http://www.units.it/etica/2005_2/PELLEGRINO.htm
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studi sui diritti umani
1. L’obiezione
generale mossa da Mordacci a Ross si può articolare in due sotto-obiezioni specifiche:
1. secondo Ross, i doveri prima
facie sarebbero delle proprietà sui generis
realmente esistenti e intuite: questo porta Ross a postulare un ambito della
realtà ad un tempo esterno al soggetto e immediatamente pratico – cosa
difficile da ammettere; 2. i doveri prima facie sono caratteristiche descrittive della situazione o
dell’azione; dunque, essi non sono normativi. Ross sostiene che il dovere in
senso proprio – che è capace di orientare l’azione – deriverebbe dai doveri prima facie. Quindi Ross prevede che da
qualcosa di non normativo possa derivare qualcosa di normativo. Questo è assurdo
– o quantomeno nega la distinzione fra essere e dover essere.
2. Ho
l’impressione che l’insoddisfazione di Mordacci muova da una visione che schiaccia
Ross sul platonismo intuizionista di Moore. Una interpretazione più minimalista
del dettato testuale rossiano dissipa molti dei problemi messi in luce da
Mordacci. In particolare, contro la prima sotto-obiezione di Mordacci
potrebbero valere le seguenti osservazioni:
a. proprietà costitutive e proprietà risultanti: è vero che Ross sostiene –
come Moore – che “giusto” e “bene” siano termini che fanno riferimento a
proprietà o qualità. Tuttavia, a differenza di Moore (che identifica il bene
con proprietà come essere giallo), Ross distingue fra proprietà costitutive – che sono gli attributi
fondamentali che costituiscono le cose per come esse sono (essenzialmente, le
qualità primarie e secondarie) – e attributi “terziari” o risultanti (o consequenziali),
vale a dire attributi ascritti alle cose in virtù del fatto di possedere certe
proprietà costitutive (pp. 142-44). (1)
Proprietà come essere giallo, essere quadrato o essere esteso sono del primo
tipo; proprietà come essere giusto o buono sono del secondo tipo. In altri
termini, si dice che qualcosa è buono o giusto per indicare (forse ellitticamente)
che esso possiede certe altre qualità specifiche – come essere un atto di
beneficenza, o essere il mantenimento di una promessa. “Buono” e “giusto”
funzionano come “essere quadrato ed avere un’area di 4 cm2”, cioè:
i. si tratta
di proprietà ulteriori rispetto alle
proprietà da cui risultano (in questo caso, “essere quadrato” e “avere un’area
di 4 cm2»): chi menziona proprietà del genere comunica qualcosa di
più di chi parla solo delle proprietà da cui risultano, prese isolatamente;
ii. ma tali
proprietà non sono aggiunte, vale a
dire indipendenti dalle altre
proprietà della cosa (p. 106).
b. indefinibilità, non riduzionismo e pluralismo: contro ii. si potrebbe obiettare: se le
proprietà risultanti non sono indipendenti, esse non sono affatto proprietà ulteriori. Non si tratta di altre proprietà: sono solo nomi
collettivi di insiemi di proprietà. Non è detto che un nome collettivo o di gruppo
identifichi un oggetto diverso rispetto a tutti gli individui che compongono il
gruppo.
Tuttavia,
a differenza di proprietà egualmente risultanti come “essere quadrato ed avere
un’area di 4 cm2” o anche “essere giallo”, buono e giusto – anche se
dipendenti dalle proprietà da cui
risultano – sono irriducibili ad esse
(pp. 105-125, 144). Per questa ragione, “buono” e “giusto” non possono essere
definiti nei termini delle proprietà risultanti. Ciò non perché si tratta di proprietà
differenti, come sosterrebbe Moore (infatti, che si tratti di proprietà
differenti ancora si deve dimostrare). Né perché si potrebbe usare “buono”
senza averne in mente una definizione precisa – come pure Ross parrebbe
sostenere (p. 111). Infatti, “essere quadrato ed avere un’area di 4 cm2”
potrebbe essere sinonimo (almeno nel mondo attuale) di “essere un piccolo
quadrato”: ma chi usa questa espressione potrebbe farlo senza sapere bene se un
quadrato di 5 cm2 sia o no piccolo – forse non ci si è messi
d’accordo su che cosa intendere come piccolo. In questo senso, “essere un
piccolo quadrato” si può usare senza averne in mente una definizione precisa.
