http://www.units.it/etica/2005_2/BERTI.htm
Saggezza o filosofia pratica?
Abstract The so called “revival of
practical philosophy”, started in 1960 by H.G. Gadamer with his Wahrheit
und Methode e metodo”, has often provoked a confusion between the authentic
practical philosophy of Aristotle and the virtue he calls phronêsis or wisdom. Actually, they represent two
forms of knowledge very different.
Wisdom is the virtue of practical reason which consists in the ability of correctly
deliberate, that is in the ability of individuating the action more suitable
for realizing a good end. On the contrary, practical philosophy is a science,
that is an habit of theoretical reason, even if it is a practical science,
which has as its end in the good action and has a degree of rigour inferior
to that of theoretical sciences. Practical philosophy is the science of the
supreme good for man, that is happiness – the full flourishing of all human
capabilities-, which is determined by means of a dialectical discussion with
the thesis of the various philosophers. |
1. Sulla
saggezza
Con la
cosiddetta “rinascita della filosofia pratica” (o “riabilitazione”, per i suoi
detrattori (1)), che ha caratterizzato buona parte della
riflessione etica della seconda metà del Novecento, è tornata di moda la
“saggezza” (l’aristotelica phronêsis),
indicata come virtù dianoetica per eccellenza da Aristotele, ma poi criticata
da Kant (sotto il nome di Klugheit)
come abilità tecnico-pratica e quindi quasi completamente accantonata dalla
filosofia dell’Ottocento e della prima metà del Novecento. Anzi (ma questa è
una mia tesi personale, di cui mi prendo l’onus
probandi), quella che è stata veramente riabilitata non è tanto la
filosofia pratica di Aristotele, cioè quella che egli chiamava con questo nome
(per la verità un sola volta, in Metaph. II
1, 993 b 20-21) o col nome di “scienza politica”, quanto appunto la saggezza,
che per Aristotele è cosa ben diversa dalla filosofia pratica (soprattutto
perché non è in alcun modo “scienza”, né, quindi, filosofia).
A riprova
di questa affermazione potrei citare alcuni esempi, tratti da aree culturali
molto diverse. Il primo autore che merita di essere citato è Gadamer, vero
iniziatore della “riabilitazione”, il quale in Verità e metodo (1960) presenta la filosofia pratica di Aristotele
come il modello della sua ermeneutica, ma poi nel descriverla la caratterizza
con i tratti propri della phronêsis (tra
l’altro si è scoperto che egli era su questa posizione già dal 1930, come risulta
dallo scritto intitolato significativamente
Praktisches Wissen, risalente
a quell’epoca ma rimasto per molti anni inedito (2)). E
Gadamer in Germania si è tirato dietro una scia di “neo-aristotelici” quali
Joachim Ritter, Rüdiger Bubner, Günther Bien, e altri ancora. Nell’area
anglo-americana merita di essere ricordato MacIntyre, il più acuto (perché il
più moderato) dei “comunitaristi”, il quale, fondando sulla “virtù”, ovvero
sull’ethos della comunità, quella che
a suo giudizio risulta essere oggi l’unica alternativa possibile alla
distruzione dell’etica operata da Nietzsche (Dopo la virtù, 1981), ritrova quello che per Aristotele era il
fondamento non dell’etica filosofica, cioè della filosofia pratica, ma appunto
della saggezza, cioè della moralità dell’individuo degno di stima, o del buon
capofamiglia, o del buon governante. Sempre nell’area americana troviamo poi
Martha Nussbaum, questo interessante caso di femminismo neo-aristotelico o
neo-aristotelismo femminista, la quale, analizzando l’Antigone vede l’unica soluzione possibile del conflitto tragico tra
legge non scritta e legge scritta nel ricorso, appunto, alla phronêsis, che sarebbe mancata a
entrambi i protagonisti del dramma sofocleo, ma avrebbe risolto il loro problema
in quanto sapere duttile flessibile, capace di adattare la norma universale al
caso particolare (La fragilità del bene,
1987, II ed. 1996). Tornando in Europa troviamo Paul Ricoeur, il quale,
conquistato dal libro di Nussbaum, vede anche lui nella phronêsis la soluzione di tutti gli inevitabili conflitti tragici
della vita etica, non solo di quello dell’Antigone, dove la phronêsis
può avvalersi dell’aiuto della catarsi estetica (ancora una volta con
Aristotele), ma anche di quelli, ad esempio, della bioetica, dove purtroppo non
sembra esservi nulla di artistico (Sé
come un altro, 1991).
Indubbiamente
la saggezza possiede molti pregi. Se ci si attiene, infatti, alla concezione
che ne ha dato Aristotele, cioè come capacità di deliberare bene, ovvero di
trovare i mezzi più efficaci (azioni da compiersi o da evitarsi) per attuare un
fine buono (attenzione: non un fine qualsiasi, altrimenti sarebbe semplice
abilità, o astuzia), la saggezza è la qualità più desiderabile che ci sia. Essa
infatti sa applicare la regola generale al caso particolare, quindi è
conoscenza dell’universale, ed in questo senso è un vero e proprio sapere di
tipo concettuale (anche se non è scienza), ma è anche intuizione del
particolare, come la percezione sensibile, quindi è “intelligenza”, insight
(nous). Perciò la saggezza è
flessibile, duttile, elastica, capace di adattarsi a tutte le situazioni, senza
mai perdere di vista il fine buono. In quanto conoscenza del particolare, la saggezza
presuppone una certa esperienza, non nel senso dell’empirismo inglese (sensazioni,
percezioni, idee), ma nel senso aristotelico dell’essere esperti, di avere
fatto molte esperienze, di conoscere i casi della vita; perciò è più facile
trovarla nelle persone anziane, o comunque mature, che nei giovani (i quali
invece brillano nelle matematiche, dove, a quanto pare, dopo i trent’anni non
si riesce a produrre più niente di nuovo).
