http://www.units.it/etica/2005_2/CREMASCHI.htm
Dipartimento di
Studi Umanistici
Università del
Piemonte orientale
1. Saggezza
o filosofia pratica
La tesi
di Berti è che nelle recenti rivalutazioni anglosassoni della filosofia pratica
si sia ecceduto nel ridurre la filosofia pratica di Aristotele a saggezza e che
invece vada rivalutata anche la filosofia pratica come giustificazione
razionale delle ragioni per agire che la saggezza propone in modo quasi
irriflesso. Sosterrò che:
a)
Berti ha assolutamente ragione;
b)
questa riduzione della dimensione razionale in Aristotele
c’è però nello stesso Gadamer;
c)
la riabilitazione della filosofia pratica degli
ultimi 30 anni è solo parte di una più generale svolta verso l’etica normativa
di cui alcuni momenti importanti hanno avuto luogo nell’ambito della filosofia
anglossassone;
d)
questa svolta ha visto al centro (almeno negli
ultimi due decenni) la rivalutazione di forme di etica kantiana in senso lato;
e)
nell’ultimo decennio diverse autrici hanno contribuito
in modo significativo a demolire l’immagine di Kant che era di MacIntyre,
Williams, Gadamer e che è quella di Berti; queste autrici hanno mostrato in
modo convincente la vicinanza di molte tesi di Kant a quelle di Aristotele;
f)
infatti l’etica di Kant è stata misteriosamente
letta in modo deformato per duecento anni, in primo luogo per avere ignorato
del tutto le opere degli anni 90;
g)
inoltre le sue tesi sono state deformate e quindi contrapposte
a quelle aristoteliche da una lettura ingenuamente letterale dei testi per cui
si assume come ovvio che Klugheit sia univocamente la “traduzione” di phronesis
ecc.
2. Preambolo
sulla metafisica dei costumi e l’uomo comune
Nella sua
famosa riscoperta della filosofia pratica, Gadamer identificava la filosofia
pratica con la filosofia aristotelica, scartando l’etica kantiana con
l’argomento che questa aveva l’assurda pretesa di fare prima di ogni uomo un
filosofo e poi di insegnargli la moralità. (1) Ora, questo argomento è errato, né più
né meno di gran parte degli argomenti dei filosofi, per un motivo banale che è
quello di partire da una premessa attualmente erronea.
Per Kant
una metafisica dei costumi è invece
qualcosa che “ogni uomo porta in sé, quantunque generalmente in modo un po'
confuso”, (2) e
il
moralista non deve fare nulla più che indagare nel fondo dell'intelletto umano
per tramutare le rappresentazioni oscure in rappresentazioni chiare, come
Socrate diceva di essere la levatrice dei suoi ascoltatori, cioè che cercava di
mettere in chiaro con il suo insegnamento i principi che erano presenti
nell'oscurità. L’esplicitazione delle rappresentazioni oscure in tutti i nostri
giudizi è propriamente la filosofia analitica.
Nella fisica possiamo acquisire solo la conoscenza
di cose di cui non abbiamo rappresentazioni oscure, ma soltanto
rappresentazioni chiare, nella morale invece non è così perché dobbiamo trarre
tutto dal nostro cuore; ad esempio, se si pone la domanda se si può mentire e
se siano lecite le menzogne per necessità? Si dice che non si può mai mentire,
poiché ogni uomo non appena mente perde il suo onore; è difficile trovare il
fondamento di questo giudizio, perché il più grande vantaggio personale non
debba spingermi a mentire. Esplicitare questi principi oscuri è il compito del
filosofo (3).
3. Riabilitazione
della filosofia pratica o svolta verso l’etica normativa?
Gadamer
non fu l’iniziatore nel 1960 della riabilitazione della filosofia pratica.
L’inizio della svolta verso l’etica normativa fu nel 1956 un opuscolo di
Elisabeth Anscombe, Mr.Truman’s Degree, che contesta una laurea honoris
causa all’ex presidente degli Stati Uniti in nome della sua colpa di avere
fatto uso della bomba atomica contro obiettivi civili, ciò che era da considerare
inammissibile sulla base delle dottrine tradizionali dello ius in bello.
(4) In realtà si ebbero curiosamente in area
anglosassone e germanofona due processi paralleli di riscoperta dell’etica normativa,
processi che, a fine anni 50, o intorno al 1958 – anno che vide la comparsa di
notevoli contributi di Kurt Baier, Philippa Foot, Elisabeth Anscombe, Clarence
Lewis – portarono alla formulazione di importanti argomentazioni contro
l’immoralismo heideggeriano, contro l’egoismo etico sidgwickiano e in subordine
contro il non cognitivismo e contro l’indeterminazione dei doveri prima facie,
argomentazioni che fecero massa critica giungendo a spingere nella direzione
della ripresa del compito di formulare tesi di etica normativa, tesi che nella
prima metà del Novecento nessuno voleva formulare. (5)
Le
ragioni di questa svolta sono da indagare ancora. Ma, come notò bene Alan
Donagan, (6) vi fu un reciproco rafforzarsi di ragioni
teoriche, di mutato clima di idee, di impellenti ragioni pratiche derivanti da
eventi che stavano rompendo l’isolamento delle torri d’avorio accademiche.
