del progresso: è “ciò a cui possiamo ora vedere che lo sviluppo umano ha sempre teso… la forma di morale adulta e non quella germinale” (63).

g) e infine il senso comune di Sidgwick, “la morale comune che io e il mio lettore condividiamo” (64), “il comune senso morale dell’umanità ordinaria” (65), “il senso comune dell’umanità in generale (66), “l’esperienza comune degli uomini civilizzati” (67), “il senso comune (nell’Europa moderna)” (68) sembra essere una cosa diversa da quello del tempo dell’illuminismo. Il senso comune era un’idea illuminista-scettico moderata che ritroviamo in Vico, Reid, Kant e sotto altro nome in Voltaire e Rousseau. Era una soluzione che sembrava offrire una terza via fra razionalismo platonico e scetticismo immoralista. Era una soluzione che pagava un alto prezzo: il riconoscimento di un universalismo descrittivo notevolmente dogmatico, l’assunzione della superiorità morale di un fantomatico uomo semplice non rovinato dalla civiltà. Queste assunzioni erano non difficili da tollerare per degli illuministi veri. Sono assunzioni più difficili per un post-illuminista come Sidgwick per motivi apprezzabili e per motivi meno apprezzabili: questi ultimi sono a) l’assunzione del corso della storia di fatto come tribunale; b) la restrizione dell’umanità al prodotto del processo darwiniano, ovvero ai gentleman inglesi vittoriani (neri, indiani, donne, italiani sono esclusi).

Si può accusare Sidgwick di consegnarsi prigioniero a un insieme di opinioni prevalenti in un’epoca, un’etnia, un paese, un genere, una classe nel momento in cui scientemente le connota come “senso comune” e le paragona allo ethos greco proponendosi di fare ciò che Aristotele ha fatto per quest’ultimo? Direi proprio di sì. Infatti, il motivo per cui Sidgwick modifica la nozione di senso comune dei settecenteschi è il fatto di condividere una inconfessata filosofia della storia che gli permetteva di liberarsi dal dogmatico assunto settecentesco della universalità della natura umana per sostituirvi la tesi del progresso dal meno al più e dal peggio al meglio che ha l’indiano politeista al fondo e il nordeuropeo protestante al culmine. In tal modo non occorre più confidare nella immutabilità del senso comune, ma occorre confidare nell’esistenza di un progresso verso il meglio. Scheewind ha difeso in parte Sidgwick da questa accusa, formulata da Hare, secondo il quale i giudizi morali di fatto esistenti ci possono aiutare soltanto a verificare “teorie antropologiche su ciò che, in generale, la gente pensa che uno dovrebbe dare, non principi morali su ciò che uno dovrebbe fare”. (69) La difesa di Schneewind è che Sidgwick non si affida alla verità delle opinioni ricevute ma le prende come punto di partenza per la ricerca di un codice coerente. Aggiungerei che, per comprendere Sidgwick in base alle sue proprie intenzioni, va ricordato che ritiene che non si possa avere di più della coerenza, e che tuttavia la ricerca della coerenza sia un modo efficace di correggere gli errori. Con questa precisazione, ritengo che l’obiezione resti decisiva, che cioè va dato atto a Sidgwick dell’intenzione di usare i dati della morale  positiva come se testimoniassero una forma di conoscenza e di proporsi di rendere più coerente e sistematica questa conoscenza. Questo resta un progetto che ha una sua legittimità, ed anzi – come argomenterò – è il contributo più utile di Sidgwick. Ciò che Sidgwick però pretende di fare è molto di più: giustificare la verità di un sistema di etica normativa sulla base della sua (relativa) ‘universalità’ e (potenziale, o auspicabile, o perseguita) coerenza. Il fatto che Sidgwick constati poi che il suo proposito non è realizzabile dovrebbe averlo indotto, anziché ad annunciare come una conclusione dimostrata l’incoerenza vigente nel mondo pratico, semplicemente a ripensare il progetto iniziale.

 

 

5. E i vizi del senso comune rozzo

 

Vorrei avanzare l’ipotesi che Sidgwick, vero la fine della sua carriera, pensò di avere trovato una soluzione alle sue incertezze sul ruolo del senso comune in una distinzione già formulata da Thomas Reid. Nel 1895 scrive che Reid ha il merito di avere mostrato come “le stesse prove su cui ci si basa per mostrare l’irrealtà delle percezioni sensibili in realtà offre una testimonianza notevole a favore della validità generale della credenza in una realtà indipendente conosciuta attraverso la percezione sensibile” (70), ed è sulla base di questa assunzione che il “senso comune organizzato in scienza continuamente ad un tempo corregge e conferma il senso comune rozzo” (71).

Riprendendo la critica di Reid alla filosofia moderna, Sidgwick afferma che è ingiustificato accettare alcune delle credenze del senso comune e rifiutarne altre che hanno altrettanta certezza e che è invece doveroso accettare provvisoriamente tutte queste credenze e poi impegnarsi a chiarirle attraverso la riflessione, eliminando Inadvertencies, confusions, and contradictions e infine – si noti – “costruire con i risultati dell’opera di purificazione un sistema ordinato e armonioso di pensiero” (72). La definizione di senso comune sembra essere quella di un insieme di “credenze che non si presentano o come esattamente autoevidenti o come conclusioni dimostrate da premesse autoevidenti, anche se nel pensiero ordinario esse appaiono venire assunte acriticamente” (73).

Un punto decisivo nella soluzione che Sidgwick sembra volere adottare è la distinzione fra il senso comune “rozzo” e il senso comune delle persone istruite, per di più corretto dal confronto con i punti di arrivo delle scienze naturali al quale Sidgwick dichiara di fare riferimento.

Gli interrogativi cui si dovrebbe rispondere per definire questo senso comune non rozzo mi sembrano i seguenti:

a) è il common sense di chi? La risposta è che è quello dei “più informati e più coscienziosi” (chi esattamente?). Si è ricordato come secondo Schneewind Sidgwick non approfondisce la questione perché ciò che gli preme sostenere è che anche questo senso comune più raffinato non risolve le difficoltà della determinazione esatta dei doveri morali (74); il senso comune sembra essere “more o less” riflesso nello “ordinary thought of educated persons”, anche se aggiunge subito “I should add ‘of the present age’” (75), e aggiunge poi: “Non intendo senso comune interamente non scientifico, ma il senso comune delle persone istruite rettificato da una conoscenza generale dei risultati e metodi della scienza fisica” (76);

b) una fonte decisiva delle difficoltà di Sidgwick potrebbe essere la sua totale estraneità a quella dottrina ancora ignota nel secolo xix che è il tanto spesso deprecato relativismo. Sidgwick, come i filosofi di Cambridge, crede al contrario che vi sia una progressiva evoluzione dell’umanità dal meno al più, nel senso di una maggiore comprensione delle verità morali. Non crede di avere bisogno di documentazione storica dettagliata per sostenere questa tesi, ignorando le ricostruzioni, ancora pionieristiche ma penetranti, degli illuministi scozzesi che portavano a conclusioni ben più problematiche. D’altra parte Bentham credeva in uno schema ancora più antistorico e ancor meno bisognose di conferme empiriche, ovvero la dicotomia fra pregiudizio e avvento della ragione. James Mill, nella sua History of British India, aveva introdotto un’idea di progresso, forse eredità scozzese che doveva temperare un po’ la secca dicotomia benthamiana, idea che fa coincidere il progresso con il passaggio da credenze dogmatiche e superstiziose all’adozione graduale del criterio dell’utilità (77), e John Stuart Mill aveva modificato questo schema in modo più benevolo, concedendo che molto della saggezza gradualmente accumulata dall’umanità nel passato (incluso l’insegnamento degli stoici e di Gesù di Nazareth) era in realtà utilitarismo implicito. Questi schemi sono ovviamente etnocentrici e fortemente immunizzati da ogni possibile confutazione basata su  indagini empiriche. Nota Schneewind che Sidgwick ammette differenze all’interno del senso comune, ma queste sembrano legate a posizioni metafisiche, non a posizioni di classe, genere, cultura e che “ciò che colpisce il lettore moderno” è “l’apparente sicurezza con cui assume che i giudizi morali possano essere pienamente razionali. Semplicemente non spreca il suo tempo a discutere il relativismo o lo scetticismo in quanto tali nei Metodi” (78).

