http://www.units.it/etica/2005_2/CATAPANO.htm
Sulla relazione di Enrico Berti
“Saggezza o filosofia pratica?”
Nella
relazione, come sempre chiarissima, del prof. Berti, si possono distinguere tre
piani di discorso:
1) ermeneutico (l’interpretazione della
filosofia pratica di Aristotele);
2) apologetico (la difesa della filosofia
pratica di Aristotele da alcune obiezioni sollevate contro di essa);
3) polemico (la critica verso teorie etiche
diverse da quella aristotelica o verso interpretazioni inadeguate della
medesima).
Sulla
parte ermeneutica della relazione non c’è tanto da discutere, credo, quanto da
imparare, data la competenza nello studio di Aristotele che tutti riconoscono
al relatore. Mi limito dunque a riassumere le tesi interpretative di Berti:
a) in
Aristotele la saggezza è chiaramente distinta dalla filosofia pratica: la prima
è una virtù, la seconda è una scienza; la prima delibera, la seconda argomenta;
la prima è imitativa, la seconda è critica; la prima è per tutti, la seconda è
per i filosofi;
b) l’oggetto
della filosofia pratica è il bene supremo praticabile o fine ultimo delle
azioni umane, e questo è la felicità;
c) il metodo
della filosofia pratica è dialettico, cioè analizza pareri opposti su un
medesimo problema esaminandone la coerenza logica e la compatibilità con gli endoxa;
d) la natura
dell’oggetto e del metodo fa sì che le argomentazioni della filosofia pratica
valgano “per lo più”;
e) la
filosofia pratica riesce a determinare il contenuto della felicità servendosi
della nozione di funzione (ergon)
dell’uomo in quanto uomo;
f) la
felicità così determinata consiste nell’esercizio eccellente del logos a tutti i livelli, accompagnato da
beni esterni sufficienti, in una vita compiuta.
Il
secondo piano del discorso di Berti, quello apologetico (da intendersi nel
senso puramente etimologico del termine), si basa sul primo. Il modo, cioè, in
cui egli replica alle obiezioni contro la filosofia pratica di Aristotele
consiste fondamentalmente nel mostrare che esse non sono pertinenti, cioè
assumono come bersaglio polemico delle posizioni teoriche che in realtà non
appartengono al genuino pensiero aristotelico. Le obiezioni in questione sono
essenzialmente due: l’accusa di conservatorismo, mossa ai “neo-aristotelici” da
filosofi come Habermas e Schnädelbach, e l’accusa di naturalismo, avanzata o in
nome dell’evoluzionismo biologico e del relativismo culturale o in nome della
cosiddetta “legge di Hume”. Noto preliminarmente che si tratta di due obiezioni
di diversa gravità: la prima è di tipo politico, la seconda invece è, ben più
seriamente, di tipo scientifico o addirittura logico. La prima contesta una
visione che può essere legittima e accettabile per alcuni (essere conservatori
è un difetto solo per chi non lo è…), la seconda invece contesta una falsità o
un errore, che in linea di principio non sono accettabili per nessuno, men che
meno per un filosofo.
Entrando
nel merito, l’accusa di conservatorismo sarebbe fondata, secondo Berti, se la
filosofia pratica di Aristotele fosse così come l’hanno descritta i
neo-aristotelici, ossia se coincidesse con la phronesis. Quest’ultima infatti si ispira ad un modello di uomo
saggio, rappresentato da colui che è comunemente ritenuto tale entro una certa
società in quanto ne incarna l’ethos;
ethos che pertanto la saggezza tende
a conservare e perpetuare. La filosofia pratica nel vero senso aristotelico
però, osserva Berti, è altro dalla saggezza, perché, mentre la saggezza
presuppone e assume come buoni i fini che la tradizione e la società
considerano tali, la filosofia pratica si caratterizza proprio per il fatto di
sottoporli a discussione; essa dunque è dotata, nonostante i limiti
metodologici imposti dal riferimento agli endoxa,
di quello spirito critico e potenzialmente innovatore che filosofi come
Habermas non a torto vedono difettare nei fautori della “rinascita della
filosofia pratica”. Conservatrice, insomma, è o rischia di essere (ammesso,
ripeto, che questo sia un rischio) la filosofia pratica criptoprudenziale dei
neo-aristotelici, non quella intesa nell’accezione originaria di Aristotele. La
prima accusa nasce, dunque, da un fraintendimento, dalla confusione tra
saggezza e filosofia pratica, i cui principali responsabili sono i protagonisti
della Rehabilitierung.