Inoltre
la saggezza ha il vantaggio che, una volta appresa, non si dimentica più,
mentre tutte le altre forme di sapere, col passare del tempo, si dimenticano.
Essa, dunque, come tutte le virtù, è un vero e proprio “abito”, cioè
un’abitudine connaturata, una specie di seconda natura, e quindi forma il
“carattere” (ethos), il quale, come
diceva Bernard Williams (altro neoaristotelico), non ha bisogno di metodo, cioè
di istruzioni per l’uso.
Ma, come notava già Aristotele, la saggezza presuppone il
possesso della virtù: non proprio della virtù etica pienamente sviluppata, cioè
della conoscenza del “giusto mezzo” e della tendenza ad attuarlo, perché la
conoscenza del “giusto mezzo” deriva proprio dalla saggezza, ma di quella che
Aristotele chiama la “virtù fisica”, cioè naturale, vale a dire una buona
indole, una naturale onestà, perché è questa che orienta verso il fine buono.
Oltre all’indole buona concorrono alla formazione della virtù una “buona
nascita”, cioè una buona educazione familiare, e soprattutto delle buone leggi,
perché chi si abitua, sia pure per timore delle pene, ad agire onestamente, acquisisce
poi l’onestà come abito. Ovviamente la saggezza non si riduce all’onestà:
secondo Aristotele, infatti, per essere virtuosi, cioè validi, eccellenti
(questo è il significato di aretê),
non basta essere onesti, bisogna essere anche intelligenti; e l’intelligenza
deriva appunto dalla saggezza, virtù “dianoetica”, cioè intellettuale. La
saggezza, in particolare, presuppone la temperanza (sôphrosune, così chiamata, secondo Aristotele, perché “salva”, sôzei, la phronêsis), perché il piacere e il dolore influiscono sul giudizio,
non su ogni giudizio (per esempio non sui giudizi della geometria), ma sul
giudizio etico, cioè di valore, quindi si giudica meglio se si sa resistere
alla loro influenza.
Ma soprattutto la saggezza presuppone che esistano già degli
uomini saggi, perché si apprende sostanzialmente attraverso l’imitazione di un
buon modello. Aristotele cita come modello di uomo saggio Pericle, il grande
statista cui Tucidide mise in bocca il famoso elogio degli Ateniesi in quanto democratici e amanti
della filosofia e del bello in generale (philosophoumen
kai philokaloumen) più che della guerra. Saggio, per Aristotele, è colui
che sa vedere che cosa è bene per lui, per la sua famiglia e per la sua città,
cioè chi governa bene se stesso, la propria famiglia o la propria città. Il
governante saggio è, da un lato, colui che sa capire e interpretare i bisogni
della sua città, ma anche i suoi desideri, le sue valutazioni, i suoi “valori”,
e perciò è in grado di ottenerne il consenso; dall’altro è anche colui che sa
orientare i desideri, le opinioni, le valutazioni, quindi non è solo
espressione della realtà esistente, è anche critico e artefice di essa. Insomma
egli è ad un tempo l’interprete e l’artefice dell’ethos inteso non più come il carattere, ma come il costume pubblico, cioè i mores, quindi anche le istituzioni, che ne sono l’espressione, e le
leggi (la Sittlichkeit di Hegel). Altrettanto si deve dire del modello: esso
incarna un ethos, cioè un costume
sociale, una tradizione condivisa, un sentimento comune, istituzioni collaudate.
Ma, proprio per questo, la saggezza ha una quantità di presupposti.
Ha ragione, quindi, MacIntyre quando afferma che l’ethos presuppone sempre una comunità. L’ethos antico presupponeva la polis,
con le sue leggi, le sue istituzioni, i
suoi dèi. Solo che la polis non era
una comunità nel senso voluto dai comunitaristi, ma era – per usare la distinzione
introdotta da Ferdinand Tönnies – una società. (3)
Nella comunità (Gemeinschaft)
l’elemento “comune” (koinon)
preesiste ai suoi membri, cioè è l’origine, l’etnia, la lingua, la tradizione,
la cultura, mentre nella società (Gesellschaft)
l’elemento comune è posto in essere dalla volontà dei suoi membri, cioè è il
fine, il fine sociale a cui tutti volontariamente e liberamente collaborano,
quale che sia la loro origine, la loro lingua, la loro cultura. Ora la polis, come la famiglia, è una società
che si forma in vista di un fine, (4) il
quale – dice Aristotele – nel caso della famiglia è il semplice “vivere”
(nutrirsi, aiutarsi e riprodursi), mentre nel caso della polis è il “vivere bene”, cioè il pieno sviluppo di tutte le
proprie capacità, il fulfilment (per
usare i termini di Nussbaum), la flourishing
life. Dunque per essere saggi è necessario vivere in una società, che oggi
può essere molto più grande della polis antica
(forse si può dire in uno Stato democratico), condividerne i fini (forse si può
dire i valori costituzionali), collaborare con gli altri alla loro realizzazione
(cioè pagare le tasse, rispettare le regole dei concorsi, non approfittare del
potere), lavorare con onestà ma anche con intelligenza e, se capita di dover
governare, fare il bene pubblico e non i propri interessi, ma farlo bene, cioè
efficacemente, con riforme che abbiano conseguenze importanti, non con semplici
buone intenzioni.
