http://www.units.it/etica/2005_2/ARDILLI.htm
Abstract
This essay retraces the implications tied to the question of life in a ‘disenchanted’ world by
analysing some features of the bioethical and philosophical-political debate.
The author discusses the dicothomy
between sanctity-of-life and quality-of-life doctrines, in order to show that
the opposition between the two perspectives is not altogether convincing.
Seen in the light of the metamorphosis of the notion of life ( reconstructed
here following Arendt’s analysis of the Modern Age), this opposition proves
to be the superficial manifestation of a deeper issue, which amounts to
social reproduction’s imperatives. |
1. «C’è vita»: osservazioni
preliminari
L’attestazione ontologica
«c’è vita», singolare amalgama di realismo biologico, sedimenti metafisici e
valorizzazione simbolica, sembra essere diventata il fulcro della discussione
pubblica, la posta delle più importanti battaglie politiche e il canone di
riferimento per ogni discorso filosofico che voglia guadagnarsi un certificato
di rispettabilità. Se «c’è vita», pare scontato che ognuno debba attivarsi in
sua difesa, secondo i principi del rispetto oppure quelli della beneficenza,
compatibilmente con l’interpretazione privilegiata del dato. La vita si
innalza, nella retorica pubblica non meno che nell’indagine filosofica, a
valore indiscutibile, prima ancora di un accertamento rigoroso in merito
all’effettiva intesa comunicativa sulla costellazione concettuale che viene
chiamata in causa quando si parla, spesso indiscriminatamente,
dell’inviolabilità, dell’indisponibilità o della sacralità dell’oggetto in
questione. La si consideri come vita in atto o come vita in potenza, la si
interpreti come personale dal momento del concepimento oppure da quello
dell’emissione del primo vagito, corre l’obbligo di discorrerne in termini più
che lusinghieri. Così si esprime, tra gli altri, Jürgen Habermas: «Nessuno
dubita che la vita umana prima della nascita abbia valore intrinseco, sia che
la si consideri sacra sia che si respinga questa sacralizzazione di ciò che è
fine a sé (non strumentalizzabile)».(1)
«C’è vita»: anche chi nega
la deducibilità di una posizione etica da un’asserzione così manifestamente
incapace di produrre una qualche sensatezza epistemologica (una posizione
etica, per essere più chiari, modellata sull’archetipo a-temporale di ogni
responsabilità, il «deve elementare nell’è del neonato» di Hans Jonas),(2) tende poi a neutralizzare la portata e le
conseguenze della propria interpretazione, sulla base del fatto che «la
sperimentazione si sviluppa comunque su un materiale cellulare che non può
essere considerato privo di rilevanza morale».(3)
La filosofia pare avviarsi, nell’epoca del disincanto del mondo, a
reinterpretare in termini secolarizzati il principio di sacralità della vita.
Alla luce di un presupposto ermeneutico che, per un verso, confida
nell’inesauribile efficacia analitica e descrittiva della categoria di
‘secolarizzazione’(4) e,
per altro verso, postula infinite metamorfosi del concetto di sostanza, la
filosofia migra – con un movimento di neutralizzazione efficacemente descritto
da Carl Schmitt – (5) da
un campo di lotta verso un terreno presuntivamente capace di garantire la
cessazione delle ostilità attraverso il raggiungimento di un minimo di accordo
su premesse evidenti.
Una tesi così marcatamente
unilaterale potrebbe essere subito revocata in dubbio dalla circostanza che
vede ormai consolidata, all’interno del dibattito bioetico, la distinzione tra
etica della sacralità della vita ed etica della qualità della vita. Il filosofo
australiano Peter Singer è tornato più volte su questa polarità antitetica,
ricordando come l’accettazione della morte cerebrale in qualità di criterio
deputato a stabilire l’avvenuta morte dell’individuo faccia sì che ad esseri
umani pulsanti, che ancora respirano, non venga erogata ulteriore assistenza
medica.(6) Su questo terreno, la prassi medica e
quella giuridica si muoverebbero in controtendenza rispetto alla norma secondo
la quale è sempre moralmente sbagliato mettere fine intenzionalmente a una vita
umana innocente. Più precisamente, la norma che, in nome della sacralità della
vita, condanna senza eccezione l’interruzione intenzionale dell’esistenza di un
innocente, sarebbe costretta ad auto-sospendersi in una quantità di casi in cui
il rispetto per la dignità del morente prescrive di accelerarne la fine.