Anche la
seconda accusa, quella di naturalismo, deriva secondo Berti da un’errata
comprensione del pensiero aristotelico; non però da uno scambio di concetti,
come nel primo caso, ma piuttosto da quella che potremmo chiamare la
semantizzazione eccessiva della nozione aristotelica di “natura umana”
(Aristotele interpretato come se fosse Platone) e dall’attribuzione allo
Stagirita di intenti deontologici e normativi del tutto estranei al suo punto
di vista (Aristotele interpretato come se fosse Kant). La “natura” dell’uomo in
senso aristotelico, spiega Berti, non è un’entità trascendente, separata,
ipostatizzata al di là del divenire biologico e delle diversità culturali, ma
semplicemente quel qualcosa che accomuna tutti coloro che chiamiamo “uomini” e
che li differenzia dagli altri esseri viventi e non. Negare questo quid universale significherebbe
precludersi la possibilità di distinguere un essere umano da un sasso, un filo
d’erba o un canarino, e di usare sensatamente la parola “uomo”; un esito a dir
poco indesiderabile e, come mostra Berti, di fatto non praticato nemmeno dai
critici abituali del concetto di “natura umana”. Mi pare dunque che la difesa
di quest’ultimo nella sua accezione minimale sia difficilmente contestabile.
Piuttosto avrei qualche perplessità sulla perfetta coincidenza tra questa
accezione minimale e quella aristotelica; è vero che per Aristotele la “natura”
non era un’essenza trascendente, ma non è forse vero che essa per lui era
immutabile ed eterna? La sua biologia, in altre parole, era “fissistica”, come
Berti stesso ha ammesso altrove. (1)
Il
problema cruciale, tuttavia, concerne non tanto la legittimità della nozione di
“natura umana”, quanto il suo uso in etica. Ammesso che tutti gli uomini,
astraendo dalle loro differenze individuali e culturali, siano “fatti” in un
certo modo, quel modo che li fa essere appunto uomini (questo vuol dire infatti
avere una “natura umana”), gli oppositori del naturalismo, invocando la “legge
di Hume”, negano la possibilità logica di trarre da questo semplice fatto
l’imperativo per ogni uomo di vivere secondo la propria natura e di fondare in
questo modo obblighi e divieti morali. Berti, pur prendendo le distanze dalla
separazione assoluta tra fatti e valori, riconosce l’impossibilità, stabilita
già dalla logica aristotelica, di ricavare proposizioni prescrittive da sole
proposizioni descrittive, e quindi ammette, se non una “grande divisione”,
almeno una “grande distinzione” tra “essere” e “dovere”. Secondo lui, però,
Aristotele non sarebbe caduto nell’errore logico di dedurre l’uno dall’altro,
semplicemente perché la sua intenzione, nell’introdurre l’idea di “natura
umana” attraverso il concetto di “funzione propria dell’uomo”, non era quella
di fondare su di essa dei doveri ma soltanto di dare un contenuto alla nozione
di “felicità”. Un contenuto, poi, intuitivamente plausibile: quello di svolgere
al meglio le funzioni essenziali in cui si esplica la vita nel modo peculiare
all’essere umano, ossia usando il logos.
Una posizione, insomma, perfettamente corretta sul piano della forma e di gran
lunga condivisibile su quello del contenuto. Osservo che questa risposta di
Berti all’accusa di naturalismo rivolta ad Aristotele si differenzia da altre,
che sottolineano il carattere teleologico della natura umana, il suo porsi come
un telos, come una perfezione o un
compito da realizzare, e vedono in questa tensione dinamica verso il proprio
compimento la fonte della normatività morale, riassumibile nell’imperativo
“divieni ciò che sei!”.