Nel 1956
un opuscolo di Elisabeth Anscombe che contestava il conferimento di
un’onorificenza accademica ad Harry Truman, il presidente degli Stati Uniti che
aveva usato la bomba atomica richiamandosi alla dottrina scolastica dello ius
in bello. Negli anni seguenti, in concomitanza con la guerra del Vietnam,
il movimento per i diritti civili degli afroamericani, la crescente consapevolezza
del sottosviluppo dei paesi del Terzo Mondo, innovazioni nella pratica della
medicina, i filosofi iniziarono ad occuparsi di problemi della vita reale
simili a quello ricordato.
Accanto a
questi mutamenti nel mondo reale vi furono anche sviluppi nella discussione
teorica. Si è detto come, intorno al 1958, sia nel mondo anglosassone sia in
quello di lingua tedesca si sia avviata una svolta verso l’etica normativa dopo
la lunga parentesi aperta dalle formulazioni nel 1874 da parte di Sidgwick e
nel 1886 da parte di Nietzsche di tesi che implicavano – per ragioni diverse –
la sua impraticabilità. Questa parentesi, che aveva visto nel mondo
anglosassone il prevalere della metaetica, cioè di una filosofia della
morale, e nel mondo continentale dell’esistenzialismo, cioè di una filosofia
della decisione, si accompagnava a un’accettazione ancora in misura
notevole acritica della credenza dell’esistenza di un sistema di valori comune,
tale da non rendere urgente la discussione filosofica di dissensi morali e
conflitti morali.
Il
persistere di tale convinzione dell’esistenza di un patrimonio di credenze
morali condivise per quanto riguarda la pubblica opinione può trovare
spiegazioni storiche e sociologiche, per quanto riguarda il mondo accademico va
spiegata con una sorta di rimozione della controversia fra John Stuart Mill e
William Whewell, (7) controversia da cui era nata la posizione
“di compromesso” di Sidgwick per la quale la morale “di senso comune” era bensì
un terreno instabile, sul quale potevano basarsi solo doveri prima facie,
ma d’altra parte era meglio non impantanarsi in questo terreno tentando
fondazioni ed era preferibile cercare piuttosto di scivolarci sopra accettando
la morale di senso comune resa un po’ più coerente per non affondare nei
dilemmi morali fuori dei quali l’etica filosofica non avrebbe saputo sollevare
nessuno. Nell’Europa continentale la finzione dell’esistenza di un patrimonio
di valori condivisi si accompagnava a un’olimpica noncuranza per l’etica come disciplina
da parte dei filosofi accademici, e anche chi, come Max Scheler e Nicolai
Hartmann, difendeva la possibilità di un’etica normativa, la immunizzava poi,
attraverso la tesi di una sua funzione soltanto “protrettica”, dal rischio di
dover discutere concreti dilemmi morali che si preferiva lasciare alla
coscienza individuale. (8)
Dagli
anni Sessanta i filosofi anglosassoni
ebbero finalmente occasioni per mettere a frutto le competenze accumulate nei
decenni di discussione su temi di metaetica; a sua volta, la richiesta di
risposte su problemi della vita reale enfatizzò il peso delle etiche normative,
in un primo momento soprattutto di quelle di stampo utilitaristico e poi, negli
anni Settanta e Ottanta, delle etiche kantiane, delle etiche delle virtù e di
soluzioni teoriche come l’approccio dei principi o la nuova casistica che
trovavano una via per aggirare i contrasti fra le diverse etiche normative.
4. I pontieri anglosassoni fra aristotelismo ed etica
kantiana
A fine anni Settanta, dopo la fase del graduale avvicinamento
fra il 1958 e il 1977, condotta da Baier, Nagel, Rawls, Gewirth, iniziò negli
anni Ottanta una fase di riproposizione di nuove forme di etica esplicitamente
kantiana ad opera di Alan Donagan, Onora O’Neill e altri fra cui Christine
Koorsgard. (9) Negli anni Novanta, Rosalind Hursthouse,
Marcia Baron, Nancy Sherman, Barbara Herman e Allen Wood hanno proposte riletture
di Kant che lo avvicinano ad Aristotele. (10) Le tesi di questi autori, esposte sia in opere di
ricostruzione sistematica dell’etica kantiana sia in contributi teorici che
vogliono riproporre un’etica ‘kantiana’ non sono storiograficamente delle novità
assolute e non sconvolgerebbero nessuno fra gli specialisti di Kant europei; la
relativa novità della loro riproposizione risulta dal fatto che nella cultura
filosofia anglosassone fino agli anni Ottanta le acquisizioni della
storiografia filosofica su Kant erano molto meno note che in Europa, dal fatto
che nella stesa Europa queste acquisizioni erano rimaste confinate fra gli storici
della filosofia e non avevano avuto alcuna eco fra i filosofi morali (categoria
a sua volta molto più ristretta che nel mondo anglosassone), dal fatto che
nelle riletture di questi autori queste tesi venivano riproposte nel loro
insieme facendo così massa critica. In breve: a) l’etica kantiana non è
formalista; b) non è indifferente di fronte alle conseguenze; c) non è priva di
una risposta alle difficoltà sollevate dai dilemmi morali, risposta che affida
al giudizio; d) non esclude le virtù e il carattere; e) dà uno spazio
alle emozioni; e) non esclude la “felicità” seppure trattandola sussulta sotto
la categoria del Sommo Bene. Per dare un esempio
di questa linea interpretativa si può citare Allen Wood su MacIntyre e la
virtù:
McIntyre scrive: “Agire virtuosamente non è, come vuole
Kant, agire contro l’inclinazione; è agire secondo l’inclinazione formata
coltivando le virtù” (After Virtue, p. 149). Questa affermazione
descrive falsamente la virtù e fa una caricatura della concezione che Kant ne
ha. La virtù per Kant è la forza del nostro impegno a un fine razionale. Agire
virtuosamente è agire sulla base di un desiderio (razionale) di quei fini… è
agire contro le inclinazioni soltanto nella misura in cui la virtù è misurata
in base al suo potere di resistere a quelle specifiche inclinazioni (i desideri
empirici) che ci tentano a non perseguire il fine razionale. In quanto
Aristotele ritiene che le virtù siano disposizioni alla scelta razionale, non è
chiaro che sarebbe d’accordo con MacIntyre sull’idea che l’azione virtuosa è
azione dettata dall’inclinazione (cioè da un desiderio empirico e non da un
desiderio razionale).
