Etica & Politica / Ethics & Politics

http://www.units.it/etica/2005_2/ARDILLI.htm

 

 

Il dominio della vita tra sacralizzazione e disincanto

 

Deborah Ardilli

 

Università di Trieste

Dipartimento di filosofia

 

 

Abstract

 

This essay retraces the implications tied to the question of life in a ‘disenchanted’ world by analysing some features of the bioethical and philosophical-political debate.  The author discusses the dicothomy between sanctity-of-life and quality-of-life doctrines, in order to show that the opposition between the two perspectives is not altogether convincing. Seen in the light of the metamorphosis of the notion of life ( reconstructed here following Arendt’s analysis of the Modern Age), this opposition proves to be the superficial manifestation of a deeper issue, which amounts to social reproduction’s imperatives.    

 

 

 

 

 

1. «C’è vita»: osservazioni preliminari

 

L’attestazione ontologica «c’è vita», singolare amalgama di realismo biologico, sedimenti metafisici e valorizzazione simbolica, sembra essere diventata il fulcro della discussione pubblica, la posta delle più importanti battaglie politiche e il canone di riferimento per ogni discorso filosofico che voglia guadagnarsi un certificato di rispettabilità. Se «c’è vita», pare scontato che ognuno debba attivarsi in sua difesa, secondo i principi del rispetto oppure quelli della beneficenza, compatibilmente con l’interpretazione privilegiata del dato. La vita si innalza, nella retorica pubblica non meno che nell’indagine filosofica, a valore indiscutibile, prima ancora di un accertamento rigoroso in merito all’effettiva intesa comunicativa sulla costellazione concettuale che viene chiamata in causa quando si parla, spesso indiscriminatamente, dell’inviolabilità, dell’indisponibilità o della sacralità dell’oggetto in questione. La si consideri come vita in atto o come vita in potenza, la si interpreti come personale dal momento del concepimento oppure da quello dell’emissione del primo vagito, corre l’obbligo di discorrerne in termini più che lusinghieri. Così si esprime, tra gli altri, Jürgen Habermas: «Nessuno dubita che la vita umana prima della nascita abbia valore intrinseco, sia che la si consideri sacra sia che si respinga questa sacralizzazione di ciò che è fine a sé (non strumentalizzabile)».(1)  

«C’è vita»: anche chi nega la deducibilità di una posizione etica da un’asserzione così manifestamente incapace di produrre una qualche sensatezza epistemologica (una posizione etica, per essere più chiari, modellata sull’archetipo a-temporale di ogni responsabilità, il «deve elementare nell’è del neonato» di Hans Jonas),(2) tende poi a neutralizzare la portata e le conseguenze della propria interpretazione, sulla base del fatto che «la sperimentazione si sviluppa comunque su un materiale cellulare che non può essere considerato privo di rilevanza morale».(3) La filosofia pare avviarsi, nell’epoca del disincanto del mondo, a reinterpretare in termini secolarizzati il principio di sacralità della vita. Alla luce di un presupposto ermeneutico che, per un verso, confida nell’inesauribile efficacia analitica e descrittiva della categoria di ‘secolarizzazione’(4) e, per altro verso, postula infinite metamorfosi del concetto di sostanza, la filosofia migra – con un movimento di neutralizzazione efficacemente descritto da Carl Schmitt – (5) da un campo di lotta verso un terreno presuntivamente capace di garantire la cessazione delle ostilità attraverso il raggiungimento di un minimo di accordo su premesse evidenti.

Una tesi così marcatamente unilaterale potrebbe essere subito revocata in dubbio dalla circostanza che vede ormai consolidata, all’interno del dibattito bioetico, la distinzione tra etica della sacralità della vita ed etica della qualità della vita. Il filosofo australiano Peter Singer è tornato più volte su questa polarità antitetica, ricordando come l’accettazione della morte cerebrale in qualità di criterio deputato a stabilire l’avvenuta morte dell’individuo faccia sì che ad esseri umani pulsanti, che ancora respirano, non venga erogata ulteriore assistenza medica.(6) Su questo terreno, la prassi medica e quella giuridica si muoverebbero in controtendenza rispetto alla norma secondo la quale è sempre moralmente sbagliato mettere fine intenzionalmente a una vita umana innocente. Più precisamente, la norma che, in nome della sacralità della vita, condanna senza eccezione l’interruzione intenzionale dell’esistenza di un innocente, sarebbe costretta ad auto-sospendersi in una quantità di casi in cui il rispetto per la dignità del morente prescrive di accelerarne la fine.

Vale la pena chiedersi se il riferimento a questa recente acquisizione rappresenti di per sé l’ultima parola in relazione all’esaurimento del codice della sacralità della vita.(7) O se, diversamente, non si debba approfondire l’interrogazione in un senso precluso ad una prospettiva che, limitandosi a registrare il tracollo analitico di categorie di pensiero e di valori resi obsoleti dalla prassi sociale, non si avvede, contemporaneamente, degli insospettabili margini di resistenza che questi presentano. Sotto questo profilo, la metaetica di impianto coerentista che caratterizza nel suo complesso il paradigma bioetico contemporaneo,(8) ovvero l’abbandono post-metafisico di ogni forma di fondazionalismo a favore della costruzione di un equilibrio riflessivo tra le nostre intuizioni morali di base e i principi che le giustificano, si rivela poco feconda. L’impostazione coerentista in questo caso potrebbe, tutt’al più, portare argomenti a favore dell’utilitarista, quando questi mostra come l’etica della sacralità della vita introduca surrettiziamente apprezzamenti relativi alla qualità della vita, facendo leva su una serie di distinzioni tutt’altro che autoevidenti come uccidere/lasciar morire, effetti intesi/effetti meramente imprevisti, mezzi ordinari/mezzi straordinari.(9) Ciò che l’approccio coerentista non è in grado di chiarire, tuttavia, è se a ricostruzioni morali mutuamente esclusive dei nostri giudizi ponderati corrispondano altrettante metafisiche influenti o visioni del mondo parimenti incompatibili tra loro (ad esempio, l’alternativa creazionismo/evoluzionismo).(10)

La questione evidenziata non è peregrina, se non altro perché proclamare enfaticamente l’estinzione di un codice di significati morali tradizionali – se si vuole: una più sobria dichiarazione in merito al senso della nietzscheana ‘morte di Dio’ – dovrebbe impegnare, in sede di riflessione filosofica, ad esplorazioni di più ampio respiro. Segnatamente, si tratterebbe di mettere alla prova l’ipotesi, qui difesa, in base alla quale le trasformazioni in corso incidono sui significati perché investono, in prima istanza, i referenti dei termini impiegati. In altre parole, occorre verificare se e in che modo la semantica del sacro sia stata trasferita verso ciò che dalla sfera del sacro è stato tradizionalmente escluso.(11) Se le cose stanno così, se effettivamente si è prodotto un cambiamento che il linguaggio ordinario avverte solo confusamente, non è difficile intuire che i risvolti più scabrosi della metamorfosi investono direttamente il discorso filosofico sull’origine e il problema della titolarità dell’iniziativa creativa sulla vita, con tutte le conseguenze etiche e politiche del caso.

Fenomeni di questa portata, com’è da attendersi, si negano ad un sondaggio empirico e ad una relativa interpretazione al di fuori di ogni disputa. E, certamente, voler spiegare tutto nei termini di un uso improprio, se non addirittura inebriante, di metafore religiose sottratte al contesto originario è un’operazione che si esporrebbe a più di una critica. Ma il fatto che, recentemente, una voce autorevole abbia segnalato, in un volume dedicato ai rischi dell’eugenetica liberale, la necessità di un programma di traduzione cooperativa di contenuti religiosi, dal momento che «le maggioranze secolarizzate non hanno il diritto di far prevalere le loro decisioni in tali questioni, se prima non hanno prestato attenzione alle obiezioni degli oppositori che si sentono feriti nelle proprie convinzioni religiose»,(12) non dovrebbe dare adito a troppe incertezze sulla direzione di ricerca da imboccare.

Sostenere, come di fatto Habermas sostiene, che la dialettica incompiuta della secolarizzazione debba risolversi nel riconoscimento di un diritto di veto religioso è un pronunciamento di portata dirompente. L’assiologia intorno alla quale si è strutturato il liberalismo filosofico del secondo Novecento, e cioè, sostanzialmente, l’idea che l’ordine cognitivo e l’ordine politico nascono assieme, riceve qui un colpo mortale. La tesi della co-originarietà tra ordine politico e ordine cognitivo, nella variante habermasiana, comporta 1) che vengano considerate legittime solo quelle norme che possono riscuotere il consenso di tutti nelle condizioni di un discorso razionale; 2) che la modalità legittimante di un consenso generale si colleghi all’idea di una legalità coercitiva tutelante eguali libertà soggettive; 3) che i procedimenti di legittimazione discorsiva siano ‘aperti al futuro’, nel senso di perpetuare nel tempo l’atto costituente attraverso un processo di apprendimento capace di auto-correzione. (13)

Ora, il tema della vita e dei suoi condizionamenti biologici mette in crisi questo modello fallibilistico, poiché, stando all’argomentazione del filosofo tedesco, quando è in gioco l’autocomprensione normativa del genere umano – autocomprensione che potrebbe essere manomessa dalla manipolazione migliorativa e non terapeutica del genoma - un fallimento maturato nel corso delle pratiche discorsive è un lusso che non ci si può permettere al prezzo democratico di una clausola emendatrice. Di conseguenza, l’invito alla fluidificazione politica di contenuti religiosi trova a questo livello un’accoglienza favorevole, venendo a saldarsi con l’idea che qualcosa, ovvero il principio della vita (pietrificato da Habermas nella riabilitazione del concetto di ‘natura umana’, dalla quale far dipendere un’etica del genere), debba essere sottratto agli esiti aperti e imprevedibili del confronto comunicativo.

Tentare di minimizzare l’entità di una simile conclusione mediante l’ormai rituale appello al fatto del pluralismo servirebbe a poco, dal momento che è proprio questo supposto dato di fatto e il suo impiego in sede di filosofia politica che devono essere interrogati. Tale ripensamento è declinabile in maniere diverse. In relazione al problema etico-politico della vita, una tra le possibili piste di indagine potrebbe prendere le mosse da questo interrogativo: l’antitesi tra etica della sacralità della vita ed etica della qualità della vita configura una grande dicotomia? Si dispone come una correlazione disgiuntiva sotto ogni rispetto?

 

 

2. La sacralità della vita come bene sociale

 

In linea di principio, i contrassegni distintivi dell’etica della sacralità della vita rinviano al suo essere associata a concezioni religiose e al suo prendere corpo in divieti assoluti. Quando, invece, si parla di etica della qualità della vita, entrano in gioco valutazioni che, con uno spettro di oscillazione abbastanza ampio, vanno dalla considerazione delle preferenze soggettive e degli interessi critici degli individui coinvolti ad indicatori socio-economici che presuppongono un contesto in cui la benevolenza è limitata e le risorse sono scarse. L’approccio del capitale umano (che misura il valore della vita sulla base della capacità di produrre reddito), l’approccio della disponibilità a pagare (secondo cui la qualità della vita risulterà maggiore per coloro che disposti a pagare per mantenersi in una certa condizione) e il criterio del QALYs (l’indice che combina il numero di anni di attesa di vita e la qualità della vita in termini di salute), sono alcune delle soluzioni elaborate dal punto di vista della qualità della vita.(14) Questo proliferare di criteri, il cui minimo comune denominatore risiede nel loro essere assoggettati a parametri di efficienza economica, suggerisce almeno due considerazioni. La prima è che, in ordine alla costruzione della teoria, le intuizioni morali di base sono probabilmente meno affidabili di quanto normalmente si creda. La possibilità di una pluralità di equilibri riflessivi, infatti, è sempre da mettere in conto. Nondimeno, tale possibilità non è indefinitamente aperta e incontra il suo limite costitutivo non in un’intuizione morale sovraordinata, bensì nelle circostanze sociali di giustizia definite da Hume, vale a dire, in ultima analisi, nelle condizioni di mercato. La seconda considerazione intende sottolineare le difficoltà che insorgono laddove si voglia istituire una grande dicotomia tra prospettive morali che assumono direttamente la vita come valore e che, di conseguenza, ritengono che la politica debba intervenire non solo a tutelare, ma anche a potenziare nelle forme sociali desiderate quel medesimo valore. Alcune esemplificazioni possono essere chiarificatrici.

