http://www.units.it/etica/2005_2/MORDACCI.htm
La normatività delle ragioni
morali nell’intuizionismo: una critica
Università Vita-Salute San Raffaele
Abstract According to the
intuitionist picture of moral normativity, prima facie duties are features of the overall nature of an act,
which together make them overall right or wrong. W.D. Ross says that prima facie duties are «not a duty»,
but something which has a special relation to duty. These features are «apprehended»
by way of an intellectual act (intuition), which implies that they are the
object of a theoretical cognitive act. This image creates serious problems
for both the theory of moral normativity and the theory of motivation. The
problem is how to explain the practical nature of duties and their
connection with the will: the intuitionist picture sketches a rather
passive role for the will, both in determining the obligatoriness of an
action and the possible motivation for it. This rather intellectualistic
picture fails to explain the authority and motivational power of moral reasons.
Furthermore, the outcome of this position is to lead back to a form of naturalism
(an outcome which is certainly contrary to the intuitionist tradition itself)
and to a problematic externalist
explanation of moral motivation. In the end it is suggested that a
more thoroughly Kantian theory of normativity shows a more promising picture
for this problem. |
1. Vi sono molti motivi
d’interesse nella recente ripresa di tesi intuizionistiche nel dibattito etico-filosofico.
Fra questi vi è un tratto saliente dell’intera tradizione intuizionistica, vale
a dire il rifiuto di ogni forma di riduzionismo in ambito morale, e in
particolare delle concezioni che tendono a «naturalizzare» la moralità tramite
la riduzione sistematica delle nozioni morali a quelle «naturali» (nel senso in
cui la natura è oggetto delle scienze empiriche). Gli argomenti antiriduzionisti,
a partire dall’open question argument di G.E. Moore (1) e dall’argomento della trasparenza di W.D. Ross, (2) costituiscono un argine non trascurabile, benché forse non
invalicabile, ai tentativi naturalistici ed eliminativisti (del genere
dell’emotivismo e di altre forme di non cognitivismo) di dar conto dei giudizi
morali e del loro almeno apparente valore normativo.
Nelle riformulazioni recenti di
teorie intuizionistiche si possono distinguere forme assai diverse fra loro,
fra cui le principali sono la versione «kantiana e orientata ai valori» di
Robert Audi, la versione «aristotelico-wittgensteiniana» di John McDowell, e il
«particolarismo morale» di Jonathan Dancy. In queste proposte teoriche l’aspetto
più caratterizzante appare quello del pluralismo normativo, unito alla
tesi epistemica dell’autoevidenza dei principi morali fondamentali o, nel caso
del particolarismo, della validità oggettiva degli stessi giudizi morali particolari
(avvicinandosi così notevolmente a quello che Sidgwick chiamava «intuizionismo
percettivo» (3)). La vitalità dell’intuizionismo
contemporaneo è un segnale dell’importanza di una concezione della moralità
che mira a difenderne l’autonomia tanto da ipoteche metafisiche quanto
da forme riduzionistiche di naturalismo, restituendo un ruolo centrale al
«senso morale comune» e alla riflessione personale accurata, intese come basi
affidabili (almeno fino a un certo punto) dei giudizi morali. In effetti, uno
dei presunti vantaggi tradizionalmente rivendicati dai sostenitori dell’intuizionismo
è proprio la sua maggior aderenza all’esperienza morale rispetto a teorie rigidamente
sistematiche o deduttivistiche.
Tuttavia, ad un’analisi accurata,
l’intuizionismo mostra di avere una concezione della normatività morale fortemente
problematica, che non appare in grado di rendere conto della validità pratica
dei giudizi morali. Questa fragilità si mostra anche nella teoria della motivazione,
dove gli intuizionisti sembrano aver adottato delle versioni di esternalismo
più esplicite di quelle, in verità piuttosto ambigue e sul crinale fra
internalismo ed esternalismo, dei loro ispiratori della prima metà del
Novecento (Moore, Prichard e Ross). (4) La
questione è fondamentalmente esprimibile nella domanda seguente: l’idea che le
nozioni morali siano «intuite», per esempio tramite un atto della riflessione,
può spiegare a) perché i giudizi morali formulati in base ad esse debbano
essere tradotti in azione (normatività) e b) in che modo tali giudizi
possano costituire o tradursi in spiegazioni causali effettive (motivazione)
delle azioni corrispondenti? In altri termini: la prospettiva intuizionista
sulla normatività riesce a dar conto dei distinti orizzonti della giustificazione
e della spiegazione delle azioni morali?
In questo senso, la nozione
chiave appare quella di «dovere prima
facie», introdotta da Ross e ampiamente ripresa dalla letteratura intuizionistica
(e non) successiva. Un atto è un dovere prima
facie se possiede la caratteristica normativa, intuita tramite la
riflessione e per sé autoevidente, di «essere giusto» (rightness), in
forza del suo essere un certo tipo di atto (per es. il mantenere una promessa).
La normatività dei giudizi morali dipende interamente, in quest’ottica, dal
loro esprimere i doveri prima facie
riconoscibili nella situazione; poiché, però, la nozione di doveri prima facie mostra notevoli ambiguità,
la teoria della normatività conseguente ne conserva la fragilità. L’analisi
critica di tale nozione come proposta da Ross, e dei suoi riflessi nelle
riformulazioni recenti, metterà in luce la necessità di una visione alternativa
della normatività dei giudizi morali, in cui il loro valore pratico e la loro
forza motivazionale siano adeguatamente spiegati.
2. Nel proporre la nozione di
dovere prima facie (o «dovere condizionale»), Ross in Il
giusto e il bene la definisce come
Un modo abbreviato di far
riferimento alla caratteristica (del tutto distinta da quella di essere un
dovere in senso proprio), che un atto possiede in virtù del suo essere un atto
di un certo tipo (per es. il mantenere una promessa), di essere un atto che
sarebbe un dovere, in senso proprio, se non fosse allo stesso tempo di un altro
tipo moralmente significativo. (p. 27) (5)
Essere un dovere prima facie significa quindi essere un atto
di un genere (come mantenere le promesse) che possiede una caratteristica, che
potremmo definire «deontica», tale che il suo «essere giusto», in quanto è un
atto di quel tipo, può essere intuito come autoevidente. Questa caratteristica
appartiene in astratto a tutti e solo gli atti giusti, ed è riconoscibile come
propria di alcuni tipi di atti specifici, cioè precisamente quelli che
Ross elenca come doveri prima facie:
fedeltà, riparazione, gratitudine, giustizia, beneficenza, miglioramento di sé
e non maleficenza (cfr. p. 29). Ora, un atto particolare, concreto, può in realtà
appartenere, dal punto di vista della sua descrizione, a più di un genere deonticamente
rilevante, perciò può esemplificare al contempo due o più doveri prima facie; l’appartenenza a due generi
distinti (per es. promessa e beneficenza) può essere, per così dire, convergente
rispetto all’«esser giusto» (per es. mantenere una promessa con un atto che è
anche un atto di beneficenza), ma può anche generare una divergenza morale (per
es. mantenere una certa promessa ci impedisce un importante atto di beneficenza);
i doveri prima facie (cioè le
caratteristiche deontiche specifiche) possono quindi trovarsi in conflitto fra
di loro all’interno dello stesso atto concreto da considerare. Ciò significa
che gli atti particolari possono essere deonticamente complessi, cioè possedere
molteplici caratteristiche moralmente rilevanti, non sempre omogenee fra loro
quanto alla doverosità dell’atto .
