http://www.units.it/etica/2005_2/REICHLIN.htm
Può il
sentimentalismo etico essere un’epistemologia?
Università
Vita-Salute San Raffaele
1. Il
testo di Eugenio Lecaldano affronta una delle questioni più rilevanti
nell’odierna discussione metaetica. Che le teorie puramente razionalistiche
trovino difficoltà a spiegare alcuni aspetti dell’esperienza morale – e in
particolare a rendere conto della dimensione motivazionale che è tipicamente
associata all’uso del linguaggio morale – è stato sottolineato ampiamente nel
corso della discussione contemporanea. Il sentimentalismo, ossia la tesi che
l’elemento centrale per rendere conto dei giudizi morali non sia da individuare
nella sfera intellettuale della ragione e delle procedure argomentative, ma
piuttosto in quella psicologica dei sentimenti e delle emozioni, si propone di
fornire un’analisi alternativa a quella razionalista del modo in cui funziona
la formulazione dei giudizi di lode e di biasimo, un’analisi che sia in grado
di fornire una spiegazione più plausibile dell’elemento motivazionale. D’altro
canto, la concentrazione sull’elemento sentimentale dell’etica rischia di
incorrere in una difficoltà altrettanto notevole, e forse più rilevante: quella
derivante dalla necessità di rendere conto della pretesa di oggettività che
naturalmente si associa alla formulazione dei giudizi morali. Nella misura in
cui il sentimentalismo fa leva soprattutto sui meccanismi psicologici mediante
i quali si generano l’approvazione e la disapprovazione morali, esso sembra
esposto alla difficoltà di rendere ragione del carattere non meramente soggettivo
dei giudizi morali; questi non si presentano infatti come resoconti in prima
persona degli stati psicologici di chi li proferisce, ma contengono quanto meno
l’intenzione di raccomandare a chi ascolta l’assunzione di un atteggiamento
psicologico analogo a quello che viene espresso mediante il giudizio, o
addirittura la credenza che tale atteggiamento sia quello giusto o appropriato.
La domanda fondamentale consiste dunque nel chiedersi se il sentimentalismo
possa salvare l’elemento motivazionale senza perdere la capacità di rendere
conto dell’oggettività, o della pretesa di valere anche per gli ascoltatori,
che sembra altrettanto inseparabile dalla pratica dei giudizi morali.
L’obiettivo che Lecaldano si propone è pertanto quello di
mostrare come il sentimentalismo sia in grado di fornire dei criteri per
valutare i sentimenti, ossia per distinguere tra sentimenti appropriati e non
appropriati, auspicabili e non auspicabili, in modo da respingere ogni
possibile accusa di soggettivismo. Ponendosi nella scia di Hume, Lecaldano
mostra dapprima come si debba distinguere tra diversi tipi di sentimenti e
diverse forme di sentimentalismo; quello di Hume non è un sentimentalismo
provvidenzialistico e fideistico ma antropologico ed evolutivo; in particolare,
i sentimenti estetici e morali sono per Hume diversi da quelli religiosi, i
quali sono facilmente preda di derive radicalmente irrazionali, che conducono
al fanatismo e alla superstizione. Se si distingue tra questi diversi tipi di
sentimento, si può vedere come, nella prospettiva humeana, si possano
individuare criteri oggettivi per una valutazione dei sentimenti e quindi
sviluppare una vera e propria epistemologia del sentimentalismo.
2. Che vi
sia, in Hume, la suaccennata distinzione tra sentimenti religiosi e sentimenti
morali è fuori discussione; e Lecaldano fa leva sul modo in cui Hume tratta i
secondi per mostrare come sia possibile fornire un’epistemologia all’analisi
sentimentalista. Naturalmente si potrebbe discutere la rappresentazione
caricaturale che Hume propone dei sentimenti religiosi; questi appaiono come
impermeabili a correzione e riflessione e quasi irresistibilmente destinati a
scadere in fanatismo e superstizione. E si dovrebbe certamente problematizzare
l’idea che i sentimenti religiosi debbano dare necessariamente luogo a quelle
«vite artificiali» che Hume biasima nei santi e negli asceti. Tralasciando
tuttavia la considerazione di questi aspetti, ci concentriamo sulla distinzione
offerta da Lecaldano tra tre posizioni che sottolineano il ruolo di emozioni e
sentimenti:
a)
l’emotivismo;
b)
il sentimentalismo estremo;
c)
il sentimentalismo riflessivo o indiretto.
