http://www.units.it/etica/2006_1/BOTTI.htm
Dipartimento di Studi Filosofici ed
Epistemologici
Università di Roma “La Sapienza”
Per
offrire un contributo alla discussione dell’interessante relazione di Paolo
Zecchinato, intendo partire da quella che a me pare la sua tesi centrale, indicando
la possibilità di un’ulteriore sviluppo e chiarimento di alcuni punti.
Nella
sua relazione, il Prof. Zecchinato, discute criticamente il volume di Putnam, Fatto/valore. Fine di una dicotomia. Egli,
in primo luogo, distingue una pars destruens del testo e una pars construens:
la prima consiste nella negazione da parte di Putnam della dicotomia
fatto/valore; la seconda nell’affermazione della possibilità di dare ragioni
dei nostri giudizi valutativi, richiamandosi alla nozione deweyana della
asseribilità garantita, ossia alla tenuta argomentativa di una teoria o
giudizio come base della sua pretesa di oggettività (cfr. p. 3).
Nella
sostanza la relazione consiste in una critica serrata e argomentata della pars
destruens, tesa a sostenere la validità della distinzione tra fatti e valori,
ma anche in un sostanziale, seppur più generico, accordo con la tesi positiva.
Soprattutto mi pare che Zecchinato sostenga la possibilità di svincolare i due aspetti
del lavoro di Putnam ed è su questo aspetto della sua relazione che vorrei
concentrare l’attenzione.
Nella
conclusione della sua relazione Zecchinato afferma infatti di essere «del tutto
in accordo con la pars costruens del libro di Putnam pur trovandomi in disaccordo
sulla sua pars destruens» e continua affermando che la tesi che «fallibilismo e
criticabilità abbiano spazio tanto nel campo scientifico quanto nel campo
morale/valutativo, che anzi la capacità di resistere alle critiche sia il
motivo più importante per parlare di oggettività di un’asserzione» sia una tesi
«attraente e condivisibile», ma che questo «non interferisca con il dibattito
sulla tenuta della grande divisione» (pp. 8-9).
Le considerazioni che vorrei offrire, come contributo alla discussione, muovono proprio da questa affermazione conclusiva. Vorrei infatti provare a approfondirne l’interpretazione, e quindi la tenuta, e interrogare il relatore in proposito. Soprattutto interrogandolo sulla entità del suo accordo con le tesi in positivo di Putnam, ovverosia se davvero ritiene che esse possano essere mantenute anche negando completamente, come egli fa, le tesi negative.
Mi
sembra infatti che si possano distinguere due interpretazioni diverse della
conclusione della relazione del Prof. Zecchinato.
L’una,
più generale, è che esistano teorizzazioni sulla natura della morale (di cui
Putnam non darebbe conto a sufficienza) che riconoscono lo spazio per
l’argomentazione razionale in morale, ovvero una pretesa di validità oggettiva
alle asserzioni valutative (e cioè che non relegano «i valori e l’etica nella
pattumiera del soggettivismo», cfr. p. 2), pur mantenendo la grande divisione.
L’altra,
più specifica, è che questa pretesa di validità oggettiva possa prendere la
forma della asseribilità garantita deweyana difesa da Putnam, cioè che Putnam
potrebbe non aver bisogno di abbandonare in toto la grande divisione per
sostenere quel che vuole sostenere. In altri termini che si possa sposare la
specifica visione della criticabilità offerta da Putnam pur considerando
sostanzialmente errate tutte le considerazioni da lui offerte a proposito della
negazione della grande divisione.
La
questione che pongo è dunque qual’è il senso, rispetto a queste due diverse
interpretazioni, del dirsi di Zecchinato «del tutto d’accordo con la pars construens
di Putnam».
Per
continuare a ragionare vorrei provare a offrire qualche spunto di riflessione a
proposito di queste due mie interpretazioni.
Se
la tesi che Zecchinato vuole sostenere nella sua relazione è la prima che ho
considerato, e cioè che esistano teorizzazioni sulla natura della morale che
riconoscono lo spazio per l’argomentazione razionale in morale, ovvero una
pretesa di validità oggettiva alle asserzioni valutative, pur mantenendo la
grande divisione, sarebbe difficile dargli torto. Resterebbe però comunque da
domandarsi se questo segna davvero un accordo sostanziale con le tesi in
positivo di Putnam.