Si legga, a questo proposito, quanto scrive lo stesso Singer: «Così le nostre decisioni su come trattare questi pazienti [cerebralmente morti] devono dipendere non dalla retorica altisonante dell’uguale valore di ogni vita umana, ma dal parere di famiglie e partner che, in occasione di perdite tragiche, merita di contare. […] Nello stesso tempo, in un sistema pubblico di assistenza sanitaria, non possiamo ignorare né i vincoli imposti dalla limitatezza delle risorse mediche, né le necessità delle persone per le quali un trapianto d’organi potrebbe rappresentare la salvezza».(15) Più che una messa in mora del principio di sacralità della vita – operazione che richiederebbe, probabilmente, la disponibilità ad avventurarsi in un terreno filosofico più impervio: chiedersi, ad esempio, se la vita rientri tra i supposti scopi della natura; se abbia senso parlare di un ‘lavoro’ della natura; se la natura custodisca dei valori in quanto custodisce degli scopi, e così via - si tratta qui di una sua riformulazione in chiave utilitarista, associata alla critica di una particolare interpretazione del principio di uguaglianza. D’altra parte, una simile osmosi tra prospettive all’apparenza reciprocamente impermeabili vale anche in senso contrario. Già nel 1957, un sostenitore dell’etica della sacralità della vita difficilmente sospettabile di tentazioni eterodosse, Pio XII, intervenne sul problema del trattamento dei neonati affetti da gravi malformazioni affermando che si è tenuti a trattenerli in vita impiegando soltanto i mezzi ordinari, cioè i mezzi che non comportano un onere grave per sé o per gli altri. Un obbligo più rigido, secondo questo punto di vista che guarda alla vita come valore naturale razionalmente conosciuto da tutti, risulterebbe troppo gravoso per la maggioranza delle persone coinvolte.(16) Al di là della difficoltà insita in una nitida demarcazione tra mezzi ordinari e mezzi straordinari, resta il fatto che l’etica della sacralità della vita delinea un quadro normativo relativamente ospitale per valutazioni che, nel giudicare la liceità della sospensione del trattamento medico, tengono in considerazione le sue probabilità di successo. Altri elementi di giudizio, per così dire, di importazione - come la necessità che qualunque legislazione che ammetta un ‘diritto a morire’ o a ‘lasciar morire’ debba «riferirsi essenzialmente al diritto autonomo del paziente di porre fine alla propria vita» -,(17) restano invece rigorosamente esclusi da questa prospettiva. L’adozione di un criterio consequenzialista e utilitarista, in questo caso, sottintende una valorizzazione della vita cosciente e vissuta che, certamente, mette in discussione un’applicazione estesa del principio di uguaglianza. Tuttavia, la strumentazione concettuale di provenienza utilitarista offre un incomparabile vantaggio ai fautori della sacralità della vita: una vita cosciente e vissuta  ha la possibilità di sostenersi e riprodursi nelle forme sociali e culturali desiderate. Una vita cosciente, in altre parole, può testimoniare  della propria qualità elargendo una variegata riserva di risorse a favore della difesa della sacralità della vita.

Non deve sfuggire il fatto che anche l’idea di sacralità della vita si trova fra i candidati al ruolo di indice sociale del valore della vita. Un simile ruolo difficilmente potrebbe essere giocato da un sistema morale intessuto di proibizioni assolute; e nemmeno potrebbe essere sostenibile ricorrendo ad un’interpretazione troppo letterale dei pronunciamenti evangelici e paolini che, alla vita terrena del cristiano, associano le figure del pellegrinaggio e dell’esilio. L’aspetto che l’etica della sacralità della vita ha assunto è quanto di più lontano si possa immaginare dalla condotta morale metaforizzata dalla fiduciosa noncuranza del verdetto mondano sulla qualità della vita che contraddistingue i gigli nel campo e gli uccelli nel cielo.(18) Etica della sacralità della vita ed etica della qualità della vita, per come sono venute configurandosi in rapporto alle pratiche socio-politiche delle società occidentali, si lasciano sussumere sotto una categoria più ampia: un positivismo della vita, che appare quasi sempre presupposto dalla riflessione etico-politica contemporanea, al punto da rappresentarne una delle cifre decisive.(19)

Si argomenterà ulteriormente su questo punto; per ora basti dire che anche per quegli autori che manifestano una serie di perplessità circa la praticabilità di una meta-traduzione in forme politicamente non oppressive tra forme di vita diverse, un incontro sul piano ontologico deve essere possibile.(20) Ad essere reclamata è un’intesa più generale tra appartenenti alla medesima comunità politica ai quali, in definitiva, è richiesta l’adesione ad un nucleo di valori che sappia coniugare la convivenza tra  stranieri morali con uno strato più profondo (ancorché, realisticamente, difficilmente armonizzabile con il progetto di coltivare e sostenere concezioni alternative della fioritura umana): la condivisione degli obiettivi biopolitici della comunità.

Ad una conclusione analoga è giunto - pur con esiti problematici del tutto opposti a quelli evidenziati nel corso di questo intervento - Ronald Dworkin nel suo Il dominio della vita. Motivato dall’esigenza di neutralizzare le asprezze che hanno fatto della battaglia sull’aborto tra gruppi pro-life e gruppi pro-choice «una nuova versione americana delle terribili guerre di religione nell’Europa del Seicento»,(21) il filosofo statunitense intende illustrare come l’esegesi canonica della disputa sia fondata su una confusione intellettuale che rende intransitabile la via del compromesso. Tale confusione è figlia del pregiudizio secondo il quale il disaccordo dipende da opinioni diverse in merito allo statuto ontologico del feto. In realtà, afferma Dworkin, il disaccordo che effettivamente contrappone le persone è di natura molto meno lacerante, e verte su come meglio rispettare «un’idea fondamentale che quasi tutti condividiamo in qualche forma»: la sacralità della vita umana individuale. Entro questo riferimento comune, coloro che ritengono che l’investimento naturale nella vita umana rivesta un’importanza trascendente, penseranno che una morte prematura deliberata sia la più grande frustrazione possibile, indipendentemente da quanto sia mortificata la prosecuzione della vita. Diversamente, coloro che vincolano il rispetto per la sacralità della vita al contributo umano che questa mette in opera, concorderanno nel decidere che la vita debba terminare prima che ulteriori investimenti umani siano condannati alla frustrazione.

Tutto lo sforzo argomentativo di Dworkin è orientato a persuadere il lettore della familiarità dell’idea di sacralità della vita,(22) del suo essere un luogo comune decifrabile attraverso un principio presente a tutti: la convinzione che esistano determinate attività che sono rispettate indipendentemente dai loro risultati. In questa direzione, il filosofo del diritto individua nella natura e nell’arte le due tradizioni che confluiscono nell’idea del sacro, nel senso che natura e arte rappresentano due processi i cui prodotti sono per principio inviolabili. Alla luce di queste «ovvietà» sul sacro, il problema politico viene riformulato in questi termini: una comunità politica deve rendere i valori intrinseci una questione di decisione collettiva o di scelta individuale?(23)

La risposta di Dworkin non si lascia attendere, ed evidentemente propende per il secondo corno del dilemma. Tuttavia, più che insistere sulla curvatura liberale dell’opzione politica privilegiata, vale la pena sottolinearne il profilo post-hegeliano, nel senso che il quadro delineato da Dworkin lascia sussistere, come in Hegel, un ethos oggettivo.(24) Senonché questo ethos oggettivo non perde nulla quanto a sostanzialità, come ci si potrebbe invece aspettare da una teoria liberale; non senza sorpresa, il profilo anti-hegeliano della proposta dell’autore si esprime altrimenti, vale a dire nel fatto che l’ethos oggettivo resta svincolato da un rapporto accertato con la «soggettività della pura certezza di se stessa». Non si dà alcuna identità concreta del bene e della volontà soggettiva. Non si può evitare di osservare, infatti, come l’alternativa tra decisione collettiva e scelta individuale sia compromessa in partenza – risultando, in definitiva, una falsa alternativa - da un monopolio sociale dell’interpretazione dei cosiddetti valori ultimi, articolato in maniera tale da vanificare lo spessore dell’apporto individuale alla scelta. Quindi, se è vero che la comunità politica liberale non è legittimata a pronunciarsi sulle questioni di valore, essendo queste irrimediabilmente controverse, è altrettanto vero che la sovranità ultima della decisione individuale resta una petizione di principio. L’idea di autonomia non brilla affatto di quella «evidenza accecante»(25) che il pensiero liberale è solito ascriverle. Questo esito non dipende tanto dall’architettura formale della teoria, bensì dal contenuto – ovvero, la nozione di sacralità della vita - che informa di sé l’idea del bene che schieramenti diversi ritengono di onorare nella maniera migliore. L’incertezza semantica che, a dispetto di ogni pretesa di ovvietà, affligge la definizione del sacro abbozzata da Dworkin, lo costringe a sottovalutare la circostanza che le obbligazioni che promanano da quanto è ritenuto sacro, per definizione, non autorizzano gli individui a decidere liberamente se le interpretazioni influenti del sacro assumano figure ragionevoli. Ancor meno, il filosofo statunitense, sembra preoccuparsi dell’eventualità che, nelle condizioni della società moderna, l’astrazione del ‘sacro’ possa esprimere dei bisogni che, di fatto, imprimono un’immagine differente – nella forma e nei contenuti - alla totalità strutturata dei rapporti intersoggettivi, secondo modalità che non trovano riscontri nel quadro di una visione tradizionale e ufficialmente codificata  della sacralità. In un linguaggio hegeliano, questa astrazione «intesa come esser riconosciuti è il momento che rende gli individui nella loro riduzione a singoli e nella loro astrazione bisogni, mezzi e modi d’appagamento concreti in quanto sociali».(26)

La coincidenza che vede l’impasse in cui resta impigliato Dworkin presentarsi accanto a rielaborazioni culturali poste sotto il duplice segno della sacralizzazione del profano e della profanazione del sacro, è solo la spia di un problema più ampio. Nell’affrontarlo, non bisogna dimenticare che la condizione sempre più precaria della secolarizzazione moderna (in una parola: la vulnerabilità che tormenta la competenza autolegittimante del mondo secolarizzato), più che come sottoprodotto di un pluralismo normativo preso sul serio, appare come il corollario di una sempre più intensa sovrapposizione tra vita e politica. Per questo motivo, nel prendere congedo dalla koiné liberale, vale la pena transitare verso uno stile di pensiero capace di fiutare la risonanza di un problema eccedente il linguaggio consueto della filosofia politica. Capace, cioè, di venire a patti con l’insorgenza di uno scenario entro cui, «quando il filo della tradizione infine si è spezzato, la lacuna tra passato e futuro ha cessato di essere una situazione peculiare alla filosofia, un’esperienza limitata a quei pochi per i quali il pensare costituiva l’attività fondamentale; è diventata per tutti una realtà e un dilemma tangibile; insomma, un fatto politico».(27)

 

 

3. Vita e politica nel mondo secolarizzato: intermezzo su Hannah Arendt

 

Con almeno due decenni di anticipo sull’istituzionalizzazione dei termini ‘bioetica’ e ‘biopolitica’, e da una collocazione intellettuale senz’altro eccentrica, al crocevia tra teoria politica, critica della cultura e filosofia tout court, Hannah Arendt ha offerto una delle esposizioni filosoficamente più pertinenti sul nesso patologico sottointeso all’omologazione moderna tra vita e politica (la «crescita innaturale del naturale»)(28) e sulle contraddizioni cui esso dà luogo nel contesto di una secolarizzazione incerta, malgrado il - o forse proprio a causa del - suo farsi riflessiva. Una secolarizzazione che «non descrive un’epoca in senso forte, proprio perché ‘epoca’ implica rottura e sospensione di un ordine pre-esistente».(29)

Su quest’ultimo punto è bene evitare immediatamente possibili fraintendimenti: la filosofa ebrea respinge con decisione sia quelle versioni filosofiche che interpretano il complesso teorico-pratico moderno come l’immanentizzazione di aspettative escatologiche, sia quelle che pensano alla modernità come alla realizzazione di una tradizione nichilistica. Nulla è più estraneo all’habitus di pensiero arendtiano che il concepire lo svolgimento storico come la monotona ripetizione di un contenuto teologico espropriato dal monopolio ecclesiastico, o, alternativamente, come l’eventualizzazione dell’essere nell’inerzia del pensiero metafisico. Piuttosto, della secolarizzazione, la Arendt coglie il doppio fondo, avvertendone la drammatica indigenza. Da una parte, infatti, con la separazione tra Chiesa e Stato, si fa irreversibile lo sfinimento storico dell’autorità pubblicamente vincolante delle istituzioni e delle credenze religiose, sicché ogni tentativo di riqualificare in senso teologico-religioso la sfera politica non può che rovesciarsi in un pervertimento ideologico.(30) Da questo punto di vista, l’autrice di Vita activa non esita a radicalizzare e ad estendere la tesi sul depauperamento delle categorie di pensiero orientate verso l’assolutezza del valore, lamentando addirittura la fede disperata in un valore assoluto da parte degli economisti classici fino a Marx: «nessun pensatore poteva accettare il semplice fatto che nessun ‘valore assoluto’ esiste nel mercato di scambio, che è la sfera appropriata dei valori, nonché la circostanza che cercarlo è qualcosa di molto vicino al tentativo di quadrare il cerchio. La tanto deplorata svalutazione di tutte le cose, cioè la perdita del loro valore intrinseco, comincia con la loro trasformazione in valori o in merci, perché da quel momento in poi esse esisteranno solo in relazione a qualche altra cosa che può essere acquistata al loro posto».(31)

Dall’altra parte, la studiosa del totalitarismo riconosce che il disincanto del mondo non si è affatto tradotto nell’affermazione politica del suo carattere autonomo. (32) Al contrario, la secolarizzazione, avviatasi con il duplice processo dell’espropriazione individuale e dell’accumulazione della ricchezza sociale, ha accelerato l’esposizione di interi gruppi umani alle nude esigenze della vita, con il risultato di intensificare la preoccupazione per se stessi fino a dimenticare quella per il ‘mondo’, termine che nel lessico arendtiano vale come sinonimo di ‘politica’ e ‘sfera pubblica’. Il significato politico della separazione tra Chiesa e Stato, in questo senso, non coincide, in positivo, con il riconoscimento della pienezza e dell’autosufficienza del saeculum; il tratto distintivo della secolarizzazione si lascia decifrare politicamente attraverso il suo rovescio negativo, vale a dire come sottrazione di autorità, come perdita di quel fattore esterno – ancorché vincolante - al concreto esercizio del potere, capace di assicurare durevolezza e stabilità alla vita politica. È precisamente per via di questa sua fragilità costitutiva che la sfera pubblica delle società secolarizzate è costantemente minacciata dalla restaurazione abusiva di contenuti religiosi, non meno che dalla falsa identificazione tra ‘secolarizzazione autentica’ e ‘laicismo’. «Ma queste raccomandazioni contraddittorie rivolte alla società libera» scrive la Arendt «di tornare alla vera religione e diventare più religiosa, o di liberarsi dalla religione istituzionale (specialmente verso il cattolicesimo, in costante antagonismo con il laicismo), non riescono a dissimulare il punto su cui le due parti concordano: ‘religione’ è per entrambe qualunque cosa adempia le funzioni di una religione».(33)  Davanti ad una crisi storicamente irreversibile dell’autorità, l’errore che accomuna liberali e conservatori si spiega dunque come adesione acritica ad una logica funzionalista e sostitutiva. Nel dettaglio, l’errore consiste nell’incapacità di prendere atto dell’esaurimento di un’esperienza politica e pensare di poter determinare la natura dei fenomeni non in base al loro contenuto, ma in base alla loro fungibilità. Ragion per cui, qualsiasi cosa si ritenga in grado di rimpiazzare un contenuto religioso o una nozione di libertà ormai privi di efficacia storica, viene automaticamente identificato come religione e come libertà. Caratteristica di questo funzionalismo, per la pensatrice ebrea, è la sua natura ideologica: letteralmente, la sua subordinazione ad una logica puramente ideale, strutturalmente portata ad ignorare i fenomeni e il luogo concreto del loro apparire: il mondo.