Vale la pena chiedersi se il
riferimento a questa recente acquisizione rappresenti di per sé l’ultima parola
in relazione all’esaurimento del codice della sacralità della vita.(7) O se, diversamente, non si debba
approfondire l’interrogazione in un senso precluso ad una prospettiva che,
limitandosi a registrare il tracollo analitico di categorie di pensiero e di
valori resi obsoleti dalla prassi sociale, non si avvede, contemporaneamente,
degli insospettabili margini di resistenza che questi presentano. Sotto questo
profilo, la metaetica di impianto coerentista che caratterizza nel suo
complesso il paradigma bioetico contemporaneo,(8)
ovvero l’abbandono post-metafisico di ogni forma di fondazionalismo a favore
della costruzione di un equilibrio riflessivo tra le nostre intuizioni morali
di base e i principi che le giustificano, si rivela poco feconda. L’impostazione
coerentista in questo caso potrebbe, tutt’al più, portare argomenti a favore
dell’utilitarista, quando questi mostra come l’etica della sacralità della vita
introduca surrettiziamente apprezzamenti relativi alla qualità della vita,
facendo leva su una serie di distinzioni tutt’altro che autoevidenti come
uccidere/lasciar morire, effetti intesi/effetti meramente imprevisti, mezzi
ordinari/mezzi straordinari.(9) Ciò
che l’approccio coerentista non è in grado di chiarire, tuttavia, è se a
ricostruzioni morali mutuamente esclusive dei nostri giudizi ponderati
corrispondano altrettante metafisiche influenti o visioni del mondo parimenti
incompatibili tra loro (ad esempio, l’alternativa creazionismo/evoluzionismo).(10)
La questione evidenziata non
è peregrina, se non altro perché proclamare enfaticamente l’estinzione di un
codice di significati morali tradizionali – se si vuole: una più sobria
dichiarazione in merito al senso della nietzscheana ‘morte di Dio’ – dovrebbe
impegnare, in sede di riflessione filosofica, ad esplorazioni di più ampio
respiro. Segnatamente, si tratterebbe di mettere alla prova l’ipotesi, qui
difesa, in base alla quale le trasformazioni in corso incidono sui significati
perché investono, in prima istanza, i referenti dei termini impiegati. In altre
parole, occorre verificare se e in che modo la semantica del sacro sia stata
trasferita verso ciò che dalla sfera del sacro è stato tradizionalmente
escluso.(11) Se le cose stanno
così, se effettivamente si è prodotto un cambiamento che il linguaggio
ordinario avverte solo confusamente, non è difficile intuire che i risvolti più
scabrosi della metamorfosi investono direttamente il discorso filosofico
sull’origine e il problema della titolarità dell’iniziativa creativa sulla
vita, con tutte le conseguenze etiche e politiche del caso.
Fenomeni di questa portata,
com’è da attendersi, si negano ad un sondaggio empirico e ad una relativa interpretazione
al di fuori di ogni disputa. E, certamente, voler spiegare tutto nei termini di
un uso improprio, se non addirittura inebriante, di metafore religiose
sottratte al contesto originario è un’operazione che si esporrebbe a più di una
critica. Ma il fatto che, recentemente, una voce autorevole abbia segnalato, in
un volume dedicato ai rischi dell’eugenetica liberale, la necessità di un
programma di traduzione cooperativa di contenuti religiosi, dal momento che «le
maggioranze secolarizzate non hanno il diritto di far prevalere le loro
decisioni in tali questioni, se prima non hanno prestato attenzione alle
obiezioni degli oppositori che si sentono feriti nelle proprie convinzioni
religiose»,(12) non dovrebbe dare adito a troppe
incertezze sulla direzione di ricerca da imboccare.
Sostenere, come di fatto
Habermas sostiene, che la dialettica incompiuta della secolarizzazione debba
risolversi nel riconoscimento di un diritto di veto religioso è un pronunciamento
di portata dirompente. L’assiologia intorno alla quale si è strutturato il
liberalismo filosofico del secondo Novecento, e cioè, sostanzialmente, l’idea
che l’ordine cognitivo e l’ordine politico nascono assieme, riceve qui un colpo
mortale. La tesi della co-originarietà tra ordine politico e ordine cognitivo,
nella variante habermasiana, comporta 1) che vengano considerate legittime solo
quelle norme che possono riscuotere il consenso di tutti nelle condizioni di un
discorso razionale; 2) che la modalità legittimante di un consenso generale si
colleghi all’idea di una legalità coercitiva tutelante eguali libertà
soggettive; 3) che i procedimenti di legittimazione discorsiva siano ‘aperti al
futuro’, nel senso di perpetuare nel tempo l’atto costituente attraverso un
processo di apprendimento capace di auto-correzione. (13)
Ora, il
tema della vita e dei suoi condizionamenti biologici mette in crisi questo
modello fallibilistico, poiché, stando all’argomentazione del filosofo tedesco,
quando è in gioco l’autocomprensione normativa del genere umano –
autocomprensione che potrebbe essere manomessa dalla manipolazione migliorativa
e non terapeutica del genoma - un fallimento maturato nel corso delle pratiche
discorsive è un lusso che non ci si può permettere al prezzo democratico di una
clausola emendatrice. Di conseguenza, l’invito alla fluidificazione politica di
contenuti religiosi trova a questo livello un’accoglienza favorevole, venendo a
saldarsi con l’idea che qualcosa, ovvero il principio della vita (pietrificato da Habermas
nella riabilitazione del concetto di ‘natura umana’, dalla quale far dipendere
un’etica del
genere), debba essere sottratto agli esiti aperti e imprevedibili
del confronto comunicativo.