Piuttosto,
Ross impedisce la riduzione di proprietà morali a proprietà nonmorali grazie al
proprio pluralismo, che consiste
delle seguenti due tesi:
1. [predicabilità universale] “buono” e “giusto” sono predicabili di
qualsiasi cosa, senza vincoli (questo non vale invece per le qualità
costitutive: è assurdo dire che un certo suono è giallo, che un certo colore è
acuto, o che una certa immagine è ruvida – se non parlando metaforicamente): «i
giudizi in cui si dice […] che qualcosa è buono o cattivo […] si possono
applicare a qualsiasi cosa nel mondo» (p. 122); e
2. [olismo] ciascun atto concreto ha differenti
ed opposte caratteristiche, che esemplificano molti tipi di atto – tipi di atto
che hanno caratteristiche che possono essere buone o giuste. Ciascun atto,
quindi, può essere sia buono che cattivo, sia giusto che ingiusto, prima facie (vale a dire, rispetto ai
differenti tipi che esemplifica): un’azione concreta (non un tipo d’azione, o
una qualche caratteristica isolata di un’azione concreta, ma un’azione concreta
presa nel complesso) è, però, giusta o buona, a seconda di quali delle sue
caratteristiche hanno rilevanza prevalente – all’interno del contesto
rappresentato dal complesso delle caratteristiche dell’azione. Di conseguenza,
mutamenti nel contesto dell’azione concreta possono mutare la rilevanza morale
attesa di certe azioni: quello che ci si aspettava dovesse essere giusto si
rivela invece ingiusto:
[…]
l’essere buono è un attributo consequenziale [consequential], cioè qualunque cosa sia buona deve esserlo o in
forza della sua natura complessiva a parte l’essere buona, o in forza di qualcosa
nella sua natura che sia diverso dall’essere buona. Questo mi pare un fatto
assai importante a proposito dell’esser buono, che lo distingue nettamente
dalla maggior parte degli altri attributi. Tuttavia, non posso essere d’accordo
sul presupposto che vi sia un’unica caratteristica
in forza della quale tutte le cose buone sono buone (p. 95, trad. it.
leggermente modificata).
Il
pluralismo implica che non si possa stabilire, una volta e per tutte – prima
del giudizio sull’atto concreto –, da quale gruppo di caratteristiche il bene o
il giusto risulterà. Di conseguenza, il bene e il giusto come proprietà non
sono riducibili alle proprietà da cui risultano, né sono definibili nei termini
di tali proprietà, perché queste ultime sono di complessità infinita e non
generalizzabile: si può dire, in un certo caso – o in un certo numero di casi –
quali sono le caratteristiche di un’azione che la rendono buona o giusta. Ma
non si può dire quali sono le caratteristiche che rendono sempre giuste o buone certe azioni. Di conseguenza, le proprietà
del bene e del giusto possono essere articolate di volta in volta – riferendosi
alle caratteristiche nonmorali delle cose da cui esse risultano –, ma non
possono essere esaustivamente
definite. Quindi, le proprietà “bene” e “giusto” non sono meri nomi, ma sono
autentiche proprietà ulteriori;
c. lo status ontologico delle
proprietà morali: le proprietà risultanti, intese come proprietà di avere
certe altre proprietà, pur se irriducibili alle proprietà costitutive, non
vanno perciò collocate ad un livello ontologico differente. Se la proprietà di
essere buono o giusto consiste nell’avere certe altre proprietà ordinarie, essa
sarà parimenti una proprietà del tutto ordinaria. Che si tratti di una
proprietà differente dalle proprietà
costitutive non implica che essa abbia uno status
ontologico sui generis. Ross non è un
realista morale: non postula un reame
sui generis di proprietà morali.
Tuttavia, non è neanche un naturalista riduzionista. Dal momento che le
proprietà morali sono differenti da altre proprietà – sia da altre proprietà
risultanti che dalle properità costitutive – è garantita l’autonomia
dell’etica.
3. Contro la
seconda sotto-obiezione presentata da Mordacci potrebbe essere fatta valere la seguente
interpretazione alternativa dei doveri prima
facie.
Le
differenti caratteristiche che possono rendere giusta un’azione sono fonti di
doveri prima facie. Si tratta di
fonti solo potenziali, però, perché ci potrebbero essere altre caratteristiche
dell’atto concreto capaci di annullarne la rilevanza morale. Il bilanciamento
complessivo delle caratteristiche moralmente rilevanti di un singolo atto
concreto, che si ottiene solo tramite un giudizio particolare, dà origine al
dovere vero e proprio, non esprimibile tramite principi generali. L’insieme complessivo delle
caratteristiche di un atto è la vera fonte di un obbligo: in un certo senso,
dunque, se la normatività è propria degli obblighi, la rilevanza morale di una
sola caratteristica di un certo atto o situazione non arriva da sola ad essere
già normativa. Solo dopo un giudizio su tale insieme si passa dalla mera
giustezza – o rilevanza morale – alla doverosità (p. 37). A prima vista,
l’obiezione di Mordacci è corretta.
I doveri prima facie derivano da un’analisi che
fa astrazione dall’atto concreto per fissarsi sulle caratteristiche che
consentono di ascriverlo ad un tipo, mentre nel caso del dovere proprio ci si
concentra sull’azione reale. E sembra corretto ritenere che solo in
quest’ultimo caso ci sia dovere – vale a dire obbligo d’agire. La distinzione
fra doveri prima facie
(caratteristiche moralmente rilevanti) e dovere proprio (l’esser giusto o
obbligatorio nel complesso di un atto o situazione) sembra coincidere con la
differenza fra principi universali relativi alla rilevanza morale generale di singole caratteristiche delle azioni e giudizi ponderati sulla rilevanza morale
complessiva delle caratteristiche di
una azione concreta.