Per esempio, con una variazione
sull’esempio proposto da Platone nel I libro della Repubblica,
immaginiamo di aver promesso a un amico di restituirgli, dietro sua richiesta,
un’arma da lui ricevuta in custodia; e immaginiamo che l’amico mi si presenti
in un evidente quanto imprevedibile stato di agitazione e sofferenza,
richiedendomi l’arma con la chiara intenzione (esplicita o implicita) di
suicidarsi o di compiere una strage, senza (assumiamo) alcuna ragion
plausibile. Ora, restituire l’arma costituirebbe certamente un atto del tipo
«mantenere una promessa» e perciò sarebbe, per questo aspetto, un dovere prima facie. Tuttavia, non dovremmo
forse dire che si tratta, al tempo stesso, di un atto di insensibilità o
addirittura di crudeltà nei confronti dell’amico (per non dire
dell’insensibilità verso le vittime della sua violenza)? Non mostrerei, nel
restituire l’arma senza batter ciglio, anche una forma di indifferenza per la
sua amicizia e di ingratitudine per tutte le volte che, con i suoi consigli
(supponiamo), mi ha trattenuto dal compiere sciocchezze? Ciò significa che restituire
l’arma, in questo caso, è prima
facie giusto in quanto è il mantenimento di una promessa, ma prima facie
sbagliato in quanto è un atto di insensibilità per il bene dell’altro o di
altri (violazione del dovere prima facie di beneficenza) o un atto di
ingratitudine.
Appare
dunque chiaramente che l’essere un dovere prima facie appartiene in
primo luogo (simpliciter) a tipi di atti, e solo in via mediata (secundum quid) ad atti
particolari, i quali solo quando sono considerati nell’insieme delle loro
caratteristiche nelle circostanze possono rivelarsi come doveri in senso
proprio (doveri «reali» o doveri «tutto considerato»). La capacità di riconoscere
questa caratteristica deontica non richiede, secondo gli intuizionisti, una
facoltà separata, un peculiare «senso morale» inteso come una capacità percettiva
o intellettuale distinta da quelle ammesse per gli altri atti cognitivi: benché
le proprietà morali, secondo gli intuizionisti, non siano riducibili a
proprietà naturali, esse possono essere conosciute attraverso una comprensione
intellettuale delle caratteristiche distintive di ciò che significa «fare una
promessa», «riparare i torti» e così via. Sotto il profilo epistemico, questo
processo non appare di per sé problematico.
Esso
implica semmai la difficoltà di ammettere che fra le caratteristiche intrinseche degli
atti vi siano anche le qualità deontiche e che queste non siano né naturali
(meglio si direbbe, forse, «empiriche») né metafisiche: (6) dal punto di vista ontologico è in effetti difficile sfuggire,
a meno di ulteriori precisazioni, all’obiezione per cui tali qualità, se
esistessero, dovrebbero risiedere in una regione del mondo sui generis,
ovvero in quello che John Mackie (7)
chiamerebbe forse «The Queer World», il bizzarro mondo delle qualità deontiche.
Gli intuizionisti recenti si appellano però in questo caso alla nozione di
«sopravvenienza a priori» (a priori
supervenience), o di «risultanza» (resultance), che
essi ritengono in grado di spiegare come sia possibile che le qualità morali
dipendano ontologicamente dalle qualità naturali ma non si identifichino con
esse. (8) Resta però inteso che le qualità morali
appartengono alla «natura» complessiva degli atti, ovvero, potremmo dire, a una
loro descrizione «moralmente sensibile», capace di rilevare il loro statuto
normativo comprensivo.
Ciò
che qui interessa è precisamente questo aspetto: nell’ottica intuizionistica la
normatività di un atto è oggetto di un atto intellettuale, che la coglie come un aspetto
irriducibile, benché sopravveniente o risultante, alle qualità empiriche
dell’atto stesso, e tuttavia comunque appartenente alla «natura» dell’atto
stesso in quanto esso esemplifica un certo tipo o genere (morale).
L’obbligatorietà morale della promessa è oggetto di un atto conoscitivo analogo a
quello con cui si colgono gli altri suoi aspetti, benché essa sia una
caratteristica da essi distinta. Probabilmente, è questo il significato appropriato
della tesi intuizionistica (in particolare di Moore e Ross) secondo cui le
qualità morali («buono» e, per Ross, anche «giusto») sono indefinibili e semplici: tali
qualità non possono essere definite nei termini con cui definiamo le
caratteristiche naturali (empiriche o metafisiche) delle cose, ma sono colte in modo del tutto analogo a quello con cui cogliamo gli elementi primari (i
più semplici: forma, massa ecc.) di quelle caratteristiche; e come gli elementi
naturali semplici si compongono a costituire le caratteristiche naturali
complesse delle cose, così le qualità morali semplici entrano a costituire le
caratteristiche morali complesse degli atti concreti.
Da
queste considerazioni possiamo rilevare un aspetto decisivo (e problematico)
della concezione intuizionistica della normatività: l’atto con cui viene colta
l’obbligatorietà della promessa (la sua normatività, appunto) è un atto speculativo, ovvero è un modo della conoscenza degli oggetti in quanto
tali – in un certo senso, prima che
li si consideri come parte delle proprie
azioni. In questa prospettiva, la conoscenza morale è un modo particolare della
conoscenza teoretica degli oggetti (in
questo caso gli oggetti sono atti) – più precisamente della conoscenza di ciò che essi sono. Per esempio, se un atto è una promessa ciò implica,
per la sua stessa natura (in un senso che dovrebbe essere né empiristico né
metafisico), che essa vada mantenuta. Per questa concezione, la conoscenza morale è una forma della conoscenza
teoretica, o quanto meno si fonda su atti
speculativi piuttosto che su atti della ragion pratica. Si fa dunque strada il
sospetto che possa trattarsi di una concezione intellettualistica, simile a quella
socratica nell’identificare la virtù con una forma di conoscenza.