Tentare di
minimizzare l’entità di una simile conclusione mediante l’ormai rituale appello
al fatto del
pluralismo servirebbe a poco, dal momento che è proprio questo
supposto dato di fatto e il suo impiego in sede di filosofia politica che
devono essere interrogati. Tale ripensamento è declinabile in maniere diverse.
In relazione al problema etico-politico della vita, una tra le possibili piste
di indagine potrebbe prendere le mosse da questo interrogativo: l’antitesi tra
etica della sacralità della vita ed etica della qualità della vita configura
una grande
dicotomia? Si dispone come una correlazione disgiuntiva sotto ogni rispetto?
2. La sacralità della vita come
bene sociale
In linea di principio, i
contrassegni distintivi dell’etica della sacralità della vita rinviano al suo
essere associata a concezioni religiose e al suo prendere corpo in divieti
assoluti. Quando, invece, si parla di etica della qualità della vita, entrano
in gioco valutazioni che, con uno spettro di oscillazione abbastanza ampio,
vanno dalla considerazione delle preferenze soggettive e degli interessi
critici degli individui coinvolti ad indicatori socio-economici che
presuppongono un contesto in cui la benevolenza è limitata e le risorse sono
scarse. L’approccio del capitale umano (che misura il valore della vita sulla
base della capacità di produrre reddito), l’approccio della disponibilità a
pagare (secondo cui la qualità della vita risulterà maggiore per coloro che
disposti a pagare per mantenersi in una certa condizione) e il criterio del
QALYs (l’indice che combina il numero di anni di attesa di vita e la qualità
della vita in termini di salute), sono alcune delle soluzioni elaborate dal
punto di vista della qualità della vita.(14) Questo proliferare di criteri, il cui minimo comune
denominatore risiede nel loro essere assoggettati a parametri di efficienza
economica, suggerisce almeno due considerazioni. La prima è che, in ordine alla
costruzione della teoria, le intuizioni morali di base sono probabilmente meno
affidabili di quanto normalmente si creda. La possibilità di una pluralità di
equilibri riflessivi, infatti, è sempre da mettere in conto. Nondimeno, tale
possibilità non è indefinitamente aperta e incontra il suo limite costitutivo non
in un’intuizione morale sovraordinata, bensì nelle circostanze sociali di
giustizia definite da Hume, vale a dire, in ultima analisi, nelle condizioni di
mercato. La seconda considerazione intende sottolineare le difficoltà che
insorgono laddove si voglia istituire una grande dicotomia tra prospettive
morali che assumono direttamente la vita come valore e che, di conseguenza,
ritengono che la politica debba intervenire non solo a tutelare, ma anche a
potenziare nelle forme sociali desiderate quel medesimo valore. Alcune
esemplificazioni possono essere chiarificatrici.
Si legga, a questo
proposito, quanto scrive lo stesso Singer: «Così le nostre decisioni su come
trattare questi pazienti [cerebralmente morti] devono dipendere non dalla
retorica altisonante dell’uguale valore di ogni vita umana, ma dal parere di
famiglie e partner che, in occasione di perdite tragiche, merita di contare.