A quest’altezza l’indagine della Arendt sul rapporto tra politica e vita viene a strutturarsi intorno ai poli metaforico-concettuali che hanno fatto della sua riflessione un vero e proprio caso d’eccezione nel panorama della teoria politica contemporanea: vita/lavoro/società contro natalità/azione/mondo. La costruzione, genealogica e non deduttiva, di questi  plessi categoriali e il loro impiego in seno al discorso sulla modernità vanno compresi alla luce di due premesse teoriche. La prima riguarda l’antropologia filosofica delineata in Vita activa, che alla tripartizione della prassi in lavoro, opera e azione fa corrispondere altrettanti, ineliminabili, condizionamenti a cui è sottoposta l’esistenza umana: rispettivamente, la riproduzione e il sostentamento biologico del corpo; l’essere-nel-mondo determinato dalla produzione di manufatti che entrano nel circuito dello scambio; da ultimo, la relazione politica in senso qualificato, che mette in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali. (34) L’antropologia sui generis della Arendt - attenta ad evitare fraintendimenti teologici del tema dei condizionamenti, che determinerebbero una ricaduta nella problematica nozione di ‘natura umana’ - (35) si interseca poi (e questa è la seconda premessa) con una genealogia impegnata a mettere a fuoco le modalità specifiche con cui, di volta in volta, il nesso vita/politica viene ad articolarsi.

Nel dettaglio, tre sono gli snodi storici presi in considerazione dall’allieva di Heidegger onde far risaltare le differenti fisionomie assunte, in seno alla tradizione occidentale, dall’abbinamento tra vita e politica: l’età greco-antica, l’era cristiana e l’età moderna.(36)  Nella concezione greca «la vita individuale, un βίος con una biografia riconoscibile che va dalla nascita alla morte, sgorga dalla vita biologica, dalla ζωή; e si distingue da tutte le altre cose per il suo corso rettilineo, che sembra quasi tagliare, attraversandoli, i ricorsi circolari dell’esistenza biologica».(37) La sospensione dell’eterna circolarità biologica della zoé, che nel mondo omerico sta a significare la ricerca dell’eccellenza e della gloria postuma attraverso le gesta e le parole dell’eroe, si esprime nel fatto che la grandezza umana aspira immediatamente all’immortalità. La grandezza dell’eroe, cioè, è una funzione del suo disprezzo per tutto quanto è istinto di autoconservazione e preservazione della vita individuale, non esclusa la propria.

La ricerca dell’immortalità nelle gesta da consegnare alla memoria dei poeti conosce un’inversione già con il passaggio dalla fase epica a quella propriamente politica. Il mutamento, secondo la Arendt, raggiunge il culmine nella filosofia di Platone. Egli pone il desiderio di acquistare gloria sullo stesso piano del desiderio naturale di generare figli, attraverso il quale la natura rende possibile l’immortalità della specie, sebbene non assicuri quella del singolo. Pertanto, e inaugurando così quella vicenda di ostilità tra filosofia e politica che attraversa la tradizione occidentale, Platone declassa la norma procreativa riservandola all’uomo comune, e scopre che, per il filosofo, la possibilità di immortalarsi risiede nel dimorare nei pressi delle cose che sono per sempre. Liberandosi dalla cura degli affari umani, il filosofo può tenere soltanto «un’attitudine di contemplazione inattiva e addirittura muta».(38)

L’era cristiana, sotto l’impressione prodotta dal crollo dell’Impero Romano, formula il rapporto tra vita e mondo in termini ancora diversi. Per il cristiano, immortali non sono né il  mondo, né il ciclo della vita, né l’anima separata dal corpo, ma soltanto i singoli viventi nella loro unità psico-fisica. La vita umana diventa sacra più di ogni altra cosa al mondo, ma solo perché la vita terrena dell’uomo procede secondo un progetto salvifico destinato a concludersi con la redenzione eterna nella resurrezione individuale, sicché nel susseguirsi delle vicende umane deve trovarsi un significato autonomo trascendente rispetto a tutti i singoli avvenimenti. Pertanto, l’astensione cristiana dal mondo non si precisa unicamente come pura negatività ascetica. Si tratta, per meglio dire, di una negatività determinata, che si appunta, da un lato, contro l’idea che l’agire umano possa in qualche modo produrre causalmente lo stato futuro e, dall’altro lato, contro il riconoscimento di una produttività specifica inerente all’azione mondana, segnatamente la sua capacità di produrre relazioni interumane volute per se stesse. L’agire cristiano, in ultima analisi, non ha altro scopo che qualificare la vita del singolo agli occhi di Dio: vivere nella caritas significa che un rapporto corretto con il mondo può essere impostato unicamente all’insegna della strumentalità dell’uti. Riferito a Dio, il mondo è spogliato di ogni autonomia per l’uomo, il quale a propria volta allontana da sé il pericolo di precipitare nella cupiditas per esso. (39)

Solo apparente, perciò, è il nesso di continuità che lega all’intimo convincimento della sacralità della vita l’accento posto sull’interesse personale da parte della filosofia politica moderna. La modernità si scopre e si dichiara nell’indifferenza verso il problema dell’immortalità individuale: nella logica processuale sotto la quale la modernità sussume storia e natura, l’interesse per la vita viene a coincidere con il trionfo dell’animal laborans. Candidata all’immortalità, da quel momento in poi, può essere solo la specie. Pars pro toto, l’imperialismo dell’attività lavorativa si appropria così dell’intero territorio della prassi, uniformandolo e compromettendone quell’integrità che era basata sulla differenziazione interna. Ogni finalità dell’agire, si tratti degli affari pubblici, della produzione di ricchezza o della gestione del tempo libero, è ricondotta al télos sovraordinato del sostentamento fisico.

La costitutiva incapacità del lavoro di saldarsi al linguaggio inserendo i suoi esecutori in una rete personale intersoggettiva, e la rapidità con cui il suo sforzo è consumato senza lasciare tracce dietro di sé, è ciò che lo assimila, nella sua cronica insignificanza, alla vita biologica.(40) Politicizzare il lavoro, traslarne i caratteri verso il mondo pubblicamente condiviso dai plures, innalzandolo in tal modo ad archetipo dell’agire è, per la Arendt, una semplice contraddizione in termini. Equivarrebbe all’assurda pretesa di voler estrarre un linguaggio dall’afasia. Il lavoro è, tutt’al più, socializzabile nel senso – inusitato per orecchie marxianamente educate – di potersi estroflettere nel movimento collettivo, ma sempre simbolicamente muto, del metabolismo vitale. Il processo di socializzazione così descritto si attaglia, del resto, alla mutazione morfologica e ontologica a cui la proprietà va soggetta nel mondo moderno, nella misura in cui cessa di essere «una parte fissa e ben radicata del mondo» e, trasformandosi in ricchezza sociale, perde anche ogni idoneità ad essere gestita privatamente.(41) In polemica con la concezione marxiana del lavoro, la pensatrice ebrea esclude categoricamente che l’uomo possa «fare della sua attività vitale l’oggetto stesso della sua volontà e della sua coscienza»,(42) raddoppiandosi intellettualmente e attivamente fino a capovolgere realmente il lavoro alienato in attività libera. Pensando antropologicamente il lavoro come «una delle condizioni di base in cui la vita sulla terra è stata data all’uomo», anziché, materialisticamente, come un’auto-oggettivazione umana sussumibile sotto rapporti sociali storicamente mutevoli, la Arendt non può che emettere un verdetto a senso unico. Il lavoro resta irrimediabilmente inchiodato alla necessità biologica, inaffrancabile dal dominio del bisogno fisico: sotto il giogo biologico è impensabile qualsivoglia distinzione tra la vita individuale e la vita della specie, così come tra libertà e necessità.(43)

In questo passaggio, l’allieva di Heidegger si mostra ricettiva nei confronti di una connessione, ormai storiograficamente accertata, tra lo sviluppo del ‘sistema della libertà naturale’ di Adam Smith e le coeve teorie fisiologiche della scuola medica di Edimburgo, caratterizzate da un progressivo abbandono del meccanicismo a favore di una fisiologia vitalista.(44) In questo contesto matura l’idea, che agli occhi della Arendt risulterà poi la direttrice egemonica della modernità, che la ricchezza sociale sia il prodotto di un particolare genere di corpo: un corpo che lavora sulla spinta di un’energia associata al principio sconosciuto della vita animale. La celeberrima figura della ‘mano invisibile’ altro non è che la metafora di questo principio sconosciuto della vita animale che connette tra loro senza soluzione di continuità – in quella che la Arendt denuncia come ‘finzione comunistica’ – gli atti individuali di auto-interesse e le loro conseguenze economiche. Dipingere l’economia come un sistema organico significa eo ipso sostenere, da un lato, che lavorare è una forma di obbedienza al richiamo della natura, una sottomissione al disegno provvidenziale che si fa manifesto, secondo Smith, nel desiderio degli uomini di lavorare. Dall’altro lato, questa soluzione erode completamente ogni margine di autonomia  per la politica, in quanto al corpo è attribuita un’autonormatività interna già da sempre interiorizzata dagli individui.

Così, dalla fede (il cui dogma centrale sarebbe l’enigma del plus-valore) nell’infinita e ineguagliabile produttività del lavoro, ovvero da un’esclusiva considerazione dell’uomo in quanto essere appartenente ad una specie, la Arendt fa discendere l’eclissi moderna della libertà. Prova ne è, anzitutto, il degrado della discussione moderna sulla libertà, in cui questa «non è mai intesa come una condizione oggettiva dell’esistenza umana, ma o si presenta come un problema insolubile di soggettività, di una volontà determinata o del tutto indeterminata, oppure si sviluppa dalla necessità».(45) L’incapacità moderna di afferrare la differenza concreta tra l’essere liberi e l’essere costretti dalla necessità, in quest’ottica, è confermata tanto dal declino della sfera pubblica, quanto dall’estinzione di quella privata (rigorosamente distinta dall’arena sociale), entrambe perversamente rimpiazzate da una sorta di economia domestica organizzata su larga scala, in forza della quale il comportamento sociale diventa l’unica bussola di orientamento per tutte le regioni della vita.(46) A questa ipertrofia del sociale corrisponde, del tutto coerentemente, la più ‘sociale’ delle forme di governo: la burocrazia, il governo di nessuno, dove questo ‘nessuno’ altri non è che «il preteso interesse comune della società nel suo insieme, da un punto di vista economico, così come la pretesa opinione comune della buona società nei salotti».(47)

Non mette conto discutere qui la messe di critiche che sia le periodizzazioni, sia l’antropologia della vita activa messe a punto dalla Arendt si  sono attirate addosso. Critiche che, peraltro, tendono a dimenticare che la tripartizione tra lavoro, opera e azione non intende individuare altrettanti gruppi sociali, né pronunciarsi direttamente sulla configurazione dei rapporti di produzione, bensì tematizzare la relazione che intercorre tra le principali forme di condizionamento a cui la vita umana è assoggettata. Trattandosi di una relazione dinamica, dato che il rapporto reciproco tra le facoltà (non le facoltà stesse) può sempre alterarsi - sia in quelle congiunture storiche in cui la vita activa è completamente deprezzata a vantaggio della vita contemplativa, sia nei secoli in cui l’esaltazione del ‘fare’ respinge nell’oscurità le distinzioni interne alla prassi -(48) è naturale che la Arendt rifiuti di inscriverla tanto in una scienza del comportamento, quanto in un discorso rivelato sulla natura umana.