3. La nozione
di doveri prima facie occulta in buona parte la difficoltà cui si è ora
accennato. Chiamando «doveri» le caratteristiche deontiche degli atti, Ross induce
evidentemente a pensare che l’essere un dovere sia (o almeno risulti da) ciò
che un atto, per un certo aspetto, è in se stesso. «Dovere» diviene il nome di
una proprietà morale che, da un lato, si coglie con un atto intellettuale e,
dall’altro, ha un significato immediatamente pratico, cioè indica alla volontà,
senz’altra mediazione, che quell’atto è prima facie da
compiersi (tralasciamo per il momento se la conoscenza intellettuale di un atto
come un dovere sia anche sufficiente a motivare all’azione corrispondente).
Ross è
consapevole dell’ambiguità dell’espressione «dovere prima facie» e cerca
di metterne in luce i limiti. Egli afferma, in primo luogo, che «dovere prima
facie» fa pensare a «un
certo tipo di dovere, mentre si tratta in realtà non di un dovere, ma di
qualcosa che ha una speciale relazione con il dovere» (p. 27). Ciò che stiamo
cercando non è una qualificazione del dovere, bensì «un sostantivo distinto»,
benché tutte le proposte in tal senso (per es. «pretesa» - claim - suggerito da Prichard) appaiano inadatte allo scopo (cfr. pp. 27-28). (9) In secondo luogo, Ross afferma che l’idea
di prima facie suggerisce l’idea di un’apparenza del dovere, eventualmente
illusoria; al contrario, egli vuole indicare «un fatto oggettivo, implicato
nella natura della situazione, o più propriamente in un elemento della sua natura»
(p. 27). Appare evidente, in questa oscillazione terminologica, che la difficoltà
in cui si imbatte Ross deriva dal tentativo di rendere conto del dovere completamente
ex parte objecti, (10)
resistendo ad ogni tentativo di comprenderlo ex parte subjecti, per esempio
come opera di una qualche facoltà del soggetto,
probabilmente nel timore che ciò comporti esiti idealistici o relativistici. (11)
La
distinzione fra il «sostantivo distinto» che indica le proprietà deontiche e il
«dovere in senso proprio», adombrata e poi lasciata cadere da Ross, è il
segnale di una distinzione fra il piano descrittivo e il piano normativo, o più
precisamente fra ragione speculativa e ragion pratica, che appare necessaria
nel dar conto della normatività dei giudizi morali. Il suggerimento di Ross che
l’obbligatorietà o l’«esser giusto» siano «qualcosa che ha una speciale
relazione con il dovere» non aiuta però molto a chiarire la questione. La tesi
di Ross sembra essere che «dovere» (in senso proprio) sia il termine
specificamente normativo, e che esso abbia una certa relazione con una speciale
proprietà intrinseca degli atti; (12)
in questo caso, tuttavia, quella proprietà, in se stessa, non sarebbe ancora
specificamente normativa,
anzi, non è nemmeno propriamente pratica, in
particolare se, come sembra pensare Ross, essa appartiene alla natura dell’atto
(potremmo dire: alla sua essenza) e viene colta con un semplice atto dell’intelletto
(che non è una facoltà pratica). In questo modo, infatti, non si è ancora
spiegato come il dovere (in senso proprio) possa sorgere da una caratteristica
«che non è un dovere» e che dovremmo indicare con un sostantivo
distinto. In particolare, non ci è data alcuna indicazione quanto a come
intendere il valore pratico del dovere prima facie: come può (almeno in
assenza di una concezione teleologica del reale) avere valore immediatamente
normativo per l’azione una caratteristica descrittiva di un oggetto? Ross elude
questo problema in forza del «trucco» di continuare nonostante tutto a chiamare
«dovere» ciò che, per sua esplicita ammissione, non è affatto un dovere: l’idea
di una qualità morale inscritta nella natura complessiva dell’atto e conoscibile
tramite un atto intellettuale si traduce così surrettiziamente nell’idea di una
qualità originariamente pratica, oggetto non di un atto speculativo bensì di un preciso
atto del volere. Potremmo dire, anticipando la nostra tesi propositiva, che
Ross e tutto l’intuizionismo concepiscono il dovere come una qualità dell’azione come oggetto, a prescindere
da ogni volere, invece di concepire il dovere
come modo del volere in riferimento all’azione. Chiamare tale qualità «dovere prima
facie» occulta completamente la natura «non pratica» di ciò che (se
esistesse) tale espressione dovrebbe designare.
In
realtà, sembra abbastanza chiaro che Ross sia incline a includere un aspetto
normativo nella natura degli atti medesimi, in base a una concezione del reale non neutrale sotto
il profilo dei valori (non value-free), anche se egli non è disposto a trarre questa
conclusione. (13) Almeno in parte, infatti, ciò
significherebbe ritornare a una forma di naturalismo etico; non a caso l’esito
cui giunge John McDowell su questa strada è una teoria disposizionale, che presuppone
un fondamento in re delle qualità morali, mentre un altro
intuizionista contemporaneo, Robert Audi, formula espressamente una forma di
naturalismo «qualificato», tramite la nozione di sopravvenienza a priori. (14) In effetti, se si tengono ferme le
premesse tipiche dell’intuizionismo – e in particolare l’antiriduzionismo
naturalistico, le alternative al naturalismo possono essere solo o una qualche
teoria della sopravvenienza delle qualità morali o una qualche forma di esplicito
platonismo morale, in cui le qualità morali sono concepite come entità
metafisiche e l’epistemologia morale dipende dall’accettazione di una
teoria del soprasensibile e di una gnoseologia non empiristica.
Ora, a
parte il rischio di non riuscire a mantenere la posizione antiriduzionista,
tipica dell’intuizionismo, una volta che si acceda a forme più o meno indirette
di naturalismo (come la teoria della sopravvenienza), la difficoltà principale
in cui incorre la posizione instabile di Ross è la seguente: come si spiegano,
da un lato, l’autorità normativa e, dall’altro, il potere motivazionale delle
qualità morali, se si tratta di caratteristiche colte speculativamente? In
altri termini: quale rapporto vi è fra la volontà e le qualità morali
intellettualmente conosciute? Consideriamo le due questioni, normatività e
motivazione, separatamente.
