Etica &
Politica / Ethics & Politics, 2005, 2
http://www.units.it/etica/2005_2/LECALDANO01.htm
Dipartimento di studi filosofici ed
epistemologici
Università di Roma “La Sapienza”
1. Sono
molto grato a Zecchinato, Marrone e Reichlin delle osservazioni e critiche che
mi hanno rivolto. Temo non riuscirò a rendere tangibile la spinta ad
un’ulteriore ricerca e approfondimento ricavata dalla discussione con loro, specialmente
in occasione del confronto diretto a Cassino. Mi limiterò quindi a rispondere
ad alcuni dei punti che hanno sollevato con l’intento di chiarire ulteriormente
il contesto all’interno del quale si collocano le mie proposte.
Per
cominciare dalle osservazioni di Zecchinato rispondendogli provo a chiarire
ulteriormente la scelta metodologica di intrecciare fortemente discorso teorico
con ricostruzione storica. Faccio precedere la risposta alle sue osservazioni
rendendo più esplicite due tesi generali che muovono la mia ricerca e che spero
egli possa condividere. Da una parte, mi sembra che tuttora la filosofia,
specialmente quel ramo della filosofia che si occupa dell’etica e della
moralità, svolga un ruolo ausiliario che ha largamente impersonato nelle figure
che fanno parte della sua storia da Socrate ad oggi. La ricerca filosofica non
è dunque niente altro che una forma di interrogazione ad alta voce intorno a
quelli che sono i problemi di tutti che solo contingentemente (o forse per una
maggiore disponibilità di tempo e per una qualche divisione del lavoro resasi
possibile con la società industriale) viene realizzata da certe persone che ora
abitualmente lavorano nelle università. In questo quadro la ricerca filosofica
continua a domandarsi quali sono ad esempio le soluzioni più adeguate alle
nostre questioni intorno a ciò che è giusto, bene o doveroso fare. Dall’altra
parte, se così stanno le cose mi sembra che sarebbe troppo pretenzioso
pretendere di partire da zero o ricominciare da capo: una pretesa che forse
poteva andare bene per Descartes e Hobbes nel secolo XVII e per Hume o Kant nel
XVIII secolo, ma che ora continuando noi a muoverci negli orizzonti inaugurati
con l’età moderna risulterebbe del tutto incongrua. Per cui riflettere filosoficamente
sulle questioni morali oggigiorno vuol dire prima di tutto confrontarsi con i
paradigmi più fertili ed elaborati che ci sono stati trasmessi da coloro che ci
hanno preceduti. Non si può, dunque, non fare i conti con le diverse tradizioni
che si intrecciano nell’etica del XX secolo ed in particolare con quelle
kantiana, neo-aristotelica e sentimentalistica che hanno avuto un ruolo
preminente. Ecco perché ho preferito collocare il mio intervento all’interno
del paradigma più fertile tra questi, ovvero il sentimentalismo di derivazione
humeana. Se come suggerisce Bernard Williams (1)
proviamo a considerare la filosofia come una particolare disciplina umanistica
che cerca di comprendere la natura e il senso dei concetti che usiamo nelle
nostre vite non possiamo evitare di considerare questi concetti come il frutto
di un processo di sviluppo storico che caratterizza la nostra cultura. I
concetti e le nozioni di cui facciamo uso quando ci poniamo delle questioni
morali sono contingentemente quelli che sono in quanto risultato della nostra
evoluzione culturale. Si tratta dunque riflettendo ad alta voce di cercare di
fare capire che cosa significa chiedersi se qualcosa è giusto o no,se una
persona è o no virtuosa, se dobbiamo o meno fare una certa cosa. Per fare
queste riflessioni ritengo che dobbiamo riprendere quanto una serie di pensatori
che hanno lavorato all’interno del paradigma sentimentalista hanno suggerito.
Certo dovremo rivedere e aggiornare le loro riflessioni ma l’approccio generale
resterà quello. Proprio in questo senso spero che il tentativo di comprendere
meglio come all’interno del paradigma sentimentalistico si sia posta la
questione del distinguere tra sentimenti più immediati e diretti ed emozioni e
sentimenti più mediati e riflessi, non venga considerato solo di interesse
antiquario. Se le nostre nozioni morali sono principalmente collegate ai
sentimenti e alle emozioni non è secondario comprendere con quali procedure
correggiamo e filtriamo questo tipo di processi mentali.