Kant sbagliava nel criticare la saggezza, o “prudenza” (Klugheit), come semplice capacità tecnico-pratica,
perché non teneva conto del fine buono che essa persegue, e quindi la
confondeva con l’abilità, con l’astuzia, quella che Aristotele chiamava deinotês. Questo perché a Kant i fini in
generale non interessavano, anzi erano esclusi dall’etica, appartenevano agli
imperativi ipotetici, non all’imperativo categorico. Quest’ultimo esprime solo
l’intenzione, che deve essere buona. L’unico vero bene, nel senso etico del
termine (das Gute, non das Wohl), è per Kant la “buona
volontà”. Quello che poi accade, come conseguenza di un’azione compiuta con
intenzione buona, a Kant non interessa più: dummodo
fiat iustitia, cioè purché si agisca con intenzione retta, pereat mundus, vada pure in rovina il
mondo intero. (5) Ha ragione Hans Jonas quando afferma che
l’etica kantiana è in fondo un’etica individualistica, l’etica di un uomo del
XVIII secolo, il quale, pur avendo conosciuto la rivoluzione scientifica e
forse anche la rivoluzione industriale, non poteva conoscere la rivoluzione
tecnologica, che ha dato all’individuo poteri immensi nel decidere il destino
di intere generazioni. Qualunque cosa avesse fatto un individuo, al tempo di
Kant, non sarebbe riuscito a mandare in rovina il mondo intero, come invece può
accadere oggi. Ma anche al tempo di Kant le sole buone intenzioni non sarebbero
bastate per governare bene uno Stato.
Eppure nella critica di Kant alla prudenza c’è un fondo di
verità: la prudenza infatti, cioè la saggezza, non fonda la moralità, ma nel
migliore dei casi, cioè quando è autentica saggezza e quindi persegue un fine
buono, la presuppone, cioè presuppone appunto che si sappia già qual è il fine
buono. Quest’ultimo, nella società, è indicato dall’ethos, dalle istituzioni, dalle leggi (oggi diremmo dalla Costituzione),
il che va benissimo per la maggior parte delle persone, ma purtroppo non basta
per i filosofi. In fondo hanno ragione quei filosofi tedeschi, come Habermas e
Schnädelbach, che criticano i
“neo-aristotelici” accusandoli di essere dei conservatori. (6) Il modo in cui i “neoaristotelici” hanno inteso la filosofia
pratica di Aristotele, cioè riducendola sostanzialmente alla phronêsis, giustifica almeno in parte questa
critica, perché la phronêsis è
l’espressione dell’ethos vigente in
una determinata società, che dunque essa tende a conservare, e solo raramente
diventa rivoluzionaria (lo fu, sia pure senza successo, nel caso di Antigone,
che a mio avviso era “saggia”, con buona pace di Nussbaum, Ricoeur e, prima
ancora, Hegel). Il problema è di vedere se i “neoaristotelici” abbiano
interpretato bene Aristotele, cioè se veramente la filosofia pratica coincida
con la saggezza.
2. Sulla filosofia pratica
Ebbene, andiamo a vedere che cosa dice al riguardo Aristotele,
non perché si debba essere per forza aristotelici, ma perché, se in questo
campo c’è una cosa che veramente ha inventato Aristotele, questa non è certo la
saggezza, che esisteva già, per i Greci, almeno sin dal tempo dei famosi Sette
Saggi (e per gli Ebrei del re Salomone), bensì proprio la filosofia pratica, o
almeno la nozione di essa, e sicuramente la denominazione. In Platone infatti
non c’è distinzione tra filosofia teoretica e pratica, perché il supremo
principio metafisico e il supremo principio etico coincidono nell’Idea
trascendente del Bene. Aristotele presenta la filosofia pratica nel primo libro,
famosissimo, dell’Etica Nicomachea,
chiamandola “scienza” (epistêmê) o
“trattazione” (methodos) politica.
Essa è precisamente la scienza del bene, cioè del fine delle azioni umane, e
più precisamente del bene supremo (ariston),
cioè del fine ultimo, quello in vista del quale vengono perseguiti tutti gli
altri. Poiché l’individuo, secondo Aristotele, fa parte della città, il bene
dell’individuo è parte del bene della città, dunque la scienza che se ne occupa
è la politica. Quando si parla di bene supremo, o di fine ultimo, in
Aristotele, non bisogna pensare a nulla di metafisico, cioè di trascendente.
Proprio nel I libro della Nicomachea
Aristotele critica Platone, inaugurando il famoso detto amicus Plato sed magis amica veritas, perché ha concepito il bene
come unico e “separato” (khoriston),
cioè come trascendente, e perciò non “praticabile” (prakton) dall’uomo.
Per Aristotele il bene supremo praticabile dall’uomo, cioè
il fine ultimo di tutte le sue azioni, è “ciò che tutti desiderano” (i traduttori
latini diranno id quod omnes appetunt),
cioè la felicità (eudaimonia). Questo
dovrebbe mettere l’etica aristotelica al riparo da tutte le critiche che gli utilitaristi
muovono ad essa come fondata su una concezione della natura umana, e quindi
vittima della fallacia naturalistica, o, peggio, fondata su una metafisica
(frequente confusione tra l’etica aristotelica e l’etica tomistica, secondo la
quale il fine ultimo è Dio). Certamente non la mette al riparo dalle critiche
di Kant e dei neokantiani, per i quali la felicità non ha nulla a che fare con
l’etica (anche se poi Kant concepisce il Sommo Bene, da realizzarsi nell’altra
vita, come unione di virtù e felicità) e l’“eudemonismo” non è altro che una forma
di utilitarismo, cioè di mancanza di etica. Ma Aristotele critica, si può dire,
ante litteram l’utilitarismo,
mediante la stessa osservazione che avrebbe potuto fare all’etica kantiana,
cioè il fatto di essere formalista, di non riuscire a dare un contenuto preciso
al bene, cioè al fine. Non basta dire, infatti, che il bene supremo è la
felicità, se poi non si dice in che cosa questa consiste. E non basta dire che
il bene è ciò che uno desidera, perché uno potrebbe desiderare un bene solo
apparente, non un bene vero. Insomma, per desiderare qualcosa con verità è
necessario sapere che cosa si desidera, cioè conoscere esattamente ciò che si
desidera.