 

 

6. Due birilli con una boccia: i limiti delle intuizioni morali e l’incoerenza dell’intuizionismo dogmatico

 

La ricerca di Sidgwick in etica va collocata nella discussione successiva alla non sufficientemente nota, controversia fra Mill e Whewell. Va ricordato che in una prima fase il giovane Sidgwick diviene un seguace di Mill che sembra offrirgli contemporaneamente un’alternativa spirituale all’anglicanesimo in cui era stato educato e al quale ancora aderiva con convinzione durante l’adolescenza e un’alternativa teorica all’etica normativa dei doveri basata su un’epistemologia morale intuizionista di Whewell che il giovane Sidgwick si era dovuto malvolentieri digerire durante i suoi studi a Cambridge. È rilevante la circostanza che, sia per l’opinione pubblica britannica nel suo insieme sia per l’itinerario esistenziale di Sidgwick, le due alternative complessive (in filosofia, in religione, in politica, e in un più generale atteggiamento nei confronti della vita) erano rappresentate da un lato da: a) la Chiesa d’Inghilterra, b) la conservazione, c) Whewell (pochi decenni prima ci sarebbe stato Paley) e dall’altro lato da: a) quelli che si erano chiamati Philosophical radicals e che ora si chiamavano utilitaristi, b) il ‘progresso’, la ‘libertà’ e la rottura (un po’ reale e un po’ immaginaria) con l’establishment, c) Mill. In seguito il percorso di Sidgwick è fatto di oscillazioni, con parziali distacchi e parziali ritorni alle dottrine di Mill, nell’ambito di un cambiamento di contesto che lo porta dalla giovanile parziale e ben calcolata rottura con lo establishment al pieno inserimento nello establishment stesso. È un ben noto vizio della tradizione italiana quello di ridurre l’analisi delle teorie a storia dei sistemi e questa a storia delle opinioni, e infine quest’ultima a storia delle istituzioni culturali, e non si vuole qui cadere in quel vizio. Ma conviene tuttavia rendere conto della rilevanza e delle implicazioni che certe dottrine filosofiche avevano proprio per sfuggire al rischio di leggere le argomentazioni teoriche di Sidgwick seguendo il filo che egli stesso ci fornisce (il trionfo della ragione sulla superstizione) e quelle dei suoi avversari leggendone la ricostruzione datane dallo stesso Sidgwick e da Mill, e infine per capire perché certe particolari dottrine contro cui Whewell era in polemica avesse da un lato tanto peso e dall’altro fossero ritenute tanto emblematiche e riassuntive da non essere criticate puntualmente come tali, a da essere esaminate nella forma di una costruzione ad hoc che (nelle intenzioni di Sidgwick) avrebbe dovuto riassumere una delle possibili risposte fondamentali alla domanda etica che lo spirito umano avrebbe adottato per alcuni millenni.

Per rendersi conto del tono della controversia teorico-politica fra benthamiti ed intuizionismo, presunta filosofia dello establishment, vale la pena di ricordare un passo autobiografico di Mill:

 

L’idea che verità esterne alla mente possono essere conosciute per intuizione o coscienza, indipendentemente da osservazione ed esperienza è, sono convinto, al giorno d’oggi, la grande difesa intellettuale di dottrine erronee e cattive istituzioni.

Grazie a questa teoria, ogni credenza inveterate e ogni intenso sentimento, la cui origine sia difficile da ricordare, è autorizzato a sottrarsi all’obbligo di giustificarsi razionalmente, ed è eretto a proprio autosufficiente attestato e giustificazione (79).

 

L’avversione di Mill per l’intuizionismo si sposa bene con l’empirismo epistemologico milliano, con il suo psicologismo, e con una rappresentazione del cosiddetto intuizionismo che ne rappresenta una caricatura, come emerge dalla controversia fra Mill e Whewell sull’induzione. Il rapporto fra Sidgwick e Mill, in termini psicologici e di schieramenti ideali nello scenario inglese di metà Ottocento, sembra avere giocato brutti scherzi a questo proposito. Sidgwick, che in una certa fase adorava Mill, ne prese le distanze in modo notevole sull’empirismo, sulla necessità di intuizioni “filosofiche”, anche se forse non del tutto sullo psicologismo. La cosa curiosa, ma tipica delle controversie, è che sul tema principale, quello delle intuizioni, a un certo punto Sidgwick dà ragione all’errore di Whewell pur continuando a condannare l’errante Whewell, e condanna le tesi di Mill pur continuando a professare la propria fedeltà a Mill. La cosa più impressionante è invece quanto poco Sidgwick discuta direttamente le teorie di Whewell. Nella prima edizione si nomina incidentalmente Whewell come uno fra altri autori a proposito della veridicità e della purezza come due fra le cinque virtù cardinali (80) e a proposito della definizione di prudenza come facoltà di scegliere mezzi adatti ai fini (81); nella sesta lo si nomina per accusarlo di ricorrere a considerazioni utilitariste quando ha cercato di mostrare la necessità delle norme morali (82); lo si cita con approvazione parziale a proposito dell’idea che è la ragione a costituire lo stesso nostro essere (83). Manca invece ogni tentativo di discutere la teoria dell’intuizionismo, nella forma di Price o in quella di Whewell, in modo paragonabile a quello in cui è invece discussa la teoria dell’utilitarismo effettivamente proposta da Bentham e Mill; il punto importante mai menzionato è che per Price e Whewell il senso comune ha una rilevanza marginale, perché il loro intuizionismo parte dall’idea di proposizioni razionali autoevidenti in quanto non negabili senza cadere in contraddizione, non di opinioni virtualmente sempre condivise dall’umanità come quelle cui si riferivano Cicerone, gli stoici, Reid, Coleridge, Morice e Grote.

L’immeritamente famoso “intuizionismo dogmatico” di Sidgwick sembra quindi una costruzione tutta sua, di cui non dà con precisione la denotazione (non afferma mai quali autori e con quali affermazioni sostengono la posizione da lui così denominata) e che si risolve quindi in una sorta di figura dello spirito assoluto, una tappa dell’itinerario della riflessione di Sidgwick che lui stesso crea per poi superarla. In realtà il libro iii non è una critica dell’intuizionismo quale dottrina etica svolta da Price e Whewell. È una discussione di un uomo di paglia costruito ad hoc, con elementi ripresi soprattutto da Reid. Ma il senso comune di Reid non è l’intelletto di Price e Whewell, e anche se Reid è classificabile anch’egli come intuizionista, non è l’interlocutore filosofico della discussione della metà dell’Ottocento inglese.

Un punto della critica di Sidgwick a Whewell ricalca uno dei punti principali della controversia fra quest’ultimo e Mill, ovvero il rapporto fra legge civile e morale (84). Sidgwick nega che sia possibile risolvere il conflitto possibile fra legge civile e legge morale se non ricorrendo a considerazioni utilitaristiche e afferma che il Senso Comune manifesta un consenso su considerazioni vaghe e indeterminate che per venire rese precise hanno bisogno proprio di tali considerazioni utilitaristiche. Prova ne sia che fra i giuristi (si noti, non fra i filosofi intuizionisti) vi sono opinioni diverse ad esempio sul fatto se noi siamo strettamente tenuti ad obbedire alle leggi se queste comandano ciò che non è in altro modo un dovere o proibiscono ciò che non è altrimenti un peccato” (85); questa “differenza di opinioni” dimostrerebbe secondo Sidgwick che

 

Appare infondato sostenere l’esistenza di qualche chiaro e preciso assioma o principio primo dell’Ordine, riconosciuto intuitivamente come vero dalla ragione e coscienza comune dell’umanità. Vi è senza dubbio, una vaga abitudine generale di obbedienza alle leggi in quanto tali (anche se sono cattive leggi) che può giustamente vantare un consenso universale della società civilizzata; ma quando tentiamo di formulare qualche principio esplicito corrispondente a questa abitudine generale, il consenso sembra abbandonarci (86).

 

Si noti che il “principio primo dell’Ordine” non è il frutto di un esperimento mentale di Sidgwick, ma è una dottrina di Whewell; Sidgwick non ne fa il nome probabilmente perché ritiene che per il lettore l’associazione della dottrina all’autore sia cosa ovvia. Il principio è nominato da Whewell nel libro secondo cap. 2 degli Elements e definito come una disposizione a conformarci sia alle Leggi umane positive come condizioni necessarie del nostro conformare le nostre azioni, intenzioni, desideri alla Norma Suprema, sia alle loro Norme Morali speciali in quanto espressione della Norma Suprema, e la parte della Norma Suprema corrispondente è così formulata: “Dobbiamo accettare le leggi positive come condizioni necessarie della morale (87). Va notato che il principio non è introdotto da Whewell per risolvere il problema qui discusso da Sidgwick, ovvero quello della soluzione dei casi dubbi relativi alla sussistenza di un obbligo in coscienza di obbedire alla legge civile, un problema tradizionale della casistica, a proposito del quale la casistica stessa aveva data risposte molto più articolate e complesse di quelle che Sidgwick menziona riferendosi ai “giuristi” in generale e facendo riferimento soltanto a Austin, Hobbes, Blackstone, ma per affrontare un problema molto più generale, considerando le leggi particolari in quanto particolari, e non in quanto civili o morali. Infatti Whewell aggiungeva:

 

tutte le concezioni distinte e definite delle leggi dell’azione umana devono implicare un riferimento alle relazioni che le leggi positive stabiliscono, Quindi le leggi morali, per essere distinte e definite, devono dipendere dalle leggi; e devono presupporre che le leggi siano fisse e permanenti. È nostro dovere promuovere, mediante i nostri atti, questa fissità e permanenza […] Questa disposizione può venire denotata dal termine Ordine, inteso in un senso ampio e comprensivo. Ma inoltre: non solo le Leggi umane positive ma anche le Norme morali subordinate sono condizioni necessaire della morale. Non possiamo conformare le nostre azioni, intenzioni, desideri, alla Norma Suprema senza avere nel nostro pensiero Norme subordinate, che sono espressioni parziali della Norma Suprema; e a tali Norme subordinate è nostro dovere conformare le nostre Intenzioni e Desideri. La disposizione a fare ciò può essere anch’essa fatta rientrare nel termine Ordine, inteso nel suo senso più ampio (88).