Che Berti
abbia ragione nel restituirci il reale pensiero di Aristotele, è cosa su cui
non mi pare il caso di dubitare. Rappresentata in questo modo, la filosofia
pratica aristotelica riesce effettivamente a sfuggire all’accusa di
naturalismo, nei termini in cui Berti l’ha formulata. Mi chiedo tuttavia se una
tale filosofia pratica, sciolta da qualsiasi preoccupazione normativa, risulti
alla fine così interessante per l’etica. Berti ritiene di sì, e cita come
esempi la lista delle capacità compilata da Martha Nussbaum e le posizioni, a
suo giudizio sostanzialmente equivalenti ma meno controverse, di coloro che si
richiamano ai diritti umani. In effetti, mi pare plausibile che, in generale,
una determinazione dell’essenza della felicità, alla quale tendiamo tutti, non
possa lasciarci indifferenti né essere irrilevante per la riflessione morale.
Mi piace ricordare le parole dello stesso Aristotele in Eth. Nic. I 1, 1094a, 22-24: «Non è forse vero che anche per la
vita la conoscenza di esso [scil. del
bene supremo] ha un grande peso e che, come arcieri che hanno un bersaglio,
potremmo raggiungere meglio ciò che è nostro dovere (tou deontos)?». (2)
Vorrei però capire meglio in che maniera questa filosofia pratica, ridotta a
scienza della felicità, possa sopperire alle insufficienze della saggezza in
questioni come quelle bioetiche, come Berti sostiene. Certo, essa porta con sé
un’istanza critica e mette a disposizione un metodo per discutere sui problemi
morali; ma — domando — in quale maniera la conoscenza (a dir il vero ancora
piuttosto generica) della felicità può intervenire nel merito a risolvere o ad
orientare dibattiti, spesso estremamente complessi, senza per giunta esprimere,
fondare o giustificare alcuna indicazione prescrittiva? La filosofia pratica di
Aristotele, in altre parole, può o no essere utile alle discussioni bioetiche
non solo per la sua forma metodologica ma anche per il suo contenuto teorico?
Se sì, in che modo?
Se invece
no, più che di filosofia pratica aristotelica dovremmo forse parlare
semplicemente di metodo dialettico applicato a questioni pratiche. Questa
applicazione conserverebbe un tratto caratteristico dell’aristotelismo solo in
quanto fosse finalizzata alla conoscenza della verità. Riprendo due frasi dalla
relazione di Berti: «la filosofia pratica è affare da filosofi, da persone che
hanno tempo e voglia di cercare la verità»;
«Aristotele non era scettico, cioè credeva alla capacità umana di conoscere la verità, specialmente in tema di etica e
di politica». Questa ricerca della verità era considerata da Aristotele come
tipica del filosofo. Oggi, però, la convinzione aristotelica dell’esistenza di
una verità in etica e in politica, che chi è filosofo non potrebbe non
sforzarsi di trovare, è messa in discussione nella sua stessa legittimità, e
non può essere riproposta senza essere adeguatamente giustificata. Non basta
dire che essa è connaturale al filosofo, perché invece molti filosofi morali di
oggi non la condividono affatto. Né si può dire, mi pare, che essa sia comune
alla maggioranza delle persone nella società in cui viviamo, dove è anzi
diffusa l’idea che le scelte etiche e politiche di fondo riposino, in ultima
analisi, su nient’altro che la libertà dei soggetti. Non è, insomma, un endoxon che si possa tranquillamente
assumere (semmai è un endoxon di
fatto il contrario!), ma una tesi, piuttosto controcorrente, che ha bisogno di
essere provata. C’è in Aristotele, almeno virtualmente, una simile prova o
giustificazione, e se sì, quale? Fa essa riferimento alla verità che la
filosofia pratica riesce ad argomentare sulla felicità, e quindi alla verità
sulla “funzione propria” dell’uomo, che ne sta alla base?
Arrivo al
terzo piano su cui si svolge il discorso di Berti, quello critico-polemico.