Ciò che preme alla filosofa tedesca, piuttosto, è mettere in luce una circostanza alla quale – lo si può osservare ex post - il dibattito bioetico contemporaneo sembra non aver prestato sufficiente attenzione. Il convincimento che, a seguito dell’introduzione delle biotecnologie, la delimitazione dei confini estremi della vita umana ponga sfide inedite primariamente all’etica, rischia di sovraccaricare di responsabilità questa disciplina, a fortiori quando si tenta di estorcerle a forza – ancorché sotto le mentite spoglie di un’entente cordiale tra laici e credenti - una nuova geografia morale del sacro. Quello che con Hannah Arendt viene in primo piano sono, piuttosto, le condizioni (trascendentali) di impossibilità di un discorso pubblico capace di stringere in un’unità provvista di senso la questione della riproduzione e della cura della vita e la semantica del sacro. Se la titolarità al sacro, se il contatto salvifico con esso, spetta, in senso eminente, ad una vita individuale il cui principio dipende da un’iniziativa creativa di Dio nella prospettiva della resurrezione della carne,(49) allora l’evoluzione che ha visto la parola ‘vita’ affrancarsi progressivamente dal senso di ‘inalienabile proprietà individuale’ per aderire a quello di ‘sistema di riproduzione sociale’, non può non alterare totalmente le coordinate della percezione delle questioni bioetiche. Il termine ‘vita’ cessa, insomma, di designare una sostanza in senso forte e si trasforma nell’indicatore di una forma dei rapporti sociali messa costantemente a rischio da un ineliminabile difetto: la sua disperante incapacità di generare autonomamente spazi condivisi di libertà.

Così, nello scrutare più da vicino alcune delle procedure mediante le quali la vita si accampa al centro della politica, si dovranno osservare altrettanti tentativi, ideologicamente orientati, di riqualificare in chiave morale il discorso filosofico e politico sulla vita tramite il ricorso alla forza incantatrice del sacro. Ciò, peraltro, non significa in alcun modo che l’ideologia della vita in atto coincida tout court con la truffa deliberata ai danni di un gruppo sociale, con l’inganno pianificato che, una volta smascherato, perde immediatamente ogni efficacia. Più sottilmente, e dunque più insidiosamente, le rappresentazioni ideologiche della vita – non solo, come si vedrà, quelle discorsive – si collocano al livello, identificato da Marx, della menzogna non deliberata, dell’oscurantismo non volontario, della contraffazione socialmente indotta che si insedia inconsapevolmente negli individui come una sorta di seconda natura.(50) Senza che, beninteso, questa considerazione impegni in alcun modo a presupporre una qualche ‘prima natura’.

 

 

4. Medicalizzazione sociale della vita e sentimentalismo epistemico

 

Solo a prezzo di semplificazioni gravemente fuorvianti le nuove condizioni biomediche del nascere e del morire possono essere colte, nei loro risvolti  più drammatici, all’insegna del dominio impersonale della Tecnica. Piuttosto, la tecnica viene oggi ad inserirsi in una complessa ritualità sociale che, come ha spiegato Michel Foucault, è coestensiva alla pratica medica pianificata in base ad imperativi di ‘governamentalità’: «Quel che non esiste è la medicina non sociale, la medicina individualista, clinica, quella del rapporto singolo, che è stata piuttosto un mito con cui con cui si è giustificata e difesa una certa pratica sociale della medicina, vale a dire l’esercizio privato della professione».(51) Sembra allora corretto affermare che l’impiego di certe tecniche diagnostiche realizza il progetto di incoraggiare atteggiamenti, giudizi di valore e comportamenti il cui carattere ‘naturale’, normalizzante, viene a dipendere vieppiù da un’ortopedia sociale mediata dall’intervento medico. In questo senso, le intuizioni di Hannah Arendt in ordine all’immissione della vita nella sfera pubblica possono ricevere un’ulteriore puntualizzazione, che procede nel senso della ossessiva medicalizzazione sociale della vita.

Ivan Illich, parzialmente in debito e parzialmente in credito con le ricerche foucaultiane, ha insistito con toni taglienti su questo punto, descrivendo la triplice articolazione – clinica, sociale e culturale – dell’attuale morbo iatrogeno.(52) La diagnosi di Illich è enunciata con una veemenza che non lascia spazio a dubbi interpretativi: l’ipertrofia dell’assistenza sanitaria monopolizzata dalla professione medica non solo ha determinato il rafforzamento di una società morbosa in cui una quota crescente di malattie è da addebitare agli interventi sanitari a beneficio di individui malati. La medicina iatrogena ha fatto altresì del controllo sociale della popolazione un’attività economica fondamentale, finalizzata a legittimare ordinamenti sociali in cui molti non riescono ad adattarsi. La continua creazione di ‘pazienti’ in nome di una migliore qualità della vita servirebbe allora a convertire le lagnanze politiche in richieste di maggiori terapie, senza le quali il sistema industriale perderebbe una delle sue principali difese.

L’aspetto interessante dell’analisi di Illich risiede nel fatto che essa permette di assegnare contorni meglio definiti alla polemica arendtiana contro la moderna ontologia sociale, per la quale ‘essere’ equivale a ‘riprodursi’. Se questo è il quadro, è possibile guardare alla questione della mancata capacità di riprodurre la vita non tanto nei termini della frustrazione di un desiderio dei singoli al servizio del quale invocare la tecnologia e l’ascrizione di diritti riproduttivi. Piuttosto, si è indotti a riflettere sulla patologizzazione socio-culturale dell’infertilità, vissuta ora come la trasgressione di un dovere sociale, ora come la smentita di un’identità sessuale in cui, per usare un’espressione cara al femminismo, l’ordine simbolico della madre, gioca un ruolo decisivo.(53)

L’equiparazione tra vita e riproduzione sociale, in altri termini, finisce con l’attivare un meccanismo di isterizzazione della sterilità del tutto analogo al dispositivo di isterizzazione del corpo femminile descritto da Foucault. Il corpo integrato al campo delle pratiche mediche, per effetto di una patologia che gli sarebbe intrinseca, è messo in comunicazione organica con il corpo sociale (di cui deve essere assicurata la fecondità regolata), con lo spazio familiare (a tutela della norma parentale tradizionale) e con la vita dei figli (che deve essere garantita grazie ad una responsabilità biologico-morale che dura per tutto il periodo dell’educazione). La Madre ideale, trasfigurazione della madre reale, con la sua figura negativa rappresentata dalla ‘donna nervosa’ o dalla donna sterile, è il rovescio archetipico di questa isterizzazione.(54)

La sterilità da sanare rinvia alla ricerca di un rimedio che possa reintegrare i soggetti interessati in quel contesto di significati in cui l’enfasi morale posta sulla generazione e sulla cura della vita disegna un’omogeneità entro cui, e non contro cui, prende corpo tutto lo spettro delle differenze individuali. Sotto questo profilo, non sorprende che il medico venga ad assumere, letteralmente, un ufficio pastorale improntato ad assicurare la salvezza dei singoli individui. Ora, tale salvezza implica la produzione in serie di pazienti/clienti, nel senso che solo eufemisticamente è possibile parlare di una libera scelta da parte dei candidati all’acquisto della vita nella sua potenza riproduttiva. In virtù dell’obbligatorietà della salvezza, il potere pastorale della medicina può domandare agli altri un’obbedienza assoluta, e tale obbedienza rappresenta una delle condizioni indispensabili ai fini della salvezza.

Un’altra condizione di possibilità per l’ufficio del potere pastorale è che il paziente si impegni in un esercizio di confessione esauriente e permanente. È in questo modo, secondo Foucault, che si arriva al problema della sessualità, al quale il Cristianesimo ha dato una risposta ambivalente, stabilendo una ‘morale media’ fra ascetismo e attenzione alla società civile: «Si trattava di far funzionare il corpo, i piaceri, la sessualità, all’interno di una società che aveva i suoi bisogni, le sue necessità, una certa organizzazione familiare e specifiche necessità riproduttive».(55)  Da questo punto di vista, basterebbe pensare a come l’intensificazione programmata dei controlli pre-natali aumenti la probabilità che la donna venga colpita e condizionata dall’emblema ‘feto’, interpretando lo stadio di un processo evolutivo dal punto di vista del risultato atteso.(56) Nell’ambito di tale intervento l’esame clinico riveste un’importanza vitale. Vale la pena dare ancora la parola a Foucault: «L’esame combina le tecniche della gerarchia che sorveglia e quelle della sanzione che normalizza. È un controllo normalizzatore, una sorveglianza che permette di qualificare, classificare punire. Stabilisce sugli individui una visibilità attraverso la quale essi vengono differenziati e sanzionati».(57) 

Di questa eccezionalità epistemica dello sguardo clinico, che coinvolge in maniera del tutto peculiare il corpo femminile, ripercuotendosi sulla percezione e sulla comprensione normativa del vissuto, ha dato conto, tra gli altri, la storica Barbara Duden, (58) segnalando come la storia del corpo femminile ne includa in realtà due: una storia di superficie, legata allo sguardo medico, artistico e religioso sulla carne, e una storia associata invece all’esperienza invisibile che ha luogo sotto la pelle. Fino al XIX secolo questa vicenda, per dir così ‘sotterranea’, è stata decisiva in rapporto al riscontro della gravidanza: il primo movimento del feto, un’esperienza sensoriale accessibile solo alla madre, conferiva alle donne il potere di definire la propria condizione attraverso un’affermazione circa il proprio corpo. A partire dall’Ottocento, quando l’eliminazione del feto diventa oggetto del diritto, questa esperienza, peraltro carica di significati simbolici,(59) è stata privata di ogni significato sociale. La gravidanza è venuta progressivamente a perdere quella dimensione privata in ragione della quale il nascituro era collocato nella società degli invisibili. La storia del feto, emancipata da quella della madre, si è convertita nella storia di una progressiva visualizzazione connessa alla socializzazione del corpo femminile. Nel XX secolo, infatti, l’interno del corpo cessa di essere l’oggetto di un’esperienza percettiva irriducibilmente privata e diventa la scena di una vicenda pubblicamente osservabile. La grande novità è rappresentata dall’opportunità di oggettivare fotograficamente l’immagine del blastocito. Scrive la Duden: «Sin dal 1965, la corsa del seme maschile verso l’ovulo è stata autenticata per milioni di persone dalla fotografia di Lennart Nilsson. La foto illustra la rappresentazione divulgativa di un processo genetico. Tuttavia non si tratta solo dell’illustrazione di un processo biologico-molecolare. La sfumatura (la connotazione o il significato parallelo) insita nella rappresentazione degli spermatozoi come atleti in pieno sprint, legittima la visione del mondo del fotografo. L’idea che la società degli anni Sessanta ha di se stessa consente al fotografo di mostrare come la vita, il valore più alto, inizi il proprio processo di sviluppo come risultato di una gara per la conquista di un bene di limitata disponibilità, ovvero l’ovulo femminile».(60)

La vita, il bene più alto, diventa miracolosamente concettualizzabile secondo i criteri dell’autorappresentazione simbolica di una società. Alla vita viene assegnato uno schema non dall’immaginazione trascendentale, ma dalla risultanza vettoriale di decine di migliaia di misurazioni submicroscopiche ingrandite milioni di volte. Con l’introduzione dell’ecografia, una misura di controllo della crescita normale del feto viene accettata come rivelazione dell’esistenza di un soggetto provvisto di personalità giuridica. Entrambi i procedimenti danno luogo a casi di misplaced concreteness: nella misura in cui la pelle cessa di costituire un confine invalicabile, si ritiene di poter vedere illimitatamente. In tal modo, la registrazione strumentale delle immagini mette in moto il gioco del vedere come, secondo modalità cognitivamente ben più dissonanti e catastrofiche di quelle messe in luce dalle analisi di Wittgenstein.(61) Perché se nel vedere come wittgensteiniano percezione e interpretazione si danno contemporaneamente, e si tratta dell’improvviso balenare di una relazione tra l’oggetto e altri oggetti, nella raffigurazione dello zigote e del feto viene meno ogni correlazione tra percezione e interpretazione. L’homo futurus che si vuole scorgere nelle immagini non dipende da un effetto di riorientamento gestaltico, bensì da una decisione, in definitiva, di natura etico-politica.(62) In questa circostanza il vedere come consiste nell’assegnare ad un concetto astratto l’apparenza di una realtà visibile, quella di un essere umano nella sua interezza fisica e spirituale. La ‘fotografia’ viene investita di realtà e a quella realtà si attribuisce un valore. Alla base di questo procedimento di visualizzazione dell’invisibile  si trova la tendenza ad attribuire il titolo di realtà solo a ciò che può essere registrato con apposite apparecchiature. Questa tendenza dà luogo al paradosso per cui le ‘opinioni fotografate’ vengono innalzate al rango di osservazioni scientifiche in virtù delle quali si pretende di regolamentare i diritti di soggetti la cui esistenza non può essere confermata, in senso giuridico, da nessun testimone oculare.