Proprio
dunque ritenendo che un’elaborazione teorica odierna non possa che presentarsi
come una ripresa e sviluppo di una delle opzioni filosofiche presentate dai
grandi classici del passato – e per quello che mi riguarda dell’etica sviluppata
da Hume – mi sembra possano essere illuminanti, per questa elaborazione, anche
le discussioni più specificamente storiografiche dell’interpretazione dei
classici del passato. Una parte della ricerca storiografica su Hume è impegnata
a fare emergere con maggiore chiarezza la peculiare proposta teorica che egli
avanza a proposito dei criteri di distinzione tra giudizi morali validi e non
validi identificando questi criteri in processi di revisione e allargamento
delle emozioni originarie. Questa ricerca storiografica può essere di aiuto a
chi ritenga che uno dei compiti principali del sentimentalismo sia quello di presentare
in modo esaustivo procedure di revisione delle emozioni e sentimenti che non
siano identificabili con attività della ragione. In questo senso mi è sembrato
pertinente introdurre una discussione anche storiografica di Hume, scusandomi
comunque per quelle cadute che posso avere avuto nella scolarship
humeana perdendo di vista gli intenti principalmente teorici di questo mio
scritto.
2.
Rispondendo poi alle acute osservazioni di Marrone vorrei spiegare
ulteriormente, in primo luogo, la mia tendenza a considerare categorialmente
inconciliabili un approccio sentimentalista e uno razionalista all’etica.
Marrone, infatti, ricostruisce il nucleo dei problemi che vorrei affrontare in
modo condivisibile sottolineando quali sono le questioni che stanno di fronte a
chi non voglia cadere in una ricostruzione irrazionalistica della vita morale
agganciandola a emozioni non rivedibili e non comunicabili. Nel procedere a
risolvere questo compito esplicativo lungo una linea adeguata ad una concezione
sentimentalistica vorrei però procedere non tanto includendo nel processo di
correzione e revisione delle emozioni di partenza l’intervento della ragione, quanto
piuttosto una revisione, correzione e ampliamento delle emozioni di partenza.
La ragione naturalmente può avere un ruolo strumentale nel senso che se ci
proponiamo di realizzare i nostri valori compiendo una certa azione o
raggiungendo un certo obiettivo può dirci che quella azione è irrealizzabile e
quell’obiettivo di fatto non esiste. Ma in etica ciò che conta non sono tanto
le questioni cognitive sul fatto se siamo giustificati a desiderare qualcosa,
ovvero le questioni che possono essere risolte verificando se questo qualcosa
esiste o è alla portata delle nostre condotte. In etica il punto importante è
se sia giusto o meno desiderare quell’obiettivo. Ed è qui che credo dobbiamo
trovare spazio per la spiegazione della correzione dei nostri desideri secondo
un approccio sentimentalistico. Provo a procedere in modo schematico per
rendere espliciti i passaggi. I nostri desideri si radicano in sentimenti ed
emozioni e non già in ragionamenti, non possono essere originati da
ragionamenti e in realtà non possono essere modificati se non trasformando le
emozioni e i sentimenti che stanno alla loro base. Così da esempio come
superare il prevalere di desideri del tutto autocentrati ed egoistici che ci
porta a preferire la distruzione del mondo ad una scalfittura su di un nostro
dito? Non c’è nessun ragionamento che permetta di farci superare questa plumbea
chiusura emotiva. Il punto di svolta sarà costituito piuttosto solo con un
ripetersi di esperienze che ci portino a correggere le chiusure delle nostre
emozioni incapaci di tenere conto della rilevanza anche delle vite altrui. (2) Non è dunque che noi cambiamo le nostre
conoscenze ma proprio che correggiamo le chiusure e asprezze dei nostri
sentimenti di partenza. Spesso questa correzione e ingentilimento è già
incorporato nelle regole accettate nella nostra società civile e che noi
riceviamo attraverso l’educazione. Laddove questo non accade – quando la società
che ci circonda è incapace di simpatizzare con altre persone o con le loro esigenze
perché fa prevalere norme desuete o regole con una base di applicazione che
comporta discriminazioni – potremo guadagnare una prospettiva morale solo
riuscendo a farci coinvolgere emotivamente da quello che le altre persone
sentono, soffrono e desiderano. E questa “ascesa” non è possibile con un
ragionamento ma con una trasformazione di ciò che sentiamo.
Per
quello che riguarda la questione della rivedibilità dei sentimenti religiosi
posta da Marrone sarei incline a ritenere che essi risultano rivedibili laddove
restano sullo sfondo e non diventano prioritari in una cultura o in un
carattere umano. Anche in questo caso non ci troviamo di fronte a un
ragionamento ma ad un processo di trasformazione emotiva. Una trasformazione
che possiamo ritenere si sia realizzata in Europa e nel mondo occidentale dal
XVI secolo in avanti ( anche attraverso esperienze di drammatiche tensioni
sociali ) e che è sperabile venga conservata contro l’attuale risorgere di
tendenze tradizionaliste che vogliono spingerci verso un ritorno a epoche in
cui le nostre vite e le nostre società erano dominate esclusivamente o
prevalentemente dai sentimenti religiosi.
