Etica & Politica / Ethics & Politics, 2005, 2

http://www.units.it/etica/2005_2/PELLEGRINO.htm

 

 

Una interpretazione minimalista dell’intuizionismo di W.D. Ross

 

Gianfranco Pellegrino

 

Centro di ricerca e studi sui diritti umani

LUISS - Roma

 

 

 

1. L’obiezione generale mossa da Mordacci a Ross si può articolare in due sotto-obiezioni specifiche: 1. secondo Ross, i doveri prima facie sarebbero delle proprietà sui generis realmente esistenti e intuite: questo porta Ross a postulare un ambito della realtà ad un tempo esterno al soggetto e immediatamente pratico – cosa difficile da ammettere; 2. i doveri prima facie sono caratteristiche descrittive della situazione o dell’azione; dunque, essi non sono normativi. Ross sostiene che il dovere in senso proprio – che è capace di orientare l’azione – deriverebbe dai doveri prima facie. Quindi Ross prevede che da qualcosa di non normativo possa derivare qualcosa di normativo. Questo è assurdo – o quantomeno nega la distinzione fra essere e dover essere.

 

2. Ho l’impressione che l’insoddisfazione di Mordacci muova da una visione che schiaccia Ross sul platonismo intuizionista di Moore. Una interpretazione più minimalista del dettato testuale rossiano dissipa molti dei problemi messi in luce da Mordacci. In particolare, contro la prima sotto-obiezione di Mordacci potrebbero valere le seguenti osservazioni:

 

a. proprietà costitutive e proprietà risultanti: è  vero che Ross sostiene – come Moore – che “giusto” e “bene” siano termini che fanno riferimento a proprietà o qualità. Tuttavia, a differenza di Moore (che identifica il bene con proprietà come essere giallo), Ross distingue fra proprietà costitutive – che sono gli attributi fondamentali che costituiscono le cose per come esse sono (essenzialmente, le qualità primarie e secondarie) – e attributi “terziari” o risultanti (o consequenziali), vale a dire attributi ascritti alle cose in virtù del fatto di possedere certe proprietà costitutive (pp. 142-44). (1) Proprietà come essere giallo, essere quadrato o essere esteso sono del primo tipo; proprietà come essere giusto o buono sono del secondo tipo. In altri termini, si dice che qualcosa è buono o giusto per indicare (forse ellitticamente) che esso possiede certe altre qualità specifiche – come essere un atto di beneficenza, o essere il mantenimento di una promessa. “Buono” e “giusto” funzionano come “essere quadrato ed avere un’area di 4 cm2”, cioè:

i. si tratta di proprietà ulteriori rispetto alle proprietà da cui risultano (in questo caso, “essere quadrato” e “avere un’area di 4 cm2»): chi menziona proprietà del genere comunica qualcosa di più di chi parla solo delle proprietà da cui risultano, prese isolatamente;

ii. ma tali proprietà non sono aggiunte, vale a dire indipendenti dalle altre proprietà della cosa (p. 106).

 

b. indefinibilità, non riduzionismo e pluralismo: contro ii. si potrebbe obiettare: se le proprietà risultanti non sono indipendenti, esse non sono affatto proprietà ulteriori. Non si tratta di altre proprietà: sono solo nomi collettivi di insiemi di proprietà. Non è detto che un nome collettivo o di gruppo identifichi un oggetto diverso rispetto a tutti gli individui che compongono il gruppo.

Tuttavia, a differenza di proprietà egualmente risultanti come “essere quadrato ed avere un’area di 4 cm2” o anche “essere giallo”, buono e giusto – anche se dipendenti dalle proprietà da cui risultano – sono irriducibili ad esse (pp. 105-125, 144). Per questa ragione, “buono” e “giusto” non possono essere definiti nei termini delle proprietà risultanti. Ciò non perché si tratta di proprietà differenti, come sosterrebbe Moore (infatti, che si tratti di proprietà differenti ancora si deve dimostrare). Né perché si potrebbe usare “buono” senza averne in mente una definizione precisa – come pure Ross parrebbe sostenere (p. 111). Infatti, “essere quadrato ed avere un’area di 4 cm2” potrebbe essere sinonimo (almeno nel mondo attuale) di “essere un piccolo quadrato”: ma chi usa questa espressione potrebbe farlo senza sapere bene se un quadrato di 5 cm2 sia o no piccolo – forse non ci si è messi d’accordo su che cosa intendere come piccolo. In questo senso, “essere un piccolo quadrato” si può usare senza averne in mente una definizione precisa.