Ma questa distinzione non è parallela a quella fra ambito
descrittivo e ambito normativo, a ben vedere. Proprio le esigenze dell’azione
inducono Ross a distinguere principi prima
facie e livello del giudizio sul bilanciamento tra tali principi nelle
singole situazioni. In una situazione concreta possono coesistere differenti
caratteristiche rilevanti, che presuppongono regole d’azione e principi
differenti o anche opposti – il livello prima
facie non è dunque immediatamente pratico (qui Mordacci ha ragione): cui
non si possono compiere due azioni opposte, né si può con la medesima azione
conformarsi a principi differenti o anche opposti.
Ma, Ross deduce da quest’asimmetria l’idea che l’azione
debba rispondere alla caratteristica
della situazione che supera in
rilevanza tutte le altre. Tale rispondenza, ovviamente, significa che – dopo un
giudizio sul bilanciamento delle caratteristiche della situazione e della loro
rilevanza – si dovrà agire in base al principio prima facie relativo alla caratteristica maggiormente rilevante
nella situazione che si ha di fronte. A questo punto, ovviamente, il principio
non sarà più prima facie: esso è
risultato decisivo e si è arrivati ad
un livello ove c’è praticità.
Ma si tratta di una praticità che risponde a una
caratteristica della situazione – quella maggiormente rilevante –, una caratteristica
che fa parte di quei tratti dell’azione che possono essere oggetto di principi prima facie. Solo che, questa volta,
tale caratteristica ha una rilevanza superiore a quella delle altre, e il
principio che la descrive predomina. Non c’è un’interruzione della rilevanza
morale fra livello prima facie e
livello dei doveri propri – anche se nel livello prima facie c’è un grado di rilevanza morale insufficiente a orientare
l’azione. Ma Ross non ammette la possibilità di un dovere proprio che non dia
origine all’azione: questa mossa non può che denotare una certa preoccupazione
per la praticità.
I principi
generali di dovere prima facie,
dunque, non costituiscono mai ragioni
normative per l’azione. Lo sono solo i giudizi su singole azioni concrete, le
applicazioni di tali principi – il che non esclude che la prospettiva pratica
sia determinante nel dare origine a tali giudizi. Di conseguenza, è vero che il
dovere in senso proprio deriva dai doveri prima
facie: ma tale derivazione non è un rapporto di sopravvenienza o di
risultanza – come Mordacci parrebbe pensare. La risultanza è una una relazione
che unisce certe proprietà e la proprietà di avere tali proprietà, all’interno
del medesimo ambito ontologico: le caratteristiche la cui rilevanza viene
descritta dai principi di dovere prima
facie (essere una promessa, essere un atto di rispetto dei legittimi interessi
altrui, e così via) sono le proprietà avere le quali significa essere prima facie giusto. Quindi, i doveri prima facie risultano da certe
caratteristiche delle azioni. Ma essere un dovere in senso proprio non è la
proprietà di avere certe proprietà – non è la proprietà di essere giusto prima facie. Essere giusto prima facie non è sufficiente per essere
un dovere in senso proprio. Giudicare che qualcosa sia un dovere in senso
proprio non richiede l’uso di una ulteriore qualificazione deontica: si tratta
semplicemente di un giudizio su quale dovere prima facie risulti prevalente. Il dovere prima facie rappresenta un certo grado di doverosità – un grado
inferiore alla soglia minima necessaria ad orientare l’azione –, mentre il
dovere in senso proprio rappresenta il grado massimo di doverosità (o, almeno,
il grado sufficiente ad orientare l’azione). Il rapporto fra qualcosa che ha
una certa caratteristica ad un certo grado e ciò che ha tale caratteristica al
massimo grado non è un caso di risultanza.
4. Ross,
dunque, esclude il tradizionale ruolo argomentativo e conoscitivo dei principi
assoluti – sostituendoli con principi che possono essere soverchiati e trovando
nel giudizio dell’agente su singole situazioni l’unica fonte da cui trarre un
ordine fra principi che non sono dotati di un peso assoluto. Dunque, forse la
specificità dell’approccio di Ross sta più nella sua deontologia pluralista che
nella sua epistemologia morale cognitivista. Forse è questo che non convince
Mordacci. Sarebbe molto interessante conoscere le critiche che un pensatore di
ispirazione kantiana come Mordacci muoverebbe al pluralismo deontologico di
Ross. La speranza è di potere presto leggere i nuovi sviluppi di questo
interessante dibattito.
Note
(1) Le citazioni nel corpo
del testo fanno sempre riferimento a W.D. Ross, Il giusto e il bene, a cura di R. Mordacci, Bompiani, Milano 2004.