Non
è certo il caso, in questa sede, di elencare la quantità di autori che hanno
sostenuto la possibilità di considerare l’etica come oggetto di discussioni
razionali pur sostenendo, anzi a partire da, la tesi qui definita come grande
divisione.
Le
critiche di Zecchinato a Putnam a questo proposito sembrano più che condivisibili
(compreso lo stupore per la definizione di «ardito» data al tentativo di Sen di
conciliare il non cognitivismo con «l’idea per cui è possibile fornire ragioni
pro e conto i giudizi etici» a p. 77 del libro).
È
vero ad esempio, come Zecchinato sottolinea, che Putnam si concentra in questo
testo molto sull’interpretazione neopositivista iniziale, secondo cui il linguaggio
della morale era privo di significato e caratterizzabile solo nei termini
dell’espressione di emozioni soggettive, tralasciando gli sviluppi recenti del
‘pensiero morale’. Che quella neopositivista iniziale sia una interpretazione
superata non è una affermazione che meriti una argomentazione approfondita,
tanto è evidente.
Va
detto però, sia pure per inciso, che Zecchinato non sembra soffermarsi a sufficienza
su quello che io ritengo un tema cruciale del volume di Putnam e che rende
forse ragione della sua scelta di concentrarsi ancora sul positivismo logico,
ovvero sull’interesse che Putnam sembra avere di mettere in discussione la
grande divisione, non tanto verso il lato dei valori e dell’etica, quanto verso
quello dei fatti e della scienza, rivedendo la nozione di fatto e la produzione
di asserzioni descrittive o teorie scientifiche e sostenendo una commistione
tra asserzioni descrittive e valutative anche nell’argomentazione scientifica,
che è tesi forse meno superata di quella relativa alla natura del linguaggio
morale.
Nello
specifico Putnam, in questo testo, sembra particolarmente interessato a far
emergere l’intreccio tra valutazione e descrizione per quel che riguarda la
pretesa scientifica dell’economia, che è un tema certo non superato. Particolarmente
interessanti sono a mio avviso, ad esempio, le pagine in cui egli sostiene la
necessità di riconoscere l’intreccio tra etica ed economia, con Sen, ma anche
con (e non contro) Smith (si veda in proposito il terzo capitolo del libro).
Questo
è un tema centrale nel libro che Zecchinato sembra tutto sommato sorvolare.
Ma
su questo non voglio soffermarmi se non in quanto ci porta a discutere della
seconda interpretazione che ho offerto della tesi sostenuta da Zecchinato nella
sua relazione.
Le
considerazioni che Putnam offre sulla produzione di asserzioni scientifiche
valide non sono infatti molto difformi da quelle che egli offre a proposito
della produzione di asserzioni etiche valide, seppur distinguibili dalle prime;
il che ci porta a domandarci, se la tesi che Zecchinato sostenesse fosse quella
di un consenso più specifico sulla pretesa di validità delle affermazioni
etiche, come possa egli sostenere che ciò vada d’accordo con il mantenimento
della grande divisione.
Infatti
le considerazioni che Putnam offre sulla non necessaria pura razionalità
dell’impresa scientifica, in termini per esempio del ruolo delle emozioni nelle
scoperte, possono valere anche a proposito della asseribilità garantita di
ispirazione deweyana che egli propone come criterio di validità anche per
l’etica, e che Zecchinato sembra accogliere.
Come
dicevo, parrebbe o potrebbe essere che Zecchinato voglia tenere insieme un
dissenso sulle tesi di Putnam sulla grande divisione e insieme un consenso
sulle sue tesi positive sulla asseribilità garantita nella interpretazione che
Putnam stesso ne dà in queste pagine (o addirittura sostenere non solo che si
ciò si possa fare ma che ciò si debba fare, che lo stesso Putnam debba
convenire su questo).
A
differenza del caso precedente, se questo fosse il senso della affermazioni di
Zecchinato, esse mi sembrerebbero meno evidenti e desidererei dei chiarimenti
in proposito.