3. Infine
anche Reichlin ha colto con chiarezza la mia esigenza di mantenere come inconciliabili
l’approccio sentimentalista e quello razionalista ma ritiene inadeguato il mio
tentativo di individuare una via epistemologica di revisione dei sentimenti che
non chiami in causa la ragione. Lo ringrazio dell’attenzione con cui ha letto
il mio contributo e provo ulteriormente ad elaborare l’approccio del
sentimentalismo alla questione del posto della ragione nell’etica. Spero mi si
perdonerà se ancora una volta prenderò l’avvio dalle opere di Hume. È anche
un’occasione per ribadire che nelle pagine dello Scozzese troviamo messa a
punto un’analisi più precisa della complicata nozione di ragione, secondo la
quale non dobbiamo dimenticare che in senso stretto essa fa riferimento alla
raccolta dei dati della percezione sensibile che informa sull’esistenza o meno
di cose, oggetti e corpi o a quel tipo di operazioni intellettuali che riguarda
la ricerca dei mezzi idonei a raggiungere un certo fine o infine i calcoli
aritmetici e le inferenze logiche. Se noi intendiamo così la ragione potremo
capire come essa non possa non entrare in causa quando diamo dei giudizi morali
in quanto solo la ragione ci informerà sullo stato dei fatti e sulle eventuali
connessioni tra le nostre azioni, determinate conseguenze e la loro congruenza
con i fini e gli obiettivi che abbiamo privilegiato da un punto di vista
morale. In questo contesto risulta così chiaro che i sentimenti hanno per così
dire la prima e l’ultima parola nell’orientare i nostri giudizi e la nostra
condotta. Come infatti Hume spiega nella Ricerca sui principi della morale:
“Ma per quanto la ragione, se pienamente sviluppata, sia sufficiente per
istruirci delle tendenze dannose od utili di qualità ed azioni; essa non basta
da sola a produrre qualche biasimo o qualche approvazione morali. L’utilità è
soltanto una tendenza ad un certo fine; e se il fine ci fosse del tutto
indifferente, noi proveremmo la stessa indifferenza nei riguardi dei mezzi per
conseguirlo. Qui occorre che si affermi un sentimento, affinché si dia
una preferenza alle tendenze utili rispetto a quelle dannose. Questo sentimento
non può essere che una sensibilità per la felicità degli uomini ed un risentimento
nei confronti della loro infelicità, giacche questi sono i diversi fini che la
virtù ed il vizio tendono a promuovere. Qui dunque la ragione ci insegna
a che cosa tendono le azioni e il senso di umanità opera una distinzione
in favore di quelle che sono utili e benefiche.” (3)
Possiamo poi
ripercorrere il modo più analitico in cui Hume ci indica il costituirsi del
punto di vista che permette di correggere, sul piano morale, le nostre emozioni
di partenza per arrivare a dare un giudizio sulla condotta di qualsiasi persona
in termini di una considerazione sensibile per la “felicità degli uomini “. Si
tratta di una procedura che non solo presiede alla formulazione dei giudizi
sulla condotta altrui, ma anche alla decisione e alle scelte personali. Infatti
nel caso di Hume anche le basi della responsabilità e della scelta individuale
non possono che passare attraverso il filtro della percezione dei sentimenti
specificamente morali. (4) Nel ricostruire il modo
in cui Hume – e in generale un’etica sentimentalista – rende conto delle
condizioni di scelta e decisione morale non dobbiamo prima di tutto perdere di
vista che questa prospettiva fuoriesce da quella condizione di controllo ( che
invece Reichlin da per scontata e ovvia nella sua impostazione kantiana ) che
ritiene completamente disponibile il contenuto della moralità. Ma contro questa
impostazione e analisi della condizione etica di scelta e decisione un
sentimentalista dovrà rilevare che: mentre è vero che noi possiamo fare valere
la prospettiva morale su tutta una serie di situazioni in cui siamo coinvolti
noi, o altre persone, e che non si possono sottrarre all’ambito della
responsabilità morale situazioni del genere rilevando che sono affidate o alla
natura o a dio; d’altra parte è anche vero che l’opzione morale che dovremo
privilegiare si presenta con un’urgenza e forza che non potremo che riconoscere
e appunto sentire come giusta del tutto indipendentemente dalla nostra volontà.