Nota: la virtù per Aristotele è uno stato (hexis)
che ha a che fare con la scelta o decisione razionale (prohairesis)…
Quindi non è chiaro che fosse d’accordo con MacIntyre nel considerare l’azione
virtuosa come prodotta dall’inclinazione (desiderio empirico). (11)
5. La prudenza in Kant
Dato che
l’esegesi delle affermazioni delle filosofe delle due Cambridge non è la mia
specialità, mi limiterò a riprenderne la tesi centrale e illustrarne la
fecondità con mezzi propri, facendo l’esegesi – se proprio si deve – dei classici.
La tesi centrale è che contrapporre Kant ad Aristotele è un gioco perdente. La
sfumatura che vorrei aggiungere è che ciò che porta fuori strada è la
tentazione di confrontare il peso che i due classici danno a nozioni come la
prudenza, la felicità, il dovere, ecc. posto che queste nozioni sono parole
della lingua inglese o italiana che traducono bene o male il lessico
intellettuale delle maggiori lingue occidentali odierne laddove i due classici
pensavano rispettivamente in greco antico e in un tedesco infarcito di latino
tardo-medievale e umanistico.
Per
spiegare che intendo farò un paragone con l’esegesi biblica. I padri della
chiesa a partire dall’eretico Marcione nel ii
secolo e continuando con i presunti ortodossi Giovanni Crisostomo, Ambrogio,
Agostino hanno affermato ciò che dice tuttora qualche rozzo parroco di
campagna, cioè che il cristianesimo ha insegnato una morale più elevata
dell’ebraismo perché quest’ultimo insegnava la giustizia e il primo l’amore. Ma
in ebraico giustizia si dice (“si dice” per modo di dire: siamo noi che
traduciamo malamente l’ebraico) zedaqà. Sia per i profeti sia per il Pentateuco – per
scansare in anticipo ogni tentativo di contrapporre i profeti al Pentateuco,
presunta espressione di legalismo giudaico – la misericordia (hesed) è
parte della giustizia (zedaqà) accanto al diritto (mišpat).
La seguente invocazione compare nel Pentateuco: «Il Signore, il Signore, Dio di
pietà e misericordia, lento all'ira e ricco di grazia e verità, che conserva
grazia per mille generazioni» (Šemot / Esodo
14, 6-7). Che avvenne con la zedaqà?
Tradotta in greco con dikayosune divenne un concetto altro da quello di agape
o di philia, e da qui prese l’avvio l’esegesi condotta sulle traduzioni
greche della Bibbia dei padri della Chiesa. Che anche in bocca a Rabbi
Yehosūa di Nazareth comparissero inviti a praticare giustizia e
misericordia (Matteo 5, 17-18; Luca 16, 17; 11, 42) non
sembrava importare a nessuno.
Che
lezione si può trarre dalla storia dell’esegesi biblica per l’esegesi di
Aristotele e Kant?
Non solo
che non ci si può illudere di fare teoria filosofica (e non solo storia della
filosofia) facendo giocare a ping pong fra loro i grandi del pensiero del passato.
Questo è ormai un punto acquisito in Italia a partire dai tempi della crisi del
neoidealismo e questa acquisizione spiega il buon livello in seguito raggiunto
dalla storiografia filosofica italiana. Non solo che vanno controllate le
traduzioni sugli originali tedesco e greco, cosa che da noi è acquisita più che
altrove. Ne deriva soprattutto e purtroppo che vanno tradotti (per quanto è
possibile) i termini da un lessico a un altro, laddove un lessico intellettuale
muta con il mutare delle epoche anche se la lingua rimane la stessa, o muta, o
si conserva, attraverso una famiglia di lingue. Venendo al caso specifico: ai
tempi di Kant il lessico della filosofia era un lessico espresso in un certo
latino (il latino medievale e umanistico) e in francese, tedesco, inglese,
italiano. Klugheit non era termine usato da Kant per tradurre il termine
greco phronesis, ma per tradurre il latino prudentia, termine che
aveva subito una storia complessa, e che in età rinascimentale aveva conosciuto
una suddivisione interna fra diversi generi di prudenze (ricordata nella
menzione kantiana della prudenza superiore e inferiore e della prudenza mondana
e privata) e una mutazione di contesto dovuta al probabilismo della casistica e
al realismo politico di un filone umanistico. Non a caso negli autori francesi
compare il nuovo termine sagesse, che designa qualcosa di vicino alla phronesis,
seppure non quella aristotelica ma quella ellenistica, e che è un gemello
illegittimo della “prudenza”.