 

Ciò che Sidgwick sembra ignorare è che il problema da lui menzionato era stato trattato da Whewell altrove, precisamente nel capitolo 1 del libro iv degli Elements, dove aveva illustrato come la morale dipendesse dalla legge per un certo aspetto, ovvero la definizione dei diritti, sui quali fa vertere le norme, ma va giudicata in base alla morale per un aspetto diverso, ovvero in quanto la morale fornisce un criterio, o una ‘idea regolativa’ per usare un linguaggio non whewelliano, in base al quale le leggi date qui ed ora vanno giudicate e tendendo al quale è auspicabile siano modificate e “quindi, al momento, in ogni momento, la Morale dipende dalla Legge; ma sui tempi lunghi, la Legge deve essere regolata dalla Morale” (89). Il criterio in base al quale le leggi positive vanno giudicate non è però l’assioma dell’Ordine, che svolge invece la funzione che si è illustrata, ma quello della Giustizia, così definito: “ogni uomo deve avere il suo” (90). Le direttive pratiche che Whewell fa discendere sono il dovere di attenersi alla legge, nei casi in cui sia arbitraria, soltanto alla lettera, il dovere per chi ha qualsiasi potere, incluso il diritto di voto, di dare una “rilevanza morale” a questo potere, che non va mai usato per promuovere il proprio interesse ma solo per promuovere obiettivi di interesse pubblico, e infine di usare i propri diritti politici nel promuovere cambiamenti” che vadano nel senso di “promuovere meglio i fini della morale” (91). Inoltre Whewell pensava di avere affrontato e risolto il problema di cui Sidgwick denuncia l’esistenza rispetto alla giustizia. Nel capitolo 21 del libro iii infatti Whewell risponde all’antica obiezione secondo la quale la legge di natura, essendo la legge positiva diversa a Roma e ad Atene, non esiste in alcun luogo. La risposta di Whewell è che la difficoltà si risolve alla luce della sua generale soluzione basata sulla circolarità fra Idea e Fatto. La risposta è

 

Che i Concetti dei Diritti Fondamentali, che la Legge stabilisce, sono necessari e universali per tutti gli uomini; ma che le Definizioni di questi Diritti sono Fatti, che derivano dalla Storia di ogni comunità, e possono essere diversi in diversi tempi e luoghi (92).

 

Non sembra che Sidgwick sia consapevole del tentativo di Whewell di risolvere la difficoltà, e di conseguenza non fa alcun tentativo di criticare la soluzione. Su questo punto come su altri Sidgwick non pensa di dover criticare le dottrine degli avversari (diversamente da quanto fa per le dottrine degli utilitaristi che ricevono una esemplare disamina estremamente analitica) probabilmente perché a interessargli veramente non sono questi, ma soltanto quelle che lo stesso Sidgwick crede (senza grandi basi empiriche) siano le credenza del senso comune. Le dottrine di Whewell e compagni di strada poi gli sembrano cadere una volta che si siano mostrati i limiti delle credenze del senso comune. Questa pretesa implicazione ovviamente è del tutto ingiustificata e per spiegarla dobbiamo rifugiarci in qualche spiegazione psicologica, come una sudditanza interiorizzata nei confronti degli anatemi di Mill, dai quali probabilmente in Inghilterra non si poteva dissentire più di quanto in Italia si potesse dir male delle poesie di Garibaldi. Sembra quindi che Sidgwick si attacchi alla parola “Ordine” senza preoccuparsi degli usi che Whewell ne aveva fatto e ripeta l’accusa di Mill di difendere una dottrina reazionaria che consacra lo status quo, ivi compresa l’istituzione della schiavitù. In realtà la disputa fra Mill e Whewell sulla schiavitù si era conclusa con una lettera di scuse di Mill a Whewell dove ammetteva di averlo diffamato, ma la lettera rimase una lettera privata e le affermazioni a stampa continuarono a circolare. E nel capitolo 2 del Supplement alla terza edizione degli Elements Whewell aveva dato una risposta articolata a questa accusa, argomentando che la legge positiva si limita a fornire la materia prima della norma morale, ad esempio definendo che cosa debba intendersi per matrimonio o per proprietà, ma che poi la morale giustifica a partire da propri punti di partenza l’esistenza dei doveri della fedeltà coniugale o del rispetto della proprietà (93). Non è possibile documentare se Sidgwick abbia mai letto questa risposta dato che non vi fa riferimento (94).

Un secondo punto riprende ancora un motivo della controversia fra Mill e Whewell, e alla lontana l’argomento principe di Bentham secondo il quale chi nega il principio di utilità lo afferma in altre parole, è l’accusa di ricorrere a considerazioni di expediency per giustificare l’osservanza delle norme morali tradizionali, al punto che “perfino moralisti (come Whewell) che si oppongono nel modo più netto all’utilitarismo sono stati trascinati, nel tentativo di dimostrare la ‘necessità’ delle norme morali, a ricorrere a considerazioni utilitaristiche” (95). L’accusa è mossa senza criticare affermazioni dettagliate di Whewell o altri autori intuizionisti.

Il terzo punto della critica ai moralisti intuizionisti è di non sapere dare contenuti precisi e delimitati alle norme che pretendono di fondare. Il difetto decisivo dell’intuizionismo “dogmatico” è di non sapere giustificare l’intuizionismo in senso stretto ma solo quello in senso lato, cioè quel tanto di intuizionismo che è contenuto anche nell’egoismo e nell’utilitarismo, ma i principi che sembrano venire così stabiliti non sono però principi specifici, perché sono i principi che stanno alla base dell'egoismo razionale (prudenza) e dell'utilitarismo (giustizia e beneficenza).

Un esempio di questa incapacità riguarderebbe la giustizia. Nel cap. 5 del libro iii afferma che

 

è un’assunzione del metodo intuizionista che il termine ‘giustizia’ denoti una qualità che è ultimamente desiderabile realizzare nella condotta e nelle relazioni sociali degli uomini, e che si possa darne una definizione che sarà accettata da tutti i giudici competenti come un modo di presentare, in forma chiara ed esplicita, ciò che essi hanno sempre inteso con il termine, anche se forse implicitamente e vagamente (96).

 

Ne risulterebbe che la giustizia è una forma di eguaglianza o meglio di imparzialità che includerebbe i principi della riparazione e quelli della giustizia conservatrice (osservanza di contratti e leggi e delle aspettative “normali”) e della giustizia ideale (contiene ideali contrastanti: individualista – ideale della libertà – e socialista – ideale della ricompensa del merito (entrambi hanno difficoltà di applicazione). La letteratura ha per lo più riferito questa affermazione di Sidgwick come indubitabile. In realtà Whewell sulla nozione di giustizia affermava che questa consiste nel “desiderio che ogni persona debba avere ciò che le è proprio” e la parte della Norme Suprema che perviene a questa virtù può essere espressa dicendo al par. 119 che “ogni uomo deve avere ciò che è suo” (97); il contenuto preciso, ovvero i diritti che ognuno ha in materia di proprietà, si precisa ai parr. 386 e 397, è dato da istituzioni storicamente date ma da modificare in vista di un loro maggiore adeguamento all’ideale dell’eguaglianza fra gli esseri umani (98).

Un altro esempio di questa incapacità riguarderebbe le promesse e la veracità. Le promesse e il dovere di obbedire alle leggi vanno discussi come doveri indipendenti dalla giustizia, perché ricadano sotto la giustizia solo quando la loro inosservanza danneggia altri. Che la legge che comanda ciò che è immorale non ha diritto all’obbedienza è ammesso da tutti ma è una tautologia. Quando si tratta di sapere quali sono i limiti precisi vi è una grande disparità di opinioni e ciò proverebbe i limiti dell’intuizionismo. Il dovere di mantenere le promesse è ammesso da tutti e sembra intuitivamente un obbligo indipendente e certo. D’altra parte sembra condivisa l’esistenza di un gran numero di eccezioni: quando una promessa contrasta con un altro obbligo; quando la cosa promessa è immorale; quando le circostanze sono modificate; quando la promessa è ottenuta con la menzogna ecc. Si pone il problema del senso in cui una promessa vada mantenuta quando il senso comunemente accettato dei termini ha subito una variazione. Di nuovo il senso comune non raggiunge l’accordo su quali siano esattamente queste eccezioni. “Se qualcuna di queste condizioni viene meno, sembra che il consenso diventi evanescente e che le percezioni morali comuni delle persone riflessive cadano nell’oscurità e nel dissenso” (99).

Fra questo casi elencati è significativo l’esempio della promessa ottenuta attraverso la reticenza su fatti rilevanti: secondo Sidgwick il metodo dell'intuizionismo è senza risposta. Non nota che Whewell nel cap. 15 del libro ii pretendeva di avere risolto il problema con il “Principle of Truth” stabilendo che in casi come quello della promessa estorta in base a informazioni non vere, il dovere che trae origine dalla promessa è sempre da intendere come condizionale, legato alla veridicità delle condizioni note al momento della formulazione della promessa stessa e che fa riferimento a casi discussi ampiamente nella letteratura della casistica, e addirittura già in Cicerone (100).

