http://www.units.it/etica/2005_2/BERTI01.htm
Risposte a Catapano e a Cremaschi
Aggiungo qualche parola alla mia relazione, dopo avere letto
i commenti di Giovanni Catapano e Sergio Cremaschi, commenti che sono dei veri
e propri saggi, meritevoli di attenzione di per se stessi, indipendentemente da
quanto ho detto io.
A Catapano, che mi chiede se la filosofia pratica aristotelica,
“sciolta da qualsiasi preoccupazione normativa”, risulti alla fine interessante
per l’etica”, risponderei che il concetto aristotelico di felicità, e quindi di
“bene umano praticabile”, teorizzato dalla filosofia pratica, possiede anche un
valore normativo, ma del tipo dell’imperativo ipotetico: “se vuoi essere
felice, fa questo ed evita quest’altro”. Che poi tutti desiderino essere felici
è per Aristotele un fatto fuori discussione, quindi l’ipotesi è pressoché una
descrizione della realtà e perciò si configura come norma universale. Forse
questo è naturalismo? Può darsi, ma non necessariamente fallace, perché la premessa
del sillogismo pratico è descrittiva ed insieme valutativa, cioè prescrittiva,
anche se di una prescrittività non assoluta, non “categorica”, ad esempio non
incurante delle conseguenze.
Certo, la deduzione delle norme dal concetto di felicità
non è immediata, cioè diretta, né semplice e facile. Se è vero, infatti, che il
concetto aristotelico di felicità è traducibile nella lista delle capacità
umane compilata da Martha Nussbaum e nella lista dei diritti umani che si
ritrova nelle varie dichiarazioni internazionali e nelle varie carte
costituzionali nazionali, ovvero in quelli che io considero i “moderni endoxa”, il compito del filosofo, del
filosofo morale, o politico, o del diritto, sarà poi quello di dedurne le
conseguenze attraverso una serie di argomentazioni dialettiche, che tengano
conto delle obiezioni, riescano effettivamente a confutarle e si guadagnino in
tal modo un consenso almeno altrettanto ampio di quello esistente sulle premesse.
Compito, ovviamente, non facile, ma perciò non riducibile a semplice metodo
dialettico applicato alle questioni pratiche.
Con ciò rispondo anche alla seconda domanda di Catapano,
cioè come si giustifica, in un orizzonte di filosofia pratica aristotelica, la
“verità etica” o “verità pratica” della cui esistenza Aristotele è convinto. Si
tratta della verità, appunto, degli endoxa,
che sono veri non sempre, ma “per lo più”, ma che hanno il pregio grandissimo
di essere condivisi da tutti o dalla maggioranza, e quindi forniscono la base
ideale, almeno in democrazia, per qualsiasi argomentazione, specialmente in
materia di etica pubblica. Non credo, infatti, che l’unica idea diffusa nella
maggioranza delle persone della società in cui viviamo sia che le scelte etiche
e politiche di fondo riposino su nient’altro che la libertà dei soggetti.
Questa è forse l’idea più diffusa tra i filosofi, ma la maggior parte della
gente, pur professando questa idea, cerca di conciliarla con il rispetto dei
diritti degli altri, della dignità umana, insomma con gli endoxa di cui sopra. I filosofi sono spesso degli irresponsabili,
perché sanno che dai loro discorsi per lo più non deriva nessuna conseguenza,
quindi possono permettersi degli estremismi che le persone che contano cercano
invece di evitare.
L’accenno alla dignità umana ci porta così a parlare di
Kant. A questo proposito sono grato sia a Catapano che a Cremaschi delle
preziose precisazioni circa il pensiero di Kant, che mostrano come in effetti
egli sia molto meno lontano da Aristotele di quanto comunemente si creda. Questo,
ovviamente, non può che farmi piacere, non solo perché avere dalla propria
parte un filosofo come Kant non è un vantaggio da poco, ma anche perché per un
punto di vista come quello aristotelico, che – come si è capito – in buona
parte condivido, l’avere dei consensi è un argomento a favore della sua stessa
validità, data l’importanza che Aristotele attribuiva al consensus omnium. Sia Catapano che Cremaschi mi fanno notare che
ciò che Kant chiama rispettivamente “prudenza” (o “saggezza”, insomma Klugheit) e “felicità”, e poi critica,
non coincide con ciò che Aristotele intendeva con phronesis e eudaimonia.
Ottimo! Kant, come è noto, non conosceva molto Aristotele, e queste osservazioni
lo confermano ulteriormente. Dunque le sue critiche non colpiscono Aristotele.
