Etica & Politica / Ethics & Politics, 2005, 2

http://www.units.it/etica/2005_2/MARRONE.htm

 

 

Glosse a Lecaldano

 

Pierpaolo Marrone

 

Dipartimento di Filosofia

Università di Trieste

 

 

0. Lo scopo di queste mie brevi e sintetiche osservazioni sulla relazione di Eugenio Lecaldano non risponde tanto a una finalità di critica quanto piuttosto una esigenza di integrazione su alcune delle cose analizzate e proposte. Il mio accordo con l’impianto generale di Lecaldano è, infatti, sostanziale. Non proporrò perciò una integrazione sulla base dell’equivoco principio ermeneutico di interpretare un collega sulla base di quello che avrebbe dovuto dire, ma, in effetti, non ha detto, bensì piuttosto un commento sulla base di quanto si potrebbe aggiungere, mantenendo, spero, nel contempo la sua impostazione principale e la maggior parte dei particolari della sua posizione. Proporrò perciò una serie di glosse a Lecaldano.

 

 

1. Lo scritto di Lecaldano elimina sin dall’inizio l’equivoco di suggerire una alternativa radicale tra sentimentalismo e razionalismo. Che la questione non debba essere posta in questi termini significa che:

a)     il sentimentalismo relativo alla fonte motivazionale dell’agire morale può essere considerato in accordo con le nostre migliori conoscenze relative alla genesi motivazionale dell’agire morale, conoscenze che ci derivano da molte fonti, naturalmente, ma fra le quali vale la pena di citare sia la psicologia evolutiva e dello sviluppo, sia l’etologia, sia le dinamiche della cooperazione;

b)    in altre parole, che la fonte dell’azione sia un atteggiamento del soggetto originato nei sentimenti di approvazione e disapprovazione, piacere e dispiacere non equivale a sostenere che tali sentimenti non siano sottoponibili a revisione critica e integrazione. Se alcune nostre azioni sono, ad esempio, originate dalla simpatia o dallo sdegno o dalla solidarietà, vorrà dire che molte volte noi ci impegneremo nell’impresa di fornire materiali giustificativi alle nostre motivazioni. Tale impegno verrà vissuto molto probabilmente come parte di quei sentimenti, ossia come il loro contenuto cognitivo. Questo sgombra il campo dall’accusa di irrazionalismo talvolta mossa al sentimentalismo, ossia all’idea che il sentimentalismo non può in linea di principio possedere l’epistemologia appropriata affinché la ragione possa essere implicata nei processi di giustificazione delle nostre azioni.

 

 

2. Questa implicazione merita di essere sottolineata per molti e diversi motivi. Ne indicherò soltanto alcuni:

1) il fatto che l’azione morale è molto spesso un’azione che sorge dalla discussione e dalla deliberazione collettiva. In effetti, nella nostra tradizione occidentale, non mancano affatto, e anzi abbondano, testimonianze di questo processo di formazione di opzioni etiche, sin dalle più antiche testimonianze letterarie pre-filosofiche. Le deliberazioni delle assemblee rappresentative, si tratti del consesso degli eroi nell’Iliade, della riunione nell’agorà nell’Odissea, dei resoconti delle assemblee dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America, delle sedute che hanno portato all’approvazione della nostra costituzione, abbondano di momenti che non sono descrivibili altrimenti che come il tentativo di declinare nella discussione diverse, talvolta opposte, opzioni morali. L’insistenza sul sentimento come fonte motivazionale comporta il rischio di mettere in ombra la discussione sostenuta da buone ragioni, così come può svolgersi in alcuni dei nostri consessi, ritenuti storicamente significativi? Non credo affatto sia così. La cosa può emergere con maggiore chiarezza, del resto, proprio quando le ragioni che vengono avanzate in contesti pubblico-politici vengono assunte – e smascherate – come scorciatoie retoriche. Da un punto di vista negativo, cioè, il fenomeno della malafede sembra confermare e non smentire l’idea del sentimento come fonte motivazionale. Fortunatamente, anche nei contesti pubblico-politici i casi di malafede non sono gli unici esistenti e anche esempi maggiormente positivi e, spero, maggiormente in accordo con la nostra sensibilità pubblica vanno in una direzione di conferma del sentimentalismo. Ad esempio, quando discuto di redistribuzione del reddito tra nazioni o di riallocazione delle risorse sanitarie, se la fonte motivazionale della mia convinzione della giustezza di riallocare determinate risorse può essere un sentimento di simpatia e solidarietà, ad esempio, verso popolazioni svantaggiate rispetto a quelle dell’Occidente affluente, non posso mancare di sostenere le mie buone intenzioni con delle buone ragioni, altrimenti la fonte motivazionale del mio agire è cieca, essendo, però, certamente vuota, se quella fonte che Lecaldano ci indica mancasse.