Prima di tornare, tuttavia, sul concetto di bene, vediamo
quali sono, secondo Aristotele, le altre caratteristiche della filosofia pratica,
cioè anzitutto qual è il suo metodo, o modo di procedere. Questo dipende dal
suo oggetto, cioè il bene, anzi i beni, perché per Aristotele essi possono essere,
anzi sono, più di uno, essendo i fini delle azioni umane, le quali sono
innegabilmente molte e di molti tipi. Ebbene, i beni a cui tendono gli uomini
sono caratterizzati, secondo Aristotele, da molte “differenze” e “variazioni”,
per cui una stessa cosa, ad esempio la ricchezza, o il coraggio, per alcuni può
essere un bene, cioè qualcosa di desiderabile, e per altri un male, cioè
qualcosa di non desiderabile, o in alcuni momenti può essere un bene e in altri
un male. Quindi a proposito di tali beni bisogna accontentarsi di “mostrare la
verità in maniera approssimativa e a grandi linee”, cioè partendo da premesse
che valgono “per lo più” e giungendo quindi a conclusioni che valgono
ugualmente “per lo più”. Insomma la filosofia pratica, o scienza politica,
conosce anch’essa, come tutte le scienze, la verità, anzi, come tutte le
scienze, la dimostra, quindi non è un semplice discorso esortativo, o
persuasivo, come possono essere, ad esempio, quelli che insegna a fare la
retorica; ma le dimostrazioni che essa sviluppa non hanno la stessa “esattezza”
(akribeia) delle dimostrazioni
matematiche, le quali valgono “sempre”, cioè dimostrano verità necessarie, bensì valgono soltanto “per lo più”, cioè
nella maggior parte dei casi, di regola, ma quindi anche con eccezioni.
Si tratta dunque di una scienza, cioè di un discorso concatenato,
argomentato, ma più duttile, più flessibile, più elastico di quello delle altre
scienze, in particolare delle scienze matematiche. Forse per questo motivo, e
perché Aristotele aggiunge che, riferendosi i beni ad azioni concretamente
vissute, la filosofia pratica richiede una certa esperienza, quindi non è
adatta ai giovani, ed inoltre non è adatta ai giovani perché essi sono più
soggetti alle passioni, e quindi meno propensi a seguire dei ragionamenti che
possono condurli a conclusioni diverse da quelle suggerite dalle passioni: per
tutti questi motivi, insomma, essa è stata confusa, o identificata, con la
saggezza. Ma è chiaro che si tratta di due cose bene diverse. La saggezza non
argomenta, ma delibera; l’unico ragionamento di cui essa si serve è il cosiddetto
sillogismo pratico, che consiste nell’applicare una regola generale (in genere
l’indicazione del fine) ad un caso particolare (la scelta del mezzo) per
concludersi con l’azione. Per questo la saggezza, come dice Aristotele, è
“prescrittiva” (epitaktikê). La
filosofia pratica invece argomenta, cioè cerca di stabilire per mezzo di
argomentazioni, quale deve essere il fine, e non decide affatto su come agire,
non è dunque “prescrittiva”, anche se è “pratica”, cioè ha a che fare con le
azioni (praxeis), ed ha per fine non la
conoscenza in se stessa, bensì la conoscenza del bene, di un bene praticabile,
cioè realizzabile per mezzo di azioni.
La saggezza ha come modello il buon politico, per esempio,
come abbiamo visto, Pericle, ed è raccomandabile a tutti, nel senso che tutti
devono cercare di apprenderla imitando il modello; la filosofia pratica,
invece, non ha modelli, ha semmai degli interlocutori, i quali non devono
imitare nessuno, ma devono invece discutere, confrontarsi, al limite cercare di
confutarsi. Insomma la saggezza è una virtù che tutti devono proporsi di
sviluppare, la filosofia pratica è affare da filosofi, da persone che hanno
tempo e voglia di cercare la verità. Gli interlocutori di Aristotele in questa
impresa potevano essere Socrate, o Platone, per il passato, e i suoi
contemporanei, cioè Eudosso (edonista), Speusippo (antiedonista), Senocrate,
gli ultimi sofisti, i primi scettici, ecc. L’uomo saggio non ha bisogno di
leggere libri o di scriverne; il filosofo pratico invece legge, per esempio
legge i dialoghi di Platone, o scrive, cioè scrive l’Etica a Nicomaco (o Etica per
un figlio, come la chiama il traduttore italiano dell’imitazione fattane da
Fernando Savater) e la Politica.
Il modo in cui procede la filosofia pratica è esemplificato
con chiarezza dallo stesso andamento dell’Etica
Nicomachea ed è esplicitamente teorizzato all’inizio del libro VII, dove
Aristotele dice che, in tema di virtù o di vizi, bisogna anzitutto esporre i
pareri espressi dagli altri filosofi (tithenai
ta phainomena), poi sviluppare i problemi, cioè assumere i suddetti pareri
come possibili soluzioni opposte di uno stesso problema e dedurre le
conseguenze che derivano da ciascuna di esse. Quando tali conseguenze sono in
grado di resistere alle obiezioni e sono compatibili con i cosiddetti endoxa, cioè con le opinioni di tutti, o
della maggioranza, o degli esperti, o della maggioranza degli esperti, allora
si potrà ritenere di avere dimostrato a sufficienza la validità di una
determinata soluzione. Poiché gli endoxa,
secondo Aristotele, sono veri “per lo più”, ecco in quale senso le dimostrazioni
della filosofi pratica valgono “per lo più”. Ma esse non sono dimostrazioni
geometriche, che partano da assiomi evidenti o da princìpi assolutamente veri
(come quelle dell’Ethica di Spinoza, che
non a caso è more geometrico demonstrata),
bensì argomentazioni dialettiche, sviluppate in un confronto fra interlocutori
che sostengono tesi tra loro opposte, che obiettano, criticano, confutano.