Tuttavia a Catapano vorrei far notare che per Kant i “consigli
pragmatici” della saggezza, pur essendo diversi dalle “regole tecniche”
dell’abilità – il che non consente di identificare, come avevo fatto io, la
saggezza di cui parla Kant con l’abilità –, sono diversi anche dai “comandi, o
leggi, della moralità”, quindi tale saggezza non coincide nemmeno con la phronesis di Aristotele, che invece
comanda quali azioni compiere e quali evitare per raggiungere quella felicità
che è la sophia, cioè il bene supremo
praticabile dall’uomo. Inoltre vorrei ancora far notare a Catapano che
l’eudemonismo criticato da Kant, cioè il fare della felicità “propria” una
legge pratica, non rispecchia certamente la posizione di Aristotele. A questo
proposito – e così rispondo a una domanda esplicita di Catapano – condivido interamente
l’interpretazione di Aristotele fornita da Julia Annas in The Morality of Happiness[1], (1) e anzi ricordo che
per Aristotele non è possibile essere felici se non si vive in una città
felice, cioè dotata di buone leggi e ben governata, e quindi se, in un certo
senso, non sono felici anche gli altri.
L’unico punto – osserva giustamente Catapano – in cui la
mia posizione è più favorevole a Kant che ad Aristotele, è quello concernente
la dignità umana, presente in Kant ed assente in Aristotele. A questo proposito
Catapano però ritiene che l’accezione kantiana di dignità non sia facilmente
innestabile in una filosofia pratica di impianto aristotelico, perché fondata
sull’autonomia della volontà, e non sul principio della felicità. A ciò
rispondo che accetto il concetto kantiano di dignità umana come riconoscimento
del carattere di “fine”, e non soltanto di mezzo, proprio delle persone, ma non
ne condivido la fondazione sull’autonomia della volontà. Questa deriva, a mio
avviso, da una concezione “sovradeterminata” della persona, per cui è persona
solo chi è in grado di esercitare una volontà autonoma. In tale modo il numero
delle persone, e quindi degli esseri degni di venire trattati anche come fini,
e non semplicemente come mezzi, si restringe pericolosamente, escludendo bambini,
malati, portatori di handicap, ecc. (per non parlare di feti ed embrioni).
In una concezione della persona come quella, ad esempio, di
Boezio, cristiana quanto quella di Kant, ma che si serve di categorie
aristoteliche, ciò che conferisce il carattere di persona alla sostanza
individuale (individua substantia) è
la sua “natura razionale” (rationabilis
natura), cioè non il possesso attuale di una volontà autonoma, ma la
predisposizione, o il titolo, a possederla, per cui è persona ogni essere
umano. Questa “natura” è infatti sufficiente a fondare la dignità umana, anche
se Aristotele non se ne era accorto, perché vedeva intorno a sé gli schiavi, e
capiva come in una società preindustriale questi fossero indispensabili, e
tuttavia essi gli creavano dei problemi, tant’è vero che fu l’unico filosofo
antico (non solo prima del cristianesimo, ma anche per molto tempo dopo la
diffusione di questo) che discusse se la schiavitù fosse o meno “naturale”.
Forse si può trovare qualche spunto precorritore del concetto di dignità umana
anche in Aristotele, per esempio là dove egli afferma che “tutti gli uomini, per natura,
desiderano conoscere” (corsivo ovviamente mio).
Che dire a Cremaschi? Che lo ringrazio molto per il suo
bellissimo saggio su Kant, il quale mi ha chiarito molte idee. Lo ringrazio
anche dell’informazione sull’opuscolo di Elizabeth Anscombe, Mr. Truman’s Degree, a me prima ignoto,
che consente di anticipare al 1956 la rinascita della filosofia pratica, ed
osservo con compiacimento che siamo pur sempre in ambiente aristotelico. Tale è
infatti il famoso libro di Anscombe, Intention
(1958). Ho già detto che accetto le precisazioni sui concetti kantiani di
prudenza e felicità, che non coincidono con i rispettivi concetti aristotelici.
È significativo che Cremaschi scriva: “La eudaimonia
di Aristotele corrisponde invece, senza
che Kant lo sappia, al sommo bene di Kant” (corsivo mio). Nelle occasioni
che avrò in futuro di tornare su questa materia farò tesoro delle osservazioni
di Cremaschi e lo dirò pubblicamente.
(1) Colgo anzi l’occasione per segnalare che
il titolo della traduzione italiana di questo libro, La morale della felicità (Milano 1997), non rende affatto
l’intenzione del titolo originale, che è quella di affermare la “moralità”,
cioè il carattere morale, della felicità, e non semplicemente quello di esporre
dottrine morali basate sulla felicità.
[1] Colgo anzi l’occasione per segnalare che il titolo della traduzione italiana di questo libro, La morale della felicità (Milano 1997), non rende affatto l’intenzione del titolo originale, che è quella di affermare la “moralità”, cioè il carattere morale, della felicità, e non semplicemente quello di esporre dottrine morali basate sulla felicità.