Tenendo
presente questa storia dei termini, dire che Kant rifiuta un vero peso morale
alla “prudenza” perché lo rifiuta alla Klugheit, cosa che espressamente
fa nella Fondazione dove afferma che la “prudenza” serve solamente la
“felicità”, non la “moralità”, (12) è
come dire che un anticlericale rifiuta le sublimi verità del vangelo perché ha
sentito un politicante clericale deplorare le madri nubili, le coppie di fatto,
il meticciato e si è tappato le orecchie. Io suggerirei invece che Kant traduce
con Klugheit la “prudenza inferiore” e traduce la nozione aristotelica
di phronesis con “ragione pura nel suo uso pratico”; inoltre che
riconosce un ruolo centrale nella vita morale al “giudizio”, che corrisponde
abbastanza da vicino alla sunesis aristotelica; e che quindi nella
sostanza, l’etica normativa kantiana batte una pista vicina a quella
aristotelica. (13) Aggiungerò poi che Kant dà un peso
centrale al fine concreto, alle emozioni morali, al carattere, e collega
l’etica alla felicità.
6. L’imperativo
categorico e il fine sommo bene
Un punto decisivo da chiarire è l’inconsistenza del mito
del formalismo dell’etica kantiana. Il mio argomento principale è che per quasi
due secoli – a partire da Hegel – si è letta come se fosse l’etica kantiana in
quanto tale quella che per Kant era la parte propedeutica alla sua etica.
L’etica kantiana invece sta nella Metafisica dei costumi e – letto ciò
che in quest’opera dice sulla casistica, il giudizio e la virtù – si capisce
che buona parte di ciò che veramente conta dell’etica kantiana vada poi cercato
nell’Antropologia in chiave pragmatica.
Va ricordato che Kant distingue una “geometria della morale”
dalla “morale concreta”, sostenendo che questa geometria ha la stessa funzione
che ha la geometria nei confronti dell’ingegneria. Kant sostiene che la natura
consiste nella connessione di fenomeni in base a regole, e in essa tutto
sia nel
mondo inanimato che nel mondo animato, avviene secondo regole, sebbene non sempre
conosciamo queste regole. L'acqua cade secondo leggi di gravità […] la grammatica
generale è la forma di una lingua in generale. Tuttavia, si parla anche senza
conoscere la grammatica; e chi parla senza conoscerla possiede in effetti la
grammatica. (14)
Kant usa la metafora del “regno”, per rendere l'idea di
come il mondo morale sia analogo al mondo della natura e di come in esso ogni
agente sia sovrano e insieme sottoposto a leggi. Di questa metafora l'elemento
che conta è l'idea di legge: infatti il regno dei fini è una “unione sistematica
di diversi esseri ragionevoli mediante leggi comuni”. (15) La situazione dell'agente è analoga a quella del parlante che
“possiede” la grammatica senza esserne cosciente. È in questo senso che ognuno
possiede, seppure confusamente, una metafisica dei costumi. La natura di questo
sistema di regole è in un certo senso quella di una “idea” nel senso platonico
del termine. (16)
Ne risulta che contrapporre Aristotele a Kant come
fautori l’uno del sommo bene e l’altro dell’imperativo categorico è fuorviante
in quanto l’imperativo categorico per Kant fa parte della “geometria della
morale”, serve da criterio per scartare possibili candidati imperativi ma non
svolge il ruolo di tassello di un’etica normativa. Questa invece è un’etica
della ricerca del sommo bene (unione di virtù e felicità nel mondo, non in sé
stessi) come progetto di vita complessivo e poi del giudizio sul caso concreto
– come si vedrà – e delle virtù come “massime” dell’azione riferite non a
un’azione singola ma alla conduzione di una vita nel suo insieme o – come pure
si vedrà – del “carattere” (diverso dal “temperamento”).
7. Le
emozioni morali
Nonostante
la ben nota polemica di Kant contro le morali sentimentaliste, esempio di
morale eteronoma, non è una novità che Kant riconosca uno spazio ai sentimenti
morali. Il problema è se questo spazio sia marginale, come avviene se si legge
la sola Critica della ragion pratica e magari si resta con l’impressione
che lo spazio non ci sia per nulla e che i sentimenti morali siano un residuo
della fase degli anni Settanta rimasto in un’opera come la Fondazione,
in qualche modo dichiarata superata nella Critica della ragion pratica,
o invece se questo spazio sia centrale come avviene se si legge anche l’Antropologia,
opera degli anni Novanta, sulla cui autenticità kantiana non dovrebbero esservi
dubbi. Il primo sentimento morale è il “sentimento del rispetto per la legge
morale» che è «un sentimento prodotto da un
principio intellettuale; si tratta del solo sentimento che noi conosciamo
interamente a priori e di cui possiamo scorgere la necessità”. (17) Questo sentimento non può riguardare cose del mondo naturale
che originano propensione o paura o, nel caso degli animali, amore, o infine
nel caso di alcuni fenomeni come le montagne, i corpi celesti, il mare, i
vulcani, destano il sentimento del “sublime
naturale” ma soltanto la legge morale
e le persone che la incarnano dato che è un sentimento di dolore causato dal
danno arrecato dalla maestà della legge morale al principio della felicità
individuale. Questo è, a rigore, l'unico sentimento morale. Vi è però un
secondo esempio di condizione dell'animo che può essere scambiata – come ha
fatto il “virtuoso Epicuro” – con un sentimento particolare mentre si tratta in
realtà di una condizione negativa, quella del piacere morale che è piacere razionale perché “è preceduto dalla legge”,
laddove un piacere che “precede l'adempimento di una legge affinché si agisca
in conformità ad essa è patologico”. (18)
Kant
aveva imparato dagli scettici e dai giansenisti che la trasparenza della
coscienza è un'illusione, che i dati dell'introspezione sono anch'essi
apparenze, non “naturali”, ma costruite dall'io; dietro alla motivazione delle
azioni conformi al dovere scopriamo l'amore di sé dissimulato o “ci si
imbatte ovunque nel caro io che rispunta di continuo”. (19) Infatti “le profondità
del cuore umano sono imperscrutabili. Chi si conosce abbastanza per dire,
quando si sente spinto a compiere il proprio dovere, se è unicamente la rappresentazione
della legge a determinarlo, o se non agiscono pure altri impulsi sensibili
tendenti a qualche vantaggio”; (20)
data l’opacità della coscienza, noi possiamo solo darci massime per
agire, ma non possiamo giudicare l'azione compiuta. La virtù non deve
combattere contro le inclinazioni come credevano gli stoici, ma contro un
nemico invisibile, la perversità del cuore umano, ovvero l’amore di sé
dei giansenisti dissimulato dietro alle giustificazioni fornite dalle dottrine
morali erronee.
