Etica & Politica / Ethics & Politics, 2005, 2
0. Lo scopo di queste mie
brevi e sintetiche osservazioni sulla relazione di Eugenio Lecaldano non
risponde tanto a una finalità di critica quanto piuttosto una esigenza di
integrazione su alcune delle cose analizzate e proposte. Il mio accordo con
l’impianto generale di Lecaldano è, infatti, sostanziale. Non proporrò perciò
una integrazione sulla base dell’equivoco principio ermeneutico di interpretare
un collega sulla base di quello che avrebbe dovuto dire, ma, in effetti, non ha
detto, bensì piuttosto un commento sulla base di quanto si potrebbe aggiungere,
mantenendo, spero, nel contempo la sua impostazione principale e la maggior
parte dei particolari della sua posizione. Proporrò perciò una serie di glosse
a Lecaldano.
1. Lo scritto di Lecaldano
elimina sin dall’inizio l’equivoco di suggerire una alternativa radicale tra
sentimentalismo e razionalismo. Che la questione non debba essere posta in
questi termini significa che:
a)
il sentimentalismo relativo alla fonte motivazionale
dell’agire morale può essere considerato in accordo con le nostre migliori
conoscenze relative alla genesi motivazionale dell’agire morale, conoscenze che
ci derivano da molte fonti, naturalmente, ma fra le quali vale la pena di
citare sia la psicologia evolutiva e dello sviluppo, sia l’etologia, sia le
dinamiche della cooperazione;
b)
in altre parole, che la fonte dell’azione sia un
atteggiamento del soggetto originato nei sentimenti di approvazione e
disapprovazione, piacere e dispiacere non equivale a sostenere che tali
sentimenti non siano sottoponibili a revisione critica e integrazione. Se
alcune nostre azioni sono, ad esempio, originate dalla simpatia o dallo sdegno
o dalla solidarietà, vorrà dire che molte volte noi ci impegneremo nell’impresa
di fornire materiali giustificativi alle nostre motivazioni. Tale impegno verrà
vissuto molto probabilmente come parte di quei sentimenti, ossia come il loro
contenuto cognitivo. Questo sgombra il campo dall’accusa di irrazionalismo
talvolta mossa al sentimentalismo, ossia all’idea che il sentimentalismo non
può in linea di principio possedere l’epistemologia appropriata affinché la
ragione possa essere implicata nei processi di giustificazione delle nostre
azioni.
2. Questa implicazione merita di
essere sottolineata per molti e diversi motivi. Ne indicherò soltanto alcuni:
1) il fatto che
l’azione morale è molto spesso un’azione che sorge dalla discussione e dalla
deliberazione collettiva. In effetti, nella nostra tradizione occidentale, non
mancano affatto, e anzi abbondano, testimonianze di questo processo di
formazione di opzioni etiche, sin dalle più antiche testimonianze letterarie
pre-filosofiche. Le deliberazioni delle assemblee rappresentative, si tratti
del consesso degli eroi nell’Iliade, della riunione nell’agorà nell’Odissea,
dei resoconti delle assemblee dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America,
delle sedute che hanno portato all’approvazione della nostra costituzione,
abbondano di momenti che non sono descrivibili altrimenti che come il tentativo
di declinare nella discussione diverse, talvolta opposte, opzioni morali.
L’insistenza sul sentimento come fonte motivazionale comporta il rischio di
mettere in ombra la discussione sostenuta da buone ragioni, così come può
svolgersi in alcuni dei nostri consessi, ritenuti storicamente significativi?
Non credo affatto sia così. La cosa può emergere con maggiore chiarezza, del
resto, proprio quando le ragioni che vengono avanzate in contesti
pubblico-politici vengono assunte – e smascherate – come scorciatoie retoriche.
Da un punto di vista negativo, cioè, il fenomeno della malafede sembra
confermare e non smentire l’idea del sentimento come fonte motivazionale.
Fortunatamente, anche nei contesti pubblico-politici i casi di malafede non
sono gli unici esistenti e anche esempi maggiormente positivi e, spero,
maggiormente in accordo con la nostra sensibilità pubblica vanno in una
direzione di conferma del sentimentalismo. Ad esempio, quando discuto di
redistribuzione del reddito tra nazioni o di riallocazione delle risorse
sanitarie, se la fonte motivazionale della mia convinzione della giustezza di
riallocare determinate risorse può essere un sentimento di simpatia e
solidarietà, ad esempio, verso popolazioni svantaggiate rispetto a quelle
dell’Occidente affluente, non posso mancare di sostenere le mie buone
intenzioni con delle buone ragioni, altrimenti la fonte motivazionale del mio
agire è cieca, essendo, però, certamente vuota, se quella fonte che Lecaldano
ci indica mancasse.