Esso è meno sviluppato ed evidente rispetto ai primi due e, se si escludono le
critiche alle errate interpretazioni del pensiero aristotelico, si riduce
essenzialmente all’accusa di formalismo rivolta all’utilitarismo. La dottrina
utilitaristica, pur riconoscendo la felicità come fine ultimo, ne lascerebbe
indeterminato il contenuto, limitandosi a identificarla con ciò che tutti
desiderano. In tal modo, l’utilitarismo non riuscirebbe a distinguere tra un
bene apparente e un bene reale e non terrebbe conto del fatto che il desiderio
è legato alla conoscenza, nel duplice senso che non si può desiderare ciò che
non si conosce e che ci possono essere cose che non sono desiderate solo perché
non sono conosciute. Queste critiche presuppongono, mi pare, l’idea che vi siano
beni veri e beni falsi, e quindi una vera e una falsa felicità, e che il bene
sia qualcosa che può essere non solo desiderato, ma anche e prima di tutto
conosciuto nella sua verità. Con ciò ritorniamo al concetto di “verità etica” o
“verità pratica”, e perciò ripeto qui la domanda fatta sopra circa la sua
giustificazione.
Per
quanto riguarda il formalismo, osservo poi che esso non può essere rimproverato
indistintamente a tutte le varie versioni dell’utilitarismo. Per restare ai
classici, basterebbe ricordare il cap. 2 del saggio sull’Utilitarismo di John Stuart Mill (1863; prima ed. in «Frazer’s» del
1861), dove alla felicità si dà un contenuto abbastanza preciso, quello di
«piacere e assenza della sofferenza» e di «esistenza priva quanto più è
possibile di sofferenze e ricca quanto più è possibile di godimenti sia per
quantità che per qualità», e si stabilisce una differenza qualitativa tra i
piaceri nonché una netta distinzione tra la nozione di felicità e quella di
soddisfazione, che fa pronunciare a Mill la celebre frase: «è meglio essere un essere umano
insoddisfatto che un porco soddisfatto; meglio essere Socrate insoddisfatto che
un imbecille soddisfatto». (3)
La
questione del formalismo mi offre infine lo spunto per fare qualche rilievo sul
tema classico, evocato da Berti stesso più volte nella sua relazione, del
confronto tra Aristotele e Kant. Sull’argomento, com’è noto, è stato scritto
moltissimo, ed è difficile aggiungere qualcosa di nuovo a quanto già è stato
detto. (4) Mi limito pertanto ai soli punti toccati
da Berti, che sono principalmente tre: l’interpretazione kantiana della
saggezza come prudenza e abilità, le critiche di Kant e dei neokantiani
all’eudemonismo e la chiarificazione kantiana del concetto di “dignità” umana.
Sul primo
punto il giudizio di Berti è totalmente negativo: la Klugheit criticata da Kant non corrisponde alla phronesis aristotelica, che opera sempre
in vista di un fine buono, ma a quella che Aristotele chiamava deinotes, cioè all’abilità nel
raggiungere un fine indipendentemente dal fatto che questo sia buono o cattivo.
Questa confusione si spiegherebbe con il disinteresse di Kant verso i fini e
quindi le conseguenze dell’azione, incapaci di fornire un imperativo categorico
e di rendere buona la volontà, che è tale solo in virtù dell’intenzione; un
disinteresse che, secondo il giudizio di Jonas sottoscritto da Berti, porta
l’etica kantiana ad essere individualistica e del tutto inadatta alle sfide che
interpellano la responsabilità dell’individuo nell’epoca tecnologica. Non è
però su queste implicazioni della posizione di Kant che desidero richiamare
l’attenzione, quanto sulla sua concezione della saggezza o prudenza. Vi sono
infatti delle sfumature tra un’opera kantiana e l’altra che forse meritano di
essere ricordate. Mentre nell’Introduzione alla Critica del Giudizio (§ 1) Kant annovera sommariamente tra le
«regole tecnico-pratiche» tanto quelle «dell’arte e dell’abilità in generale,
ed anche della prudenza», (5) nella precedente Fondazione della metafisica dei costumi egli distingue tre tipi di imperativi
e li chiama rispettivamente «regole dell’abilità (Geschicklichkeit)» o «tecnici», «consigli della saggezza» o
«pragmatici» e «comandi (leggi) della moralità» o «morali». I primi due tipi
sono ipotetici e solo il terzo tipo è categorico. Ora, è vero che Kant pone
come unica differenza tra gli imperativi “tecnici” e quelli “pragmatici” il
fatto che i primi individuano i mezzi per raggiungere uno scopo possibile
mentre i secondi consigliano i mezzi per raggiungere uno scopo reale, quello di
essere felici; tuttavia è interessante notare che gli imperativi della saggezza
non sono inglobati con quelli della mera abilità, proprio a causa
dell’indeterminatezza del concetto di quella felicità che la saggezza persegue.