Tutto ciò non ha nulla a che fare con la saggezza: l’uomo saggio non discute,
non argomenta, ma delibera.
Certo, il riferimento agli endoxa condiziona in una certa misura la filosofia pratica
all’opinione comune, e quindi all’ethos,
di cui anche il filosofo deve tenere conto, ma perché, secondo Aristotele, l’opinione
comune ha ottime probabilità di contenere la verità. Si è parlato, a questo proposito,
di ottimismo epistemologico. In effetti Aristotele non era scettico, cioè
credeva nella capacità umana di conoscere la verità, specialmente in tema di
etica e di politica. Del resto anche Hume, comunemente considerato uno
scettico, credeva nell’esistenza del moral
sense, sul quale avevano richiamato l’attenzione Shaftesbury e Hutcheson,
come sentimento di approvazione verso la virtù e di biasimo nei confronti del
vizio, sentimento a suo giudizio posseduto da tutti gli uomini, o sicuramente
dalla maggior parte, tanto che egli lo
riteneva derivante “in ultimo da quella suprema Volontà che fornì ad ogni
essere la sua particolare natura”. (7) E
Kant non riteneva anche lui, sia pure facendo affidamento sulla ragione e non
sul sentimento, che la legge morale deve essere universale, cioè valida per
tutti, e quindi condivisa da tutti, nota a tutti? E in politica la democrazia, cioè il
principio per cui è preferibile ciò che vuole la maggioranza, non è forse espressione
di ottimismo epistemologico? Protagora, il primo teorico della democrazia, che
passa pure lui per uno scettico, o un relativista, diceva che pochi sanno
governare bene, ma tutti sanno se sono governati bene o male.
Il riferimento agli endoxa,
e quindi all’ethos, non significa
nemmeno che la filosofia pratica debba essere necessariamente conservatrice.
Aristotele in molti campi era certamente un conservatore, ma non in tutti e non
necessariamente. Per esempio a proposito della “crematistica”, cioè dell’arte
di procurarsi le ricchezze, egli pensava, diversamente dalla maggior parte dei
suoi contemporanei, che un arricchimento illimitato non fosse un bene, ma un
male, e perciò condannava la crematistica di questo tipo come innaturale, con
argomentazioni di vario tipo (per esempio che, essendo l’uomo un essere
limitato, anche i suoi bisogni sono limitati, e non illimitati, come sosteneva
il pur saggio Solone). E il tipo di vita da lui proposto come superiore ad ogni
altro, cioè la vita dedita alla ricerca, allo studio, all’osservazione delle
piante e degli animali, alla raccolta delle costituzioni, ecc. (questo vuol
dire l’espressione “vita teoretica”), non rifletteva certo le preferenze della
maggioranza dei suoi contemporanei.
3. Sull’antropologia
Torniamo al problema del bene supremo, cioè della felicità,
e vediamo quale verità, secondo Aristotele, la filosofia pratica è in grado di
argomentare a proposito di essa. Abbiamo già detto che tutti desiderano essere
felici, e su questo dunque non c’è problema. Il problema è di vedere in che
cosa la felicità consiste. Se non si dà, infatti, un contenuto preciso alla
felicità, e ci si limita a identificarla con ciò che tutti desiderano, cioè con
le cosiddette preferenze, c’è il rischio di cadere nel formalismo, anche perché
molti non sanno che cosa desiderare, o letteralmente non conoscono le cose che,
se conoscessero, desidererebbero. Per esempio chi non sapesse leggere, non
potrebbe desiderare i piaceri che derivano dalla lettura. Ma difficilmente i
bambini costretti ad andare a scuola provano un autentico desiderio di leggere.
Non basta, dunque, dire che la felicità è ciò che tutti desiderano, se poi non
si è in grado di dire che cosa gli uomini veramente desiderano e che cosa
potrebbero desiderare, se lo sapessero.
Aristotele anzitutto osserva che la felicità, per essere
tale, deve durare per l’intera vita. Ciò non vuol dire che nessun uomo, finché
vive, non possa essere detto felice, perché per poterlo dire tale si deve
attendere la fine della sua vita, come sosteneva Solone. Ma è certo, e tutti
sarebbero disposti ad ammetterlo, che non può essere detto felice chi ha una
brutta vecchiaia, o chi nella vecchiaia è soggetto a terribili sciagure, come,
dice Aristotele, accadde a Priamo. La felicità, dunque, non è lo stato d’animo
di un singolo momento, o almeno non è questa la felicità che tutti desiderano.
Quando uno, ad esempio col matrimonio, si sceglie un certo partner per essere
con lui felice, o nel lavoro si sceglie la professione che più gli piace per
essere felice, certamente pensa alla felicità di un’intera vita, o di un
periodo il più lungo possibile. Il problema della felicità diventa allora il
problema di qual è il tipo di vita, o il genere di vita (il bios dicevano i Greci), che uno vorrebbe
vivere più di ogni altro. E qui i candidati alla risposta sono molti, erano già
molti al tempo di Aristotele: la vita dedita al piacere, la vita dedita al
potere (la vita politica), la vita dedita alla ricerca (la vita teoretica),
ecc.