Quando siamo di fronte a azioni e condotte che –per intervento nostro o altrui
– sono fonte di infelicità o sofferenze umane non possiamo non provare quella
reazione di disapprovazione (che Hume chiama “resentment of their misery”) che
è costituiva della prospettiva morale. Questa clausola morale sentimentale però
spesso non si presenta alla mente immediatamente, ma va introdotta con una
precedente ricostruzione del contesto di scelta o valutazione che ci permetta
di rendere chiari ed espliciti gli elementi della situazione rispetto ai quali
finiremo con l’introdurre la decisiva componente della nostra sensibilità
morale. Hume spiega chiaramente questa procedura nella quale vede intervenire
quella “ragione capace di opporsi alle nostre passioni e che […] non è altro
che una pacata determinazione generale delle passioni, fondata su una considerazione
o sulla riflessione. Quando ci formiamo un giudizio sulle persone basandoci
solo sulla tendenza del loro carattere a essere di vantaggio per noi o per i nostri
amici, troviamo così numerose contraddizioni ai nostri sentimenti nella società
e nella conversazione, e una tale incertezza dovuta ai mutamenti incessanti
della nostra situazione, che andiamo alla ricerca di un qualche criterio di
merito o demerito che non sia soggetto a così grandi mutamenti. Una volta
abbandonata la nostra prima posizione non riusciremo a trovarne altra più
conveniente se non grazie a una simpatia con coloro che hanno dei rapporti con
la persona in questione. Questa simpatia è ben lungi dall’essere così viva come
quando in gioco è il nostro interesse o quello di certi nostri amici personali;
né essa ha la stessa influenza sul nostro amore e sul nostro odio: ma poiché è
pur sempre conforme ai nostri pacati principi generali, essa conserva
un’identica autorità sulla nostra ragione e guida il nostro giudizio e le
nostre opinioni. Noi biasimiamo tanto un’azione malvagia di cui ci parla la
storia, quanto una compiuta l’altro giorno dal nostro vicino e questo significa
che, riflettendoci su, sappiamo che la prima susciterebbe sentimenti di
disapprovazione non meno forti sella seconda se fosse posta nella stessa
posizione”. (5) Questa è la ricostruzione che Hume fa
della riflessione che porta alla genesi dei sentimenti morali, questa
riflessione può essere condotta più rapidamente e ampiamente da chi – divenuto
un buon giudice morale – può ricorrere alla esperienza precedente di una serie
di casi, ma non cambia nelle sue componenti né sulla sua incompletezza che va
integrata aggiungendovi la clausola necessaria del sentimento morale ( un
sentimento che non ci permetterà di tracciare diversità tra gli esseri umani in
base alla loro cultura e competenza ). La riflessione che presiede alla genesi
del giudizio morale secondo il sentimentalismo humeano non è discriminante nei
confronti di nessuna persona sensibile e dunque non esclude schiavi e donne e
in definitiva nemmeno gli animali: quadro che segna una radicale lontananza dal
paradigma aristocratico e specistico di Aristotele come di tutti i razionalisti
etici. Per quanto riguarda poi la clausola sentimentale finale che permette di
decidere o valutare in senso specificamente morale, non è in alcun modo
riconducibile ad una forma di ragion pratica o prudenza perché essa dovrà
essere riattualizzata in ciascuna occasione moralmente rilevante, con la
vivacità e forza proprie di un sentimento di rifiuto per le sofferenze altrui e
di accettazione dell’altrui felicità che non possono essere surrogate da
nessuna abitudine o operazione intellettuale.
(1) Faccio
riferimento alle idee sviluppate da Bernard Williams tra l’altro in Philosophy
as a Humanistic Discipline, “Philosophy”, LXXV, 2000, pp.477 –496.
(2) Ancora
una volta un’analisi utile in questa luce sentimentalistica è stata fatta da
B.Williams, Egoismo e altruismo, in Problemi dell’io, Il
Saggiatore, Milano, 1990, pp.302-322. Ma un’analisi più sistematica e
sperimentale della insuperabilità di un’acquisizione dei sentimenti giusti per
entrare nel campo della moralità viene svolta da S. Nichols, Sentimental
Rules. On the Natural Foundations
of Moral Judgment,
(3) D.Hume, Ricerca
sui principi della morale, Laterza, Roma –Bari, 1997, p.191.
(4) Il quadro sentimentalistico della responsabilità
anche secondo l’ottica della decisione personale viene ricostruito da Paul
Russell, Freedom and Moral Sentiment. Hume’s Way of Naturalizing
Responsibility, Oxford University Press, Oxford, 1995 che tiene conto
dell’elaborazione contemporanea fatta da P.F.Strawson e B.Williams.
(5) D. Hume, Trattato sulla natura umana,
Laterza, Roma-Bari, 1987, p.617.