«Nessuno», scrive Kant, «è in grado di determinare con piena certezza, in base
a un qualsiasi principio, che cosa effettivamente lo renderà felice: perché,
per questo, sarebbe necessaria l’onniscienza»; (6) la
ragione è che, mentre l’idea della felicità è quella di «un tutto assoluto: un
massimo di benessere nella mia condizione attuale e in ogni stato futuro», gli
elementi che formano il contenuto del concetto di felicità invece «sono
empirici, ossia devono essere tratti dall’esperienza», e quindi non sono mai
conoscibili esaustivamente da esseri finiti quali noi siamo. Quelli della
saggezza, pertanto, per Kant resteranno sempre dei consigli, e non arriveranno
mai ad essere delle regole precise e analiticamente sicure come quelle
dell’abilità (né tantomeno saranno dei comandi morali). In altri termini,
secondo il Kant della Fondazione la
saggezza si ridurrebbe ad abilità pura e semplice solo qualora fosse possibile
una determinazione “scientifica” del concetto di felicità (determinazione che
era proprio il compito della filosofia pratica di Aristotele!); ciò sembra
quasi capovolgere la critica di Berti.
Passiamo
al secondo punto: la critica kantiana all’eudemonismo. La replica di Berti
consiste nel rilevare come già Aristotele avesse criticato ante litteram l’eudemonismo formalistico. Il fatto di dare un
contenuto alla felicità, che rappresenta agli occhi di Berti il vantaggio della
filosofia pratica aristotelica rispetto all’utilitarismo, non basta però a
ribattere le severe accuse contro la felicità (specialmente la propria) come
principio pratico, che si leggono in particolare nella Critica della ragion pratica e nella Metafisica dei costumi. Mi piacerebbe conoscere il parere di Berti
circa la pertinenza di queste critiche nei riguardi di Aristotele (che Kant,
peraltro, non nomina). Sarebbe abbastanza facile ad es. mostrare che ciò che
Kant intende per “felicità” (7) non
coincide con ciò che intendeva Aristotele, e si potrebbe anche ricordare che,
nella Metafisica dei costumi, Kant
indica come fini che sono nello stesso tempo doveri (cioè come “doveri di
virtù”) la propria perfezione (definita in un modo che non è poi così lontano
dall’eudaimonia aristotelica (8)) e
la felicità altrui. Il nocciolo della questione, però, mi pare stia altrove,
non nel contenuto del concetto di felicità, ma nella sua funzione etica. Ciò
che Kant critica è l’eudemonismo, ossia il fare della felicità propria non solo
un principio pratico, cioè qualcosa che determina la volontà, ma anche una
legge pratica, cioè qualcosa che pretende di essere valido per la volontà di
ogni essere razionale. Ebbene, fino a che punto la filosofia pratica di
Aristotele è eudemonistica in questo senso? Essa, nell’esposizione datane da
Berti, per così dire descrive, non prescrive, la felicità come fine ultimo.
Essa afferma che le azioni umane avvengono in vista di un fine, e mostra che è
necessario ammettere un fine ultimo, desiderato per se stesso e non (o non
anche) in vista di altro, un fine che tutti sono d’accordo nel chiamare
“felicità”. Quindi esplicita i requisiti che un tale fine deve possedere, cioè
la “praticabilità”, l’autosufficienza, la corrispondenza con la “funzione
propria” dell’uomo, la piacevolezza ecc., e individua nel vivere esercitando
virtuosamente il logos ciò che
soddisfa tali requisiti. Il suo discorso sembra terminare qui e non arriva
(almeno non esplicitamente) a dire che la massima felicità possibile per il
maggior numero possibile di persone sia l’obiettivo da raggiungere e il
criterio di moralità delle azioni umane, come avviene invece nell’utilitarismo.
Se le cose stanno così (e chiedo conferma al prof. Berti), le critiche di Kant
non toccano Aristotele, e questo è un vantaggio della sua filosofia pratica.
Tale pregio, però, potrebbe essere un difetto se considerato da un altro punto
di vista, perché rischia di svuotare di significato specificamente morale la teoria della felicità. A
questo riguardo, mi piacerebbe sapere dal prof. Berti fino a che punto egli
trovi convincente l’interpretazione di Aristotele fornita da Julia Annas nel
suo libro The Morality of Happiness (1993),
dove cerca di mettere in luce i risvolti propriamente etici ma non utilitaristici
della dottrina dell’eudaimonia.
