Etica & Politica / Ethics & Politics, 2005, 2

http://www.units.it/etica/2005_2/MORDACCI01.htm

 

 

La praticità del giudizio morale.

Replica a Gianfranco Pellegrino

 

Roberto Mordacci

 

Facoltà di Filosofia

Università Vita-Salute San Raffaele

 

 

Le obiezioni che Pellegrino muove alla mia critica a Ross e all’intuizionismo si soffermano su due aspetti: 1. la natura dei doveri prima facie; 2. la derivabilità del dovere reale da caratteristiche non originariamente pratiche come i doveri prima facie.

 

1. Sul primo punto, appare opportuna la precisazione per cui le proprietà morali sono ulteriori ma non aggiunte, cioè indipendenti da altre proprietà della cosa. Questa articolazione, infatti, è ciò che consente a Ross di fondare il suo pluralismo normativo su una base che resta comunque cognitivista. Sono sostanzialmente d’accordo con le osservazioni di Pellegrino, anche se non mi sembra che modifichino davvero la mia critica: non ho sostenuto che le proprietà «buono» e «giusto» siano meri nomi, per Ross, e ho sottolineato che questi è profondamente interessato a garantire l’autonomia dell’etica. La critica allo statuto ontologico delle proprietà morali, tipica di Mackie, forse può essere superata, ma non va al cuore del problema.

Il secondo punto è un’interpretazione di Ross secondo cui i doveri prima facie sono già originariamente normativi, perciò non c’è il problema del passaggi da caratteristiche descrittive a caratteristiche normative. Non c’è dubbio che Ross e la tradizione intuizionista intendano esattamente percorrere questa strada. E, come si dirà fra poco, la comprensione delle caratteristiche moralmente rilevanti degli atti è un compito fondamentale della deliberazione morale. Tuttavia, ciò è il segno del tentativo di rintracciare ad ogni costo la normatività negli atti in se stessi, a prescindere dal ruolo attivo del soggetto nello stabilire la normatività del proprio agire. Mi pare sia questo, nonostante tutta la accurata specificazione che l’intuizionismo recente ha saputo introdurre, il limite persistente di questa prospettiva.

 

2. A questo proposito, direi che Pellegrino, le cui acutissime analisi sono di grande utilità, trascura il punto centrale della mia critica all’intuizionismo: la tesi sostenuta nel mio contributo era principalmente rivolta alla concezione della volontà che deriva dalle premesse intuizionistiche. In sostanza, se le caratteristiche moralmente rilevanti degli atti e delle situazioni sono oggetto di un’analisi intellettuale, sensibile e accurata fin che si vuole, il ruolo della volontà nella determinazione della scelta risulta indebolito.

Possiamo certamente ammettere che la riflessione morale richieda, e sia in gran parte costituita, dall’attenta comprensione di tutti gli aspetti salienti della situazione; e che, per questo aspetto, gli elementi descrittivi dell’atto e della situazione siano normativamente rilevanti: essi, infatti, fanno la differenza quanto all’accettabilità dell’atto stesso. Tuttavia, essi di per sé non possono essere normativamente decisivi se non sono assunti e interpretati al­l’in­ter­no di un atto del volere, cioè nella dinamica di una determinazione originariamente pratica della ragione. Questa direzione di impiego della capacità razionale, quella verso l’azione (cioè la funzione pratica della ragione), deve precedere – e non seguire – la comprensione della natura dell’atto e delle caratteristiche della situazione.

Ciò che è in gioco nella scelta morale è la possibilità di volere senza contraddizione, così come nella conoscenza è in gioco la possibilità di conoscere senza contraddizione. L’intenzionalità pratica è quella che attraversa gli atti conoscitivi rivolti all’atto, ed è da questa che proviene il criterio con cui vagliare l’adegua­tez­za dell’atto, date le circostanze,  per un volere razionale. Le caratteristiche deontiche degli atti, ovvero i doveri prima facie, sono certamente rilevanti e richiedono di essere attentamente indagate; ma il compito della volontà qui è già iniziato, ed è quello di determinarsi, nell’orientarsi ad uno scopo, in base alla possibilità di interpretare le caratteristiche dell’atto come compatibili con una determinazione universale del volere. Se le caratteristiche dell’atto nella situazione rendono impossibile volere quell’atto come la scelta appropriata di qualunque agente razionale in circostanze simili, allora l’atto è immorale.

La differenza essenziale fra un approccio kantiano e l’intuizionismo è, ritengo, la priorità del volere nel primo, che è opposta alla priorità del conoscere (anche se si tratta di una specifica conoscenza morale) nel secondo. La tesi critica è quindi non tanto che non ci siano passaggi fra le caratteristiche non normative e la normatività degli atti, bensì che la normatività dipenda da un modo del volere che è reso possibile o impossibile dalle caratteristiche dell’atto nella situazione; e poiché le situazioni sono molteplici e gli atti tipologicamente simili (promesse, atti di beneficenza ecc.) possono essere voluti senza contraddizione solo se le caratteristiche peculiari della situazione non ne rendono impossibile (e quindi inaccettabile) l’universalizzazione, ne segue che i doveri determinati e particolari («qui ed ora») non sono semplicemente il risultato di una deduzione dai doveri generali. Qui sono sostanzialmente d’accordo con Ross, e in parte anche con Dancy, quanto alla «non definitività» o non assolutezza dei doveri prima facie: se questi ultimi descrivono solo caratteristiche generali degli atti concreti, il giudizio pratico (che riguarda la possibilità di volere l’atto concreto come legge universale) può certamente partire da essi ma deve poi specificarsi in base a tutte le particolarità della situazione. Il «dovere reale» che così ne consegue ha un carattere di assolutezza e definitività, poiché si tratta di un atto la cui massima giustificatrice può essere voluta universalmente; tuttavia, il suo contenuto non può essere determinato a priori in base ad una semplice descrizione (che Kant chiamerebbe «materiale»). (1)

L’intuizionismo, in sintesi, sembra trascurare la priorità del volere sul conoscere nella determinazione ad agire, e rischia perciò di apparire intellettualistico. La teoria dei doveri prima facie è un tentativo molto sofisticato ed utile per superare questa difficoltà, ma non consente, da sé sola, di uscire dallo schema per cui l’agire morale dovrebbe risultare dalla sola capacità di interpretare cognitivamente il mondo. Probabilmente, invece, per agire è richiesto di più, cioè la capacità di volere e perciò di interpretare praticamente il mondo.

 

 

Note

 

(1) Tralascio qui il complesso problema della possibilità di ammettere la categoria del supererogatorio in uno schema kantiano. Sono sostanzialmente d’accordo, su questo punto, con quanto sostenuto da Marcia Baron in Kantian Ethics Almost Without Apology, Cornell University Press, Ithaca and London 1995.