Etica & Politica / Ethics & Politics, 2005, 2

http://www.units.it/etica/2005_2/BERTI01.htm

 

 

Risposte a Catapano e a Cremaschi

 

Enrico Berti

 

Dipartimento di Filosofia

Università di Padova

 

 

Aggiungo qualche parola alla mia relazione, dopo avere letto i commenti di Giovanni Catapano e Sergio Cremaschi, commenti che sono dei veri e propri saggi, meritevoli di attenzione di per se stessi, indipendentemente da quanto ho detto io.

A Catapano, che mi chiede se la filosofia pratica aristotelica, “sciolta da qualsiasi preoccupazione normativa”, risulti alla fine interessante per l’etica”, risponderei che il concetto aristotelico di felicità, e quindi di “bene umano praticabile”, teorizzato dalla filosofia pratica, possiede anche un valore normativo, ma del tipo dell’imperativo ipotetico: “se vuoi essere felice, fa questo ed evita quest’altro”. Che poi tutti desiderino essere felici è per Aristotele un fatto fuori discussione, quindi l’ipotesi è pressoché una descrizione della realtà e perciò si configura come norma universale. Forse questo è naturalismo? Può darsi, ma non necessariamente fallace, perché la premessa del sillogismo pratico è descrittiva ed insieme valutativa, cioè prescrittiva, anche se di una prescrittività non assoluta, non “categorica”, ad esempio non incurante delle conseguenze.

Certo, la deduzione delle norme dal concetto di felicità non è immediata, cioè diretta, né semplice e facile. Se è vero, infatti, che il concetto aristotelico di felicità è traducibile nella lista delle capacità umane compilata da Martha Nussbaum e nella lista dei diritti umani che si ritrova nelle varie dichiarazioni internazionali e nelle varie carte costituzionali nazionali, ovvero in quelli che io considero i “moderni endoxa”, il compito del filosofo, del filosofo morale, o politico, o del diritto, sarà poi quello di dedurne le conseguenze attraverso una serie di argomentazioni dialettiche, che tengano conto delle obiezioni, riescano effettivamente a confutarle e si guadagnino in tal modo un consenso almeno altrettanto ampio di quello esistente sulle premesse. Compito, ovviamente, non facile, ma perciò non riducibile a semplice metodo dialettico applicato alle questioni pratiche.

Con ciò rispondo anche alla seconda domanda di Catapano, cioè come si giustifica, in un orizzonte di filosofia pratica aristotelica, la “verità etica” o “verità pratica” della cui esistenza Aristotele è convinto. Si tratta della verità, appunto, degli endoxa, che sono veri non sempre, ma “per lo più”, ma che hanno il pregio grandissimo di essere condivisi da tutti o dalla maggioranza, e quindi forniscono la base ideale, almeno in democrazia, per qualsiasi argomentazione, specialmente in materia di etica pubblica. Non credo, infatti, che l’unica idea diffusa nella maggioranza delle persone della società in cui viviamo sia che le scelte etiche e politiche di fondo riposino su nient’altro che la libertà dei soggetti. Questa è forse l’idea più diffusa tra i filosofi, ma la maggior parte della gente, pur professando questa idea, cerca di conciliarla con il rispetto dei diritti degli altri, della dignità umana, insomma con gli endoxa di cui sopra. I filosofi sono spesso degli irresponsabili, perché sanno che dai loro discorsi per lo più non deriva nessuna conseguenza, quindi possono permettersi degli estremismi che le persone che contano cercano invece di evitare.

L’accenno alla dignità umana ci porta così a parlare di Kant. A questo proposito sono grato sia a Catapano che a Cremaschi delle preziose precisazioni circa il pensiero di Kant, che mostrano come in effetti egli sia molto meno lontano da Aristotele di quanto comunemente si creda. Questo, ovviamente, non può che farmi piacere, non solo perché avere dalla propria parte un filosofo come Kant non è un vantaggio da poco, ma anche perché per un punto di vista come quello aristotelico, che – come si è capito – in buona parte condivido, l’avere dei consensi è un argomento a favore della sua stessa validità, data l’importanza che Aristotele attribuiva al consensus omnium. Sia Catapano che Cremaschi mi fanno notare che ciò che Kant chiama rispettivamente “prudenza” (o “saggezza”, insomma Klugheit) e “felicità”, e poi critica, non coincide con ciò che Aristotele intendeva con phronesis e eudaimonia. Ottimo! Kant, come è noto, non conosceva molto Aristotele, e queste osservazioni lo confermano ulteriormente. Dunque le sue critiche non colpiscono Aristotele.

