http://www.units.it/etica/2005_2/MORDACCI01.htm
La
praticità del giudizio morale.
Replica
a Gianfranco Pellegrino
Le
obiezioni che Pellegrino muove alla mia critica a Ross e all’intuizionismo si
soffermano su due aspetti: 1. la natura dei doveri prima facie; 2. la derivabilità del dovere reale da caratteristiche
non originariamente pratiche come i doveri prima
facie.
1. Sul
primo punto, appare opportuna la precisazione per cui le proprietà morali sono
ulteriori ma non aggiunte, cioè indipendenti da altre proprietà della cosa. Questa
articolazione, infatti, è ciò che consente a Ross di fondare il suo pluralismo
normativo su una base che resta comunque cognitivista. Sono sostanzialmente
d’accordo con le osservazioni di Pellegrino, anche se non mi sembra che
modifichino davvero la mia critica: non ho sostenuto che le proprietà
«buono» e «giusto» siano meri nomi, per Ross, e ho sottolineato che questi
è profondamente interessato a garantire l’autonomia dell’etica. La critica allo
statuto ontologico delle proprietà morali, tipica di Mackie, forse può essere
superata, ma non va al cuore del problema.
Il
secondo punto è un’interpretazione di Ross secondo cui i doveri prima facie sono già originariamente
normativi, perciò non c’è il problema del passaggi da caratteristiche
descrittive a caratteristiche normative. Non c’è dubbio che Ross e la tradizione
intuizionista intendano esattamente percorrere questa strada. E, come si dirà
fra poco, la comprensione delle caratteristiche moralmente rilevanti degli atti
è un compito fondamentale della deliberazione morale. Tuttavia, ciò è il segno
del tentativo di rintracciare ad ogni costo la normatività negli atti in se
stessi, a prescindere dal ruolo attivo del soggetto nello stabilire la
normatività del proprio agire. Mi pare sia questo, nonostante tutta la accurata
specificazione che l’intuizionismo recente ha saputo introdurre, il limite
persistente di questa prospettiva.
2. A
questo proposito, direi che Pellegrino, le cui acutissime analisi sono di
grande utilità, trascura il punto centrale della mia critica all’intuizionismo:
la tesi sostenuta nel mio contributo era principalmente rivolta alla concezione
della volontà che deriva dalle premesse intuizionistiche. In sostanza,
se le caratteristiche moralmente rilevanti degli atti e delle situazioni sono
oggetto di un’analisi intellettuale, sensibile e accurata fin che si vuole, il
ruolo della volontà nella determinazione della scelta risulta indebolito.
Possiamo
certamente ammettere che la riflessione morale richieda, e sia in gran parte
costituita, dall’attenta comprensione di tutti gli aspetti salienti della
situazione; e che, per questo aspetto, gli elementi descrittivi dell’atto e
della situazione siano normativamente rilevanti: essi, infatti, fanno la
differenza quanto all’accettabilità dell’atto stesso. Tuttavia, essi di per sé
non possono essere normativamente decisivi se non sono assunti e interpretati
all’interno di un atto del volere, cioè nella dinamica di una
determinazione originariamente pratica della ragione. Questa direzione
di impiego della capacità razionale, quella verso l’azione (cioè la funzione
pratica della ragione), deve precedere – e non seguire – la comprensione della
natura dell’atto e delle caratteristiche della situazione.
Ciò che è
in gioco nella scelta morale è la possibilità di volere senza contraddizione,
così come nella conoscenza è in gioco la possibilità di conoscere senza
contraddizione. L’intenzionalità pratica è quella che attraversa gli
atti conoscitivi rivolti all’atto, ed è da questa che proviene il criterio con
cui vagliare l’adeguatezza dell’atto, date le circostanze, per un volere razionale. Le caratteristiche
deontiche degli atti, ovvero i doveri prima
facie, sono certamente rilevanti e richiedono di essere attentamente
indagate; ma il compito della volontà qui è già iniziato, ed è quello di
determinarsi, nell’orientarsi ad uno scopo, in base alla possibilità di
interpretare le caratteristiche dell’atto come compatibili con una determinazione
universale del volere. Se le caratteristiche dell’atto nella situazione rendono
impossibile volere quell’atto come la scelta appropriata di qualunque agente
razionale in circostanze simili, allora l’atto è immorale.
La
differenza essenziale fra un approccio kantiano e l’intuizionismo è, ritengo,
la priorità del volere nel primo, che è opposta alla priorità del
conoscere (anche se si tratta di una specifica conoscenza morale) nel secondo.
La tesi critica è quindi non tanto che non ci siano passaggi fra le caratteristiche
non normative e la normatività degli atti, bensì che la normatività dipenda da
un modo del volere che è reso possibile o impossibile dalle caratteristiche
dell’atto nella situazione; e poiché le situazioni sono molteplici e gli atti
tipologicamente simili (promesse, atti di beneficenza ecc.) possono essere
voluti senza contraddizione solo se le caratteristiche peculiari della
situazione non ne rendono impossibile (e quindi inaccettabile)
l’universalizzazione, ne segue che i doveri determinati e particolari («qui ed
ora») non sono semplicemente il risultato di una deduzione dai doveri generali.
Qui sono sostanzialmente d’accordo con Ross, e in parte anche con Dancy, quanto
alla «non definitività» o non assolutezza dei doveri prima facie:
se questi ultimi descrivono solo caratteristiche generali degli atti concreti,
il giudizio pratico (che riguarda la possibilità di volere l’atto concreto come
legge universale) può certamente partire da essi ma deve poi specificarsi in
base a tutte le particolarità della situazione. Il «dovere reale» che così
ne consegue ha un carattere di assolutezza e definitività, poiché si tratta di
un atto la cui massima giustificatrice può essere voluta universalmente;
tuttavia, il suo contenuto non può essere determinato a priori in base ad una
semplice descrizione (che Kant chiamerebbe «materiale»). (1)
L’intuizionismo,
in sintesi, sembra trascurare la priorità del volere sul conoscere nella
determinazione ad agire, e rischia perciò di apparire intellettualistico. La teoria
dei doveri prima facie è un tentativo
molto sofisticato ed utile per superare questa difficoltà, ma non consente, da
sé sola, di uscire dallo schema per cui l’agire morale dovrebbe risultare dalla
sola capacità di interpretare cognitivamente il mondo. Probabilmente, invece,
per agire è richiesto di più, cioè la capacità di volere e perciò di interpretare
praticamente il mondo.
(1) Tralascio qui il complesso problema della possibilità di
ammettere la categoria del supererogatorio in uno schema kantiano. Sono
sostanzialmente d’accordo, su questo punto, con quanto sostenuto da Marcia
Baron in Kantian Ethics Almost Without Apology, Cornell University
Press, Ithaca and London 1995.