4. Sul
piano della normatività, sembra che nell’intuizionismo vi sia un sostanziale
primato della ragione speculativa: l’autorità del giudizio morale dipende
dall’aver riflettuto correttamente sulla «verità morale» relativa all’atto in
questione, dove tale verità consiste nell’adeguata conoscenza della natura
dell’atto stesso. La ragion pratica sembra avere il ruolo di definire le modalità
concrete dell’azione (le forme e i mezzi), mentre la volontà deve limitarsi ad
assumere la verità morale dell’atto come movente effettivo (eventualmente anche
insieme ad altri moventi). Su questo punto, come si diceva, Ross adotta una posizione
che può apparire ambigua fra esternalismo ed internalismo: in Il giusto e il bene, egli sostiene che «il pensiero del dovere sollecita
il nostro desiderio», (15) il che sembra
suggerire che la consapevolezza del dovere (la conoscenza di un dovere prima facie in
una situazione) sia al tempo stesso praticamente normativa e motivazionalmente
efficace, pur fondandosi esclusivamente su una verità speculativa. Se così
fosse, date le premesse dell’intuizionismo, si tratterebbe di una discutibile
versione di internalismo, soprattutto in relazione alla nozione di «giusto»,
che per Ross dipende dal riconoscimento intuitivo della qualità deontica della
«giustezza». Così però non è, se consideriamo i passi in cui Ross dichiara che
«il fatto che un atto sia nostro dovere non è mai la ragione [nel senso del
movente] per cui lo facciamo» (16) e
che l’obbligazione è «indipendente dal desiderio»;(17) in modo ancor più esplicito, Ross dichiara che «l’azione
coscienziosa deriva da un certo desiderio (il desiderio di fare il proprio
dovere), e deve la propria bontà alla natura specifica di questo desiderio». (18) Considerata anche la teoria antikantiana
della motivazione dell’azione buona esposta nell’ultimo capitolo di Il giusto e il bene, appare chiaro che Ross adotta una forma di esternalismo,
in cui la forza motivazionale del dovere dipende dalla presenza del desiderio
di fare il proprio dovere e dall’eventuale compresenza di altri motivi
convergenti. (19)
La
questione cruciale, però appare quella della normatività, non della
motivazione: la derivazione di una qualità pratica da una caratteristica
colta speculativamente è decisamente problematica. Infatti, in assenza di
una qualche teoria metafisica (per esempio, la teleologia aristotelica) che
fondi il dover essere sull’essere (tramite la nozione di un ordine razionale
del cosmo o la teoria dei trascendentali), la derivazione della qualità pratica
dell’«aver da essere» da una caratteristica appartenente alla «natura»
dell’atto appare come una violazione della distinzione fra is e ought.
Poiché questa distinzione è chiaramente condivisa da Ross e dagli altri
intuizionisti, ed è indirettamente connessa anche con l’argomento della
fallacia naturalistica, la posizione che ne risulta quanto al fondamento della normatività morale è insostenibile.
In
effetti, l’intuizionismo aspira pur sempre ad essere una teoria razionalistica
della normatività: a differenza delle varie forme di sentimentalismo morale,
l’autorità normativa dei giudizi deriva per gli intuizionisti dalla ragione (in
questo caso, in ultima analisi, dall’intelletto), la quale deve quindi essere
concepita anche come pratica. (20)
Non si vede, però, come avvenga in questa concezione il passaggio da una conoscenza
intellettuale a una determinazione pratica. Nel sentimentalismo, per esempio in
quello di Hume, l’autorità medesima dei giudizi morali deriva dal sentimento di
approvazione suscitato dalla virtù, e poiché la volontà in questa concezione
appartiene al mondo dei sentimenti e delle passioni, sia l’aspetto normativo
sia quello motivazionale appaiono giustificati. Nella posizione intuizionistica,
è escluso che sia il sentimento a determinare (e a fondare) il giusto e
l’ingiusto; non resta perciò che la ragione, ma appare chiaro che nell’ottica
intuizionista la ragion pratica non determina affatto il giusto e l’ingiusto, bensì
semplicemente ne riceve l’indicazione dall’intelletto; il ruolo della ragion pratica
rimane dunque strumentale rispetto alla realizzazione della verità dell’atto;
in sostanza, essa determina i mezzi rispetto a un fine intellettualmente dato.
L’autorità normativa del giudizio morale dipende interamente dall’attività dell’intelletto,
che conosce le caratteristiche deontiche complete dell’atto, e per nulla
dall’attività della ragion pratica circa le azioni da compiersi.
Questa
posizione crea ulteriori difficoltà sul piano della motivazione. A partire da
una posizione intellettualistica, quale quella delineata sopra, le varie forme
di internalismo sono in effetti precluse, come già si è visto in Ross: sarebbe
assai difficile spiegare come una determinazione teoretica dia luogo a una
determinazione pratica. A rigore, la capacità della ragion pratica di tradursi
in un movente effettivo del volere a partire dalla semplice esecuzione di un
compito teoretico appare impossibile. E infatti, anche Robert Audi argomenta a
favore dell’esternalismo dei motivi, (21)
in cui il giudizio morale si inserisce in un movimento indipendente della
volontà, che include fra i propri scopi quelli indicati dalla riflessione
morale. Ciò però presuppone, come coerentemente fa Audi, una rifondazione
dell’intuizionismo in base ai valori, in cui l’orientamento ai beni da
parte della volontà ha il compito di
spiegare anche la determinazione pratica verso il giusto. In questo modo,
tuttavia, viene totalmente perduto il ruolo di guida della ragion pratica, la
cui funzione in questa concezione è, come nelle versioni sentimentalistiche, meramente strumentale rispetto alle dinamiche fondamentali del volere
(inteso, in questo contesto, come una facoltà pratica pre-razionale).
Ora,
questo significa semplicemente che l’intuizionismo metaetico implica
l’esternalismo in teoria motivazionale. Ma l’esternalismo, soprattutto per una
posizione di questo tipo, ha un difetto fondamentale: quello di presupporre una
rappresentazione del volere come radicalmente
scisso dalle considerazioni razionali
sull’azione da compiere; l’azione risulta dalla concomitanza di un desiderio e
di una ragione per agire la quale, però, di per sé non è sufficiente a motivare
(anche se può essere una condizione necessaria per l’azione morale). In questo
modo, se si resta in una concezione razionalistica della normatività (in cui la
normatività dipende dall’essere espressione della ragione, come certamente è
per l’intuizionismo), l’azione
specificamente morale, quella cioè in cui le
considerazioni razionali sono condizioni da soddisfare necessariamente – anche
se non sono sufficienti a motivare – risulta
sempre eteronoma: infatti, o la volontà
si determina all’azione morale in forza di considerazioni ad essa estranee (le
indicazioni dell’intelletto che riconosce i doveri prima facie nella
situazione), facendole proprie passivamente o in forza di un presunto «desiderio
di essere morali o di fare il proprio dovere», oppure essa si determina in base
a una propria inclinazione, che solo accidentalmente (ovvero in modo contingente)
coincide con l’indicazione derivante dalla riflessione sui doveri prima
facie implicati nell’azione. L’autonomia del volere è così perduta, come
anche l’autonomia della morale rispetto tanto a resoconti naturalistici, quanto
a concezioni psicologistiche della motivazione e della normatività. Lo scopo
della teoria intuizionista sembrava essere quello di contestare il riduzionismo
naturalistico, ma, se le considerazioni qui suggerite sono valide,
l’intuizionismo non può evitare un esito naturalistico tanto nella teoria della
normatività (e nell’ontologia delle qualità deontiche ad essa connessa) quanto
nella teoria della motivazione, in cui finiscono per prevalere una concezione
della volontà e una psicologia di tipo empiristico. Un intuizionista difficilmente
potrà accettare un simile esito, perché esso rappresenta una completa débacle rispetto
alle aspirazioni antiriduzionisti caratteristiche della tradizione intuizionista. (22)
5.