Per rispondere alla domanda “che cos’è la felicità?” Aristotele
fa una mossa che si rivela decisiva per la sua filosofia pratica, ma che lo
espone a infinite critiche da parte di tutti coloro, o meglio di tutti quei filosofi,
che non condividono la sua etica: “forse – egli dice – si riuscirebbe a
coglierla, se si cogliesse la funzione (ergon)
dell’uomo”. “Come, infatti, per il flautista, per lo scultore e per chiunque
eserciti un’arte, e in generale per
tutte le cose che hanno una determinata funzione e un determinato tipo di
attività, si ritiene che il bene e la perfezione consistano appunto in questa
funzione, così si potrebbe ritenere che sia anche per l’uomo, se pur c’è una
sua funzione propria. Forse, dunque, ci sono funzioni ed azioni proprie del
falegname e del calzolaio, mentre non ce n’è alcuna propria dell’uomo, ma è
nato senza alcuna funzione specifica? Oppure come c’è, manifestamente, una
funzione determinata dell’occhio, della mano, del piede e in genere di ciascuna
parte del corpo, così anche dell’uomo si deve ammettere che esista una determinata
funzione oltre a tutte queste? Quale, dunque, potrebbe mai essere questa
funzione?” (Eth. Nic. I 7, 1097 b
22-33).
Questo brano si presta a varie considerazioni. Anzitutto Aristotele
sembra rifarsi all’opinione comune, cioè a un endoxon: la felicità di ogni tipo particolare di uomo, cioè di ogni
“specialista”, consiste nello svolgere bene la sua funzione, quella del
flautista nel suonare bene il flauto, quella dello scultore nello scolpire una
bella statua, ecc. Poi egli estende, per analogia, questo principio all’uomo
come tale, non senza provare qualche dubbio e incertezza sulla legittimità di
questa estensione (“forse”, “se pur c’è una sua funzione propria”). Questo, del
resto, è il punto in cui sembra entrare in gioco il concetto di “natura”
dell’uomo (“è nato senza alcuna funzione specifica?”), che attira sull’etica di
Aristotele l’accusa di naturalismo. Ebbene, non c’è dubbio che Aristotele
ammette una “natura” dell’uomo. Egli dice infatti che “tutti gli uomini
desiderano per natura conoscere”, o
che “l’uomo è per natura un animale
politico”, anche se precisa che con “natura” non intende la condizione primitiva,
quale si registra alla nascita (come Hobbes, Locke, Rousseau, Kant), bensì “il
fine”, cioè la perfezione, la conclusione dello sviluppo, la piena realizzazione,
cioè quella che noi chiamiamo la “cultura” o la “civilta”.
L’ammissione di una “natura” dell’uomo come base della
filosofia pratica sembra scontrarsi oggi con due tipi di difficoltà. Anzitutto
sembra che il concetto stesso di “natura” umana sia oggi rifiutato dalla
scienza, cioè dalla biologia, che si rifà giustamente alla teoria
evoluzionistica, o dall’antropologia, che tiene conto giustamente di tutte le
differenze di cultura. Ciò tuttavia non impedisce che tutti, o molti, si
trovino poi d’accordo, compresi biologi e antropologi, nel rivendicare gli
stessi diritti per tutti gli uomini, indipendentemente dalla razza, dall’etnia,
dal sesso, dalla religione, dalla cultura, ammettendo in tal modo che, malgrado
le differenze, c’è qualcosa che accomuna tra loro tutti gli uomini,
distinguendoli, ad esempio, dalle piante, e anche dagli altri animali.
Evidentemente per “natura” i suoi negatori intendono un’essenza immutabile, una
specie di Idea platonica, trascendente ed eterna, e quindi rifiutano, giustamente,
l’esistenza di siffatta natura, dimenticando, tra l’altro, che il primo e più
efficace critico delle Idee platoniche è stato Aristotele.
Poi ci si chiede perché mai la natura, quand’anche
esistesse, dovrebbe fungere da fondamento dell’etica, cioè perché mai l’uomo
dovrebbe agire in conformità con la sua natura. A questo proposito ci si
richiama alla famosa osservazione di Hume, ufficializzata poi col nome solenne
di “Legge di Hume”, secondo cui da premesse formulate col verbo “essere” non si
possono dedurre conclusioni contenenti il verbo “dovere”: osservazione
giustissima, che ripete una famosa regola della logica aristotelica, quella che
dichiara erronea, nella deduzione, la metabasis
eis allo genos. Da ciò a dichiarare una totale separazione tra fatti e
valori, come è accaduto in certi settori della filosofia analitica contemporanea,
c’è molta strada da fare, per non dire delle difficoltà di tale separazione
assoluta, messe recentemente in luce da H. Putnam in Facts and Values. The Collapse of a Dychotomy (Cambridge, Ma.
2002). In ogni caso Aristotele non pretende di fondare sulla natura alcun
“dovere”. Aristotele non è Kant, non sta cercando quali siano i doveri
dell’uomo, ma in che consista la felicità, e sembra abbastanza plausibile
sostenere che la felicità consiste anzitutto nello svolgere le proprie funzioni
naturali, per esempio nutrirsi, svilupparsi, esercitare i sensi, muoversi,
parlare, dialogare, fare all’amore, fare ricerca (per quelli a cui piace).