Arrivo al
terzo e ultimo punto: la nozione di “dignità” umana. Qui, per una volta, la
posizione di Berti è sfavorevole ad Aristotele e favorevole a Kant. Berti infatti
apprezza la chiarificazione kantiana del concetto di dignità dell’uomo, e
considera opportuno, direi quasi indispensabile, integrarla nell’antropologia
aristotelica, che ancora la ignorava. Che l’idea della dignità umana sia oggi
quantomeno un endoxon di cui non si
possa non tener conto, mi pare indiscutibile. (9) Che
la sua accezione kantiana sia facilmente innestabile in una filosofia pratica
di impianto aristotelico mi sembra, invece, meno scontato. Se infatti andiamo a
rileggere le pagine della Fondazione
nelle quali Kant ha definito l’avere una “dignità” come ciò che non ha un
“prezzo”, ci accorgiamo che il contesto è la trattazione del tema del “regno
dei fini”, e questo è strettamente legato al principio dell’autonomia della
volontà. L’uomo è membro del regno dei fini in quanto è capace di dare a sé
medesimo una legge universale, ed è questo che fonda la sua dignità. Cito le
parole stesse di Kant: «Nulla ha un valore che non sia quello che la legge gli
conferisce. La legislazione come tale, però, che determina ogni valore, appunto
per questo deve avere una dignità, cioè un valore incondizionato e
incomparabile, nei cui riguardi la parola “rispetto” è la sola che esprime
adeguatamente la stima che un essere razionale vi deve portare. L’autonomia è, dunque, il fondamento della
dignità della natura umana e di ogni natura razionale». (10) Il principio dell’autonomia, però, si oppone alla felicità
come principio eteronomo della moralità (il principio della propria felicità è
bollato da Kant addirittura come «il più spregevole» tra i princìpi eteronomi).
Per accogliere la concezione kantiana della dignità umana entro una filosofia
pratica di tipo aristotelico, occorre quindi preventivamente difendere quest’ultima
dall’accusa di essere un eudemonismo eteronomo, il che ci riporta al punto
precedente.
(1) Cfr. E.
Berti, Profilo di Aristotele, Roma
1979, pp. 192-193.
(2) Trad. Zanatta. Per il significato di to déon in questo contesto, cfr. la nota
17 di M. Zanatta a p. 392 della sua traduzione (Milano 19912).
(3) Trad. Musacchio, Bologna 1981, p. 61.
(4) Rinvio in particolare alla monografia di A. Da Re,
L’etica tra felicità e dovere. L’attuale
dibattito sulla filosofia pratica, Bologna 1986.
(5) Trad. Gargiulo-Verra, Roma-Bari 19894,
p. 10.
(6) Trad.
Mathieu, Milano 19882, p. 111.
(7) Cito le definizioni date nella Critica della ragion pratica: «La
coscienza che un essere ragionevole ha della piacevolezza del suo vivere, che
accompagni ininterrottamente tutta la sua esistenza, è la felicità» (p. I, l. I, c. I, § 3; trad.
Mathieu cit., p. 199); «Felicità è la
condizione di un essere razionale nel mondo, a cui, nell’intera sua esistenza, tutto va secondo il suo desiderio e volere»
(p. I, l. II, c. II, 5; trad. Mathieu
cit., p. 340).
(8) «La perfezione non può quindi essere altro
che coltura delle proprie facoltà (o delle disposizioni naturali),
tra le quali il primo posto spetta all’intelletto
[…], ma nello stesso tempo anche coltura della volontà» (trad. Vidari-Merker, Roma-Bari 19892, p. 236).
(9) Anche la Nussbaum, ad es., è di questo parere, ma
ritiene che l’idea fosse presente già nello stoicismo antico: cfr. la sua
introduzione alla nuova edizione di La
fragilità del bene (trad. it. Bologna 2004), di cui è stato pubblicato uno
stralcio nel Domenicale de «Il Sole-24 Ore» del 24 Ottobre 2004, p. 35.
(10) Trad.
Mathieu cit., p. 135.