Nelle versioni più recenti, l’intuizionismo ha fatto ampio uso della nozione di
«ragioni per agire». Riformulata in questi termini, la tesi intuizionista è
all’incirca che una ragione per agire è una considerazione che sarebbe
decisiva sul da farsi (cioè fonderebbe un dovere reale) se essa fosse l’unica
considerazione rilevante nella situazione. Jonathan Dancy, proprio sulla falsariga della distinzione di Ross fra doveri prima
facie e doveri reali o «tutto considerato», distingue in
proposito fra ragioni «contributive» (contributory) e ragioni «complessive»
(overall). (23)
La novità principale rispetto a Ross è che, come già suggeriva molti anni fa
H.J. McCloskey (24), Dancy intende dar conto dei doveri
complessivi in termini di doveri prima facie, e di questi ultimi in
termini di ragioni contributive, nel senso che il dovere (reale) è l’azione che
abbiamo «più ragione» di compiere. In altri termini, ciò che «più dobbiamo fare»
(most ought) non dipende dal fatto che l’azione in questione
sia di per sé un dovere, bensì dal fatto che le caratteristiche della
situazione forniscono una serie di ragioni che, in questo specifico contesto,
formano un insieme decisivo di ragioni. Ciò che rende una certa azione un
dovere in certe circostanze (per es. l’essere il mantenimento di una promessa)
può non rendere affatto un’azione simile (mantenere un’altra promessa) un
dovere in circostanze diverse, in cui altre ragioni pesano di più o cambiano il
valore normativo dell’azione stessa; le caratteristiche da cui «risulta» il
dovere particolare non si muovono, per così dire, a blocchi da un’azione ad
un’altra, ma si raggruppano diversamente nelle diverse azioni. I «principi» o
i doveri prima facie non hanno alcun valore normativo indipendente dal
contesto; le caratteristiche deontiche dei tipi di azione (i doveri prima
facie) non sono sempre ragioni a favore delle azioni che hanno quelle
caratteristiche. In questo senso, il particolarismo di Dancy sostiene che non
vi sono principi morali, e in particolare che la giustificazione morale delle azioni
non dipende dal loro possedere certe qualità che, in altri casi, sono moralmente
decisive. Le azioni hanno caratteristiche il cui valore di ragioni (contributive)
pro o contro l’azione stessa dipende interamente dal contesto, secondo una
concezione tipicamente olistica.
L’introduzione
(che si deve a Kurt Baier (25))
dell’idea di ragioni morali in luogo delle nozioni di doveri o principi prima
facie costituisce un indubbio passo avanti: il punto di vista del soggetto,
nella forma delle considerazioni che egli ritiene a favore di una certa azione,
nonché l’idea che si tratti di considerazioni che offrono ragioni come possibili giustificazioni dell’azione stessa, rappresentano un contributo
di chiarezza nella teoria della normatività. Rispetto alla forma più ingenua di oggettivismo professata da
Ross e da altri intuizionisti, sembra che ci si sia avviati verso forme di più
piena inclusione del punto di vista del soggetto agente nella formazione del dovere
morale, pur senza rinunciare all’oggettività. Considerato che nell’esperienza
morale l’idea di essere autori delle proprie scelte e della propria condotta si
riflette anche nel ritenere di poter offrire giustificazioni ragionevoli, e nel
pensare che queste dipendano almeno in parte da ciò che al momento di agire ci
appariva come tale, l’immagine dei
doveri prima facie come caratteristiche invariabili di certi tipi di azione
appariva effettivamente piuttosto astratta. L’idea che si tratti di aspetti che
offrono fondamento a ragioni con una validità normativa variabile in relazione
al contesto restituisce invece concretezza all’immagine (post-)intuizionista
del pensiero morale.
Tuttavia,
non è sempre chiaro che cosa significhi, in questo contesto, essere una
ragione, in particolare essere una ragione morale. Se essere una ragione,
ancora una volta, dipende essenzialmente da una caratteristica (naturale) della
situazione, non sembra che ci siamo allontanati di molto dall’immagine
intuizionistica tradizionale e dai suoi problemi. La normatività della ragione
addotta per quest’atto dipende dal suo riflettere adeguatamente la realtà della
situazione o la natura dell’atto. In tal senso, le ragioni sembrano dipendere
interamente, per il loro valore normativo, dalla buona esecuzione di ciò che
Baier chiamava il «compito
teoretico» della ragione in ambito
pratico: descrivere adeguatamente gli atti e le circostanze. Questo compito è ovviamente
importante, ma se si fa dipendere interamente il valore normativo di un giudizio morale dal suo
rispecchiare tutte le qualità «moralmente salienti» (per usare
l’espressione di Dancy in Moral Reasons) di una situazione, si è costretti a sostenere che
la normatività è nella
natura degli atti nella situazione
(nel «particolare» appunto), che la ragione apprende speculativamente. In
questo senso, non cambia molto l’aver sostituito ai doveri prima facie
le «ragioni contributive» e l’aver eliminato dal campo ogni forma di principio
generale: si tratta di un esito naturale, per altro già ampiamente prefigurato
dall’idea di dovere reale di Ross. Se le ragioni sono tali solo in quanto rispecchiano
caratteristiche e circostanze concrete, è evidente che l’ultima parola in
termini di giustificazione della scelta spetta alla capacità di cogliere
(speculativamente, attraverso analisi e riflessione) le specificità della situazione.