Il punto decisivo che in tal modo Sidgwick evita di dover affrontare è che Whewell tenta di risolvere un problema di possibile conflitto senza pretendere che il senso comune l’abbia già risolto ma soltanto che sia possibile risolverlo in base a distinzioni razionalmente giustificabili ma notevolmente astratte e non note al senso comune; sostiene una tesi nuova rispetto al senso comune, ma non per questo la sostiene non in base a considerazioni relative alle conseguenze o alla felicità ma solo a considerazioni di coerenza interna. Sidgwick avrebbe dovuto criticare queste argomentazioni di Whewell, dei casisti, di Cicerone, non le opinioni da lui attribuite al senso comune (101).

Un problema connesso è quello della giustificazione dei limiti dell’obbligo della veracità. La norma di “dire la verità” non sarebbe difficile da applicare; tuttavia, anche se “molti moralisti lo hanno considerato, per la sua semplicità e precisione, come un esempio decisamente incontrovertibile di assioma etico” (102), tuttavia la “riflessione” mostrerebbe che non si può elevare la veridicità ad “assioma morale definito” (103). L’argomentazione di Sidgwick prosegue con la considerazione che il Senso comune ritiene che il diritto alla veridicità possa essere sospeso in certe circostanze, come quelle in cui si tende ad ammettere la bugia pietosa, e che non si capisce “come possiamo poi stabilire quando e in che misura essa sia ammissibile se non attraverso considerazioni di convenienza [expediency]” (104).

In conclusione la norma della veracità non può essere elevata al rango di “assioma morale definito” perché non c’è accordo nel “Senso Comune” su quando l’assoluta sincerità “non deve essere pretesa” (105). Anche l’argomento kantiano del carattere autoannullantesi della norma di mentire in certe circostanze basato sulla conseguenza della perdita di credibilità di ogni asserzione è squalificato affermando che “l’assioma come tale non si impone” (106) e costituisce soltanto “una forte – ma non formalmente conclusiva – ragione utilitarista per dire la verità” (107).

Questo è uno dei pochi casi in cui Sidgwick cita Whewell in modo preciso. Afferma: “non è infrequente dire che per difendere un segreto non è affatto permesso mentire… ma che è permesso aggirare la questione” (108), ma aggiunge che in realtà si dimostra solo che vi è un pericolo proprio della mancanza di veracità che costituisce una ragione utilitarista per dire la verità. Va ricordato che Whewell in realtà aveva affermato:

(i) al par. 120 che le condizioni necessarie di una norma dell’azione umana comprendono l’esistenza di “una reciproca comprensione fra gli uomini, di modo che essi possa fare affidamento gli uni sulle azioni premeditate e predeterminate degli altri” (109);

(ii) sempre al par. 120 che l’idea di Verità come Virtù Cardinale che può essere chiamata anche Integrità o Veracità è l’idea di una conformità alla “intesa universale fra gli uomini che è implicata nell’uso del linguaggio” (110).

(iii) al par. 216 che un contratto che impegna a dire la verità è implicato nell’uso del linguaggio; e un diritto a conoscere la verità è trasmesso da ogni parlante alla persona alla quale indirizza le sue asserzioni” (111);

(iv) al par. 296 che la menzogna si trova nella stessa situazione della promesse perché “una menzogna è una violazione dell’intesa generale nell’umanità implicata dall’uso del linguaggio” (112);

(v) al par 301 che mentire porta sempre con sé una macchia morale con l’eccezione del “caso di necessità”, come quando si mente per salvare una persona, cosa che “viene considerata come per lo meno scusabile” (113);

(vi) al par. 323 che i casi di necessità ammettono la violazione di una norma per un bene maggiore come la salvezza di una vita umana, e che ciò costituisce un dilemma morale nel caso in cui la vita umana non sia la propria, e infine che per questi casi non si devono dettare regole precise ed è bene che resti il rimorso per avere infranto la norma (114).

Va notato che è a proposito della menzogna Sidgwick cita per l’unica volta Whewell a proposito di una tesi precisa di etica normativa e ne cita la conclusione, come una fra le opinioni che i moralisti condividerebbero con il senso comune (cosa che però non ritiene di dover dimostrare) ma non discute le soluzioni precise che Whewell propone sulla menzogna per necessità come non aveva criticato quelle sui limiti al dovere di mantenere le promesse, probabilmente perché ritiene che la critica dettagliata alle tesi dei moralisti intuizionisti esuli dal compito che si è prefisso, che sarebbe quello di sistematizzare le conclusioni del senso comune, non quello di criticare le teorie intuizioniste. Non ci sarebbe nulla di male in tutto ciò se Sidgwick non annunciasse poi ripetutamente la conclusione che quindi il cosiddetto “intuizionismo dogmatico” non regge.

 

 

7. Discussione: motivi positivisti e motivi ‘analitici’ in Sidgwick

 

7.1. L’invenzione della metaetica

 

Le concessioni che Sidgwick aveva fatto all’intuizionismo con l’ammissione dell’intuizionismo in senso allargato sono: a) le intuizioni presupposte nel pensiero morale ordinario non sono note ai pensatori morali ordinari; b) solo teorici addestrati sono capaci di identificarle; c) la loro formulazione esatta è difficile e contestabile; d) intuizioni apparenti possono dover essere rettificate per renderle compatibili (115). Si vedranno al punto successivo le difficoltà che queste concessioni sollevano. Qui si ci si limiterà a notare che in realtà Sidgwick deve all’intuizionismo, e in particolare a Whewell, più di quanto riconosce con queste concessioni esplicite. In particolare gli deve: a) l’invenzione della “metaetica” attraverso la distinzione fra morale e filosofia della morale; b) la nozione di assiomi fondamentali dell’etica; c) la tesi della ultimità dello ought e della illegittimità del passaggio dallo is allo ought. (116)

Sidgwick è famoso – per non dire venerato – per il primo di questi tre punti o per la nota citazione alla rovescia di Aristotele, “not Practice but knowledge” , cioè l’auspicio della “same disinterested curiosity to which we chiefly owe the great discoveries of physics”. A parte la bontà della filosofia delle scienze naturali qui presupposta, che Peirce aveva contestato nei famosi saggi del 1878 sul cartesianismo, va notato che l’idea che la costruzione di un sistema razionale di proposizioni sia una condizione della costruzione di un discorso riflessivo su di questo (che – si noti – è ripetuta da Rawls in apertura della Teoria della giustizia) è la tesi con cui si apre la prima edizione degli Elements di Whewell. La Prefazione afferma:

 

La morale e la filosofia della morale sono diverse nello stesso modo e nella stessa misura della Geometria e la filosofia della geometria… gli uomini non avrebbero mai discusso se e perché la verità geometrica fosse possibile, se non avessero avuto dinanzi una innegabile sistemazione di tale verità. O, se senza avere alcuna certezza o conoscenza delle proposizioni geometriche, gli uomini avessero speculato e disputato se essi avrebbero potuto avere tale conoscenza e tale certezza; non possiamo supporre che essi avrebbero potuto arrivare ad alcun risultato definito o stabile di tali speculazioni (117).

 

 

7.2. Il quarto criterio di accettabilità delle intuizioni

 

Si è detto quali sono le quattro condizioni di Sidgwick per accettare una intuizione; va notato che, seguendo Sidgwick, perfino negli ambiti più esplorati dagli intuizionisti come quelli della veracità e del contratto, i precetti enunciati dai moralisti intuizionisti, anche se possono soddisfare le condizioni 1, 2 e 3 ma sono troppo controversi per poter soddisfare la condizione 4 (non dissenso da parte degli esperti). Come ha osservato Donagan, Sidgwick dimentica però che, secondo la sua stessa ricostruzione delle loro posizioni, gli intuizionisti devono respingere la quarta condizione in quanto pone una pretesa eccessiva, dato che la tesi che i principi fondamentali impliciti nel pensiero morale ordinario, una volta formulati accuratamente, risulteranno innegabili non implica che saranno immediatamente evidenti a chiunque senza un esame accurato, e dato che l’intuizionismo era un metodo, non un metodo che pretendeva di assicurare un successo immediato (118). Secondo Donagan, l’obiezione da muovere a Sidgwick è che Whewell e Price avevano svolto un'argomentazione articolata sui doveri relativi alla verità e alle promesse tale da affrontare le questioni dubbie senza fare ricorso a principi utilitaristici come farebbe invece il senso comune sidgwickiano. E Sidgwick non discute affatto questo, che è invece il terreno più forte dei suoi avversari. Non discute la teoria di Whewell sulla veracità, e non ha interesse a discuterla in quanto tale; se cita Whewell è per fare un esempio di un’affermazione diffusa fra i moralisti, non di una argomentazione di un filosofo intuizionista. E così la presunta dimostrazione di Sidgwick che ciò che dimostrano i moralisti a proposito della veracità è solo che vi è una ragione utilitarista per tenere viva la fiducia diffusa non regge contro l’argomento di Whewell, cioè che esiste un diritto del partner a che non gli venga detta una menzogna e che la situazione di partenza (si noti che lo stesso vale per la promessa estorta) non è un punto zero ma comprende una serie di circostanze, come il fatto di avere pubblicato un testo anonimo, di essere entrati in conversazione con un interlocutore su temi ad esso connessi che fanno sì che – almeno per Whewell ma non per la morale del senso comune, per la quale Whewell non porta alcuna responsabilità – non sia vera la conclusione che il precetto sia circondato da un’area di nebbia, nella quale i limiti e le eccezioni sarebbero assolutamente indeterminate.