8. L’etica
e la felicità
La
“felicità” o Gluckseligkeit di Kant – per le considerazioni svolte prima
– non va fatta corrispondere a eudaimonia ma a bonheur. La eudaimonia
di Aristotele corrisponde invece, senza che Kant lo sappia, al sommo bene di
Kant. L’etica di Kant non sostituisce la legge al bene sostantivo, come
vorrebbe la tradizionale accusa di formalismo, perché, nella stessa Fondazione,
dove il presunto formalismo è affermato più che in altre opere, afferma che la
cosa buona è la volontà buona, “condizione indispensabile perché si sia degni di essere felici”. (21) Inoltre già nella Critica della ragion
pratica si aggiunge che il bene da realizzare (anche se irrealizzabile in
questa vita) è l’unione di volontà buona e felicità. (22) La differenza da Aristotele è la prospettiva impersonale
oppure universalistica per cui l’etica non è, alla fine, cura di sé o ricerca
della (propria) felicità ma cura degli altri e perfezionamento proprio con in
vista un fine positivo quale la realizzazione di un’umanità razionalmente
autonoma e un suo completamento che è la coincidenza di virtù e felicità. (23) La differenza da Aristotele invece non
sta in una presunta mancanza del bene sostantivo o in una irrilevanza della
felicità.
9. Il
carattere
La dottrina kantiana del “carattere” si basa su una
nozione che, riprendendo l'idea aristotelica di ethos, era stata messa
in auge da La Bruyère e poi fatta propria dai platonici di Cambridge come
alternativa alla legge o al precetto. Nella “didattica etica” è una nozione
centrale. Possiamo distinguere fra tre livelli: carattere naturale o
disposizione della natura, temperamento o tipo di sensibilità, carattere vero e
proprio o “modo di pensare”; quest'ultimo è “ciò che l’uomo fa di se stesso” (24) e ha un valore intrinseco che lo pone al
di sopra di ogni prezzo. “Avere carattere” significa legarsi da sé a principi
prescritti dalla nostra stessa ragione; anche se tali principi possono essere
difettosi, tuttavia una volontà che vuole agire secondo principi saldi ha in sé
qualcosa di “ammirevole”. La “formazione del carattere”, diversamente
dall’acquisizione delle virtù etiche secondo Aristotele, non è frutto
dell’esercizio, ma si presenta come una “una nuova nascita”, “una specie di
giuramento che l’uomo fa a se stesso” perché “questo vigore e questa fermezza
nei principi non possono essere prodotti a poco a poco dall’educazione, dagli
esempi e dall’insegnamento, ma richiedono una specie di esplosione che deriva
improvvisamente dal disgusto per la fluttuazione degli istinti”. (25) La virtù nel suo carattere empirico è virtù dal punto di
vista della legalità, è cambiamento di costumi, non di cuore ma, in
quanto mera disposizione o abitudine, ha qualcosa di meccanico e non sa
produrre alcuna azione fatta per dovere e quindi autenticamente morale; infatti
l’abitudine non sempre è una libera abitudine, quando nasce dalla ripetizione
frequente dell’azione che la trasforma in necessità, non è più un’abitudine
morale; in quanto “decisione ferma e abituale di compiere il proprio dovere” (26) è invece virtù autentica.
Contro
Aristotele – come Kant lo comprende – la virtù vera non è giusto mezzo perché
la differenza fra virtù e vizio non sta “nel grado in cui si praticano certe
massime ma solo nella qualità specifica di esse”. (27) Non vi è pluralità di virtù, ma solo di materia cui la virtù
si applica, ovvero di fini delle nostre azioni; quindi vi è una pluralità di
doveri di virtù. La virtù non ha lo scopo di produrre un’armonia o un
equilibrio nella natura umana, moderando le passioni e armonizzandole, perché
queste non sono – contrariamente a quanto affermavano gli stoici – un nemico da
combattere, ma un fattore naturale, mentre il vero nemico è l’amore di sé
dissimulato.