Addirittura, a questo punto Ross invocava Aristotele, e affidava alla
percezione la determinazione concreta del dovere reale. (26)
Se, in
particolare, una ragione morale dipende dalla presenza riconosciuta nel mondo,
come appare ad una riflessione pre-pratica, di caratteristiche «moralmente
salienti», sia pure dotate di peso e funzioni variabili, allora di nuovo la
ragion pratica non ha altro ruolo che quello di registrare questa presenza di
caratteristiche di valore, di vagliarne il peso e di determinare conseguentemente
la volontà (alleandosi a moventi esterni al giudizio, come si è visto). La critica al generalismo,
ivi compreso la forma «debole» offerta dai doveri prima facie di
Ross, non sembra essere un passo decisivo verso l’autonomia della ragion
pratica, e in particolare del volere morale: la volontà non si
determina, ma è determinata dalle ragioni decisive che sono fornite esclusivamente
dalla situazione nota all’intelletto; la ragion pratica non contribuisce
affatto, di suo, alla normatività dell’atto, ma si limita a «dichiarare» che
nell’insieme le caratteristiche morali della situazione costituiscono una
ragione decisiva per compiere l’atto in questione; la volontà accetta la
conclusione e si determina di conseguenza (come? In base al desiderio di essere
morali? Ciò significa che essa, di nuovo, è determinata piuttosto che
determinarsi…). In quest’ottica, essere irrazionali significa non essere in
grado di vedere l’insieme rilevante delle caratteristiche moralmente salienti
della situazione, il che equivale a dire: fallire il compito teoretico.
In
riferimento alla motivazione, questo quadro non può sostenere alcuna forma di
internalismo: si dovrebbe dimostrare che una considerazione teoretica della situazione
fosse in grado di determinare direttamente la volontà. Ma se la volontà non è coinvolta nella
costituzione della normatività, allora o essa è concepita come una facoltà desiderativa
di qualche tipo, su cui la ragione alla fine non ha alcun potere, oppure è
pensata come uno spazio vuoto, pronto per essere riempito da «considerazioni» o
«osservazioni» che, nel frattempo, non si sa come, hanno acquisito statuto
pratico e sono divenute «ragioni per agire». In entrambi i casi, le ragioni
morali potrebbero forse continuare ad essere considerate come intrinsecamente
normative e motivazionalmente efficaci, ma al prezzo di aver ricondotto la
volontà ad un quadro in cui essa è totalmente
e duplicemente eteronoma.
6. È
evidente che l’immagine del pensiero morale che deriva da questo approccio
resta fortemente intellettualistica. Come si è detto, ciò genera gravi difficoltà
sia per dar conto della normatività sia per spiegare la motivazione morale.
L’indicazione che sembra emergere come alternativa plausibile, almeno per
esclusione, è piuttosto quella contraria, che assegna alla ragion pratica un
ruolo attivo, o meglio ancora costitutivo, sia nella fondazione della normatività morale sia
nella spiegazione della motivazione. Un percorso promettente in questa
direzione è ovviamente rappresentato da un approccio di tipo kantiano. Anzi,
più precisamente, dalla concezione kantiana della ragion pratica e della
volontà libera come autonomia. Non potendo sviluppare in questa sede questo
aspetto propositivo, ci limitiamo a suggerire, a titolo di ipotesi, ciò che un
approccio di questo tipo potrebbe comportare per i problemi qui messi in luce a
proposito dell’intuizionismo.
Ciò
che fa di una caratteristica di un’azione o di un aspetto di una situazione una
considerazione moralmente rilevante (cioè una ragione morale) potrebbe essere
qualcosa che la ragione non si limita a riconoscere come ciò che le sta di
fronte, come una «qualità deontica». La normatività di un’azione potrebbe
essere costituita o istituita piuttosto che «riconosciuta» dalla ragion
pratica. La proprietà di «esser giusto», in altri termini, potrebbe derivare non
dalla situazione in se stessa, bensì, data la situazione, dall’investimento che
la ragione vi fa per scopi pratici. In termini classici, la normatività viene
concepita come opus
rationis (27)
o, in modo in parte analogo, come Faktum (nel senso di «risultato del facere»)
della ragion pratica. È in questo senso che si può contrapporre all’epistemologia
intuizionista un’epistemologia realista di tipo kantiano. Ora, un elemento centrale della concezione
kantiana è che nella moralità la ragion pratica mira essenzialmente a
determinarsi da se stessa, ossia
come libertà assoluta, svincolata da ogni condizionamento. Essa considera quindi la situazione,
affinché vi si possa vedere un impegno morale, come un’occasione in cui far
valere la propria libertà di volontà razionale. Il rapporto fra la concezione
intuizionista e quella kantiana, a questo proposito, può essere esplicitato in
questa giustapposizione: laddove l’intuizionista e il particolarista si chiedono
se la situazione sia tale da esigere che io compia quel determinato atto, il
kantiano si chiede: «data la situazione, posso volere coerentemente (cioè
senza contraddizione né logica né pragmatica) che la massima da me formulata in
questa situazione a giustificazione del mio atto possa essere compresa e
accettata da ogni agente razionale che comprenda la situazione e la mia posizione
di agente in essa?» E in tal senso: «posso volere coerentemente che ogni agente
razionale agisca in base a quella stessa massima (ragione morale) in circostanze
simili?» La differenza appare evidente: nel secondo caso (l’ottica kantiana) la
forza normativa dell’atto dipende dal suo poter essere voluto senza contraddizione;
ovvero: la «ragione per agire» è che posso coerentemente volere quell’atto come
atto libero; nel primo caso (l’ottica intuizionista) la moralità sarà invece un
compito conoscitivo in cui la libertà è coinvolta, in fondo, soltanto dopo che
i giochi sono fatti, cioè quando la ragione (speculativa) ha già determinato il
da farsi e un desiderio efficace di compiere il proprio dovere si è installato
nel mio animo (il che apre, fra l’altro, il problema di spiegare come sia
possibile la «debolezza della volontà»).
È ovvio
che, nell’ottica kantiana, le caratteristiche specifiche della situazione non
scompaiono affatto (nonostante alcune cattive interpretazioni di Kant in proposito
sostengano il contrario): la massima è soggettiva e ha origine precisamente
dalla situazione, dalle sue caratteristiche uniche. Il test di
universalizzabilità non è una procedura top-down, dal principio alla sua
applicazione, bensì esattamente il contrario, bottom-up: la volontà
concreta, calata nella situazione, coinvolta e impegnata in essa, ricerca la
giustificazione della propria scelta nella possibilità di volere senza
contraddizione e senza condizionamento; se contraddizione non c’è, la massima,
per quanto particolare sia, ha valore veramente universale (va da sé che
l’universalità non è la generalità, anche se sembra che il particolarismo, su
questo punto, tenda a confonderle), perché qualunque agente razionale potrebbe
volerla come legge per se stesso nelle medesime circostanze.