2) l’azione morale non avviene nel vuoto e avviene in solitudine solo in casi molto rari – ritengo che la solitudine morale sia un sentimento che si può sperimentare, ad esempio e specialmente, nelle situazioni dilemmatiche –; anzi, spesso l’azione morale è un’azione che richiede coordinazione e programmazione. ‘Coordinazione’ e ‘programmazione’ sembrano parole che esulano dal contesto nel quale siamo abituati a parlare di etica, ma si tratta appunto di una impressione che deve essere corretta. Se, ad esempio, ritengo che la partecipazione civile promuova valori eticamente rilevanti – consapevolezza delle ingiustizie, solidarietà, diffusione delle informazioni e così via – e successivamente non mi adopero per promuoverla con strumenti adeguati – strumenti evidentemente scelti anche dalla ragione –, con una consapevolezza delle risorse materiali e temporali a disposizioni, che cosa posso dire della mia motivazione ad agire nel senso di quella promozione? O che non parlavo seriamente, o che parlavo in malafede, o che non ero in possesso delle informazioni rilevanti. Di nuovo, questa modalità di utilizzo della ragione sarebbe incomprensibile senza quella fonte motivazionale e una descrizione dell’azione morale che non la contemplasse risulterebbe fortemente monca.

 

 

3. Forse, una delle ragioni che spinsero Hume, autore così presente in Lecaldano, a scrivere il paragrafo della Ricerca sui principi della morale, titolato ‘Perché l’utilità piace’ non era quindi soltanto l’idea di ricondurre l’utilità al sentimento di piacere e di dispiacere, ma anche il fatto che porre i problemi morali in termini di utilità, come Lecaldano, soprattutto nelle nostre discussioni enfatizza con vigore, è un modo per dire che di piacere e dispiacere si può e si deve discutere razionalmente. Altrimenti, quale potrebbe essere l’alternativa? Porre le questioni in termini di semplice gusto? Non pare questa essere una soluzione convincente in alcun modo, se non altro per il fatto che le passioni per qualificarsi nel confronto con il mondo non possono essere aliene da un contenuto cognitivo che non esito a definire più o meno adeguato. Primo esempio: se io ho una passione per le donne bionde, ma non per le donne dominanti e Carla è una bionda tinta e dominante e io ne sono attratto, magari perché alcuni tratti del suo carattere che in altre circostanze mi sembrerebbero respingenti non mi si appalesano con la necessaria chiarezza, allora abbiamo un caso di una non adeguatezza fra contenuto passionale e contenuto cognitivo. Secondo, meno frivolo, esempio: se io penso che sia necessario che il mio sentimento di compassione per i miei simili si declini concretamente e desidero destinare parte del mio stipendio alle popolazioni del Mali (notoriamente uno dei paesi al mondo con più basso reddito pro capite) attraverso una qualche ONG che distribuisca sistematicamente e per statuto aiuti agricoli a quelle popolazioni, forse non faccio la cosa più adeguata nel medio periodo. Se fossi informato che la causa principale del mancato decollo dell’economia agricola africana sono le politiche agricole protezionistiche degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, possiederei un contenuto cognitivo maggiormente adeguato a definire in maniera più compiuta e meno confusa il mio desiderio di agire simpateticamente nei confronti dei miei simili più sfortunati.

 

 

4. Lo sforzo di andare in cerca dei contenuti migliori dal punto di vista della conoscenza rende la fonte motivazionale del nostro agire morale molto più complessa nella declinazione concreta di quanto risulti se noi ci limitassimo al mantra di un appiattimento sui sentimenti, come vorrebbero le critiche che qualificano il sentimentalismo come irrazionalismo. Di più: oso dire che rende anche questa stessa fonte motivazionale in un qualche senso anche più nobile, dal momento che qualifica la ricerca della migliore azione anche come ricerca del contenuto più adeguato alla motivazione. In questo senso la notazione di Lecaldano sul sentimento di rispetto, che Kant sembra ritenere qualificativo della seconda formula dell’imperativo categorico, non coglie tanto Kant in fallo come responsabile di una metabasi motivazionale, quanto potrebbe essere considerata come una sorta di prova a contrario del nesso tra ragione e sentimento. Un nesso non certo inscindibile e necessitante, ma che indica appunto un compito verso una sempre maggiore completezza delle nostre ragioni per agire.