La prima
posizione finisce sostanzialmente col sostenere l’inesistenza di giudizi morali
veri e propri, ossia di proposizioni mediante le quali si attribuisce un
predicato ad un oggetto; i ‘giudizi’ morali non sarebbero che l’espressione di
stati interiori di chi la proferisce e l’espressione di emozioni contrarie non
potrebbe dar luogo ad una vera contraddizione. Questa è una posizione
radicalmente soggettivista, che non può dar luogo ad un’epistemologia; infatti,
ciascuno ha le proprie reazioni emotive e non è possibile raccomandarne alcune
rispetto ad altre, ma si possono solo eliminare i disaccordi fattuali che
eventualmente fossero alla base dei diversi atteggiamenti psicologici.
La
seconda posizione, il sentimentalismo estremo, ammette l’esistenza di giudizi
morali, ma sostiene che essi si limitino ad esprimere la sensibilità immediata;
l’idea è che i giudizi non siano un mero resoconto della realtà psicologica del
parlante, ma si propongano come un effettivo apprezzamento, che può essere in
linea di principio fatto proprio anche da altri, delle azioni o dei caratteri
che ne sono oggetto, Tuttavia, il sentimentalismo estremo non ammette la
possibilità di un confronto e di una revisione critica degli atteggiamenti
psicologici iniziali, se non mediante l’insorgenza di un atteggiamento
contrario nello stesso soggetto; non c’è nulla, in altri termini, che possa
modificare un sentimento, se non un altro sentimento, né esiste la possibilità
di un vaglio tra sentimenti appropriati e non appropriati da parte di elementi
di tipo non sentimentale. Mi sembra che anche Lecaldano riconosca che, anche in
questa seconda posizione, non si dia luogo ad un’epistemologia, e quindi si
rinunci a rendere ragione della pretesa di oggettività.
La tesi
centrale di Lecaldano è che in Hume si trovi un esempio paradigmatico della
terza posizione, quella del sentimentalismo riflessivo o indiretto, nel quale
ci sono gli strumenti per una revisione
e un controllo dei sentimenti di partenza; ed è proprio tale carattere
riflessivo del sentimentalismo indiretto a consentire di sviluppare una forma
di epistemologia morale. Lecaldano osserva in particolare come si trovino in
Hume due criteri fondamentali per la revisione critica dei sentimenti: in primo
luogo, un processo di filtro esterno, che fa leva sull’esperienza della
contraddizione dei propri sentimenti con quelli altrui e induce a revisionarli
e modificarli; in secondo luogo, un processo interno di perfezionamento della
percezione e del gusto morale che porta ad un progressivo affinamento dei
sentimenti medesimi. Più in dettaglio, Lecaldano propone due tesi, una di carattere
storiografico e una di carattere più teorico: in primo luogo, a differenza di
quanto sostenuto da altri autori, non vi sarebbe un passaggio dal primo al
secondo criterio di revisione critica dei sentimenti nel passaggio dal Treatise
of Human Nature al saggio On the Standard of Taste, ma vi
sarebbe sempre un intreccio dei due metodi; in secondo luogo, l’intreccio dei
due metodi costituirebbe un importante suggerimento ai fini di un’analisi che
renda ragione della pretesa di oggettività pur attribuendo una centralità ai
sentimenti e quindi per elaborare un’epistemologia sentimentalista.