L’argomento principe di Sidgwick su questo punto è la più famosa forma di argomentazione usata dai filosofi nelle controversie: il parlare d’altro. Infatti, dopo avere detto che il metodo intuizionista proposta dai moralisti assomiglia al metodo inconsapevolmente usato dai non filosofi o alla “morale del senso comune”, passa a dimostrare l’inadeguatezza della seconda, pretendendo così di avere dimostrato l’inadeguatezza del primo. Invece la questione se il non filosofo di fatto resti nel dubbio è diversa dalla questione se il "metodo intuizionista" possa in linea di principio risolvere il dubbio. Laddove Sidgwick critica l'intuizionismo “filosofico” non lo fa discutendone veramente i punti forti: la menzogna e le promesse, perché ciò che Sidgwick discute su questi punti specifici non sono le tesi sostenute di Price e Whewell ma le opinioni discordanti di diversi autori (non intuizionisti), o dell’opinione pubblica, secondo l’idea che Sidgwick se ne fa, sui limiti al carattere vincolante delle promesse o del dovere della veracità. Il “come volevasi dimostrare” che Sidgwick annuncia alla fine si riduce alla constatazione che “sembra che il senso comune non dia una risposta chiara a questo proposito” (119) e che non si possa constatare “un chiaro consenso, anche solo delle persone istruite e riflessive” (120). Ma non era mai stato sostenuto dai filosofi intuizionisti che il senso comune sapesse dare una risposta, e quindi ci troviamo ad affrontare la questione irrisolta dal principio. Il procedimento sembra troppo assurdo per essere veramente attribuito a Sidgwick ma di fatto il ragionamento di Sidgwick è proprio questo. L’unica scusante che gli si può concedere per il fatto di avere confuso le carte può essere ricordare che Sidgwick era partito dall’assunto, ancora da provare, che il senso comune non rozzo dovrebbe essere la fonte delle verità morali (perché non ne abbiamo altra) e che il tentativo di dimostrare l’esistenza di un ordine nel mondo morale (se se ne troverà uno) andrebbe condotto partendo dal senso comune. C’è da obiettare però che allora è un problema tutto di Sidgwick, che il fallimento del suo esperimento coinvolge solo lui, che la confutazione varrà forse per la “morale del senso comune” (la quale però è una creatura di Sidgwick), e che in definitiva Sidgwick pretende di avere abbattuto due birilli con una boccia sola.

 

 

7.3. Ha senso in filosofia pratica la curiosità disinteressata?

 

La promessa dal tono spinoziano di una scienza morale disinteressata, volta non “a farci divenire migliori” ma a soddisfare la nostra “curiosità” – promessa che ha suscitato l’entusiasmo di quei filosofi analitici che vi hanno visto l’inizio della metaetica – è più modesta di quanto sembra, o è proferita a mezza bocca, o tutt’al più sarà mantenuta soltanto a metà. Infatti la “curiosità disinteressata” cui Sidgwick accenna si esercita su qualcosa di relativamente ristretto: i metodi o procedimenti con cui si giunge a formulare giudizi morali a partire da alcuni principi alternativi e il  grado di certezza con cui si possono raggiungere le conclusioni. In altre parole, l’atteggiamento di curiosità disinteressata si limita a dettare la programmatica imparzialità di fronte ai criteri di giudizio diversi, non si esercita invece sulla validità o la giustificazione dei giudizi stessi. La ragione di questa strategia che prende i principi come materia prima e poi li confronta soltanto “a valle” non è forse del tutto evidente a prima vista, anche perché riguarda il terreno sul quale Sidgwick continua a spostarsi, a zappare e a tentare di consolidare la terra smossa, nei tre decenni che seguono alla prima edizione, quello della morale del senso comune e del senso comune in quanto tale. Con successivi aggiustamenti, la direzione in cui Sidgwick sembra muoversi è quella di fare del “senso comune” il terreno ultimo al quale possiamo ridiscendere. Si deve ricordare che per Sidgwick la filosofia teoretica “sistematizza” i metodi delle scienze, traendo conforto dal radioso esempio fornito dalle “grandi scoperte della fisica”. Va notato che tutto ciò viene scritto due secoli dopo i Principia, cioè trent’anni prima che la teoria della relatività restaurasse le tenebre laddove Newton aveva fatto luce. La direzione che il Sidgwick erede di Mill e Comte e coevo di Spencer vorrebbe imboccare è quella di seguire a ruota la morale del senso comune come la filosofia teoretica segue a ruota la fisica e… imparare dai successi di quest’ultima come la filosofia teorica impara dai successi della fisica. Lungo questo cammino, i tratti nei quali il piede di Sidgwick accenna ripetutamente a sdrucciolare sono quelli in cui sorgono dubbi riguardo all’indubitabilità dei successi della morale del senso comune nella sua marcia verso il perfezionamento e riguardo a che cosa si sta effettivamente inseguendo. Il dubbio sorge ripetutamente riguardo a quanto questa “cosa”, la morale del senso comune, sia effettivamente in progresso, su quanto sia universale, su quanto sia diffusa.

Ma se la direzione intrapresa da Sidgwick è questa, la filosofia pratica che “sistematizza” i “metodi” usati per raggiungere conclusioni riguardo alla giustezza delle azioni non è “metaetica” nel senso in cui questo termine è venuto a codificarsi nel corso del Novecento ma è piuttosto il progetto mai realizzato di una quarta gamba del tavolo positivista, quello di una super-scienza positivista della morale da affiancare alla super-scienza positivista della natura. Aggiungo che era inevitabile che la quarta gamba non potesse costruire, perché mancava la seconda, ovvero la scienza empirica della morale, e che perciò dal mazzo delle grandezze e miserie del positivismo ha certamente pescato una carta migliore Émile Durkheim pensando di iniziare la costruzione della “fisica dei costumi”, di cui Kant aveva sì previsto lo spazio ma non aveva poi saputo come riempirlo.

 

 

7.4. Chi ha inventato la metaetica?

 

L’idea di filosofia della morale, l’antenato della nozione di metaetica, è formulata invece dal prete William Whewell, il quale aveva sostenuto che la morale è come la geometria, e la filosofia della morale come la filosofia della geometria, e che è possibile raggiungere l'accordo sui teoremi della geometria pur essendo in disaccordo sulla natura della giustificazione della validità di questi teoremi. Si noti che questa era una tesi non del tutto nuova. L’aveva già formulata John Gay nel 1734 sostenendo che diverse giustificazioni teoriche (intuizionista, volontarista, consequenzialista teologica) del medesimo codice morale possono coesistere senza che il dissenso riguardo alla giustificazione dell’etica normativa (121). Qualcosa di vagamente simile venne ripetuto da John Stuart Mill con la tesi che si è più facilmente portati ad essere d'accordo sui principi intermedi che sui principi primi e un’idea del genere ricompare nelle tesi di Beauchamp e Childress e Rawls sulla possibilità della convergenza su principi intermedi accettati per ragioni teoriche diverse e del consenso per intersezione.

L’avversario principale di Sidgwick sembra essere il cosiddetto “intuizionismo dogmatico”, la sua seconda forma di intuizionismo, quella che aggrava i difetti dell’intuizionismo percettivo del senso comune combinandone le conclusioni con dottrine filosofiche. La morale del senso comune è, in circostanze normali, una guida efficace per l’azione ma il tentativo di trasformarla in un “sistema di etica intuizionista” sarebbe proprio ciò che “mette in risalto le sue inevitabili imperfezioni senza aiutarci a eliminarle” (122). Ma, quando critica questa dottrina, Sidgwick critica un ipotetico sistema che costruisce lui stesso come una delle possibili vie che si potrebbero seguire nel tentativo di giustificare i giudizi morali e che non corrisponde né ai sistemi degli intuizionisti del senso comune Butler e Reid, che Sidgwick apprezza, né ai razionalisti Clarke e Kant di fronte ai quali è un po’ spaesato (e ne è prova il fatto che siano meno menzionati nell’ultima edizione dei Metodi che nella prima), né ai sistemi degli intuizionisti razionalisti Price e Whewell, che Sidgwick ignora quando svolge l’esame critico dell’etica intuizionista salvo dichiarare di averli confutati quando enuncia le sue conclusioni.