7. In questa
prospettiva, anche la forza motivazionale delle ragioni può tornare ad essere inscritta
in una forma di internalismo. La difficoltà dell’intuizionismo, sotto questo
aspetto, deriva dal mistero che avvolge la trasformazione di intuizioni (insights)
riguardanti la situazione in determinazioni pratiche. L’immagine del processo
di pensiero nell’intuizionismo sembra essere la seguente: «Questa situazione è
tale che è richiesto che io faccia x», e nel caso del pensiero morale:
«Questa situazione è tale che è moralmente richiesto che io faccia x».
Una tesi internalista implicherebbe che da qui si giungesse, senza alcun
passaggio intermedio, alla conseguenza: «Quindi, voglio fare x» o
addirittura «faccio x». È evidente che non si tratta di un’immagine
attraente del pensiero pratico, per le ragioni già dette. Nella prospettiva
kantiana, invece, le determinazioni pratiche hanno la forma: «Voglio fare
questo qui ed ora», e nel caso delle determinazioni morali (cioè delle scelte
che riteniamo essere moralmente giustificate): «Voglio che questo sia ciò che
ogni altro agente razionale possa comprendere e accettare che io voglia e faccia
in questa situazione, o che egli sia pronto a volere e fare lui stesso in
circostanze simili». Come si vede, il requisito della universalizzabilità tiene
conto della situazione e delle sue particolarità, ma prende le mosse a partire dall’interno
di un atto del volere, verificandone la sostenibilità di fronte a ogni altro
agente razionale. In tal modo, è chiaro che si possa concepire la forza
motivazionale dei giudizi normativi (e di quelli morali in particolare) come
una caratteristica ad essi intrinseca (benché non sempre vincente – ma non ci
occuperemo qui di questo aspetto): tali giudizi esprimono infatti la razionalità
interna di un atto volizionale e le caratteristiche della situazione costituiscono
considerazioni rilevanti all’interno del quadro di tale atto. L’istanza particolaristica
non è ovviamente del tutto fuori luogo, perché è certamente vero che in determinate
circostanze io posso volere senza contraddizione un atto che per certi aspetti
appartiene a un genere che è normalmente immorale – ovvero non
universalizzabile – ma che in forza dell’insieme delle circostanze particolari
non implica, qui, alcuna contraddizione del volere. Non è perciò
necessario ipotizzare alcuna «qualità morale» o «deontica» appartenente alla
natura degli atti o della situazione: la normatività è istituita dalla
ragion pratica sulla base delle caratteristiche naturali degli atti e delle situazioni;
non si tratta affatto qui, ovviamente, di una forma di naturalismo, perché la
normatività non è fondata sulle caratteristiche naturali, bensì sulla normatività
della ragione stessa nel determinarsi praticamente in una situazione; gli elementi
di quest’ultima hanno rilevanza morale solo nella misura in cui rientrano nella
descrizione di un atto che può essere voluto universalmente.
8. In estrema sintesi, dunque, l’approccio intuizionista,
nonostante la maggiore sofisticatezza e precisione delle formulazioni più
recenti (cui qui abbiamo potuto soltanto accennare), non sembra attribuire alla
ragione un’effettiva dimensione pratica, e in particolare è in difficoltà a
riconoscerne il ruolo di guida del volere (normatività) e la capacità di essere
motivazionalmente efficace. Trattandosi di una tradizione razionalistica e
antiriduzionista, è importante valutare
la capacità dell’intuizionismo di resistere alla forza di attrazione
del naturalismo e della psicologia empirista senza finire in qualche forma di intellettualismo.
Tuttavia, se le osservazioni critiche qui espresse colgono nel segno, sembra
che alla fine l’intuizionista debba o accettare qualche versione del
naturalismo e della psicologia empiristica, o ricorrere a una vera e propria
«rivoluzione copernicana» sulla normatività, che ne ricerchi l’origine non
nelle cose «in sé» bensì nel «soggetto», e in particolare nel soggetto
agente in quanto volontà razionale. In entrambi i casi, però, l’intuizionista
avrà perso la sua identità originaria e sarà costretto a diventare o un
naturalista o un kantiano.
(1) Cfr.
G.E. Moore, Principia Ethica, Oxford University Press, Oxford 1903; tr.
it. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1964, p. 62.
(2) Cfr. W.D. Ross, The Right and the Good, Clarendon,
Oxford 1930 (rist., Ivi 2002); tr. it. di R. Mordacci, Il giusto e il bene, Bompiani,
Milano 2004, pp. 110-111. Le citazioni nel testo (con i numeri di pagina fra
parentesi) sono tratte da quest’ultima edizione.
(3) Cfr. H. Sidgwick, The Methods of Ethics (1st ed. 1874), 7th
edn., Macmillan, London 1907; tr. it di M. Mori, I metodi dell’etica, Il Saggiatore, Milano 1995, p. 134.
(4) La distinzione fra internalismo ed esternalismo, assai
diffusa in letteratura, è per più aspetti confusa e problematica; ho tentato di fornire
alcuni chiarimenti in «Agire per
ragioni morali. Razionalità e motivazione nelle analisi della scelta morale»,
Rivista di Filosofia Neoscolastica 91 (1999), pp. 593-626.
(5) Ho
modificato la traduzione per rendere meglio l’idea di quite distinct e
per rimediare a una mia inspiegabile svista (l’omissione dell’esempio contenuto
nella seconda parentesi) nell’edizione pubblicata.
(6) In proposito, è bene ricordare le critiche rivolte
da Moore nei Principia Ethica alle etiche «metafisiche», colpevoli a suo
dire della medesima «fallacia naturalistica» che affligge l’edonismo.
(7) Cfr. J. Mackie, Ethics. Inventing Right and Wrong,
Penguin, Harmondsworth 1977; tr. it. di B. de Mori, Etica. Inventare il giusto e l’ingiusto, Giappichelli, Torino 2001.
(8) Cfr. R.
Audi, ‘Moral epistemology and the supervenience of ethical concepts’, in Id., Moral Knowledge and Ethical Character, Oxford
University Press, Oxford 1997, pp. 93-111. J. Dancy, in Ethics Without
Principles, Clarendon, Oxford 2004, pp. 85-89, distingue fra sopravvenienza
e risultanza: la prima riguarda tutte le caratteristiche non morali
dell’azione, e ciò comporta che azioni simili per tutti questi aspetti avranno
anche necessariamente lo stesso valore morale; ciò però non genera principi
generali, ma solo giudizi particolari, perché le azioni che condividono tutte
le medesime caratteristiche non morali sono poche (al limite, nessuna oltre
all’azione considerata). La risultanza invece riguarda solo quelle
caratteristiche dell’azione che sono davvero determinanti per il giudizio
morale; la tesi del particolarismo è, in certo senso, che questo insieme di
caratteristiche da cui «risultano» le qualità morali varia irriducibilmente
da un’azione all’altra (perché ciò che qui è moralmente rilevante può non esserlo
in un’altra azione) e che perciò la risultanza non genera alcun principio
morale generale. L’aspetto misterioso di queste concezioni è come sia possibile
che delle proprietà specifiche dipendano da qualità naturali (empiriche) e
siano colte da un atto di intuizione che le individua come da esse distinte e
ad esse irriducibili. «Sopravvenire» alle qualità empiriche significa
essere altro da esse ma essere conosciute attraverso di esse, perciò
attraverso un atto di inferenza, non di intuizione. Appare però chiaro
che per gli intuizionisti del primo Novecento si tratta di qualità del tutto
diverse da quelle naturali (in senso sia empirico sia metafisico), appartenenti,
come Ross dice ripetutamente, alla «natura complessiva» dell’atto in questione.