3. Non mi
soffermo molto a commentare la tesi storiografica, che meriterebbe ovviamente
un’attenzione dettagliata. Osservo solo che non sembra di poter trovare nel Treatise
un’esplicita tematizzazione del discorso sull’affinamento del giudizio
individuale in etica; il criterio suggerito da Hume «per raggiungere una
maggiore stabilità nei nostri giudizi sulle cose» sembra invece essere
da un lato quello di «fissare certi punti di vista fermi e generali»
(1) e riferirvisi indipendentemente dalla
situazione attuale, al fine di prevenire le contraddizioni tra le diverse
«apparenze momentanee delle cose», dall’altro quello di sviluppare in noi il
sentimento della simpatia per evitare che i giudizi basati sul solo sentimento
del vantaggio personale incontrino «numerose contraddizioni […] nella società e
nella conversazione». (2) Si potrebbe forse
aggiungere che già nell’Enquiry on the Principles of Morals del
1751 la polemica antirazionalista è smussata e Hume sembra chiaramente
concedere alla ragione in etica più spazio di quanto non avvenisse nel Treatise.
(3) Non so se questi elementi siano
sufficienti a giustificare una lettura discontinuista del sentimentalismo di
Hume; tuttavia mi pare che una tale lettura non sia senz’altro da escludersi.
Qualche
osservazione di più sulla tesi teorica. Lecaldano afferma che, perché si possa
parlare di una procedura sentimentalista, devono esservi sentimenti all’inizio
e alla fine. C si può però chiedere: è sufficiente, quando nell’intervallo tra
i sentimenti iniziali e quelli finali si inseriscono elementi con un netto
connotato razionalistico, o comunque non sentimentale? Se sono questi elementi
a decidere della appropriatezza o non appropriatezza dei sentimenti, e se sono
questi elementi a motivare il passaggio dai sentimenti iniziali alla loro
critica e all’adozione dei sentimenti corretti, si può ancora parlare di una
procedura sentimentalista? Mi sembra che, perché venga mantenuto un ruolo
dominante per i sentimenti, un sentimento dovrebbe essere corretto da un altro
sentimento; come dice Simon Blackburn, in una procedura sentimentalista non
esiste un punto di vista esterno a interessi e atteggiamenti pratici, a partire
dal quale è possibile criticare i propri atteggiamenti. (4) E tale procedura sembra effettivamente quella che ha in mente
Hume nel Treatise, laddove afferma ad esempio che
Nulla può
ostacolare o rallentare l’impulso di una passione se non un impulso contrario;
se questo impulso contrario sorgesse dalla ragione, ciò significherebbe che
quest’ultima facoltà dovrebbe avere un’influenza originaria sulla volontà, e
dovrebbe essere in grado non solo di impedire, ma anche di causare qualunque
atto di volizione. Ma se la ragione non ha questa influenza originaria è
impossibile che possa ostacolare un principio che invece possiede tale
capacità, o che riesca a fare esitare la nostra mente sia pure un attimo. (5)
Al
contrario, nel saggio On the Standard of Taste sembra che Hume delinei
una procedura di correzione dei sentimenti iniziali che include elementi di
tipo intellettuale o cognitivo e non può essere compresa in termini puramente
sentimentalistici. Nel delineare i tratti di un buon critico Hume elenca
diverse capacità che costui deve possedere:
i)
un’esperienza ampia e ripetuta;
ii)
la capacità di discernere la relazione tra le parti
di un’opera;
iii)
la capacità di confrontare i diversi generi di
bellezza;
iv)
una mente libera da ogni pregiudizio e la capacità
di immedesimarsi nell’epoca e nelle condizioni cui si rivolge l’autore;
v)
il buon senso al fine di neutralizzare pregiudizi,
cogliere il rapporto tra l’opera e gli scopi che si proponeva, giudicare la
ragionevolezza dei personaggi, del loro modo di agire e di parlare.