 

 

7.5 Sidgwick inventore dell’etica applicata malgré lui

 

Sidgwick ha così una collocazione incerta fra Mill, Kant (e inconfessatamente Whewell), Comte e Spencer. Il Sidgwick che si è attirato le lodi dei filosofi analitici è forse un lato della personalità filosofica del Sidwick realmente esistente con cui quest’ultimo ha sempre combattuto, venendone a tratti sconfitto, ovvero è il Sidgwick razionalista, apriorista, e intuizionista. Ma questo lato è perennemente in rotta di collisione con il discorso sul ruolo delle credenze, dell’errore, della riflessione, dell’introspezione e infine della sistematizzazione. Questo discorso – per quanto contenga, come si argomenterà, spunti che sono stati ripresi nell’epistemologia morale del Novecento per sviluppare approcci coerentistici la cui fecondità nel campo della filosofia applicata può essere difficilmente sottovaluta, è però comprensibili soltanto alla luce dell’adesione a una comprensione positivista della filosofia. E questi spunti sono formulati entro la scorza di una comprensione della filosofia ancilla scientiarum che è del tutto scomparsa dalla discussione della seconda metà del Novecento. Inoltre il metodo “dialettico” della filosofia, del quale sono debitori alla lontana approcci come quello dell’equilibro riflessivo di Rawls (e prima di lui Nelson Goodman), presuppone, così come lo concepisce Sidgwick, l’accettazione indiscussa della filosofia del senso comune, del positivismo, e di un residuo di psicologismo in teoria della conoscenza che rimane nonostante la critica di Sidgwick stesso allo psicologismo in sede di metaetica, residuo che rimane in Sidgwick fino alla fine del secolo, quando Frege lo aveva messo sotto accusa da decenni ponendo così le basi decisive, oltre che della fenomenologia, anche della filosofia analitica. E quindi il Sidgwick antenato dell’etica analitica è tale per alcuni elementi certamente importanti per alcune relativamente recenti svolte di questa tradizione di pensiero, elementi a sua volta, come si dirà, non suoi peculiari perché sono ripresi da Kant e ancor più da Whewell, e soprattutto elementi in conflitto con i motivi centrali del suo programma filosofico, che sono invece proprio ciò che la nascente filosofia analitica si trovò con ottime ragioni a dover combattere.

 

 

7.6. L’inconsapevole eredità delle controversie ottocentesche nell’etica analitica

 

Le controversie in generale nascono per motivi kuhniani, cioè lotte di potere, scontri fra schieramenti politico-religiosi, ai quali si intrecciano le argomentazioni nei punti in cui le parti in causa non hanno argomenti più convincenti.Le controversie si risolvono poi, o meglio si dissolvono, per motivi wittgensteiniani, cioè perché alcune argomentazioni si affermano per il fatto di essere buone argomentazioni, perché dicono in modo nuovo qualcosa che molti già sapevano e insieme rendono impossibile dire ancora negli stessi termini ciò che prima si diceva, e queste argomentazioni scoprono improvvisamente di avere numerosi padri. Per lo più, nel corso della controversia, gli avversari sono costretti senza saperlo a modificare le loro posizioni perché, anche solo rispondendo in malafede all’avversario con l’intenzione di vincere, sono comunque costretti a usare argomentazioni e non l’autorità o il potere. Questo è illustrato da molti esempi in diverse discipline, come la controversia fra Malthus e Ricardo (123), ed è illustrato anche dall’esempio della controversia inglese ottocentesca fra utilitarismo e intuizionismo (124) della quale si è qui ricostruita la fase conclusiva. La “chiusura” della controversia ad opera di Sidgwick ha fatto fare alla discussione in etica nel mondo anglosassone un passo avanti e due indietro. Il passo avanti è rappresentato dal fatto di avere fatto universalmente accettare i limiti insanabili dell’utilitarismo che erano stati messi in luce da Whewell. I passi indietro sono rappresentati dal fatto di (a) avere fatto dimenticare completamente la vera natura dell’intuizionismo, (b) avere causato la damnatio capitis del – sia permessa una boutade – vincitore-ombra della controversia, cioè del Whewell filosofo morale il cui nome venne dimenticato ma le cui tesi vennero fatte proprie dagli avversari (come face più tardi Stalin con le tesi di coloro che faceva fucilare). Il vecchio intuizionismo intorno al 1900 cadde definitivamente in discredito. Fra i teologi anglicani apparvero dottrine che condividevano i temi della reazione alla teologia liberale nel mondo continentale e quindi privilegiavano la situazione individuale e irripetibile rispetto alla norma generale. Un antesignano di questa reazione fu agli inizi del Novecento Hastings Rashdall, noto compagno di strada di Moore, fautore di una sorta di “precetto dell’amore dell’atto” e i suoi continuatori furono poi i teologi morali della situazione. Whewell fu al centro dell’interesse come filosofo della scienza e dimenticato come filosofo morale, almeno fino alla riscoperta da parte di Donagan e Schneewind negli anni Settanta. La ‘ripresa’ dell’intuizionismo a inizio Novecento da parte di Moore, che non a caso Sidgwick più o meno detestava, avvenne in una forma molto modificata che ne faceva sostanzialmente una nuova dottrina, e certamente una dottrina molto problematica, che ometteva proprio il punto decisivo dell'esistenza di doveri incondizionati che era stato il nocciolo della controversia ottocentesca, incorporando invece nel cosiddetto ‘intuizionismo’ di nuova generazione tesi consequenzialiste quali quelle dell’impossibilità di doveri assoluti e dell’impossibilità di risolvere i conflitti fra doveri.

 

 

8. Conclusioni: il progetto di un’etica scientifica e alcune ragioni del suo fallimento

 

1. Sidgwick si è acquistato nel mondo anglosassone la fama di autore del più bel trattato di etica che sia mai stato scritto, di autore di assoluta imparzialità e scientificità, e più di recente, di padre putativo della filosofia analitica. In realtà l’autore voleva fare una cosa diversa, cioè una confutazione della ‘teodicea su basi morali’ dei filosofi di Cambridge. Non è riuscito nell’intento, (non perché questa teodicea regge, ma perché palesemente non regge e non c’è bisogno della confutazione) e ha ignorato, pur citandone spesso l’autore, la via opposta percorsa da Kant per (non) risolvere lo stesso problema, cioè accettare l’impossibilità della teodicea, dimostrare la necessità della legge morale, postulare una risposta per fede razionale al problema della teodicea come condizione di possibilità della legge morale di cui si è mostrata la necessità. Nel corso della realizzazione della sua anti-teodicea Sidgwick tratta l’etica non come obiettivo primario ma come obiettivo collaterale, come tappa per dimostrare l’impossibilità di credere in un ordine del mondo.

2. La fama di imparzialità e oggettività è indebita perché Sidgwick è “imparziale” quanto può esserlo uno scettico che dimostra la sua tesi abbattendo una dopo l’altra le tesi che sceglie come bersaglio (mossa che dà agli scettici il vantaggio di giocare sul campo proprio); la fama è stata guadagnata in buona parte grazie all’aspetto redazionale dell’opera, che ha una forma sistematica (e anzi incredibilmente noiosa) per il fatto di riprendere il modello del trattato scientifico in auge nell’età del positivismo come mossa retorica molto raffinata che equivale a dire: “mi presento privo degli ornamenti retorici perché io sono uno scienziato, diversamente dai predecessori che sono dei retori” (125) ; infine il libro, oltre ad essere imparziale e oggettivo solo nel senso detto, non è nemmeno un “trattato” ma piuttosto un saggio (su un problema più di teodicea che di etica, come si è detto) e, fra i pregi che gli si possono riconoscere, l’ultimo è quello della esauriente informazione sugli argomenti affrontati.

3. Va considerata più attentamente invece la proposta di eleggere Sidgwick, grazie alla eredità antiempirista che ha trasmesso a Moore, come candidato al ruolo di padre della filosofia morale analitica in alternativa a Moore. Il discorso fin qui svolto tende ad addurre motivi contro il riconoscimento di paternità in quanto gli elementi antiempiristi di Sidgwick sono ciò che Sidgwick ha ripreso da Whewell, e in misura minore dai neohegeliani, senza debito riconoscimento.

4. Uno strano lascito della controversia è rappresentato dalla nozione di “morale del senso comune” che è rimasta nell’etica analitica dopo Sidgwick come una mina vagante, almeno in due modi opposti: a) nel modo di chi come Peter Singer argomenta la necessità di una “nuova morale” e accentua l’inadeguatezza della morale del senso comune, la sua incapacità di dare risposte, l’impossibilità di formulare precetti con validità assoluta; b) nel modo opposto di chi, come Ross e Rawls accentua l’idea che i dati della teoria etica sono ciò che noi (io e il lettore) “sappiamo” e che la teoria regge se riesce a sistematizzatore “intuizioni” che abbiamo (126). Invece di prendere partito per uno di questi due partiti sidgwickiani, proporrei invece sbarazzarsi della nozione perché, tolto dal contesto inglese ottocentesco, il termine “morale del senso comune” connota in modo fortemente condizionato dalla precedente discussione inglese e scozzese una cosa ben nota. Questa cosa in seguito è stata studiata dalla sociologia e dall’antropologia aprendo la porta a un intricato dibattito sul relativismo culturale che era del tutto ignoto ai filosofi vittoriani. Tolto il contesto e tolti i pregiudizi, si può denotare la stessa cosa connotandola in modo diverso, ma allora questa perde buona parte della sua identità. Alla luce delle acquisizioni della sociologia e dell’antropologia ci ritroviamo non più con una cosa sola, ma con più “cose” diverse fra le quali stabilire una relazione, cioè con i codici morali accettati in diverse società fra i quali non è tanto facile distinguere quelli “più progrediti” da quelli “meno progrediti”. Questi codici hanno a che fare con culture e tradizioni che sono probabilmente tutt’altro che incommensurabili come vogliono i particolarismi, ma non sono nemmeno quel tranquillo accumulo di esperienza dell’umanità in cui credevano i filosofi di Cambridge, Mill e Spencer, per tutti i quali, seppure per ragioni diverse, il poi e il più – basta che gli si conceda un po’ di tempo e si permetta di operare, alternativamente, alla rivelazione divina, alla filosofia empirista, alle scienze positive – infallibilmente riesce a sostituire il prima e il meno.