In questo movimento paradossale si può ravvisare uno degli aspetti salienti della moderna alleanza tra sacro e profano. Il concetto sostantivo di vita, di cui l’embrione è il nuovo soggetto, è estraneo tanto allo spettro semantico coperto dal termine greco bíos, che si riferisce alla vita qualificata, alla forma di vita, quanto alla significazione della mera esistenza biologica  racchiusa nel termine zoé. Quando, nel discorso corrente, si associa all’embrione l’idea di vita, è evidente che non ci si riferisce né al bíos né alla zoé, bensì ad una vita sostantiva. Il concetto sostantivo di vita rimanda alla partecipazione in Cristo, distinta dalla semplice esistenza: in questa accezione, nella tradizione cristiana, la vita è sacra e la santità si identifica con la vita. Nella costruzione rappresentativa dell’embrione, pertanto, stando all’analisi della Duden, si incarna un idolo trasferito nel corpo della madre, che diventa il teatro – letteralmente, la scena pubblica -  di una moderna ierofania.

 

 

5. Implicazioni filosofiche del sentimentalismo epistemico

 

Nell’epoca dell’immagine del mondo, se ne può concludere, «l’essere dell’ente è cercato e rintracciato nell’esser-rappresentato dell’ente».(63) La lettura heideggeriana coglie con efficacia il sostrato filosofico di questo passaggio, inscrivendolo nel territorio concettuale della repraesentatio moderna. Tra le manifestazioni del mondo moderno, come è noto, Heidegger annovera la progettazione dell’agire umano in termini di cultura (Kultur), intesa come realizzazione dei supremi valori mediante l’impegno a favore dei più alti beni dell’uomo, e la sdivinizzazione (Entgötterung). Nello stato di indecisione rispetto a Dio caratteristica della modernità si assiste, da una parte, ad una cristianizzazione che avanza ponendo alla base del mondo l’infinito; dall’altra, il cristianesimo intende la propria cristianità come visione del mondo, rendendosi così moderno. Solo quando l’essere dell’ente è cercato nella rappresentazione ha senso parlare, per Heidegger, di immagine del mondo; il mondo medievale, ad esempio, è metafisicamente impossibilitato a costituirsi ad immagine, in quanto considera l’ente come ens creatum, «il frutto dell’azione creatrice personale di Dio inteso come causa prima e suprema».(64)

Il cristianesimo ridotto a visione del mondo, secondo questa lettura, non può non contaminarsi con, e non contaminare a propria volta di sé, quel processo che consiste nel «prendere possesso della sfera dei poteri umani come luogo di misura e di dominio dell’ente nel suo insieme […]. L’ente assume la stabilità di ciò che ci sta dinanzi come oggetto e riceve così il sigillo dell’essere».(65) La moderna reificazione della vita trasfigurata nella figura dell’embrione, non dipende dalla degradazione di questo a res, ma precisamente dall’antropologizzazione che consegue alla sua riduzione a subjectum portatore di valore. Questa lettura sembra  giustificare pienamente la conclusione netta a cui perviene la Duden circa le origini del nuovo sentimentalismo epistemico, offrendole una cornice interpretativa più solida: «Quella vita che con la sua tirannia etica domina il discorso contemporaneo appartiene alla storia dell’illusione e dell’inganno – o forse della religione – non alla storia del corpo».(66)

Occorre puntualizzare, a questo punto, che il sentimentalismo epistemico denunciato dalla Duden non reclama solo un’interpretazione dal punto di vista della critica della cultura, ma comporta anche una serie di implicazioni filosofiche su cui non conviene sorvolare. Uno degli aspetti più rimarchevoli della moderna prosopopea dell’embrione, vigorosamente sostenuta dal magistero ecclesiastico, consiste nella vera e propria funzione suppletiva svolta dalle immagini rispetto alla richiesta di un’argomentazione cogente. La difesa della personalità del concepito trae una forza miracolosa dall’inedita solidarietà che si instaura tra la manipolazione tecnologica ed il piano strettamente fideistico; solidarietà ancor più impressionante, laddove questa sembra mal conciliarsi una tradizione di pensiero che non ha mai smesso di rivendicare per sé l’eredità della filosofia di Tommaso d’Aquino.

La vicenda del progressivo abbandono, da parte della Chiesa cattolica, della dottrina embriologica di Tommaso è, nelle sue linee generali, nota. (67) La dottrina tomista prende le mosse dalla polemica contro le posizioni, come quella di Alberto Magno, che descrivono la generazione umana come un processo graduale e continuo in forza del quale la medesima virtus generativa, con il progredire della formazione degli organi, produrrebbe prima l’anima vegetativa, poi l’anima sensitiva e infine quella razionale. A questa tesi l’Aquinate muove obiezioni sia di natura logica, sia di natura onto-teologica. Anzitutto, sostiene Tommaso, ogni vivente, in un dato istante, può essere animato da un’anima soltanto, ragion per cui l’ipotesi di una successione cumulativa di anime risulta irricevibile. In secondo luogo, ammettere un processo graduale e continuo destinato a concludersi con la formazione dell’anima razionale significa pregiudicare ogni argomento razionale a favore del dogma della resurrezione, dal momento che uno svolgimento coerente di questa tesi dovrebbe terminare con il riconoscimento dell’immortalità dell’anima. Allo scopo di aggirare questa difficoltà, Tommaso afferma che l’embrione acquista una species completa solo dopo un processo di generazioni e corruzioni di anima vegetativa e anima sensitiva che altera la specie del formato fino a quando non ha luogo l’infusione divine dell’anima razionale. (68)

A fronte di un’argomentazione tanto minuta, che qui si è potuta ripercorrere solo per sommi capi, colpisce come la filosofia cattolica attuale abbia rinunciato ad un impegno teorico altrettanto determinato in ordine alla chiarificazione dello statuto ontologico dell’embrione, come si può evincere, ad esempio, da queste parole: «Se nello sviluppo embrionale la vita biologica si dissociasse da quella propriamente umana, non si riuscirebbe a spiegare l’identità del soggetto, e saremmo di fatto in presenza di una dicotomia tra l’io e la sua corporeità. È contro la logica del principio di identità che da una corporeità biologica già costituita secondo una sua essenza derivi, in una seconda fase, un essere umano a cui questa corporeità è intrinseca».(69)

Questa argomentazione, finalizzata a contestare non solo la dottrina dell’animazione ritardata, ma anche la tesi della sopravvenienza dell’umanità attraverso processi di socializzazione che possono aver luogo solo dopo la nascita, con l’apprendimento del linguaggio, prova, sostanzialmente, due cose. La prima è che l’enunciato sull’identità d’essenza è logicamente compatibile con la dottrina dell’animazione immediata dell’embrione. La seconda è che l’autore si muove in un orizzonte concettuale, in ultima analisi pre-kantiano, entro il quale l’esistenza viene assimilata ad un predicato logico. Ciò che in questo ragionamento non ottiene soddisfazione è la possibilità di vedere dimostrato il fatto che la parola ‘embrione’ denoti un reale essere umano, tesi che, al contrario, viene presupposta come già inscritta nella logica formale del principio di identità. Non stupisce, allora, che l’accesso al piano ontologico sia guadagnato mediante il salto fideistico: «Per la Sacra Scrittura, la persona è sempre il volto, l’immagine di Dio, l’essere che sta in dialogo con Yahvé. La base di questo dialogo è proprio la relazione Creatore-creatura, vista nel senso più ontologico possibile, ma senza dimenticare che in Dio la sua relazione è uguale alla sua trascendenza […]. È questa relazione che ha la capacità di fondare un nuovo modo di essere».(70)

 

 

6. Riscattare l’origine: Jürgen Habermas o Hannah Arendt?

 

La tirannia dell’embrione, con tutta la sua corte di orpelli retorici predisposti a creare un’impressione di profondità, è anche, ma non solo, la tirannia di una prestazione simbolica. Non sarà quindi il ripristino del divieto delle immagini a dischiudere la prospettiva di una liberazione da questo ricatto. Non bisogna dimenticare, infatti, quello che l’embrione rappresenta. Ciò al posto di cui, per via di condensazione metaforica, esso sta: una norma di vita, ovvero - tenendo fermo alle acquisizioni arendtiane di cui si è detto - una norma  riproduttiva latu sensu. Proprio in ragione del suo carattere disumanante e spersonalizzante, questa norma riproduttiva è costretta a cercare una fonte di legittimazione morale in qualcosa che, a rigore, umano non è. A questo peculiare bisogno di radicamento morale, sempre pronto a tramutarsi in abuso - a maggior ragione quando viene nobilitato da locuzioni come ‘responsabilità metafisica’ - sono dedicate le riflessioni conclusive.

Il dibattito sulla vita polarizzatosi intorno alla figura dell’embrione, com’è naturale che accada in un contesto di frammentazione e di specializzazione dei saperi, si è via via scompaginato imboccando linee di fuga differenziate: lo statuto giuridico dell’embrione, la regolamentazione della procreazione medicalmente assistita, la sperimentazione sulle cellule staminali embrionali, la possibilità di praticare interventi - terapeutici o migliorativi - direttamente sul genoma umano, sono solo alcune tra queste. Sullo sfondo, non vanno dimenticate le mai sopite inquietudini connesse al tema dell’aborto. Non è semplice, pertanto, ricapitolare tutti i versanti della questione in una problematica filosofica unitaria senza imbattersi, contemporaneamente, nel rischio di un eccesso di astrazione.

Come si è accennato nelle battute iniziali, Jürgen Habermas ha avanzato una proposta in questa direzione dal tenore marcatamente revisionista.(71) Tale revisione si profila, nelle sue linee fondamentali, come la sospensione di un atteggiamento intellettuale al quale il filosofo tedesco dà un nome preciso: astensione giustificata.(72) Il ragionamento corre, grosso modo, come segue: un’etica postmetafisica può adeguarsi alle condizioni del pluralismo ideologico solo nella misura in cui omette di pronunciare giudizi di valore sulla particolare direzione dei progetti di vita individuali e collettivi. Tuttavia, non appena lo sviluppo delle biotecnologie fa venir meno il confine tra la natura che noi «siamo» e la dotazione organica che noi «ci diamo», condizionando irreversibilmente la direzione dei progetti di vita perseguiti, ecco che la filosofia non può più esimersi dal prendere una posizione di merito. Davanti a scelte che escludono la possibilità di tornare sui propri passi, la neutralità procedurale perde la propria ragion d’essere e la filosofia ritrova le motivazioni di una politica determinata a sovrapporsi, democratizzandola, all’officina antropologica dei laboratori. «Dipende solo dall’autocomprensione di questi soggetti» scrive Habermas «come essi vogliono sfruttare la portata dei nuovi margini decisionali. Essi possono farlo in maniera autonoma, a partire da considerazioni normative che rientrano nella formazione democratica della volontà, oppure in maniera arbitraria, a partire da preferenze soggettive che si soddisfano attraverso il mercato».(73)

Di primo acchito, dunque, la riappropriazione filosofica delle questioni di contenuto sembrerebbe evolversi verso la critica di una forma di vita che lascia al mercato il compito di distribuire le opportunità di accesso alle risorse sanitarie e di selezionare gli obiettivi della ricerca scientifica. I rischi di un’eugenetica liberale sarebbero fatti risalire, in ultima analisi, al suo essere esposta alle dinamiche anarchiche del profitto. Sarebbe, appunto, il confluire dell’eugenetica nel meccanismo della giustificazione formale di squilibri e disomogeneità sostanziali, molto più sensibilmente della sua tracotanza demiurgica, a corrompere le basi di una corretta impostazione del problema dell’universalità antropologica. Se questo fosse l’intendimento di Habermas, se ne potrebbe  concludere che il problema etico-politico della ‘vita buona’ ritorna prepotentemente in primo piano a causa dei fallimenti (accertati e/o prevedibili) del mercato in rapporto all’implementazione di diritti che investono immediatamente la base biologica dell’autocomprensione normativa del genere umano. I fondamenti di un’universalità antropologica da salvaguardare, secondo questa linea d’analisi, si appresterebbero ad essere dichiarati incompatibili con una concezione spontaneistica dell’ordine socio-politico.