Ciò è comprensibile se si pensa che la nozione di «promessa» indichi un
atto che non è descrivibile in termini esclusivamente empiristici, poiché
implica per esempio l’impegno, ovvero l’intenzione, di compiere ciò che si promette.
Se il livello adeguato di descrizione degli atti morali include elementi non
naturalizzabili (come, per certi aspetti, l’intenzione), allora la pretesa
antiriduzionistica degli intuizionisti è giustificata, anche se crea un altro
genere di problema, vale a dire: che tipo di realtà è una cosa come una promessa
(o una violenza, o un atto benefico e così via) se vi includiamo l’intenzione e
con ciò, probabilmente, la motivazione?
(9) In The Foundations of Ethics, Clarendon
Press, Oxford 1939, pp. 84-85, Ross accetta il suggerimento di Carritt di chiamare
i doveri prima facie col nome di responsabilità,
ma poi continua ad impiegare l’espressione da lui coniata per tutto il resto
del libro. La nozione di responsabilità non sembra modificare affatto il
riferimento a ciò che Ross voleva indicare, vale a dire certe caratteristiche
delle azioni; anzi, a tale scopo sembra in realtà ancor meno adatta che l’espressione
«dovere prima facie».
(10) Si spiega
così anche l’insistenza con cui Ross nel capitolo IV di Il giusto e il bene rifiuta tutte le definizioni relazionali di
«buono», come «essere oggetto dell’interesse di qualcuno».
(11) Una delle opzioni percorse in questa direzione, in
opposizione proprio alle tesi intuizioniste, è costituita dalle varie forme di
non cognitivismo, e in particolare dall’emotivismo e dal prescrittivismo. Non
si tratta però dell’unica alternativa percorribile.
(12) Vari
critici (fra cui H.J. McCloskey, ‘Ross
and the concept of a prima facie duty’, Australasian Journal of Philosophy 41 (1963), pp. 336-345) hanno notato che Ross tende a definire
i doveri prima facie nei termini
della nozione di dovere reale, laddove sembrerebbe che la nozione logicamente
primaria debba essere la prima – che però non è ancora un dovere. Avremmo
così che le qualità deontiche (i doveri prima
facie), sopravvengono a o risultano da quelle naturali, ma a sua volta il
dovere in senso proprio (doveri reali) dovrebbe sopravvenire a o risultare dal
dovere prima facie. Se non cambia il modo di dar conto di questi
passaggi, è inevitabile finire in un regressum ad infinitum. Non sembra possa
dare risultati migliori l’idea accennata da Ross che i doveri prima facie siano qualcosa che tende
ad essere un nostro dovere (cfr. p. 37), sia per l’ambiguità del termine tendency
(si veda in merito P.F. Strawson, ‘Ethical Intuitionism’, Philosophy 24 (1949), pp. 23-33), sia perché non si esce dallo
schema della dipendenza delle qualità morali da quelle naturali.
(13)
Una conseguenza che è invece tratta espressamente da un altro intuizionista
contemporaneo, John McDowell. Si vedano, per questo aspetto, i suoi saggi di
filosofia pratica raccolti in Mind, Value
and Reality, Harvard University Press, Cambridge 1998.
(14) Cfr. R.
Audi, ‘Ethical naturalism and the explanatory power of moral concepts’, in
(15) W.D. Ross, Il giusto e il bene,
cit., p. 158.
(16) W.D.
Ross, The Foundations of Ethics, cit., p. 227.
(17) W.D. Ross, Il giusto e il bene, cit., p. 160.
(18) Ibidem. Per una breve analisi di questi
passi, ci permettiamo di rimandare al nostro già citato ‘Agire per ragioni
morali’, cit. pp. 598-599.
(19) Cfr. Ivi, pp.
181-201.
(20) Cfr. J. Dancy, Ethics Without Principles, cit., p. 75:
«Anche se una creatura priva di desideri non potrebbe avere alcuna ragione per
agire, non sono i desideri che ci forniscono o fondano le nostre ragioni. Le
ragioni sorgono dalla prospettiva di un qualche bene. Se non abbiamo altra
ragione per compiere una certa azione, volerla (wanting it) non ci offrirà alcuna
ragione; né può il voler compiere un’azione stupida renderla marginalmente
meno stupida» (corsivi miei). Si veda anche J. Dancy, ‘Contro le ragioni basate
sui desideri’, Ragion Pratica 20 (giugno 2003), pp. 189-208.
(21) Cfr. R.
Audi, ‘Moral judgment and reasons for action’, in
(22)
Va da sé che questo non significa affatto che il naturalismo sia insostenibile in quanto tale, ma solo che è
incompatibile con l’intuizionismo tradizionalmente inteso.
(23) H.J. McCloskey, ‘Ross and the concept of a prima facie duty’, cit.
(24) H.J. McCloskey, ‘Ross and the concept of a prima facie duty’, cit.
(25) Cfr. K. Baier, The Moral Point of View. A Rational
Basis of Ethics, Cornell University Press, Ithaca 1958.
(26) Cfr. W.D. Ross, Il giusto e il bene, cit.,
p. 52: «Possiamo solo dire che una gran quantità di forza normativa appartiene ai
doveri di ‘obbligazione perfetta’ – i doveri di mantenere le promesse, di riparare
i torti commessi e di restituire l’equivalente dei favori che abbiamo ricevuto.
Quanto al resto, ‘il giudizio spetta alla sensazione (aìsthesis)’
(Aristotele, Etica Nicomachea, 1109 b 23). Questo senso del nostro particolare
dovere nelle particolari circostanze, preceduto e informato dalla più piena
riflessione che possiamo dedicare all’atto in tutti i suoi aspetti, è altamente
fallibile, ma è l’unica guida che abbiamo per il nostro dovere».
(27) In proposito si veda anche la concezione della legge
sostenuta da Tommaso d’Aquino in Summa Theologiae, I-II, quaestiones
90-94.