5. Le “intuizioni” morali, se esistono, esistono in diversi sensi che ben poco hanno qualcosa in comune con questi codici. In un senso esistono le intuizioni sul linguaggio della morale ma da queste non si traggono enormi conseguenze di sostanza. In un altro senso esistono – secondo alcuni, fra cui chi scrive – principi come il dovere di mantenere le promesse che non sono né derivati per inferenza né giustificati induttivamente – ma il nome “intuizioni” va bene per indicarli soltanto finché non dà luogo a fraintendimenti facendo pensare a una teoria della conoscenza di tipo vagamente platonico; se il fraintendimento sorge conviene adottare invece il nome “assiomi”.

6. Lungo un percorso che voleva arrivare in tutt’altro luogo, a risolvere cioè il problema della teodicea, Sidgwick ha elaborato alcune fruttuose risposte a problemi parzialmente diversi e questi sì di interesse per l’etica. In quanto l’assunto (dogmatico) dei filosofi di Cambridge era la constatazione di un accordo e una coerenza nei giudizi morali di fatto esistenti si incontrava con il programma del positivismo di filosofia come super-scienza che sistematizza i risultati delle scienze parziali, Sidgwick si trovava spinto a indagare i modi in cui i giudizi morali possono giungere a coerenza fra loro. Il suo merito è stato quello di avere ideato procedimenti coerentisti e qualcosa che assomiglia all’equilibrio riflessivo, seppure caricati di zavorra come l’introspezione, le credenze, il senso comune, i risultati delle scienze naturali. Ciò che si può utilmente fare è usare questi procedimenti non per costruire l’etica razionale o scientifica che Sidgwick riteneva desiderabile, e tanto meno per tentare di scoprire l’ordine morale del mondo o constatare che questo ordine non esiste, ma per fare qualcosa di diverso, cioè elaborare i “metodi” dell’etica applicata, ovvero procedure per argomentare e trovare compromessi non al ribasso fra parti che hanno compiuto dei percorsi di argomentazione parzialmente diversi ma hanno alcuni giudizi morali in comune. Tali procedimenti sono la scoperta fondamentale dell’etica applicata, scoperta che può funzionare tanto meglio quanto meno viene appesantita di assunzioni teoriche di cui non ha bisogno. Sidgwick ha forse scoperto il continente dell’etica applicata credendo non, come Cristoforo Colombo, di avere scoperto il Catai, ma di non avere scoperto niente. Forse non sempre occorre avere il punto di partenza giusto e muoversi nella direzione giusta, a volte basta partire.

 

 

Note

 

(1) B. Schultz, Henry Sidgwick. Eye of the Universe (Cambridge: Cambridge University Press, 2004).

(2) B. Blanshard, Sidgwick the Man, “The Monist” 58 (1974): 349-70, p. 349; fra le affermazioni vagamente agiografiche merita di essere ricordata, per via del nome illustre dell’autore, anche la seguente: “la prima opera autenticamente accademica in filosofia morale che affronta il compito di elaborare un sistematico studio comparativo delle concezioni morali, partendo da quelle che storicamente e sulla base delle opinioni oggi prevalenti sono le più importanti” (J. Rawls, “Introduction”, in H. Sidgwick, The Methods of Ethics, Hackett, Indianapolis 1981, p. v).

(3) H. Sidgwick, Methods of Ethics, i ed. (1874), in Works, 15 voll., (Thoemmes Press, Bristol 1996), vol. i, p. 473.

(4) H. Sidgwick, Methods of Ethics, vii ed. (1907), in Works, 15 voll. (Thoemmes Press, Bristol 1996), vol. ii, p. xv; trad. it. I metodi dell'etica, a cura di M. Mori (Il Saggiatore, Milano 1997), p. 32.

(5) Ivi, p. 33 (ed. or.: p. xv).

(6) Ibid.

(7) Ivi, p. 36 (ed. or: p. xix).

(8) Ivi, p. 25 (ed. or: p. v).

(9) Ivi, p. 26 (ed. or: p. vi).

(10) Ibid.

(11) Ivi, p. 52 (ed. or: p. 14).

(12) Ibid.

(13)

(14) H. Sidgwick, Philosophy (1902), in Works, cit., vol. viii.

(15) Ivi, pp. 10-11.

(16) Ivi, p. 34.

(17) Ivi, pp. 34-35.

(18) Ivi, p.12.

(19) Ivi, p. 5.

(20) Ivi, p. 172.

(21) Ibid.

(22) Ibid.

(23) Ivi, p. 37.

(24) Ivi, pp. 35-35.

(25) Ivi, p. 49.

(26) H. Sidgwick, On some fundamental ethical controversies (1889), in Essays on Ethics and Method, a cura di M.G. Singer (Oxford: Clarendon, 2000, pp. 35-46, p. 43).

(27) H. Sidgwick, Professor Calderwood on Intuitionism in Morals (1876), in Essays on Ethics and Method, cit., pp. 23-26, p. 25.

(28) Ivi, pp. 25-6.

(29) Ivi, p. 24.

(30) Ibid.

(31) Ivi, p. 30.

(32) Ibid., corsivo aggiunto.

(33) Ivi, p. 26: si noti che questa è una distinzione formulata da William Whewell, Elements of Morality, i ed.: 1845, 2 voll. (New York: Harper, 1861), p. 1.

(34) Ivi, p. 31.

(35) Ivi, p. 26.

(36) Ibid.; corsivo aggiunto.

(37) W. Whewell, Elements, i ed., cit., p. 1.

(38) Ivi, p. 2.

(39) Ibid.

(40) H. Sidgwick, Philosophy, cit., p. 49; corsivo aggiunto.

(41) Ivi, p. 215.

(42) Ibid.

(43) Ivi, p. 49; corsivo aggiunto.

(44) Ivi, p. 50.

(45) Ivi, p. 172.

(46) Si veda Th. Leinkauf et al., Sensus Communis, in J. Ritter – K. Gründen (a cura di), Historisches Wörterbuch der Philosophie, 12 voll, 1971-2004, vol. ix, pp. 621-673.

(47) Giambattista Vico, Principi di Scienza nuova, in Opere, a cura di F. Nicolini (Milano-Napoli: Ricciardi, 1953), p. 439.

(48) Th. Reid, Essays on the Intellectual Powers of Man (1785), in Philosophical Works, 2 voll. (Hildesheim: Olms, 1967), vol. i; trad. it. Saggi sui poteri intellettuali dell’uomo, in Ricerca sulla mente umana e altri scritti, a cura di A. Santucci (Torino: utet, 1975).

(49) Th. Reid, Essay vi: Of judgement, ivi, pp. 413-475, particolarmente pp. 421-426; trad. it Il giudizio, in tr. it. cit., pp. 637-694, particolarmente pp. 653-664.

(50) W. Hamilton, Lectures on Metaphysics and Logic, 4 voll. (Edinburgh 1859-1860)

(51) J.S. Mill, An Examination of the Philosophy of William Hamilton (1865), in Collected Works of John Stuart Mill, a cura di J.M. Robson et al. (University of Toronto Press, Toronto 1967-, vol. ix).

(52) J.B. Schneewind, Sidgwick and the Cambridge Moralists, “The Monist” 58 (1974): 370-404; di Coleridge si vedano The Philosophical Lectures of Samuel Taylor Coleridge, a cura di K. Coburn, London: The Pilot Press, 1949.

(53) Si veda W. Whewell, Elements of Morality, iii ed. (London: Parker, 1854).

(54) Si veda J. Grote, An Examination of the Utilitarian Philosophy, a cura di J.B. Mayor (Cambridge, 1870); A Treatise on the Moral Ideals, a cura di J.B. Mayor, Cambridge 1876.

(55) Si veda J.F.D. Maurice, Medieval Philosophy; or, a Treatise on Moral and Metaphysical Philosophy from the Fifth to the Fourteenth Century (London, 18482); Modern Philosophy; or a Treatise of Moral and Metaphysical Philosophy from the Fourteenth Century to the French Revolution (London, 1862).

(56) R. Price, A Review of the Principal Questions in Morals (1758), in Rassegna delle principali questioni della morale, ed. con testo a fronte a cura di M. Reichlin (Milano: Bompiani, 2004), p. 165.