Senonché, come viene in chiaro dopo poche righe, altro è il senso delle osservazioni di Habermas. Vale la pena trascrivere il passo per esteso: «Ciò che diventa oggi manipolabile è qualcosa di diverso, ossia quella contingenza finora indisponibile del processo di fecondazione per cui non potevamo prevedere il combinarsi delle due serie cromosomiche. Ma a partire dal momento in cui viene padroneggiata, questa contingenza esce dall’ombra e sembra diventare una condizione indispensabile al poter-essere-se-stessi e alla natura fondamentalmente egualitaria delle nostre relazioni interpersonali. Infatti, il giorno in cui gli adulti potessero considerare come producibile e modellabile il corredo genetico dei loro figli, e dunque progettarne a piacimento un ‘design’ accettabile, essi verrebbero con ciò stesso a esercitare, sui loro prodotti geneticamente manipolati, un potere di disposizione che – penetrando nelle basi somatiche dell’autoriferimento spontaneo e della libertà etica di un’altra persona – era finora sembrato essere lecitamente esercitabile soltanto sulle cose e non sulle persone. A quel punto, i figli potrebbero chiedere conto e ragione ai creatori del loro menoma, e considerarli responsabili per le conseguenze, a loro avviso indesiderate, di una certa disposizione biologica iniziale della loro storia di vita».(74)

In linea di massima, la questione della manipolazione del corredo genetico umano può essere affrontata da diversi punti di vista. Un’alternativa teorica che presenta i vantaggi di un lungo collaudo è la seguente: si può adottare una prospettiva consequenzialista, e fare intervenire considerazioni basate sul calcolo delle probabilità per valutare il margine di tollerabilità morale dell’alterazione genetica. Oppure, si può optare per un punto di vista deontologico e avanzare la quaestio iuris: è possibile fondare discorsivamente il diritto all’assunzione dell’inedito ruolo creativo che la tecnologia mette a disposizione? E, in tal caso, chi può avanzare un titolo valido all’assunzione di tale ruolo? Si può dire che la prima alternativa mantenga molto meno di quanto prometta, nel senso che l’affidabilità del calcolo rischia di essere inficiata dalla necessità di formulare una serie indeterminata di ipotesi controfattuali sugli effetti di una selezione programmata delle caratteristiche genetiche. A ben vedere, però, nell’ottica di Habermas, anche la formulazione classica della soluzione deontologica risulta poco convincente, dal momento che «con la decisione irreversibile che una certa persona prende nei riguardi della dotazione ‘naturale’ di un’altra persona, nasce un rapporto interpersonale mai visto prima».(75)  Il logoramento delle categorie etiche tradizionali, se ne deduce, dipende dall’inadeguatezza dei loro assunti taciti. Nell’etica tradizionale, infatti, gli attori partecipano sempre ad un presente comune, di modo che, a rigor di logica, non sussistono ostacoli in rapporto alla verifica del consenso. Quello che viene meno, nel momento in cui la prospettiva di un’ ingerenza umana nel corso dell’evoluzione naturale si fa realistica, sono proprio i presupposti intersoggettivi della contemporaneità e della reciprocità. Accade così che, mentre in rapporto al nostro destino di socializzazione, culturalmente condizionato, conserviamo la libertà di assumerci criticamente la responsabilità della nostra storia di vita, la fabbricazione prenatale del nostro genoma smentisce la possibilità di un’autocomprensione revisionistica e instaura un rapporto irreversibile di dipendenza tra genitori e figli.

Non sfuggirà, dietro a queste considerazioni, l’ombra lunga di Hans Jonas, di cui Habermas riprende stilemi e istanze teoriche. In effetti, la somiglianza tra il passaggio habermasiano dalla morale procedurale all’antropologia normativa e la rivisitazione in chiave metafisica dell’etica da parte di Jonas,(76) è impressionante. Come si ricorderà, il programma etico-filosofico rubricato sotto l’etichetta di principio responsabilità prende le mosse dal rilievo della differenza specifica della tecnica moderna, che non trova eguali in nessuna epoca precedente. Mentre, infatti, nel passato tutto il campo dell’agire restava confinato nel regno artificiale della polisenclave umana strappata allo sfondo sempre uniforme della natura –, oggi gli interventi tecnici arrivano ad intaccare direttamente le forze generatrici della physis.(77)  La tecnica moderna, così Jonas, sancisce la vittoria dell’homo faber, vale a dire il trionfo di un attore collettivo capace di programmare quelli che un tempo erano solo esperimenti mentali, in vista della loro realizzazione. Poiché, tuttavia, la quantità delle grandezze note cresce assieme alla quantità delle incognite, un’etica basata sulla logica del calcolo si rivela inservibile. A questo punto, e posto che per Jonas «la vita è l’evento in cui l’essere manifesta il proprio valore»,(78) il problema dell’abisso etico scavato dalla ‘dialettica dell’Illuminismo’ dischiude una diversa prospettiva: «la questione è se, senza ristabilire la categoria del sacro che fu distrutta nel modo più radicale dall’illuminismo scientifico, possiamo disporre di un’etica che sia in grado di imbrigliare le forze estreme che oggi possediamo e, quasi coattivamente, continuiamo ad acquistare ed esercitare senza posa».(79) Solo il timore della trasgressione del sacro, dunque, può compensare il margine di incertezza che minaccia le prestazioni razionali. Jonas si dispone poi a dare spessore ontologico al recupero della categoria del sacro: poiché, infatti, non c’è nessuna contraddizione logica nell’idea che umanità cessi di sopravvivere nella sua integrità ontologica, il fatto che essa debba continuare a esistere - e continuare a farlo secondo un determinato esser-così – può trovare fondazione solo nella metafisica. Il nuovo imperativo morale, di conseguenza, suona così: «agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra».(80) In merito alla qualifica di autenticità, non sussistono dubbi: si tratta, anzitutto, di conservare l’eredità di un’evoluzione naturale precedente, sulla base del fatto che l’ingratitudine verso l’eredità è incompatibile con la fruizione del suo dono.(81) La comunanza di destino tra uomo e natura si esprime, poi, nella circostanza che è proprio quest’ultima a offrire, attraverso la norma parentale, l’unico esempio di devozione totalmente altruistica: «In effetti è questo rapporto, legato al fatto biologico della riproduzione, verso la progenie non autonoma, e non il rapporto tra adulti indipendenti (dal quale scaturisce l’idea dei diritti e dei doveri reciproci) che sta all’origine dell’idea di responsabilità in quanto tale; e la sua sfera d’azione, costantemente volta a sollevare pretese, è il luogo più originario della sua pratica».(82)

Lo sguardo sul futuro inaugurato dal principio responsabilità finisce così con il ripiegarsi sull’origine: ciò che l’umanità futura deve essere, infatti, è determinato da ciò che essa, per natura, è già da sempre. La proposta di Jonas, con le sue premesse vitaliste, conferma – con segno mutato - un assunto fatto valere dalla Arendt nel contesto di una discussione finalizzata a mostrare come «la nascita e la morte degli esseri umani non sono semplici eventi naturali, ma sono connesse a un mondo in cui singoli individui – uniche, insostituibili e irripetibili entità – appaiono o da cui scompaiono».(83) L’assunto in questione è che senza il riferimento ad un mondo in cui nascere e morire, non sarebbe possibile stabilire alcuna differenza tra la specie umana e tutte le altre specie animali. Sicché «una filosofia della vita che non arriva, come in Nietzsche, all’affermazione dell’eterno ritorno come il più alto principio di ogni essere, semplicemente ignora ciò di cui parla».(84)

Habermas non arriva certo al punto di enunciare una dottrina dell’eterno ritorno, ma raccoglie senz’altro più di uno spunto dalla filosofia della vita di Jonas, specialmente nel rimarcare l’esigenza che la libertà - soggettivamente vissuta in riferimento ad una dotazione organica di cui non siamo gli autori – riconduca la sua origine ad un cominciamento indisponibile. (85) Occorre, secondo Habermas, che la persona associ la propria libertà ad un principio sottratto, «nei termini in cui lo è Dio o la natura», al potere di disposizione di altre persone. A sostegno della propria tesi, il filosofo tedesco cita, abbastanza sorprendentemente, Hannah Arendt: «Essa parte dall’osservazione che la nascita di un bambino non rappresenta semplicemente un’altra storia di vita, bensì una nuova storia di vita. Questo cominciamento enfatico della vita umana la Arendt lo ricollega all’intuitiva certezza dei soggetti agenti di poter dare spontaneamente inizio a qualcosa di nuovo. […] Con questo concetto, la Arendt getta un ponte tra il cominciamento creaturale e la consapevole facoltà del soggetto adulto di cominciare nuove catene d’azione».(86)

Che si tratti di una citazione del tutto strumentale, e, più precisamente, di un fraintendimento ontologizzante della filosofia della natalità di Hannah Arendt, lo si può comprendere tenendo presente che il problema del nuovo inizio è posto dalla Arendt in rapporto all’azione nel mondo. La contingenza dell’inizio – cioè, in sostanza: la libertà - dipende dal fatto che esso non è deducibile da alcun antecedente di ordine causale, Dio e natura compresi. Ragion per cui, la natalità, nell’accezione arendtiana, non può essere letta né come un fenomeno biologico, né tanto meno come un attestato ontologico della dimensione creaturale della realtà.(87) «Con la parola e l’agire» scrive la Arendt, «ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una seconda nascita».(88) Ciò significa che attraverso il discorso e l’azione,  ossia politicamente, gli uomini si distinguono, anziché essere meramente distinti. Kantianamente, fanno qualcosa di se stessi, in quanto esseri liberi. Tale prerogativa all’autodistinzione si fonda esclusivamente su una capacità di inziativa la cui garanzia risiede nell’esistenza di un mondo, anziché nella preservazione di una natura. L’origine, per la Arendt, non può essere altro che l’«azione che innova continuamente, che modifica la naturalità ciclica degli eventi e che ha come strumento specifico del rapporto politico la persuasione».(89)

Il potenziale intimidatorio insito nella logica del riscatto ontologico dell’origine della vita è notevole, soprattutto allorché questo si innesta in un contesto sociale di aspettative generalizzate in cui l’istanza vitalista, come si è visto, detiene un prestigio di cui è difficile intravedere un declino a breve termine. Un prestigio che, probabilmente, accresce le proprie quote quando sui soggetti umani grava - indipendentemente dal contatto personale con la tecnologia bioemedica - la cappa costante e continua dell’insicurezza. Tuttavia, non è detto che l’intimidazione debba sortire gli effetti desiderati. Veramente pericolosa è la pretesa, avanzata in nome di una speciale competenza filosofica, di poter dar voce agli interessi di ciò che, non esistendo, non può nemmeno sensatamente sperare di essere rappresentato. La credenziale teorica più vistosa che questa socializzazione anticipata della posterità – la risposta all’appello dell’Altro - sembra poter vantare, è l’aver trovato formulazione in un’espressione filosoficamente seducente: euristica della paura. Nel mondo secolarizzato, inevitabilmente, si incrina il binomio tradizionale spes/metus, per il quale la speranza evangelica costituisce la vittoria contro la paura della morte. Di questi elementi, un tempo inscindibilmente connessi, resta solo il timore, bisognoso di una riqualificazione morale in vista degli oneri che deve poter sostenere. Secondo interpretazioni influenzate da Jonas, ciò dipende dal fatto che, quando le potenzialità di intervento sulla natura dischiudono scenari apocalittici, si deve attribuire alla previsione di sventura un peso maggiore rispetto alla previsione di salvezza. La disponibilità a lasciarsi influenzare dalla paura, allora, non solo viene salutata come manifestazione di affidabilità morale e lungimiranza intellettuale, ma viene anche dichiarata euristicamente sufficiente a fondare una dottrina dei principi capace di orientare la politica. Dalla parte opposta, si dice, sono collocate la sconsiderata imprudenza o l’imperdonabile sprovvedutezza di chi non avverte il pericolo. Ragion per cui, il corollario naturale del principio responsabilità non può non prevedere un’élite destinata a farsi carico della responsabilità per la vita futura. (90) L’infausta conseguenza di un’euristica connotata in tal senso si lascia facilmente intuire:  convertire in necessità storica l’illusione di un potere dei saggi (magari coadiuvati dai ministri del culto) che, in virtù di una presunta innocenza garantita da un accordo di massima su principi trasformati dogmaticamente in oggetto di conoscenza, assuma su di sé la missione ‘epocale’ di ricondurre Prometeo scatenato a più miti consigli.

 

 

Note

 

(*) Queste pagine sono il risultato di una serie di riflessioni maturate mentre in Italia divampava la polemica intorno alla legge 40 sulla procreazione assistita e sul relativo referendum abrogativo. Le conversazioni e gli scambi epistolari avuti con la prof.ssa Luisa Accati e con la dott.ssa Laura Lanzillo, hanno attirato la mia attenzione su aspetti del dibattito che, altrimenti, sarebbero rimasti oscuri. A loro va il mio ringraziamento per la disponibilità alla discussione, senza che ciò mi esoneri dalla totale responsabilità dei contenuti di questo intervento   

(1) J. Habermas, Il futuro della natura umana (2001), trad. it. Einaudi, Torino 2002, p. 35 (corsivo mio).

(2) Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità (1979), trad. it. Einaudi, Torino 2002, p. 163: «Intendo sostenere davvero in senso stretto che qui l’essere di un ente, sul semplice piano ontico, postula in modo immanente ed evidente un dovere degli altri; e lo postulerebbe anche se la natura non venisse in soccorso di questo dovere con la forza degli istinti e dei sentimenti, anzi anche se non lo alleggerisse dalla parte più gravosa dei suoi compiti».

(3) E. Lecaldano, Bioetica, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 205. 

(4) Per un esame critico del ‘teorema’ della secolarizzazione resta utile H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna (1966), trad. it. Marietti, Genova 1992, in particolare pp. 9-127.

(5) C. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, in Id., Le categorie del ‘politico’, trad. it. Il Mulino, Bologna 1972, pp. 167-183.

(6) Cfr. P. Singer, Ripensare la vita (1994), trad. it. Il Saggiatore, Milano 1996; Id., L’etica della sacralità della vita è una malata terminale?, in Id., La vita come si dovrebbe (2000), trad. it. Il Saggiatore, Milano 2001, pp. 191-204. In Italia, una posizione analoga a quella di Singer è sostenuta, tra gli altri, da M. Mori, L’etica della qualità della vita e la natura della bioetica, “Rivista di filosofia”, XCII, 1, 2001, pp. 153-175. Riallacciandosi alla tassonomia avanzata dal sociologo T.H. Marshall in Cittadinanza e classe sociale (1963), trad. it. Utet, Torino 1976, pp. 1-71, Mori guarda alla bioetica come al compimento storico-politico della tradizione etica moderna: come la fase intercorsa tra il Settecento e il Novecento ha assistito, rispettivamente, alle battaglie per la cittadinanza civile, politica e sociale, così la bioetica del nuovo millennio rappresenta la continuazione di questo processo di ampliamento della cittadinanza esteso alla dimensione biologica e sanitaria.