Tuttavia a Catapano vorrei far notare che per Kant i “consigli pragmatici” della saggezza, pur essendo diversi dalle “regole tecniche” dell’abilità – il che non consente di identificare, come avevo fatto io, la saggezza di cui parla Kant con l’abilità –, sono diversi anche dai “comandi, o leggi, della moralità”, quindi tale saggezza non coincide nemmeno con la phronesis di Aristotele, che invece comanda quali azioni compiere e quali evitare per raggiungere quella felicità che è la sophia, cioè il bene supremo praticabile dall’uomo. Inoltre vorrei ancora far notare a Catapano che l’eudemonismo criticato da Kant, cioè il fare della felicità “propria” una legge pratica, non rispecchia certamente la posizione di Aristotele. A questo proposito – e così rispondo a una domanda esplicita di Catapano – condivido interamente l’interpretazione di Aristotele fornita da Julia Annas in The Morality of Happiness[1], (1) e anzi ricordo che per Aristotele non è possibile essere felici se non si vive in una città felice, cioè dotata di buone leggi e ben governata, e quindi se, in un certo senso, non sono felici anche gli altri.

L’unico punto – osserva giustamente Catapano – in cui la mia posizione è più favorevole a Kant che ad Aristotele, è quello concernente la dignità umana, presente in Kant ed assente in Aristotele. A questo proposito Catapano però ritiene che l’accezione kantiana di dignità non sia facilmente innestabile in una filosofia pratica di impianto aristotelico, perché fondata sull’autonomia della volontà, e non sul principio della felicità. A ciò rispondo che accetto il concetto kantiano di dignità umana come riconoscimento del carattere di “fine”, e non soltanto di mezzo, proprio delle persone, ma non ne condivido la fondazione sull’autonomia della volontà. Questa deriva, a mio avviso, da una concezione “sovradeterminata” della persona, per cui è persona solo chi è in grado di esercitare una volontà autonoma. In tale modo il numero delle persone, e quindi degli esseri degni di venire trattati anche come fini, e non semplicemente come mezzi, si restringe pericolosamente, escludendo bambini, malati, portatori di handicap, ecc. (per non parlare di feti ed embrioni).

In una concezione della persona come quella, ad esempio, di Boezio, cristiana quanto quella di Kant, ma che si serve di categorie aristoteliche, ciò che conferisce il carattere di persona alla sostanza individuale (individua substantia) è la sua “natura razionale” (rationabilis natura), cioè non il possesso attuale di una volontà autonoma, ma la predisposizione, o il titolo, a possederla, per cui è persona ogni essere umano. Questa “natura” è infatti sufficiente a fondare la dignità umana, anche se Aristotele non se ne era accorto, perché vedeva intorno a sé gli schiavi, e capiva come in una società preindustriale questi fossero indispensabili, e tuttavia essi gli creavano dei problemi, tant’è vero che fu l’unico filosofo antico (non solo prima del cristianesimo, ma anche per molto tempo dopo la diffusione di questo) che discusse se la schiavitù fosse o meno “naturale”. Forse si può trovare qualche spunto precorritore del concetto di dignità umana anche in Aristotele, per esempio là dove egli afferma che “tutti gli uomini, per natura, desiderano conoscere” (corsivo ovviamente mio).

Che dire a Cremaschi? Che lo ringrazio molto per il suo bellissimo saggio su Kant, il quale mi ha chiarito molte idee. Lo ringrazio anche dell’informazione sull’opuscolo di Elizabeth Anscombe, Mr. Truman’s Degree, a me prima ignoto, che consente di anticipare al 1956 la rinascita della filosofia pratica, ed osservo con compiacimento che siamo pur sempre in ambiente aristotelico. Tale è infatti il famoso libro di Anscombe, Intention (1958). Ho già detto che accetto le precisazioni sui concetti kantiani di prudenza e felicità, che non coincidono con i rispettivi concetti aristotelici. È significativo che Cremaschi scriva: “La eudaimonia di Aristotele corrisponde invece, senza che Kant lo sappia, al sommo bene di Kant” (corsivo mio). Nelle occasioni che avrò in futuro di tornare su questa materia farò tesoro delle osservazioni di Cremaschi e lo dirò pubblicamente.

 

 

Note

 

(1) Colgo anzi l’occasione per segnalare che il titolo della traduzione italiana di questo libro, La morale della felicità (Milano 1997), non rende affatto l’intenzione del titolo originale, che è quella di affermare la “moralità”, cioè il carattere morale, della felicità, e non semplicemente quello di esporre dottrine morali basate sulla felicità.



[1] Colgo anzi l’occasione per segnalare che il titolo della traduzione italiana di questo libro, La morale della felicità (Milano 1997), non rende affatto l’intenzione del titolo originale, che è quella di affermare la “moralità”, cioè il carattere morale, della felicità, e non semplicemente quello di esporre dottrine morali basate sulla felicità.