Se, infatti, si va a vedere che cosa Aristotele intende per
“funzione” propria dell’uomo in quanto tale, ci si rende conto come molte delle
critiche che sono state rivolte a questa concezione siano sovradeterminate,
cioè eccessive. L’antropologia filosofica di Aristotele – perché di questo si
tratta, cioè di fondare l’etica su un’antropologia, non su una metafisica, e
meno ancora su una teologia (8) – è
estremamente semplice e difficilmente rifiutabile. Essa si compendia nella
definizione dell’uomo come animale, cioè essere vivente, dotato di logos, cioè anzitutto di parola: per questo,
infatti, l’uomo è per natura animale politico, perché la parola gli permette di
discutere, nella polis, che cosa è giusto
o ingiusto, che cosa è utile o dannoso. Ora, chi può negare che ciò che
accomuna l’uomo alle piante e agli animali sia appunto il fatto di vivere, e
ciò che invece lo distingue sia la parola? Certo, si può sostenere che anche
gli altri animali in qualche modo comunicano, o addirittura ragionano, ma non
che hanno la parola intesa come capacità non solo di comunicare, ma anche di
discutere, di leggere, di scrivere, ecc. Per questo a me pare che tutte le
contestazioni del naturalismo dell’etica aristotelica, in nome delle scienze, o
della legge di Hume, siano eccessive, non pertinenti, perché presuppongono un
bersaglio che in realtà non esiste e quindi non colpiscono qualcosa che invece
è ammesso da tutti, compresi gli autori delle critiche.
Continuando, infatti, nella sua ricerca della felicità,
Aristotele sostiene che la funzione dell’uomo non può essere il semplice
vivere, cioè nutrirsi e riprodursi, perché questo è comune anche alle piante;
né la semplice vita dei sensi, perché questa è comune anche al cavallo, al bue
e ad ogni altro animale; dovrà essere quindi qualcosa che ha a che fare col logos, cioè sarà “attività secondo il logos o, quanto meno, non senza logos”. Naturalmente questa attività,
per dare la felicità, dovrà essere svolta nel modo migliore possibile, cioè in
modo eccellente, come il suonare il flauto rende felice il flautista se è
svolto in modo eccellente. Ma l’eccellenza in greco si chiama aretê, che normalmente viene tradotto
con “virtù” (chissà perché; in latino infatti virtus deriva da vir,
uomo maschio, come in greco andreia deriva
da aner-andros, e indica una virtù
particolare, cioè il coraggio, mentre arete
ha la stessa radice ar di ariston, l’ottimo in generale). Perciò Aristotele può concludere che il bene
dell’uomo, cioè la felicità, consiste nell’agire secondo virtù, cioè nel
compiere in modo eccellente la funzione propria dell’uomo, che è connessa
all’esercizio del logos, e “se le
virtù sono molte, secondo la migliore e la più perfetta”.
Quest’ultima frase ha scatenato una controversia tra gli interpreti:
alcuni sostengono infatti l’interpretazione “intellettualistica” dell’etica
aristotelica, secondo la quale la virtù perfetta è l’esercizio della pura theôria, cioè della pura ricerca, in cui
il logos è esercitato con l’unico
fine di conoscere (non della “contemplazione”, perché Aristotele non era un
monoteista e non conosceva la contemplatio
Dei), con esclusione di tutte le altre attività; altri invece hanno sostenuto
l’interpretazione “inclusiva”, secondo la quale la vita teoretica è il culmine
della felicità, ma questa include tutte le altre virtù in cui si esercita il logos, in particolare la philia (che non è solo l’amicizia, ma
ogni forma di affetto), alla quale Aristotele dedica ben due libri della Nicomachea su dieci, cioè un quinto
dell’intera opera. A me sembra fuori dubbio che l’interpretazione giusta è
quella “inclusiva”, non solo con riferimento a tutte le virtù in cui si
esercita il logos, ma anche con
riferimento a tutta una serie di “beni esterni”, che secondo Aristotele sono
indispensabili per la felicità, quali la salute, una discreta ricchezza (che
garantisca una vita dignitosa), un discreto aspetto fisico (non troppo
sgradevole agli altri), una buona famiglia, dei buoni amici, il successo nella
professione, la possibilità di vivere in una città (oggi diremmo in uno Stato)
governata bene, con leggi giuste e scuole efficienti.
È questa, a grandi linee, la filosofia pratica di
Aristotele, la quale, come si vede, è ben diversa dalla saggezza. Certo, per
vivere bene, e quindi anche per essere felici, basta la saggezza, la quale
prescrive quali azioni compiere e quali evitare per giungere alla felicità,
anche se non è essa la felicità, cioè il fine. Aristotele paragona infatti la
saggezza all’arte della medicina, che prescrive quali cose fare e quali evitare
per riacquistare, o per conservare, la salute, ma non è essa la salute. Il
filosofo, tuttavia, non si accontenta di vivere bene, ma vuole anche sapere in
che cosa la felicità consiste, e perché. Il filosofo, insomma, fa dell’etica un
oggetto di riflessione, vuole discutere sui fini, vuole sapere che cosa ne
dicono gli altri filosofi, vuole stabilire chi ha ragione, insomma non si
accontenta facilmente. Al filosofo, dunque, non può bastare la saggezza, ma è
necessaria una vera e propria filosofia pratica, cioè un’etica e forse anche
un’antropologia. Così come credo non basti la saggezza per dirimere conflitti
tragici come quelli che si possono produrre oggi nell’ambito di competenza
della bioetica, o almeno per fornire criteri di giudizio, orientamenti di
carattere generale, informazioni sulle diverse possibili soluzioni dei problemi,
argomenti a favore o contro ciascuna di esse.