La
virtù non è entusiasmo, “esagitato moto d’animo”, ma è “la forza morale
nel compimento del proprio dovere” (28) e
non è un dovere possederla, ma costituisce per l’essere umano il vero titolo di
gloria, è la “vera saggezza” perché verte sullo scopo finale della vita,
cioè la “volontà buona”, a sua volta
condizione perché si sia degni di essere felici, e solo chi possiede la
virtù è “libero, sano, ricco, un re” perché “possiede se stesso” (29), dato che non è costrizione ma “vincolo a un principio di
libertà interiore” che genera lo “stato d’animo lieto” (30) il “cuore sempre sereno” (31)
di cui si è detto e la cui necessità non era stata colta dagli stoici ma era
stata ben compresa dal “virtuoso Epicuro”.
La
subdisciplina che dà la sua ragion d'essere all'antropologia morale è la “dottrina del metodo”, cioè l'illustrazione
della “via” (methodos) verso la virtù. (32) Siccome lo scopo dell'etica è portare ognuno a
essere giudice per se stesso, l'etica “applicata” kantiana non è una casistica
ma una pedagogia. Non si deve risolvere il problema della determinazione esatta
dei casi ipotetici in cui, ad esempio, la menzogna per necessità sarà
compatibile con la legge morale, ma invece indicare il modo in cui può essere
agevolata la crescita morale, la quale consiste nella trasformazione del
modo di pensare: divenire virtuosi non può esser prodotto dal miglioramento dei
costumi, fin tanto che rimane impura la base delle massime, ma soltanto da una
“rivoluzione” nell’intenzione, la quale a sua volta non produce uno stato ma avvia
un processo, perché la forza morale «non deve mai divenire abitudine, ma deve
sempre di nuovo e originariamente scaturire dal modo di pensare». (33)
Il primo
comandamento dei doveri verso se stessi è “Conosci (scruta, studia,
approfondisci) te stesso”, (34)
cioè scruta il tuo cuore per comprendere se la sorgente delle azioni è “pura o
impura”; la saggezza richiede che l'uomo cominci a sbarazzarsi di ogni ostacolo
interno creato dalla perversione del cuore perché solo “la discesa all'Averno
della conoscenza di noi stessi apre la via che innalza all'apoteosi”. (35) L’educazione morale deve ritrovare “le
innate disposizioni di una buona volontà che non possono mai andare interamente
perdute”, (36) ovvero dare forza di movente all'idea
della legge morale portandola a rappresentazione chiara; è per questo motivo
che la metafisica dei costumi deve limitarsi a essere una geometria della
morale, perché le “dottrine della virtù” perdono efficacia come fonti di motivazione
se mescolano all'elemento razionale qualche ingrediente empirico, e perciò
nella loro esposizione non bisogna ammettere eccezioni alla “purezza” dei
principi morali. Se la “moralizzazione” consiste nella scoperta di questa “geometria”
del mondo della libertà, dopo un lungo processo di apprendimento che è passato
attraverso l’”esperienza” e la “conoscenza del mondo” mossa da un interesse
pragmatico, sarebbe fuorviante mescolare elementi empirici alla geometria nel
momento stesso in cui si giunge alla sua scoperta.
10. Etica
applicata, saggezza, filosofia pratica
Che la
saggezza serva e basti nella vita mi sembra assai discutibile. Mi sembra anzi
questa una boutade molto rousseauiana da settecenteschi, conservata e
peggiorata (sostituendo alla saggezza la decisione o l’autenticità) dagli esistenzialisti
novecenteschi di tutte le denominazioni che pure si credevano nemici dei
settecenteschi. Da questa sensibilità deriva l’avversione novecentesca per le
teorie morali, avversione che ha svolto una funzione positiva in qualche caso,
quando ancora vi erano ritardi secolari da recuperare (come nel caso della
revisione della morale teologica della Chiesa Cattolica all’epoca del Vaticano ii), ha avuto una funzione
prevalentemente negativa, la funzione di liberare, emancipare e disinibire da
inibizioni che sarebbe meglio conservassimo, come la storia di Elisabeth
Anscombe e il presidente Truman può bene illustrare.
Le etiche
normative sembrano a prima vista del tutto inutili, e forse lo sono in gran
parte dei casi, quando l’unica cosa che fa difetto è l’indignazione e tutto il
resto è ben chiaro. In realtà servono, e non solo per chi nutre una curiosità disinteressata
per le questioni dell’etica, come quella che portiamo per questioni di “linee,
cerchi, e corpi”, ma anche (per quanto sembri controintuitivo a noi eredi del
romanticismo che inconsciamente pensiamo che l’ideale di uomo buono sia papà
Geppetto) per risolvere tutti i casi di perplessità morale che, come sapeva
bene Ross, occupano una buona fetta, e non solo i margini, della nostra
esistenza.
Ad
esempio, il campo da qualche decennio più frequentato dell’etica applicata, la
bioetica, fa eccezione al primato della saggezza? In bioetica occorrono invece
argomentazioni teoriche, e non pratiche, astratte? O all’estremo opposto in
bioetica dobbiamo argomentare a partire da un pluralismo di credenze, per non
dire di sentimenti, che non è lecito criticare dal punto di vista della verità
delle asserzioni implicate?