2) l’azione morale
non avviene nel vuoto e avviene in solitudine solo in casi molto rari – ritengo
che la solitudine morale sia un sentimento che si può sperimentare, ad esempio
e specialmente, nelle situazioni dilemmatiche –; anzi, spesso l’azione morale è
un’azione che richiede coordinazione e programmazione. ‘Coordinazione’ e
‘programmazione’ sembrano parole che esulano dal contesto nel quale siamo
abituati a parlare di etica, ma si tratta appunto di una impressione che deve
essere corretta. Se, ad esempio, ritengo che la partecipazione civile promuova
valori eticamente rilevanti – consapevolezza delle ingiustizie, solidarietà,
diffusione delle informazioni e così via – e successivamente non mi adopero per
promuoverla con strumenti adeguati – strumenti evidentemente scelti anche dalla
ragione –, con una consapevolezza delle risorse materiali e temporali a
disposizioni, che cosa posso dire della mia motivazione ad agire nel senso di
quella promozione? O che non parlavo seriamente, o che parlavo in malafede, o
che non ero in possesso delle informazioni rilevanti. Di nuovo, questa modalità
di utilizzo della ragione sarebbe incomprensibile senza quella fonte
motivazionale e una descrizione dell’azione morale che non la contemplasse
risulterebbe fortemente monca.
3. Forse, una delle
ragioni che spinsero Hume, autore così presente in Lecaldano, a scrivere il
paragrafo della Ricerca sui principi della morale, titolato ‘Perché
l’utilità piace’ non era quindi soltanto l’idea di ricondurre l’utilità al
sentimento di piacere e di dispiacere, ma anche il fatto che porre i problemi
morali in termini di utilità, come Lecaldano, soprattutto nelle nostre
discussioni enfatizza con vigore, è un modo per dire che di piacere e
dispiacere si può e si deve discutere razionalmente. Altrimenti, quale potrebbe
essere l’alternativa? Porre le questioni in termini di semplice gusto? Non pare
questa essere una soluzione convincente in alcun modo, se non altro per il
fatto che le passioni per qualificarsi nel confronto con il mondo non possono
essere aliene da un contenuto cognitivo che non esito a definire più o meno
adeguato. Primo esempio: se io ho una passione per le donne bionde, ma non per
le donne dominanti e Carla è una bionda tinta e dominante e io ne sono
attratto, magari perché alcuni tratti del suo carattere che in altre
circostanze mi sembrerebbero respingenti non mi si appalesano con la necessaria
chiarezza, allora abbiamo un caso di una non adeguatezza fra contenuto
passionale e contenuto cognitivo. Secondo, meno frivolo, esempio: se io penso
che sia necessario che il mio sentimento di compassione per i miei simili si
declini concretamente e desidero destinare parte del mio stipendio alle
popolazioni del Mali (notoriamente uno dei paesi al mondo con più basso reddito
pro capite) attraverso una qualche ONG che distribuisca sistematicamente
e per statuto aiuti agricoli a quelle popolazioni, forse non faccio la cosa più
adeguata nel medio periodo. Se fossi informato che la causa principale del
mancato decollo dell’economia agricola africana sono le politiche agricole
protezionistiche degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, possiederei un
contenuto cognitivo maggiormente adeguato a definire in maniera più compiuta e
meno confusa il mio desiderio di agire simpateticamente nei confronti dei miei
simili più sfortunati.
4. Lo sforzo di andare in
cerca dei contenuti migliori dal punto di vista della conoscenza rende la fonte
motivazionale del nostro agire morale molto più complessa nella declinazione
concreta di quanto risulti se noi ci limitassimo al mantra di un
appiattimento sui sentimenti, come vorrebbero le critiche che qualificano il
sentimentalismo come irrazionalismo. Di più: oso dire che rende anche questa
stessa fonte motivazionale in un qualche senso anche più nobile, dal momento
che qualifica la ricerca della migliore azione anche come ricerca del contenuto
più adeguato alla motivazione. In questo senso la notazione di Lecaldano sul
sentimento di rispetto, che Kant sembra ritenere qualificativo della seconda
formula dell’imperativo categorico, non coglie tanto Kant in fallo come
responsabile di una metabasi motivazionale, quanto potrebbe essere considerata
come una sorta di prova a contrario del nesso tra ragione e sentimento.
Un nesso non certo inscindibile e necessitante, ma che indica appunto un
compito verso una sempre maggiore completezza delle nostre ragioni per agire.