Piuttosto, Ross impedisce la riduzione di proprietà morali a proprietà nonmorali grazie al proprio pluralismo, che consiste delle seguenti due tesi:

1. [predicabilità universale] “buono” e “giusto” sono predicabili di qualsiasi cosa, senza vincoli (questo non vale invece per le qualità costitutive: è assurdo dire che un certo suono è giallo, che un certo colore è acuto, o che una certa immagine è ruvida – se non parlando metaforicamente): «i giudizi in cui si dice […] che qualcosa è buono o cattivo […] si possono applicare a qualsiasi cosa nel mondo» (p. 122); e

2. [olismo] ciascun atto concreto ha differenti ed opposte caratteristiche, che esemplificano molti tipi di atto – tipi di atto che hanno caratteristiche che possono essere buone o giuste. Ciascun atto, quindi, può essere sia buono che cattivo, sia giusto che ingiusto, prima facie (vale a dire, rispetto ai differenti tipi che esemplifica): un’azione concreta (non un tipo d’azione, o una qualche caratteristica isolata di un’azione concreta, ma un’azione concreta presa nel complesso) è, però, giusta o buona, a seconda di quali delle sue caratteristiche hanno rilevanza prevalente – all’interno del contesto rappresentato dal complesso delle caratteristiche dell’azione. Di conseguenza, mutamenti nel contesto dell’azione concreta possono mutare la rilevanza morale attesa di certe azioni: quello che ci si aspettava dovesse essere giusto si rivela invece ingiusto:

 

[…] l’essere buono è un attributo consequenziale [consequential], cioè qualunque cosa sia buona deve esserlo o in forza della sua natura complessiva a parte l’essere buona, o in forza di qualcosa nella sua natura che sia diverso dall’essere buona. Questo mi pare un fatto assai importante a proposito dell’esser buono, che lo distingue nettamente dalla maggior parte degli altri attributi. Tuttavia, non posso essere d’accordo sul presupposto che vi sia un’unica caratteristica in forza della quale tutte le cose buone sono buone (p. 95, trad. it. leggermente modificata).

 

Il pluralismo implica che non si possa stabilire, una volta e per tutte – prima del giudizio sull’atto concreto –, da quale gruppo di caratteristiche il bene o il giusto risulterà. Di conseguenza, il bene e il giusto come proprietà non sono riducibili alle proprietà da cui risultano, né sono definibili nei termini di tali proprietà, perché queste ultime sono di complessità infinita e non generalizzabile: si può dire, in un certo caso – o in un certo numero di casi – quali sono le caratteristiche di un’azione che la rendono buona o giusta. Ma non si può dire quali sono le caratteristiche che rendono sempre giuste o buone certe azioni. Di conseguenza, le proprietà del bene e del giusto possono essere articolate di volta in volta – riferendosi alle caratteristiche nonmorali delle cose da cui esse risultano –, ma non possono essere esaustivamente definite. Quindi, le proprietà “bene” e “giusto” non sono meri nomi, ma sono autentiche proprietà ulteriori;

 

c. lo status ontologico delle proprietà morali: le proprietà risultanti, intese come proprietà di avere certe altre proprietà, pur se irriducibili alle proprietà costitutive, non vanno perciò collocate ad un livello ontologico differente. Se la proprietà di essere buono o giusto consiste nell’avere certe altre proprietà ordinarie, essa sarà parimenti una proprietà del tutto ordinaria. Che si tratti di una proprietà differente dalle proprietà costitutive non implica che essa abbia uno status ontologico sui generis. Ross non è un realista morale: non postula un reame sui generis di proprietà morali. Tuttavia, non è neanche un naturalista riduzionista. Dal momento che le proprietà morali sono differenti da altre proprietà – sia da altre proprietà risultanti che dalle properità costitutive – è garantita l’autonomia dell’etica.

 

 

3. Contro la seconda sotto-obiezione presentata da Mordacci potrebbe essere fatta valere la seguente interpretazione alternativa dei doveri prima facie.

Le differenti caratteristiche che possono rendere giusta un’azione sono fonti di doveri prima facie. Si tratta di fonti solo potenziali, però, perché ci potrebbero essere altre caratteristiche dell’atto concreto capaci di annullarne la rilevanza morale. Il bilanciamento complessivo delle caratteristiche moralmente rilevanti di un singolo atto concreto, che si ottiene solo tramite un giudizio particolare, dà origine al dovere vero e proprio, non esprimibile tramite principi generali. L’insieme complessivo delle caratteristiche di un atto è la vera fonte di un obbligo: in un certo senso, dunque, se la normatività è propria degli obblighi, la rilevanza morale di una sola caratteristica di un certo atto o situazione non arriva da sola ad essere già normativa. Solo dopo un giudizio su tale insieme si passa dalla mera giustezza – o rilevanza morale – alla doverosità (p. 37). A prima vista, l’obiezione di Mordacci è corretta.