Io direi
che in bioetica ci troviamo di fronte a situazioni controintuitive nelle quali
abbiamo condivisioni di principi generali, ad esempio fra religiosi e non
religiosi, i quali entrambi credono nel rispetto degli esseri umani. Questi principi
non bastano però a risolvere i casi concreti, e a limiti delle nostre
conoscenze che sono limiti sia di principio che varrebbero per ogni uditorio
possibile, sia limiti dettati dalla situazione argomentativi in cui ci troviamo
di fatto a dovere giungere a deliberare trovando l’accordo fra interlocutori
che non condividono tutte le credenze. Ad esempio, non sapremo forse mai se un
embrione prima del 14º giorno è una “persona umana” e probabilmente non è cosa
da sapere ma da statuire perché “persona” è un termine funzionale
e normativo, non descrittivo, ma la statuizione a sua volta non è
autolegittimantesi, non può essere giustificata in base al prevalere di
un’opinione. Inoltre, anche quando giungiamo a formulare buoni argomenti su un
punto fattuale (è vero che la stria primitiva compare dopo il 14º giorno ed è vero che le argomentazioni etiche
di secoli fa si svolgevano senza tenere conto di questo dato) dobbiamo regolare
la convivenza fra individui che hanno opinioni diverse, in parte perché alcune
opinioni vertono su questioni di valore, in parte perché alcune opinioni
vertono su questioni non decidibili dalle scienze positive – ma ciò non implica
che allora alcune opinioni su questi ambiti siano suffragate dalla scienza e
quelle opposte no – e in parte perché alcuni hanno opinioni errate.
In
bioetica l’approccio dei principi e quello dei casi, per non parlare di altri
approcci, sono approcci sommamente “prudenziali”, e proprio qui forse si
avrebbe ragione di concedere qualcosa di più ad Aristotele che a Kant, se non
fosse che anche per Kant i casi vanno risolti da un’arte della casistica, arte
di cui non esistono manuali e che può essere appresa soltanto con l’esercizio.
(1) H.-G. Gadamer, Über die Möglichkeit einer philosophischen
Ethik (1963), in Gesammelte Werke (Tübingen: Mohr, 1985-1995, vol. iv); trad. it. Sulla possibilità di un'etica
filosofica, in Ermeneutica e metodica universale (Torino: Marietti,
1973, pp. 145-146).
(2) I. Kant, Metaphysik
der Sitten (1797), in Kant's gesammelte Schriften, a cura della
Berlin-Brandenburgischen Akademie der Wissenschaften (Berlin: Meiner, e in
seguito de Gruyter, 1902- , vol. vi, pp.
203-493, p. 217); trad. it. La
metafisica dei costumi, a cura
di G. Vidari, N. Merker (Roma-Bari: Laterza, 19984, p. 18).
(3) I. Kant, Vorlesungen über Anthropologie, in Kant's gesammelte Schriften, cit., vol. xxv, a cura di R. Brandt- W. Stark, pp. 867-874, p.
871; una trad. it. parziale sotto il titolo Filosofia morale e rappresentazioni
oscure è in Immanuel Kant, Scritti
di etica, a cura di P. Giordanetti (Firenze: La Nuova Italia, 2004), pp.
11-15; il brano citato è alle pp. 14-15.
(4) E. Anscombe, Mr.Truman’s Degree (1956), in Philosophical
Papers i: Ethics, Religion and
Politics (Oxford: Blackwell, 1981), pp. 62-71.
(5) Vedi S. Cremaschi, L’etica del
Novecento. Dopo Nietzsche (Roma:
Carocci, 2005), capp. 4 e 9; Id. L’etica analitica dalla legge
di Hume al principio di Kant, in A. Campodonico (a cura di), La ripresa
dell’etica normativa nella filosofia anglosassone (Genova: Il Melangolo
2005), pp. 9-46; Id., La rinascita dell’etica della virtù, in F. Botturi,
F. Totaro, C. Vigna (a cura di), La persona e i nomi dell’essere. Scritti in
onore di Virgilio Melchiorre, Milano: Vita e Pensiero, 2002, pp. 565-584.
(6) A. Donagan, “History of
Western Ethics: 12”, in Becker, L.C. (a cura di), Encyclopedia of Ethics,
2 voll.,
(7) Sulla controversia vedi
S. Cremaschi, The Mill-Whewell
Controversy on Ethics and its Bequest to Analytic Philosophy, in E.
Baccarini (a cura di), Proceedings of Rijeka Conference: Rationality in Belief and Action,
Rijeka: Hrvatsko drustvo za analiticku filozofiju – Filozofski fakultet Rijeka,
2005.
(8) Vedi S. Cremaschi, L’etica del
Novecento, cit., cap. 5.
(9) Vedi A. Donagan, The Theory of Morality, Chicago: University of Chicago Press, 1977;
O. O’Neill,
Acting on Principle, New York: Columbia University Press,
1975; Id., Constructions of Reason, Cambridge:
Cambridge University Press, 1990; Id., Towards Justice and Virtue,
Cambridge: Cambridge University Press, 1996; Id., Bounds of Justice, Cambridge: Cambridge University Press 2000;
C.M. Korsgaard, Creating the Kingdom of Ends, Cambridge: Cambridge
University Press 1996; C.M. Korsgaard et al., The Sources of
Normativity, a cura di O. O'Neill,
Cambridge University Press,
Cambridge 2000.
(10)
Vedi R.B. Louden, Kant’s Virtue Ethics, “Philosophy” 61 (1986): 473-89;
N. Sherman, The Place of Emotions in Kantian Morality, in A. Rorty,
O. Flanagan (a cura di), Identity, Character and Morality, Cambridge
(Mass): mit Press 1990, pp.