5. Anche il riferimento di
Lecaldano all’espressionismo di Gibbard trova in questa idea della sempre
maggiore completezza di quello che mi arrischio a definire il compito della
motivazione una misura per ridimensionare l’insistenza di Gibbard sulle norme,
che sembra mettere invece tra parentesi i valori. In realtà, a prescindere
dalla complessa semantica di Gibbard, la quale risponde poi a problemi
metaetici specifici, sui quali non mi addentro in questa sede, la
sottolineatura del valore delle norme nella costituzione della motivazione vale
a mostrare una maggiore facilità nella giustificazione ex post delle
norme modellate o evolutivamente o sull’esempio di determinati modelli
comportamentali spontanei o sulla base di certi modelli a base prevalentemente
artificiale (su questi hanno insistito a vario titolo sia von Hayek, sia Thomas
Schelling, sia David Lewis). La fonte motivazionale può essere anche stata
originata dalla nostra storia evolutiva (è del tutto probabile che, in effetti,
lo sia), ma su questa storia non può essere appiattita, perché tale
appiattimento, di nuovo, non mostra il nesso istituibile tra sentimento e
contenuto cognitivo.
6. Sulla base di questo nesso,
credo poi vada letta anche la contrapposizione che Lecaldano ricorda tra
Rousseau e Hume, che io ritengo tuttavia che debba essere interpretata in un senso
leggermente diverso da quello proposto da Lecaldano. La ragione
dell’opposizione tra i due non è solo epistemologica. In altre parole, non è
che la maggiore aderenza di Hume a quelli che sono anche i nostri problemi e le
nostre preoccupazioni derivi unicamente dal fatto che Hume possedeva una
antropologia e una psicologia più sofisticate di Rousseau. Io penso piuttosto
che la ragione di questa diversità, correttamente rilevata da Lecaldano, stia
piuttosto nel fatto che Hume possedeva una filosofia sociale e una teoria della
cooperazione che invece è assente in Rousseau. In fondo, anche le troppo
ingenerose notazioni di Hume sul contratto originario hanno origine da questa
esigenza di attenersi sia all’esperienza della cooperazione sia alla sua possibile
origine evolutiva.
7. Riguardo quanto Lecaldano dice
sulla natura del sentimento religioso, mi sento di proporre una correzione
maggiormente sostanziale. Il sentimento religioso come tutti i sentimenti è sia
emendabile sia può certamente dare luogo a manifestazioni patologiche, in ciò
condividendo il destino possibile di ogni sentimento. Ad esempio, e gli esempi
storici non mancano, l’entusiasmo religioso può condurre al fanatismo, ma può
anche originare un sentimento di simpatia cosmica verso la catena degli esseri
viventi, originata dalla compassione e da esigenze di liberazione della
sofferenza. Per menzionare solo un caso vicino alla nostra esperienza di
cultori di cose filosofiche, l’impegno animalista di T. Regan, al quale non
difettano certamente delle buone ragioni nel senso che ho ricordato, ha trovato
uno dei suoi spunti iniziali nella meditazione di determinate pagine di Gandhi.
Quello che voglio suggerire è che la fenomenologia del fenomeno del sacro è
così vasta da non potersi affatto escludere che lo stesso sentimento religioso
possa in determinate sue manifestazioni esibire contenuti razionali di sfondo
sottoponibili a discussione critica e revisione.
8. La patologia del
sentimento è una possibilità della nostra esperienza umana. Si pensi al
quadrato delle passioni così come è descritto da Hume. Ognuna delle passioni
nominate da Hume (amore, odio, orgoglio, umiltà) possiede una fenomenologia
complessa dalla quale il versante patologico non è affatto assente, ma risulta
essere una varietà del nostro essere umani. Queste passioni sono legate a una
specifica maniera del soggetto di rapportarsi a ciò che qualifica come il
proprio io. Da questo punto di vista, sia la preferenza di Hume per le passioni
calme sia la sua critica alla sostanzialità dell’io indicano un compito di
natura sia morale sia cognitiva. È quando si comprende che noi non abbiamo
accesso ad alcun io sostanziale, ma che questo è l’epifenomeno delle nostre
passioni, che possiamo mettere in moto una sorta di movimento di retroazione e
avere sia una comprensione maggiormente adeguata della natura generale delle
passioni sia anche educare le nostre stesse passioni e scorgerne il lato
inevitabilmente transeunte e relativo, che costituisce il versante forse
cognitivamente necessario di un io non sostanziale, ma ancora capace di
chiamarsi per nome.