(7) Va detto che, da parte cattolica, non mancano voci che hanno screditato come falso dilemma la dicotomia tra sacralità della vita e qualità della vita. Cfr. G. Piana, Bioetica, Garzanti, Milano 2002.

(8) Per una rassegna sull’applicazione delle teorie metaetiche ai problemi di bioetica si vedano, tra gli altri, E. Baccarini, Bioetica. Analisi filosofiche liberali, Trauben, Torino 2002 e R. Mordacci, Una introduzione alle teorie morali. Confronto con la bioetica, Feltrinelli, Milano 2003.

(9) R. Mordacci, Una introduzione alle teorie morali, cit., p. 108.

(10) Assumo, per una serie di ragioni che potrebbero trovare un banco di prova decisivo nell’impostazione della tematica antropologica, che l’alternativa tra creazionismo ed evoluzionismo rappresenti un caso esemplare di ‘metafisiche influenti’ o Weltanschauungen tra loro incompatibili.Va comunque ricordato che sta prendendo quota l’ipotesi (cfr. O. Franceschelli, Dio e Darwin. Natura e uomo tra evoluzione e creazione, Donzelli, Roma 2005) di una risposta conciliativa alla sfida darwiniana, sulla base della constatazione che «nessun Dio potrebbe risultare più laico e meno riducibile a idolo del Dio creator ed evolutor che, per amore, decide di creare contraendo la propria presenza e la propria potenza fino a concedere al creato autonomia evolutiva». L’ipotesi di lavoro, cioè, consiste nel «rendere plausibile» Darwin sintonizzando l’evoluzionismo con la nozione ebraica di Tzimtzum e quella cristiana di kenosis, peraltro variamente riprese in ambito filosofico - si pensi solo alla nozione di de-creazione intorno alla quale ruota il pensiero di Simone Weil. Al di là di ogni possibile perplessità di natura teologica su espressioni quali «Dio laico», nonché di natura filosofica su formule sbrigativamente risolutive secondo le quali la ‘naturalezza’ della natura altro non esprimerebbe che la ‘creaturalità’ del creato, preme qui sottolineare il risvolto politico di una soluzione concepita in vista del dialogo tra credenti e non credenti, finalizzato a neutralizzare tanto il fondamentalismo, quanto  l’ateismo (allineati dall’autore quanto a vis polemica e sterilità teorica). Non è possibile approfondire la questione in questa sede, ma il minimo che si può osservare è una drastica defezione intellettuale dalla tradizione ‘dialogica’ rappresentata dal liberalismo filosofico contemporaneo, sostanzialmente unanime nel ritenere che il consenso debba essere costruito intorno a valori esclusivamente politici, soggetti al controllo della ragione pubblica.

(11) Un precedente che presenta interessanti analogie con quanto si sta venendo a delineare in questa sede, è dato dal nesso vita/proprietà intorno al quale John Locke ha sviluppato la propria filosofia politica. Da una parte, infatti, la filosofia sociale tradizionale, organizzata intorno al concetto di lex aeterna, secondo cui gli uomini, inseriti nel regolare ordine dell’universo, convivono sulla base di norme naturali derivate da quest’ordine, è un modello della cui validità Locke non dubita. Dall’altra, però, la dissoluzione della visione medievale del mondo conduce Locke ad operare uno svuotamento del diritto di natura tradizionale, nel senso che il filosofo inglese attribuisce al diritto soggettivo di autoconservazione un peso sconosciuto al giusnaturalismo classico. Il modello del diritto naturale di ascendenza stoico-cristiana, in altri termini, sopravvive solo nella forma, mentre, in ordine ai contenuti, decisiva è l’immissione di considerazioni influenzate dal neo-epicureismo francese dei seguaci di Gassendi, ovvero una teoria delle condizioni e dei motivi della riproduzione sociale che caratterizza la ricerca del piacere e la spinta all’autoconservazione come forze motrici del processo. Sul problema della secolarizzazione come ‘svuotamento’ del diritto di natura tradizionale si veda W. Euchner, La filosofia politica di John Locke (1969), trad. it. Laterza, Roma-Bari 1976.

(12) J. Habermas, Fede e sapere, in Id., Il futuro della natura umana, cit., p. 107. Cfr. anche Id., Dialogo su Dio e il mondo, in Id., Tempo di passaggi (2001), trad. it. Feltrinelli, Milano 2004, pp. 127-147.

(13) Su questo, di Habermas, si vedano almeno: Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia (1992), trad. it. Guerini e Associati, Milano 1996; Giustezza contro verità. Sul senso della validità prescrittiva dei giudizi e delle norme morali, in Id., Verità e giustificazione (1999), trad. it. Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 265-309; Morale, diritto, politica (1992), trad. it. Edizioni di Comunità, Torino 2001; Lo stato democratico di diritto. Nesso paradossale di principi contraddittori?, in Id., Tempo di passaggi, cit., pp. 83-100.

(14) Cfr. E. Lecaldano, L’etica teorica e la qualità della vita, “Rivista di filosofia”, XCII, 1, 2001, pp. 7-30.

(15) P. Singer, Ripensare la vita, cit., pp. 195-196.

(16) Cfr. Acta Apostolicae Sedis, 49, 1957, p. 1031, cit. in H. Tristram Engelhardt Jr., Manuale di bioetica (1996²), trad. it. Il Saggiatore, Milano 1999, p. 292. Significativamente gli anni del pontificato di Pio XII sono stati ricordati come l’epoca della massima espressione della morale medica della Chiesa cattolica. Cfr. E. Sgreccia, Manuale di bioetica (1988), Vita e pensiero, Milano 1999, p. 18.

(17) M. Charlesworth, L’etica della vita (1993), trad. it. Donzelli, Roma 1996, p. 40.

(18) Ciò sembra confermato, peraltro, dall’emergenza, in seno a gruppi cattolici e protestanti fermamente contrari all’aborto, di un’etica coerente della vita che prescrive: l’opposizione alla pena capitale; l’impegno per promuovere un sistema di assistenza sanitaria più giusto verso i poveri e sistemi di welfare per il miglioramento della qualità della vita e della sua durata; l’opposizione alla legalizzazione dell’eutanasia attiva anche per malati terminali. Cfr. R. Dworkin, Il dominio della vita (1993), trad. it. Edizioni di Comunità, Milano 1994, pp. 66-68.

(19) Com’è dimostrato, peraltro, dal crescente interesse filosofico per la biopolitica. Su questo cfr. R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004.

(20) Su questo cfr. S. Maffettone, Il valore della vita, Mondadori, Milano 1998.

(21) R. Dworkin, Il dominio della vita, cit., p. 4. Il richiamo all’impostazione lockeana del problema della tolleranza è sin troppo evidente. Per uno studio critico attento a mostrare come, in epoca moderna, 1) la tolleranza non si riferisca ad un atteggiamento specificamente morale, ma esibisca un nucleo politico funzionale alla costruzione dello Stato moderno e 2) come intorno a tale nucleo politico si strutturi la neutralizzazione dei conflitti interni, in concomitanza con processi di disciplinamento sociale, si veda M. L. Lanzillo, Tolleranza, Il Mulino, Bologna 2001.

(22) Cfr. R. Dworkin, Il dominio della vita, cit., in particolare pp. 93-138.

(23) Ibidem, p. 34.

(24) Il riferimento, ovviamente, è a G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (1821), trad. it. Laterza, Roma-Bari 2004. Si veda in particolar modo la formulazione concettuale della transizione speculativa dalla moralità all’eticità nel § 141, p. 131: «[…]. Ma l’integrazione delle due totalità relative nell’identità assoluta, è già in sé portata a compimento, poiché precisamente questa soggettività della pura certezza di se stessa, questa soggettività aleggiante per sé nella sua vanità, è identica con l’universalità astratta del bene; - l’identità, quindi concreta del bene e della volontà soggettiva, la verità dei medesimi, è l’eticità».

(25) M. Charlesworth, L’etica della vita, cit., p. 3.

(26) G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 192, p. 161.

(27) H. Arendt, Premessa: la lacuna tra passato e futuro, in Id., Tra passato e futuro (1961), trad. it. Garzanti, Milano 2001, p. 37.

(28) H. Arendt, Vita activa (1958), trad. it. Bompiani, Milano 1964, pp. 53-54.

(29) C. Galli, Hannah Arendt e le categorie politiche della modernità, in R. Esposito (a cura di), La pluralità irrappresentabile, QuattroVenti, Urbino 1987, p. 24. Per il problema della modernità in Hannah Arendt si veda anche, in un’ottica comparata, E. Brient, Hans Blumenberg and Hannah Arendt on the ‘Unwordly Wordliness’ of the Modern Age, “Journal of the History of Ideas”, LXI, 3, 2000, pp. 513-532.

(30) Cfr. H. Arendt, Religione e politica (1953), trad. it. in “Aut Aut”, 271-272, 1996, pp. 59-76.

(31) H. Arendt, Vita activa, cit., p. 119.

(32) Ibidem, p. 187: «La perdita moderna della fede non ha origini religiose – non può essere ricondotta alla Riforma e alla Controriforma, i due grandi movimenti religiosi dell’età moderna – e il suo raggio non è ristretto alla sola sfera religiosa. Inoltre, anche se ammettiamo che l’età moderna cominciò con un’improvvisa e inesplicabile eclissi della trascendenza, della fede in un aldilà, da ciò non consegue affatto che questa perdita abbia rigettato gli uomini nel mondo. Al contrario, l’evidenza storica mostra che gli uomini moderni non furono proiettati nel mondo, ma in se stessi».

(33) H. Arendt, Che cos’è l’autorità?, in Id., Tra passato e futuro, cit., p. 144.

(34) Ibidem, pp. 7-17. L’idea di una sfera politica priva di mediazioni può suonare a molte orecchie come un’autentica contraddizione in termini. Non potendo svolgere qui una disamina esaustiva su questo punto, basti ricordare sommariamente, anzitutto, che l’ottica di Hannah Arendt (in questo più kantiana della maggior parte dei neokantiani del secondo Novecento) non è ricostruttiva, né coerentista, ma eminentemente critica. In questa circostanza il dispositivo critico è indirizzato contro la colonizzazione della sfera pubblica da parte del sociale (in altri termini: contro la tendenza ad assimilare l’azione politica alla transazione di mercato) e contro la forma politica che riflette la sostanza dei rapporti sociali:  la rappresentanza. Sotto questo profilo, la critica della Arendt non potrebbe essere più estesa, rivolgendosi sia contro l’idea democratica di delega popolare (dal momento che parole e azioni, le uniche attività dotate di significato politico, non possono essere rappresentate), sia contro l’idea (hegeliana, ma a ben vedere, anche hobbesiana) che la rappresentanza realizzi simbolicamente la sostanza nella quale il soggetto consapevole si riconosce. Sul legame tra Hobbes e Hegel, accomunati in nome di un «razionalismo moderno irreale» e  di un «realismo moderno irrazionale» si veda Vita activa, cit., p. 223. Per la critica della rappresentanza moderna si vedano, oltre a Vita activa, H. Arendt, Sulla rivoluzione (1963), trad. it. Edizioni di Comunità, Torino 1996 e il volume di frammenti postumi Che cos’è la politica? (1993), trad. it. Edizioni di Comunità, Torino 2001.

(35) Antropologia sui generis non solo nel senso che «la questione della natura dell’uomo è una questione tanto teologica quanto quella della natura di Dio; entrambe si possono porre soltanto nell’ambito di una risposta rivelata divinamente». H. Arendt, Vita activa, cit., p. 243, n2 (corsivo mio). Va detto altresì che, diversamente dalle versioni dell’antropologia filosofica ‘classica’ di Scheler, Gehlen e Plessner - secondo le quali l’apertura al mondo che caratterizza l’uomo dipende da un atteggiamento oggettivante e da una prassi finalizzata a trasformare le contingenze in occasioni per un agire orientato al successo -, la Arendt concepisce il mondo essenzialmente come una struttura di relazione per un’ azione concertata che coinvolge non la falsa astrazione Uomo, ma gli uomini al plurale. Una simile differenza si spiega, probabilmente, con il fatto che, per l’antropologia filosofica, l’esigenza di un’immagine globale dell’uomo si traduce in un approccio ermeneutico ai risultati delle ricerche scientifiche: di quelle ricerche, in definitiva, che guardano all’uomo come ad un «progetto posto in essere dalla natura». La Arendt si muove, invece, su una linea più vicina all’impostazione pragmatica delineata da Kant, in virtù della quale 1) la domanda sull’uomo non ha affatto un ruolo fondativo; 2) solo in quanto la filosofia assume un significato cosmico (non scolastico) i suoi problemi si intersecano legittimamente con la domanda sull’uomo; 3) tale domanda non investe ciò che la natura fa dell’uomo, ma ciò che l’uomo, in quanto essere libero, può e deve fare di stesso. Cfr. I. Kant, Antropologia pragmatica (1798), trad. it. Laterza, Roma-Bari 2001 e Id., Logica (1800), trad. it., Laterza, Roma-Bari 1984. Sul tema dell’antropologia filosofica della Arendt si può vedere L. Savarino, Per una politica della mente. Hannah Arendt e l’antropologia filosofica, “Discipline filosofiche”, XIII, 1, 2003, pp. 215-237. Sull’antropologia filosofica ‘classica’, sviluppatasi a partire dalla fina degli anni Venti, cfr. M. T. Pansera, Antropologia filosofica. La peculiarità dell’umano in Scheler, Gehlen e Plessner, Mondatori, Milano 2001.