 

 

5. Anche il riferimento di Lecaldano all’espressionismo di Gibbard trova in questa idea della sempre maggiore completezza di quello che mi arrischio a definire il compito della motivazione una misura per ridimensionare l’insistenza di Gibbard sulle norme, che sembra mettere invece tra parentesi i valori. In realtà, a prescindere dalla complessa semantica di Gibbard, la quale risponde poi a problemi metaetici specifici, sui quali non mi addentro in questa sede, la sottolineatura del valore delle norme nella costituzione della motivazione vale a mostrare una maggiore facilità nella giustificazione ex post delle norme modellate o evolutivamente o sull’esempio di determinati modelli comportamentali spontanei o sulla base di certi modelli a base prevalentemente artificiale (su questi hanno insistito a vario titolo sia von Hayek, sia Thomas Schelling, sia David Lewis). La fonte motivazionale può essere anche stata originata dalla nostra storia evolutiva (è del tutto probabile che, in effetti, lo sia), ma su questa storia non può essere appiattita, perché tale appiattimento, di nuovo, non mostra il nesso istituibile tra sentimento e contenuto cognitivo.

 

 

6. Sulla base di questo nesso, credo poi vada letta anche la contrapposizione che Lecaldano ricorda tra Rousseau e Hume, che io ritengo tuttavia che debba essere interpretata in un senso leggermente diverso da quello proposto da Lecaldano. La ragione dell’opposizione tra i due non è solo epistemologica. In altre parole, non è che la maggiore aderenza di Hume a quelli che sono anche i nostri problemi e le nostre preoccupazioni derivi unicamente dal fatto che Hume possedeva una antropologia e una psicologia più sofisticate di Rousseau. Io penso piuttosto che la ragione di questa diversità, correttamente rilevata da Lecaldano, stia piuttosto nel fatto che Hume possedeva una filosofia sociale e una teoria della cooperazione che invece è assente in Rousseau. In fondo, anche le troppo ingenerose notazioni di Hume sul contratto originario hanno origine da questa esigenza di attenersi sia all’esperienza della cooperazione sia alla sua possibile origine evolutiva.

 

 

7. Riguardo quanto Lecaldano dice sulla natura del sentimento religioso, mi sento di proporre una correzione maggiormente sostanziale. Il sentimento religioso come tutti i sentimenti è sia emendabile sia può certamente dare luogo a manifestazioni patologiche, in ciò condividendo il destino possibile di ogni sentimento. Ad esempio, e gli esempi storici non mancano, l’entusiasmo religioso può condurre al fanatismo, ma può anche originare un sentimento di simpatia cosmica verso la catena degli esseri viventi, originata dalla compassione e da esigenze di liberazione della sofferenza. Per menzionare solo un caso vicino alla nostra esperienza di cultori di cose filosofiche, l’impegno animalista di T. Regan, al quale non difettano certamente delle buone ragioni nel senso che ho ricordato, ha trovato uno dei suoi spunti iniziali nella meditazione di determinate pagine di Gandhi. Quello che voglio suggerire è che la fenomenologia del fenomeno del sacro è così vasta da non potersi affatto escludere che lo stesso sentimento religioso possa in determinate sue manifestazioni esibire contenuti razionali di sfondo sottoponibili a discussione critica e revisione.

 

 

8. La patologia del sentimento è una possibilità della nostra esperienza umana. Si pensi al quadrato delle passioni così come è descritto da Hume. Ognuna delle passioni nominate da Hume (amore, odio, orgoglio, umiltà) possiede una fenomenologia complessa dalla quale il versante patologico non è affatto assente, ma risulta essere una varietà del nostro essere umani. Queste passioni sono legate a una specifica maniera del soggetto di rapportarsi a ciò che qualifica come il proprio io. Da questo punto di vista, sia la preferenza di Hume per le passioni calme sia la sua critica alla sostanzialità dell’io indicano un compito di natura sia morale sia cognitiva. È quando si comprende che noi non abbiamo accesso ad alcun io sostanziale, ma che questo è l’epifenomeno delle nostre passioni, che possiamo mettere in moto una sorta di movimento di retroazione e avere sia una comprensione maggiormente adeguata della natura generale delle passioni sia anche educare le nostre stesse passioni e scorgerne il lato inevitabilmente transeunte e relativo, che costituisce il versante forse cognitivamente necessario di un io non sostanziale, ma ancora capace di chiamarsi per nome.