149-170; Id., Making a Necessity of Virtue, Cambridge: Cambridge
University Press, 1997; B. Herman, The Practice of Moral Judgement,
Cambridge (Mass): Harvard University Press, 1993; M. Baron, A Kantian Ethics almost without Apology, Ithaca (NY):
Cornell University Press, 1995; A.W. Wood, Kant's Ethical Thought,
Cambridge: Cambridge University Press, 1999; S. Engrstrom, J. Whiting (a cura
di), Aristotle, Kant, and the Stoics. Rethinking Happiness and Duty,
(11)
A.W. Wood, Kant's Ethical Thought, cit., p. 330 e nota 26.
(12) I. Kant, Grundlegung
der Metaphysik der Sitten [1785], in Kant's
gesammelte Schriften, cit., vol. iv, p. 417-419; trad. it. Fondazione
della metafisica dei costumi, in Scritti morali, a cura
di P. Chiodi, utet, Torino 19952, pp. 75-77.
(13) Su questo punto e sui seguenti riprendo
considerazioni svolte in S. Cremaschi, Kant’s Empirical Moral Pilosophy,
in B. Bercić, N. Smokrović, Proceedings of Rijeka Conference
“Knowledge, Existence and Action”, Hrvatsko drustvo za analiticku
filozofiju – Filozofski fakultet Rijeka, Rijeka 2003, pp. 21-24; Id. L’etica moderna. Da Grozio a Nietzsche, Carocci, Roma, 2006, cap. 10.
(14) I. Kant, Logik [1800], in Kant's gesammelte Schriften, cit., vol. ix, p. 11; trad. it. Logica, a cura di L.
Amoroso, Roma-Bari: Laterza, 19902, p. 5; cfr. Wiener Logik,
in Kant's gesammelte Schriften, cit., vol. xxiv, p. 790; trad. it. Logica di Vienna, a cura di B.
Bianco, Milano: Franco Angeli, 2000, p. 3.
(15) I. Kant, Fondazione, cit., p. 92
(ed. or.: p. 474).
(16) Vedi I. Kant, Kritik
der praktischen Vernunft (1788), in Kant's gesammelte Schriften,
cit., vol. v, pp. 48, 127; trad.
it. Critica della ragion
pratica, in Scritti morali, cit., pp. 187, 275-276.
(17) I. Kant, Critica della ragion pratica,
cit., p. 215 (ed. or.: p. 130).
(18) I. Kant Metaphysik
der Sitten (1797), in Kant's gesammelte Schriften, cit., vol. vi, p.
378; trad. it. La metafisica dei costumi, a cura di G. Vidari, N. Merker, Roma-Bari,
Laterza, 19984, p. 225.
(19) I.
Kant, Fondazione, cit., p. 64 (ed. or.: p. 27).
(20) I Kant, La metafisica dei costumi,
cit., p. 310 (ed. or.: p. 447).
(21) I. Kant, Fondazione, cit., p. 49
(ed. or.: p. 2).
(22) I. Kant, Critica della Ragion pratica,
cap. ii, parr. 4-5.
(23) I. Kant, Idee zu
einer allgemeiner Geschichte in weltbürgerlicher Absicht (1784), in
Kant's gesammelte Schriften, cit., vol. viii, pp.
15-42, p. 26; trad. it. Idea per una storia universale dal punto di vista
cosmopolitico, in Scritti di storia,
politica e diritto, a cura di F. Gunnelli, Roma-Bari: Laterza, 1995, p.
38.
(24) I. Kant, Anthropologie
in Pragmatischer Sicht (1798), in Kant's gesammelte Schriften, cit.,
vol. vii, p. 254; trad. it. Antropologia
dal punto di vista pragmatico, in Scritti
morali, cit., p. 707.
(25) Ivi,
p. 716 (ed. or.: pp. 268-269).
(26) I. Kant, Die
Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft (1793), in Kant's gesammelte
Schriften, cit., vol. vii, p. 53; trad. it. La religione nei limiti della sola ragione, in Scritti
morali, cit., p. 369.
(27) I. Kant, La metafisica dei costumi,
cit., p. 256 (ed. or.: p. 217).
(28) I. Kant, Antropologia, cit., p.
567 (ed. or.: p. 405).
(29) I. Kant, La metafisica dei costumi,
cit., pp. 258-259 (ed. or.: p. 405).
(30) I. Kant, La Religione,
cit., p. 345 nota (ed. or.: p. 16).
(31) I. Kant, La metafisica dei costumi, cit, p. 366 (ed. or.: p. 485).
(32) Vedi I. Kant, Critica della ragion pratica, cit.,
parte ii: Dottrina del metodo
della ragion pura pratica; Id., La Metafisica dei costumi, cit.,
parte ii, 2: Dottrina del metodo
dell'etica.
(33) I. Kant, Antropologia, cit., p.
567 (ed. or.: p. 716); cfr. La
metafisica dei costumi, cit,
p. 263 (ed. or.: p. 411); Id., La Religione, cit., pp.
370-371 (ed. or.: p. 55).
(34)I. Kant, Antropologia, cit., p. 301 (ed. or.: p. 441).
(35) Ivi, p. 302 (ed. or.: p. 441).
(36) I Kant, La metafisica dei costumi,
cit., p. 302 (ed. or.: p. 441).