Mi sembra
evidente che molti di questi compiti abbiano un carattere cognitivo, per cui la
correzione dei giudizi iniziali sembra essere significativamente indirizzata da
elementi che non possono definirsi sentimentali. E l’aspetto più interessante è
che lo stesso Hume sembra riconoscere il rilievo centrale che qui viene
attribuito alla ragione. Dice infatti:
[È
compito del buon senso neutralizzare l’influenza dei pregiudizi]; e da questo
punto di vista, come da molti altri, la ragione, anche se non è una
parte essenziale del gusto, è per lo meno una condizione perché
quest’ultima facoltà possa operare. In tutte le più nobili produzioni
del genio vi è una reciproca relazione e corrispondenza delle parti: e le
bellezze o i difetti non possono venir percepiti da colui il cui pensiero
non sia abbastanza capace di comprendere queste due parti, e confrontarle
fra di loro allo scopo di percepire la coerenza e l’uniformità dell’insieme. (6)
Dunque, è
bensì possibile pronunciare giudizi estetici senza la ragione; tuttavia la
facoltà di giudicare esteticamente non si realizza pienamente senza la ragione.
Analogamente, se vale l’analogia tra giudizio estetico e giudizio morale, si
può dire che è certamente possibile pronunciare giudizi morali senza l’aiuto
della ragione, ossia limitandosi ad esprimere i propri sentimenti immediati; ma
tali giudizi non sono veri giudizi, ossia non realizzano quel punto di vista
fermo e generale e non possono dar luogo ad un’epistemologia morale, senza
l’intervento della ragione. Si legga ancora Hume:
la
medesima eccellenza delle facoltà che contribuiscono alla perfezione della ragione,
la medesima chiarezza della concezione, la medesima esattezza della
distinzione, la medesima vivacità dell’apprensione sono essenziali alle
operazione del vero gusto e le accompagnano immancabilmente.
Accade di rado, o mai, che un uomo di buon senso, che abbia esperienza di
qualche arte, non possa giudicare della bellezza di questa, ed è non meno
difficile che incontri una persona che abbia un gusto retto senza un intelletto
sano. (7)
Si
potrebbe pertanto concludere che ciò che serve per ben giudicare, in arte come
in etica, è soprattutto un intelletto sano, non perché esso sia in grado di
giudicare autonomamente, ma perché senza un intelletto che orienti la facoltà
di sentire non si raggiungono giudizi veri, ossia adeguati. Questa conclusione
non sembra essere molto lontano da quanto sosteneva Aristotele, che vedeva
nella scelta ragionevole—ossia in una horexis, una tendenza che
appartiene alla sfera desiderativa o passionale, che dà ascolto alla retta
ragione—il criterio fondamentale di un agire moralmente corretto. In maniera
analoga, si potrebbe dire, Hume sostiene che occorra un sano intelletto perché
si possano correggere desideri e sentimenti inadeguati e scegliere quelli
appropriati.
4. Se
quindi si accetta l’esistenza di una serie di meccanismi non sentimentali ma
razionali di correzione dei sentimenti, il risultato è che, alla fine, non
abbiamo dei semplici sentimenti, ma piuttosto la scelta di un certo modo
di sentire, o meglio l’adozione riflessiva di un certo atteggiamento come
corretto o giustificato nei confronti di un’azione, una massima, o un tratto di
carattere. Un’epistemologia morale che sviluppasse l’idea sentimentalista lungo
le linee indicate mi sembrerebbe avvicinarsi a quello che potrebbe essere
l’esito di una forma plausibile di razionalismo. Nessun razionalista
ragionevole può negare che vi siano atteggiamenti irriflessi alla base dei
giudizi morali; il giudizio morale consiste appunto nell’applicare ai dati
dell’esperienza morale immediata, fatta in larga misura di sentimenti, emozioni
e altri atteggiamenti psicologici, dei criteri per filtrarla e correggerla.
Tale processo non è peraltro irrilevante ai fini della motivazione, quindi del
carattere pratico dell’etica; anzi, è proprio il fatto che certi sentimenti o
atteggiamenti pratici passino il test della riflessione razionale a far sì che
abbiano autorità. Perciò, si potrebbe dire in chiave antisentimentalista e
antihumeana, l’autorità di muovere all’azione non è propria del sentimento (che
può certo muovere all’azione, ma che in quanto tale non ha alcuna autorità), ma
di un sentimento in quanto adottato riflessivamente, quindi in quanto sia stato
fatto oggetto di una scelta pratica.