(36) Cfr. H. Arendt, Vita activa, cit., pp. 13-17 e Id., Il concetto di storia: nell’antichità e oggi, in Id., Tra passato e futuro, cit., pp. 70-111. 

(37) Ibidem, p. 71.

(38) Ibidem, p. 77.

(39) A questi temi la Arendt aveva dedicato il suo primo libro, Il concetto d’amore in Agostino (1929), trad. it. SE, Milano 2004, che riproduce sostanzialmente il testo della dissertazione tenuta a Heidelberg con Karl Jaspers nel 1928. Cfr. anche R. Bodei, Hannah Arendt interprete di Agostino, e G. Rametta, Osservazioni su «Der Liebesbegriff bei Augustin» di Hannah Arendt, entrambi in R. Esposito (a cura di), La pluralità irrappresentabile, cit., pp. 113-121 e pp. 123-138.

(40) Cfr. H. Arendt, Vita activa, cit., p. 62.

(41) Ibidem, pp. 50-51.

(42) K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, trad. it. Einaudi, Torino 2002, p. 78.

(43) Per questa ragione, il lavoro (nell’accezione arendtiana) perde anche quella centralità epistemologica che, nell’Ideologia tedesca in particolar modo, Marx gli attribuisce. Non solo l’analisi del lavoro alienato, infatti, consente al rivoluzionario di Treviri di aggirare la giustificazione lockeana della proprietà privata.  Il lavoro si inserisce altresì come elemento di mediazione tra l’antropologia filosofica di Feuerbach e l’economia, qualificandosi come istanza genetica che mette Marx nelle condizioni di impostare il problema della storia liberandosi dall’eredità di Hegel e rompendo con la logica essenzialista. Per la Arendt, al contrario, l’improduttività politica del lavoro fa tutt’uno con la sua improduttività storica.

(44) Su questo cfr. C. Packham, The Physiology of Political Economy: Vitalism and Adam Smtih’s ‘Wealth of Nations, “Journal of the History of Ideas”, LXIII, 3, 2002, pp. 465-481.

(45) H. Arendt, Vita activa, cit., p. 51.

(46) Va ricordato che, per la Arendt, i risvolti drammatici dell’immissione della vita (nell’accezione che equipara vita biologica, lavoro e la traduzione di questi nel concetto di ‘economia politica’) nella sfera pubblica vengono in luce non nella storia delle idee, bensì nel concreto svolgimento storico, allorché, nella fase tardo-ottocentesca dell’imperialismo, l’emancipazione politica della borghesia coincise con il tentativo di ampliare la sfera di potere senza la creazione di un corrispondente corpo politico. Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo (1951), trad. it. Edizioni di Comunità, pp. 171-419.

(47) H. Arendt, Vita activa, cit., p. 30.

(48) Su questo cfr. H. Arendt, La tradizione e l’età moderna, in Id., Tra passato e futuro, cit., pp. 41-69.

(49) In questo senso, e al di fuori di considerazioni di ordine teologico, non andrebbe sottovalutata la valenza simbolica dell’immagine evangelica del sepolcro vuoto, ossia essere la resurrezione un evento privo di testimoni oculari, sottratto cioè alla sfera pubblica.

(50) Per un inquadramento del problema dell’ideologia in rapporto ai sistemi segnici, in quanto forma di programmazione sociale resta un punto di riferimento F. Rossi-Landi, Ideologia, Isedi, Milano 1976.

(51) M. Foucault, La medicalizzazione indefinita (1974), in Id., Antologia, trad. it. Feltrinelli, Milano 2005, p. 151.

(52) Cfr. I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute (1976), trad. it. Boroli Editore, Milano 2005.

(53) Il pensiero femminista italiano, per quanto se ne possa dare una rappresentazione unitaria, sembra poco incline a considerare questo punto, sottolineando di preferenza la questione della scomparsa del corpo femminile dai nuovi scenari riproduttivi. In quest’ottica, la denuncia della dilagante retorica sulla vita, che tende a fare dell’embrione il protagonista solitario della nascita,  segnala soprattutto la preoccupazione per la desessualizzazione della procreazione, che minerebbe alla base la possibilità di portare nel discorso la differenza femminile. In altre parole, si sostiene che se il corpo femminile viene oggettivato a puro contenitore biologico, l’essere donna è condannato a vedersi privo di rappresentazioni simboliche proprie. Su questo cfr. M. L. Boccia, G. Zuffa, L’eclissi della madre, Nuove Pratiche Editrice, Milano 1998.

(54) Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere (1976), trad. it. Feltrinelli, Milano 2004, pp. 92-93.

(55) Ibidem, p. 178 (corsivo mio). A questo riguardo sono sintomatiche le considerazioni della filosofa inglese Mary Warnock, argomentate in termini laici, in relazione al problema della maternità surrogata: «Le obiezioni si incentrano essenzialmente sulla considerazione che introdurre terze persone nel processo di procreazione, che dovrebbe basarsi esclusivamente su un rapporto a due, significa minare il valore del legame coniugale». Cfr. M. Warnock, A question of Life, Basil Blackwell, Oxford 1985, p. 44.

(56) Non è un caso che la Chiesa cattolica condanni la diagnosi pre-impianto sugli embrioni, guardando invece favorevolmente alla diagnosi pre-natale che, nelle parole di Elio Sgreccia, «consente innanzitutto di tranquillizzare quelle mamme che vivrebbero con preoccupazione la loro maternità – e, perciò, potrebbero essere tentate di abortire». Cfr. A. Piazza, E. Sgreccia, L’individuo e l’embrione, “Micromega”, 3, 2005, p. 41 (corsivo mio). Recentemente Benedetto XVI ha invitato a vedere nel feto il volto del nascituro: alcuni hanno voluto leggervi un implicito richiamo alla filosofia del volto di Emmanuel Lévinas. Più plausibilmente, il riferimento del Pontefice è al Salmo 4, 7: «Chi ci farà gustare il bene? Fuggita è da noi, o Signore, la luce del tuo volto», con il quale, per altro, si apre anche l’enciclica di Giovanni Paolo II Veritatis splendor, pur con una variante nella traduzione: «Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto». Come è noto, in merito al rispetto della personalità del concepito, il Nuovo Testamento non fornisce indicazioni esplicite. C’è chi ha voluto trovarle nell’epistola ai Galati, laddove Paolo elenca le opere della carne il cui compimento preclude l’accesso al regno di Dio (Ga, 5,19-21). Tra questi comportamenti immorali si trova l’impiego delle veneficia (pharmakeia), termine solitamente tradotto con ‘magie’, ‘stregonerie’. Chi propende per un’interpretazione non restrittiva del termine,  tale quindi da includere anche l’uso di droghe abortive, argomenta sulla base del fatto che già la lex Cornelia de sicariis et veneficis (81 a.C.) contro gli assassini e gli avvelenatori era stata ampliata alle veneficia capaci di provocare la morte del feto. Resta fermo, in ogni caso, che per un’esplicita presa di posizione a favore del nascituro in quanto plasmatos di Dio, bisognerà attendere la patristica cristiana. Clemente Alessandrino, nel contesto di una discussione sulla contraccezione, si riferisce in questi termini alle donne che assumono abortivi per nascondere le relazioni extra-coniugali: «eae enim, ut fornicationem celent, exitalia medicamenta adhibentes, quae prorsus in perniciem ducunt, simul cum fetu omnem humanitatem perdunt» (Paedagogi 2, 10). Antenagora, da parte sua, afferma che Dio si prende cura degli embrioni per il semplice fatto che sono esseri viventi e che il rispetto della vita del feto rappresenta una garanzia morale per il rispetto della vita dell’adulto:«qui mulieres illas, quae medicamenta ad abortum utuntur, homicidas esse et rationem huius abortus Deo reddituras dicimus, quomodo hominem occideremus? Non enim eiusdem est fetum in utero animal esse, ac Deo curae esse existimare, et editum in lucem occidere» (Legatio Pro Christianis, 35).

(57) M. Foucault, Sorvegliare e punire (1975), trad. it. Einaudi, Torino 1993, in particolare p. 202. Si veda anche Id., La società disciplinare (1973), in Id., Antologia, cit., pp. 81-96.

(58) B. Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico (1991), trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 1994.

(59) Il riferimento è all’incontro, narrato nel Vangelo di Luca, tra Maria ed Elisabetta. Cfr. Lc 1, 41-42: «Ed ecco che, appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, le balzò in seno il bambino».

(60) B. Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico, cit., p. 27.

(61) Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche (1953), trad. it. Einaudi, Torino 1999, pp. 255-282.

(62) Dworkin ricorda come, all’indomani della sentenza della Corte Suprema che nel 1973 portò alla dichiarazione di incostituzionalità  della legge texana che considerava l’aborto un crimine, i gruppi pro-vita entrarono nell’arena politica ingaggiando «una guerra di pubbliche relazioni, distribuendo film ed ecografie di feti sviluppati ormai simili a bambini che, se sollecitati con un ago, si ritraevano in modo da far immaginare che reagissero al dolore». Cfr. R. Dworkin, Il dominio della vita, cit., p. 9.

(63) M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Id., Sentieri interrotti (1950), trad. it. La Nuova Italia, Firenze 2002, p. 88.

(64) Ibidem, p. 89.

(65) Ibidem, p. 93.

(66) B. Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico, cit., p. 115.

(67) Cfr. M. Mori, La capanna dello zio Tom, “Diario del mese”, 65, 2005, pp. 94-103.

(68) Sull’embriologia tomista cfr. L. Cova, Prius animal quam homo. Aspetti dell’embriologia tommasiana, in Parva naturalia. Saperi naturali, natura e vita, Atti dell’XI convegno della Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale, pp. 357-378.

(69) R. Lucas Lucas, Fondazione antropologica dei problemi bioetica, “Gregorianum”, LXXX, 4, 1999, p. 712. Cfr. anche Id., Antropologia e problemi bioetici, Edizioni San Paolo, Milano 2001.

(70) Ibidem, p. 735.

(71) Si è già visto come il modello deliberativo habermasiano sia messo in crisi dalle nuove premesse dell’etica del genere e dall’apertura di credito alle visioni del mondo di matrice religiosa. Va ricordato, altresì, che Habermas arriva a porsi in conflitto con il se stesso che, nel 1958, formulava una serrata critica dell’antropologia filosofica, considerandola una degenerazione in un «discorso acritico» destinata a sfociare «in una dogmatica con conseguenze politiche, tanto più pericolosa quanto più pretende di essere una scienza disinteressata». Cfr. J. Habermas, Antropologia, trad. it. in G. Preti (a cura di), Filosofia, Enciclopedia Feltrinelli Fischer, Milano 1966, p. 35.

(72) Cfr. J. Habermas, Il futuro della natura umana, cit., pp. 5-18.

(73) Ibidem, p. 15.

(74) Ibidem, p. 16.

(75) Ibidem, (corsivo mio).

(76) Sull’etica di Hans Jonas cfr. R. Mordacci, Una introduzione alle teorie  morali, cit., pp. 288-327; P. Becchi, L’etica pratica di Hans Jonas può fare a meno della metafisica?, “Paradigmi”, XXII, 66, 2004, pp. 389-405.

(77) Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 5.

(78) R. Mordacci, Una introduzione alle teorie morali, cit., p. 292.

(79) H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 31. (corsivo mio). È quasi superfluo dire che questa prospettiva è stata aperta, in definitiva, dalla riflessione heideggeriana sulla tecnica. Cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi (1957), trad. it. Mursia, Milano 1991, p. 27: «Quanto più ci avviciniamo al pericolo, tanto più chiaramente cominciano a illuminarsi le vie verso ciò che salva, e tanto più noi domandiamo. Perché il domandare è la pietà (Frömmigkeit) del pensiero».

(80) H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 16.

(81) Ibidem, p. 41.

(82) Ibidem, p. 50.

(83) H. Arendt, Vita activa, cit., p. 69.

(84) Ibidem.

(85) Cfr. J. Habermas, Il futuro della natura umana, cit., p. 59.

(86) Ibidem, pp. 59-60.

(87) In un contesto diverso, Roberto Esposito (cfr. L’origine della politica. Hannah Arendt o Simone Weil, Donzelli, Roma 1997, pp. 39-48) è pervenuto ad esiti non difformi da quelli della lettura habermasiana della filosofia di Hannah Arendt. Premesso un nesso di continuità tra il tema arendtiano dell’origine e quello heideggeriano dell’autenticità, l’autore ritiene che la natalità, presso l’autrice di Vita activa, esibisca una portata ontologica e non semplicemente fenomenologica, trattandosi di un venire all’essere dal nulla. Altrove, segnatamente in Bíos, cit., pp. 194-196, Esposito osserva che assumendo un fenomeno biologico - la nascita - come elemento differenziale rispetto alla circolarità biologica, «la Arendt ha cercato in essa la chiave ontopolitica per dare alla vita una forma coincidente con la sua medesima condizione di esistenza». In entrambi i casi, valgono le obiezioni già sollevate contro l’interpretazione habermasiana.

(88) H. Arendt, Vita activa, cit., p. 128.

(89) R. Bodei, Hannah Arendt interprete di Agostino, cit., p. 113.

(90) H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 188.