(57) W. Whewell, Elements of Morality, iii ed., cit., p. 1.

(58) Ivi, p. 11; corsivo aggiunto.

(59) J.S. Mill, Bentham (1838), in Collected Works, cit., vol. x, pp. 75-116, p. 93; trad. it. Bentham, in Bentham e Coleridge: due saggi, a cura di M Stangherlli (Napoli: Guida, 1999), pp. 61-62; Utilitarianism (1861), in Collected Works, cit., vol. x, pp. 203-259, pp. 241-246; trad. it. Utilitarismo, in La libertà, l'utilitarismo, l'asservimento delle donne, a cura di E. Lecaldano, (rcs Libri, Milano 2000, pp. 231- 327), pp. 293-301.

(60) H. Sidgwick, I metodi, cit. p. 243 (ed. or.: p. 215).

(61) H. Sidgwick, Lectures on the Ethics of Green, in Works, cit., vol. vii, pp. 351-2.

(62) J. Schneewind, Sidgwick’s Ethics and Victorian Moral Philosophy (Oxford: Clarendon, 1977), pp. 267.

(63) H. Sidgwick, I metodi, cit., p. 484 (ed. or.: p. 456-7).

(64) Ivi, p. 244 (ed. or.: p. 216).

(65) Ivi, p. 232 (ed. or.: p. 200).

(66) Ivi, p. 236 (ed. or.: p. 206).

(67) Ivi, p. 240 (ed. or.: p. 210).

(68) Ivi, p. 359 (ed. or.: p. 326).

(69) R.M. Hare, The Argument from recevived Opinion, in Essays on Philosophical Method (London: Macmillan, 1971), p. 122; J. Schneewind, Sidgwick’s Ethics, cit., p. 284.

(70) H. Sidgwick, The Philosophy of Common Sense (1895), in Essays on Ethics and Method, cit., p. 148; corsivo aggiunto.

(71) Ibid.

(72) Ibid.

(73) H. Sidgwick, Philosophy, cit., p. 177.

(74) J. Schneewind, Sidgwick’s Ethics, cit., p. 267.

(75) H. Sidgwick, Philosophy, cit., p. 1.

(76) Ivi, p. 43.

(77) James Mill, History of British India (1817), 10 voll; con note e continuazione di H.H. Wilson (London: Routledge - Thoemmes Press, 1997; ristampa della edizione del 1858), vol. i, p. 224.

(78) J. Schneewind, Sidgwick’s Ethics, cit., p. 230.

(79) J.S. Mill, Autobiography, in Collected Works of John Stuart Mill, a cura di J.M. Robson et al. (University of Toronto Press, Toronto 1967-, vol. i, pp. 1- 290), pp. 232.

(80) H. Sidgwick, I metodi, cit., p. 120 (ed. or.: p. 86).

(81)

(82)

(83) Ivi, p. 93 (ed. or.: p. 58).

(84) Ivi, p. 333 (ed. or. : p 302).

(85) Ibid.

(86) Ibid.

(87) W. Whewell, Elements of Morality, iii ed., cit., vol. i, p. 92.

(88) Ivi, vol. ii, p. 4.

(89) Ivi, vol. i, p. 90.

(90) Ivi, p. 167.

(91) Ivi, p. 261.

(92)

(93) Ivi, vol. ii, pp. 300-323.

(94) Dei quattro luoghi dei Metodi (settima edizione) in cui viene nominato Whewell, due contengono una nota con un rimando preciso; una di queste note, quella a p. 329 (trad. it. cit.: p. 363) dopo la menzione fra virgolette del “buon umore e il coltivare le affezioni sociali”, è sbagliata in quanto rinvia invece al capitolo in cui si tratta il tema del paragrafo successivo, la castità, l’altra, quella a p. 317 (trad. it. cit.: p. 350) fa riferimento al trattamento della menzogna ed è compatibile con tutte le edizioni a partire dalla seconda (che non conteneva l’appendice che compare a partire dalla terza edizione). Vi sono poi riferimenti a dottrine whewelliane, come quello ricordato al “principio dell’Ordine” senza alcun rimando preciso e più spesso riferimenti alle tesi dei moralisti intuizionisti in blocco).

(95) H. Sidgwick, I metodi, cit., p. 120 (ed. or.: p. 86); ciò che Sidgwick sembra avere in mente è il cap. 3 del libro i degli Elements, dove Whewell parte dal “fatto” dell’esistenza di norme nelle società umane cui aggiunge il fatto della necessità di norme come parte della struttura dell’azione umana in quanto azione razionale e poi la constatazione di un’autorità della ragione sul desiderio come punti di partenza della dimostrazione dell’esistenza di norme necessarie, immutabili e razionali il cui contenuto può essere ricostruito a partire da evidenze razionali poste in relazione con le circostanze di fatto della vita umana associata.

(96) Ivi, p. 296 (ed. or.: p. 264).

(97) W. Whewell, Elements, iii ed., cit., vol. i, p. 90.

(98) Ivi, pp. 262, 268-269.

(99) H. Sidgwick, I metodi, cit., p. 341 (ed. or.: p. 311).

(100) W. Whewell, Elements, iii ed., cit., pp. 193-201.

(101) Si veda A. Donagan, Whewell’s Elements of Morality, “Journal of Philosophy” 71 (1974): 724-736.

(102) H. Sidgwick, I metodi, cit., p. 345 (ed. or.: p. 315).

(103) Ivi, p. 347 (ed. or.: p. 317).

(104) Ivi, p. 346 (ed. or.: p. 316).

(105) Ivi, p. 347-8 (ed. or.: p. 317).

(106) Ivi, p. 348 (ed. or: p. 318).

(107) Ivi, p. 349 (ed. or.: p. 319).

(108) Ivi, p. 347 (ed. or.: p. 317).

(109) W. Whewell, Elements of Morality, iii ed., cit., vol. i, p. 90.

(110) Ivi, p. 91.

(111) Ivi, p. 150.

(112) Ivi, p. 201.

(113) Ivi, p. 204.

(114) Ivi, p. 221.

(115) H. Sidgwick, I metodi, cit., pp. 96-103 (ed. or.: p. 133-140).

(116) Si veda A. Donagan, Whewell’s Elements of Morality, cit.

(117) W. Whewell, Elements of Morality, i ed., cit., vol. i, pp. 7-8; nella Prefazione alla ii ed. Whewell dichiara che, date le reazioni negative dei lettori, non vuole insistere a proporre l’analogia fra morale e geometria non essendo questa indispensabile per la sua argomentazione (iii ed., cit., vol. i, pp. 11-12)

(118) Si veda A. Donagan, The Theory of Morality (1977; Chicago, IL: The University of Chicago Press, 1979), p. 20; vedi anche Sidgwick and Whewellian Intuitionism: Some Enigmas (1977), in B. Schulz (a cura di), Essays on Henry Sidgwick, (Cambridge: Cambridge University Press, 1992), pp. 123-124.

(119) H. Sidgwick, I metodi, cit., p. 367 (ed. or.: p. 399).

(120) W. Whewell, Elements of Morality , i ed., cit., vol. i, p. 1.

(121) J. Gay, Concerning the Fundamental Principles of Virtue or Morality (1731), in I.A. Selby-Bigge, a cura di, The British moralists, 2 voll. (New York: Dover 1965, vol. ii, pp. 267-285).

(122) Sidgwick, I metodi, cit., p. 392 (ed. or: p. 362 )

(123) Si veda S. Cremaschi, M. Dascal, Malthus and Ricardo on Economic Methodology, “History of Political Economy” 28/3 (1996): 475-511; Persuasion and Argument in the Malthus-Ricardo Correspondence, in W.J. Samuels, J.E. Biddle (a cura di), Research in the History of Economic Thought and Methodology (Stanford, Co: JAI Press, vol. 16: 1998), pp. 1-63; Malthus and Ricardo: Two Styles for Economic Theory, “Science in Context” 11/2 (1998): 229-254; M. Dascal, S. Cremaschi, The Malthus-Ricardo Correspondence: Sequential structure, argumentative patterns, and rationality, “Journal of Pragmatics” 31 (1999): 1129-1172; P. Barrotta, “Controversie scientifiche”, in V. Melchiorre (a cura di), Enciclopedia filosofica (Milano: Bompiani, 2006).

(124) Si veda S. Cremaschi, The Mill-Whewell controversy on ethics and its bequest to analytic philosophy, in E. Baccarini ed., Proceedings of Rijeka Conference: Rationality in Belief and Action, Hrvatsko drustvo za analiticku filozofiju - Filozofski fakultet Rijeka, Rijeka 2006.

(125) L’accenno alla noia, tratto specifico degli utilitaristi inglesi, è ovviamente una reminiscenza nietzschiana. Si veda J. Rée, Ethics, Utilitarianism, and Positive Boredom, in R. Harrison (a cura di), Henry Sidgwick, “Proceedings of the British Academy 109” (Oxford: Oxford University Press, 2001), pp. 51-55.

(126) La divaricazione fra questi due modi di leggere Sidgwick è ben presente a P. Singer, Sidgwick and Reflective Equilibrium, “The Monist” 58\3 (1974): 490-517.