I doveri prima facie derivano da un’analisi che fa astrazione dall’atto concreto per fissarsi sulle caratteristiche che consentono di ascriverlo ad un tipo, mentre nel caso del dovere proprio ci si concentra sull’azione reale. E sembra corretto ritenere che solo in quest’ultimo caso ci sia dovere – vale a dire obbligo d’agire. La distinzione fra doveri prima facie (caratteristiche moralmente rilevanti) e dovere proprio (l’esser giusto o obbligatorio nel complesso di un atto o situazione) sembra coincidere con la differenza fra principi universali relativi alla rilevanza morale generale di singole caratteristiche delle azioni e giudizi ponderati sulla rilevanza morale complessiva delle caratteristiche di una azione concreta.

Ma questa distinzione non è parallela a quella fra ambito descrittivo e ambito normativo, a ben vedere. Proprio le esigenze dell’azione inducono Ross a distinguere principi prima facie e livello del giudizio sul bilanciamento tra tali principi nelle singole situazioni. In una situazione concreta possono coesistere differenti caratteristiche rilevanti, che presuppongono regole d’azione e principi differenti o anche opposti – il livello prima facie non è dunque immediatamente pratico (qui Mordacci ha ragione): cui non si possono compiere due azioni opposte, né si può con la medesima azione conformarsi a principi differenti o anche opposti.

Ma, Ross deduce da quest’asimmetria l’idea che l’azione debba rispondere alla caratteristica della situazione che supera in rilevanza tutte le altre. Tale rispondenza, ovviamente, significa che – dopo un giudizio sul bilanciamento delle caratteristiche della situazione e della loro rilevanza – si dovrà agire in base al principio prima facie relativo alla caratteristica maggiormente rilevante nella situazione che si ha di fronte. A questo punto, ovviamente, il principio non sarà più prima facie: esso è risultato decisivo e si è arrivati ad un livello ove c’è praticità.

Ma si tratta di una praticità che risponde a una caratteristica della situazione – quella maggiormente rilevante –, una caratteristica che fa parte di quei tratti dell’azione che possono essere oggetto di principi prima facie. Solo che, questa volta, tale caratteristica ha una rilevanza superiore a quella delle altre, e il principio che la descrive predomina. Non c’è un’interruzione della rilevanza morale fra livello prima facie e livello dei doveri propri – anche se nel livello prima facie c’è un grado di rilevanza morale insufficiente a orientare l’azione. Ma Ross non ammette la possibilità di un dovere proprio che non dia origine all’azione: questa mossa non può che denotare una certa preoccupazione per la praticità.

I principi generali di dovere prima facie, dunque, non costituiscono mai ragioni normative per l’azione. Lo sono solo i giudizi su singole azioni concrete, le applicazioni di tali principi – il che non esclude che la prospettiva pratica sia determinante nel dare origine a tali giudizi. Di conseguenza, è vero che il dovere in senso proprio deriva dai doveri prima facie: ma tale derivazione non è un rapporto di sopravvenienza o di risultanza – come Mordacci parrebbe pensare. La risultanza è una una relazione che unisce certe proprietà e la proprietà di avere tali proprietà, all’interno del medesimo ambito ontologico: le caratteristiche la cui rilevanza viene descritta dai principi di dovere prima facie (essere una promessa, essere un atto di rispetto dei legittimi interessi altrui, e così via) sono le proprietà avere le quali significa essere prima facie giusto. Quindi, i doveri prima facie risultano da certe caratteristiche delle azioni. Ma essere un dovere in senso proprio non è la proprietà di avere certe proprietà – non è la proprietà di essere giusto prima facie. Essere giusto prima facie non è sufficiente per essere un dovere in senso proprio. Giudicare che qualcosa sia un dovere in senso proprio non richiede l’uso di una ulteriore qualificazione deontica: si tratta semplicemente di un giudizio su quale dovere prima facie risulti prevalente. Il dovere prima facie rappresenta un certo grado di doverosità – un grado inferiore alla soglia minima necessaria ad orientare l’azione –, mentre il dovere in senso proprio rappresenta il grado massimo di doverosità (o, almeno, il grado sufficiente ad orientare l’azione). Il rapporto fra qualcosa che ha una certa caratteristica ad un certo grado e ciò che ha tale caratteristica al massimo grado non è un caso di risultanza.

 

4. Ross, dunque, esclude il tradizionale ruolo argomentativo e conoscitivo dei principi assoluti – sostituendoli con principi che possono essere soverchiati e trovando nel giudizio dell’agente su singole situazioni l’unica fonte da cui trarre un ordine fra principi che non sono dotati di un peso assoluto. Dunque, forse la specificità dell’approccio di Ross sta più nella sua deontologia pluralista che nella sua epistemologia morale cognitivista. Forse è questo che non convince Mordacci. Sarebbe molto interessante conoscere le critiche che un pensatore di ispirazione kantiana come Mordacci muoverebbe al pluralismo deontologico di Ross. La speranza è di potere presto leggere i nuovi sviluppi di questo interessante dibattito.

 

 

Note

 

(1) Le citazioni nel corpo del testo fanno sempre riferimento a W.D. Ross, Il giusto e il bene, a cura di R. Mordacci, Bompiani, Milano 2004.