Con ciò non si vuol certo dire che venga meno ogni differenza tra un sentimentalismo indiretto, che corregga i sentimenti iniziali attraverso il ricorso a strumenti razionali, e un razionalismo che dia il giusto peso alla dimensione sentimentale. Una differenza soprattutto merita di essere considerata. È vero, come sottolinea il sentimentalismo, che, in molti casi, ciò che emerge dalla riflessione è un modo diverso di guardare la realtà, e quindi di provare sentimenti e di atteggiarsi nei suoi confronti; questo però non dice tutto sull’esperienza morale. Ciò che resta da dire è che i giudizi morali non riguardano solo, e non in primo luogo, il problema in terza persona di giudicare i comportamenti altrui, ma anche e soprattutto il problema in prima persona di decidere che cosa debba fare in certe circostanze, o quale tipo di virtù o di disposizione pratica sia richiesto in questa situazione. L’idea sentimentalista che il punto di arrivo di una procedura di valutazione morale sia un sentimento sembra plausibile quando si tratti del giudizio esterno dello spettatore imparziale e simpatetico; lo è molto meno quando si tratti di scegliere in prima persona il corso d’azione da seguire, valutando i pro e i contro alla luce di un ideale morale o di una certa concezione della vita buona. In questi casi, il termine di un ragionamento pratico non è solo un certo modo di sentire, ma una scelta o una massima, ossia un insieme di considerazioni che risultano accettabili per sentire e per agire in un certo modo.
5. In conclusione, credo si possa dire che né la concezione emotivista, né quella sentimentalista radicale siano in grado di dare luogo ad un’epistemologia; e mi pare che Lecaldano implicitamente convenga su questo punto. D’altro canto, mi sembra che se la concezione sentimentalista riflessiva può presentare gli spunti di un’epistemologia, ciò dipende dal fatto che concede molto alla posizione razionalistica, o quanto meno indebolisce radicalmente la critica al razionalismo, al punto che si può seriamente dubitare che si possa parlare ancora di una forma di sentimentalismo. Se questo è vero, il ricorso a Hume non consente a Lecaldano di rendere adeguatamente ragione dell’oggettività dell’etica rimanendo nell’ambito di una concezione schiettamente sentimentalista. Resta dunque da provare che il sentimentalismo, oltre ad una metaetica, possa essere anche un’epistemologia.
(1) D. Hume, Trattato
sulla natura umana, in Opere filosofiche, vol. 1, Laterza, Roma-Bari
1987, p. 615.
(2) Ibid., p. 617.
(3) Si veda:
D. Hume, Ricerca sui principi della morale, Rusconi, Milano 1980, I,
134-137, pp. 340-347 e Appendice I, 234-246, pp. 488-499.
(4) S. Blackburn, Ruling Passions: A Theory of
Practical Reasoning,
(5) D. Hume, Trattato sulla natura umana, cit.,
pp. 435-436.
(6) D. Hume, La
regola del gusto, in Opere, Laterza, Roma-Bari 1971, vol. 2, p. 650
(corsivi miei).
(7) Ibid., pp.
650-651 (corsivi miei). Si confronti quanto analogamente affermato nell’Enquiry:
«in molti ordini di bellezza, particolarmente in quelli delle belle arti,
bisogna ricorrere a molti ragionamenti, per provare il sentimento appropriato;
e spesso si può correggere un gusto errato con l’argomentazione e con la
riflessione. Vi sono buone ragioni per concludere che la bellezza morale
condivide molte caratteristiche di quest’ultima specie di bellezza e che
richiede l’aiuto delle nostre facoltà intellettuali, per acquisire un adeguato
influsso sull’uomo» (Ricerca sui principi della morale, cit., p. 345).