Detto
in altri termini, mi chiedo: è possibile seguire Putnam nella sua versione
della asseribilità garantita senza assumere quel che lui dice a proposito di
fatti e valori?
A me
pare che il criterio deweyano che Putnam propone sia sostanzialmente debitore
di un indebolimento della distinzione tra fatti e valori, e che questo in
qualche modo chiami in causa seriamente la grande divisione.
Affermazioni
come quelle fatte da Putnam nel saggio I valori vengono prodotti o scoperti
a proposito della interazione tra produzione e scoperta nella ricerca morale, insieme
a quelle fatte a proposito della interazione tra valori e fatti nella
accettabilità delle teorie scientifiche, mi fanno pensare che non sia
disponibile l’indipendenza che Zecchinato sembra affermare tra la pars
destruens e la pars construens nelle tesi di Putnam.
Si
veda a questo proposito quanto Putnam sostiene nell’apertura del capitolo
summenzionato: «La mia risposta all’interrogativo: ‘i valori vengono prodotti o
scoperti?’ è quella che credo avrebbe dato John Dewey, vale a dire che noi produciamo
modi di trattare situazioni problematiche e scopriamo quali sono migliori o
peggiori» (p. 109).
Ci
sarebbe dunque un elemento di scoperta (o di percezione) anche in relazione
alla validità di asserzioni di valore, del resto la scoperta (o percezione) è a
sua volta emotivamente e valutativamente connotabile, e così via in una
ricorsività che rende difficile quella distinzione netta tra asserzioni
valutative e asserzioni descrittive che Zecchinato ha sostenuto fermamente
nella sua relazione.
Nella
conclusione della sua relazione,
Zecchinato afferma:
Le
questioni se una conclusione valutativa possa fare a meno di premesse valutative
e se si diano enunciati inscindibilmente valutativi e descrittivi, sono indipendenti
dalla questione se un dato giudizio valutativo (particolare o universale) sia
sostenibile: per essere tale, esso - come scrive Putnam - «ha bisogno solo di
ciò di cui ha sempre necessitato il discorso etico (...): buona volontà, intelligenza
e rispetto per ciò che può essere visto come una ragione per l’azione (...)
rimanendo dentro il punto di vista dell’etica»(p. 9).
A me
pare che «vedere qualcosa come una buona ragione per l’azione», per Putnam, sia
appunto qualcosa che è di nuovo inscindibilmente descrittivo e valutativo,
mentre Zecchinato sembra sostenere nel suo testo una nozione di validità
vincolata alla pura argomentatività dal punto di vista razionale.
Questa
tensione emerge del resto, a mio avviso, anche a proposito della considerazione
dei termini etici spessi, su cui i due autori divergono genuinamente. Mi pare,
infatti, che la tesi sostenuta da Zecchinato, attraverso le parole di Celano,
di un intervento critico-riflessivo che possa sempre separare e sceverare gli
elementi descrittivi da quelli prescrittivi, non sia compatibile con le
affermazioni che Putnam fa nel testo. A questo proposito mi piace anche
ricordare le considerazioni che Putnam offre a proposito della comprensione di
concetti etici come «bene» come legata al fare esperienza di cibo, affetto ecc.
nell’infanzia (cfr. p. 115); le sue tesi sulla possibilità di percepire qualità
di valore delle cose come tali e non in due momenti separati (percezione più
ascrizione di valore, cfr. p. 122), e infine ritornare sulla sua concezione di
criticabilità, che pure se è un momento separato e successivo, può essere
pensata come una forma di attività umana che è a sua volta un impasto di
descrizione e prescrizione, di produzione e scoperta, di ragione ed emozione.
Mi
sembra dunque che Zecchinato non possa sostenere un pieno accordo con la pars
costruens di Putnam, volendo mantenere una sostanziale distinzione tra fatti e
valori.
Non
mi impegno a sostenere che lo debba fare, né che debba abbandonare la grande
divisone - non era mia intenzione in questa sede dare ragione all’uno o all’altro
- ma solo più modestamente a chiedergli dei chiarimenti in merito all’accordo
che pensa di avere con Putnam.