Questo è quanto ho sostenuto, forse con una certa impudenza,
alcuni anni fa in una discussione pubblica con due filosofi del calibro di Paul
Ricoeur e Bernard Williams, attirandomi il biasimo degli ascoltatori. (9) Ricoeur rimase infatti dispiaciuto per le
mie critiche, condotte dal punto di vista di Aristotele, un autore del quale
egli ha la più grande considerazione, e Williams si dichiarò d’accordo con
l’etica di Aristotele, ma non con la sua fisica. Questo mi offre l’occasione
per un ultimo chiarimento. Sostenere che una filosofia pratica di ispirazione
aristotelica ha bisogno di fondarsi su un’antropologia, non significa rifarsi
all’intera fisica di Aristotele, tanto più quando l’antropologia in questione
si riduce alla semplice definizione dell’uomo come vivente fornito di parola.
Ovviamente oggi si può disporre di un’antropologia molto più ricca e complessa,
ma forse non ce n’è bisogno. Per dire in che consiste la felicità, basta
riuscire a descrivere, o ad enumerare, alcune capacità umane, e cercare come
poterle realizzare. Questo è quanto ha tentato di fare Martha Nussbaum con la
sua famose lista delle capacità, per la quale è stata molto criticata. Ma, se
parlare di capacità può dare fastidio, si può parlare invece di diritti, e
forse sarà più facile trovare consensi, però si dice sempre, più o meno, la stessa cosa.
La più importante tra le molte novità che la storia della
cultura umana ha portato rispetto all’antropologia di Aristotele è il concetto
di “dignità” umana. Esso ricorre oggi in molte carte costituzionali e in molte
dichiarazioni dei diritti, per esempio in quella dell’Unione Europea. Raramente
si spiega che cosa si intende con questa espressione, forse perché si dà per
scontato che il significato di essa sia evidente. Secondo me, colui che l’ha
chiarita meglio è Kant, e per una volta sono lieto di schierarmi dalla parte di
questo grandissimo filosofo, dal quale abbiamo sempre molto da imparare. Per
Kant, come è noto, la differenza tra le cose e le persone, cioè gli esseri
umani, è che le cose hanno un prezzo, cioè sono scambiabili con altro, mentre
le persone hanno una dignità, cioè non sono scambiabili con niente. Ciò equivale,
credo, alla famosa massima, sempre di Kant, secondo cui non bisogna mai
considerare gli esseri umani soltanto come mezzi, ma sempre anche come fini. Ecco,
questo Aristotele non lo sapeva, infatti ammetteva che almeno alcuni uomini
fossero per natura schiavi, cioè destinati ad essere proprietà di altri, e
quindi scambiabili con altro, come le cose. La nozione di dignità umana può
essere un buon concetto da inserire in una moderna antropologia al servizio
dell’etica, come mi sembra faccia Habermas (che non è certo un aristotelico,
con buona pace di Carlo A. Viano), nel
suo libro su Il futuro della natura umana
(Frankfurt 2002). (10)
Note
(1) Cfr. M.
Riedel (Hrsg.), Rehabilitierung der
praktischen Philosophie, 2 voll., Frankfurt a. M. 1972-1974.
(2) Cfr. E.
Berti, The Reception of Aristotle’s Intellectual
Virtues in Gadamer and the Hermeneutic Philosophy, in R. Pozzo (ed.), The Impact of Aristotelianism on Modern
Philosophy, Washington, D.C. 2004, pp. 285-300.
(3) F.
Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft,
Lipsia 1887 (trad. it. Milano 1963).Tönnies preferiva la comunità, come i
comunitaristi, mentre io, con Aristotele, preferisco la società.
(4) Sotto questo aspetto la concezione
aristotelica non è poi così lontana dal contrattualismo moderno.
(5) I. Kant, Per la pace perpetua, tr. it. Milano 1997, p. 93. Devo questa
citazione a un’indicazione di G. Catapano, che ringrazio. Nella pagina citata Kant,
pur considerando il detto in questione un proverbio “un po’ fanfaronesco”, tuttavia
lo dichiara vero e ne spiega il significato così: “le massime politiche non
devono partire dal benessere o dalla felicità che bisogna attendersi dalla loro
applicazione per ogni singolo Stato […], ma invece dal puro concetto del dovere
del diritto (dal dovere, il cui principio è dato a priori dalla ragione), quali che possano essere le conseguenze
fisiche [corsivo mio].
(6) J.
Habermas, Über Moralität und
Sittlichkeit. Was macht eine Lebensform “rational”, in H. Schnädelbach,
Hrsg., Rationalität, Frankfurt a. M.
1984, pp. 218-233 (trad. it. in Id., Teoria
della morale, Roma 1994).
(7) D. Hume, Ricerca sui princìpi della morale, in Opere filosofiche a cura di E. Lecaldano, vol. II, p. 311.
(8) È interessante ricordare che Aristotele
non solo non fonda l’etica sulla teologia, ma rifiuta esplicitamente tale
possibilità, dichiarando che “Dio non dà ordini, perché non ha bisogno di nulla”
(Eth. Eth. VIII 3, 1249 b 13-16).
(9) E. Berti, Commento a P. Ricoeur, Etica
e conflitto dei doveri, "Il Mulino", 39, 1990, pp. 404-410.
(10) C.
A. Viano, Antiche ragioni per nuove
paure: Habermas e la genetica, “Rivista di filosofia”, 95, 2004, pp.
277-296. Viano sostiene che Habermas si rifà ad Aristotele, ma in tutto il suo
libro non l’ho trovato mai citato. È curioso che nella traduzione italiana il
sottotitolo del libro diventi I rischi di
una genetica liberale, mentre l’originale è Auf dem Weg zu einer liberalen Eugenik?. In tal modo si attribuisce
all’autore la confusione tra una scienza, quale è la genetica, è un’ideologia,
quale è l’eugenetica.