[…] Nello stesso tempo, in un sistema pubblico di assistenza sanitaria, non
possiamo ignorare né i vincoli imposti dalla limitatezza delle risorse mediche,
né le necessità delle persone per le quali un trapianto d’organi potrebbe
rappresentare la salvezza».(15)
Più che una messa in mora del principio di sacralità della vita – operazione
che richiederebbe, probabilmente, la disponibilità ad avventurarsi in un
terreno filosofico più impervio: chiedersi, ad esempio, se la vita rientri tra
i supposti scopi della natura; se abbia senso parlare di un ‘lavoro’ della
natura; se la natura custodisca dei valori in quanto custodisce degli scopi, e
così via - si tratta qui di una sua riformulazione in chiave utilitarista,
associata alla critica di una particolare interpretazione del principio di
uguaglianza. D’altra parte, una simile osmosi tra prospettive all’apparenza
reciprocamente impermeabili vale anche in senso contrario. Già nel 1957, un
sostenitore dell’etica della sacralità della vita difficilmente sospettabile di
tentazioni eterodosse, Pio XII, intervenne sul problema del trattamento dei
neonati affetti da gravi malformazioni affermando che si è tenuti a trattenerli
in vita impiegando soltanto i mezzi ordinari, cioè i mezzi che non comportano
un onere grave per sé o per gli altri. Un obbligo più rigido, secondo questo
punto di vista che guarda alla vita come valore naturale razionalmente
conosciuto da tutti, risulterebbe troppo gravoso per la maggioranza delle
persone coinvolte.(16)
Al di là della difficoltà insita in una nitida demarcazione tra mezzi ordinari
e mezzi straordinari, resta il fatto che l’etica della sacralità della vita
delinea un quadro normativo relativamente ospitale per valutazioni che, nel
giudicare la liceità della sospensione del trattamento medico, tengono in
considerazione le sue probabilità di successo. Altri elementi di giudizio, per
così dire, di importazione - come la necessità che qualunque legislazione che
ammetta un ‘diritto a morire’ o a ‘lasciar morire’ debba «riferirsi
essenzialmente al diritto autonomo del paziente di porre fine alla propria
vita» -,(17) restano invece
rigorosamente esclusi da questa prospettiva. L’adozione di un criterio
consequenzialista e utilitarista, in questo caso, sottintende una
valorizzazione della vita cosciente e vissuta che, certamente, mette in
discussione un’applicazione estesa del principio di uguaglianza. Tuttavia, la
strumentazione concettuale di provenienza utilitarista offre un incomparabile
vantaggio ai fautori della sacralità della vita: una vita cosciente e vissuta ha la possibilità di sostenersi e riprodursi
nelle forme sociali e culturali desiderate. Una vita cosciente, in altre
parole, può testimoniare della propria
qualità elargendo una variegata riserva di risorse a favore della difesa della
sacralità della vita.
Non deve sfuggire il fatto
che anche l’idea di sacralità della vita si trova fra i candidati al ruolo di
indice sociale del valore della vita. Un simile ruolo difficilmente potrebbe
essere giocato da un sistema morale intessuto di proibizioni assolute; e
nemmeno potrebbe essere sostenibile ricorrendo ad un’interpretazione troppo
letterale dei pronunciamenti evangelici e paolini che, alla vita terrena del
cristiano, associano le figure del pellegrinaggio e dell’esilio. L’aspetto che
l’etica della sacralità della vita ha assunto è quanto di più lontano si possa
immaginare dalla condotta morale metaforizzata dalla fiduciosa noncuranza del
verdetto mondano sulla qualità della vita che contraddistingue i gigli nel
campo e gli uccelli nel cielo.(18) Etica della sacralità della vita ed
etica della qualità della vita, per come sono venute configurandosi in rapporto
alle pratiche socio-politiche delle società occidentali, si lasciano sussumere
sotto una categoria più ampia: un positivismo della vita, che appare quasi
sempre presupposto dalla riflessione etico-politica contemporanea, al punto da
rappresentarne una delle cifre decisive.(19)
Si argomenterà ulteriormente
su questo punto; per ora basti dire che anche per quegli autori che manifestano
una serie di perplessità circa la praticabilità di una meta-traduzione in forme
politicamente non oppressive tra forme di vita diverse, un incontro sul piano
ontologico deve essere possibile.(20)
Ad essere reclamata è un’intesa più generale tra appartenenti alla medesima
comunità politica ai quali, in definitiva, è richiesta l’adesione ad un nucleo
di valori che sappia coniugare la convivenza tra stranieri morali con uno strato più profondo
(ancorché, realisticamente, difficilmente armonizzabile con il progetto di
coltivare e sostenere concezioni alternative della fioritura umana): la
condivisione degli obiettivi biopolitici della comunità.
Ad una conclusione analoga è
giunto - pur con esiti problematici del tutto opposti a quelli evidenziati nel
corso di questo intervento - Ronald Dworkin nel suo Il dominio della vita.
Motivato dall’esigenza di neutralizzare le asprezze che hanno fatto della battaglia
sull’aborto tra gruppi pro-life e
gruppi pro-choice «una nuova versione
americana delle terribili guerre di religione nell’Europa del Seicento»,(21) il filosofo statunitense intende
illustrare come l’esegesi canonica della disputa sia fondata su una confusione
intellettuale che rende intransitabile la via del compromesso. Tale confusione
è figlia del pregiudizio secondo il quale il disaccordo dipende da opinioni
diverse in merito allo statuto ontologico del feto. In realtà, afferma Dworkin,
il disaccordo che effettivamente contrappone le persone è di natura molto meno
lacerante, e verte su come meglio rispettare «un’idea fondamentale che quasi
tutti condividiamo in qualche forma»: la sacralità della vita umana individuale.
Entro questo riferimento comune, coloro che ritengono che l’investimento
naturale nella vita umana rivesta un’importanza trascendente, penseranno che
una morte prematura deliberata sia la più grande frustrazione possibile,
indipendentemente da quanto sia mortificata la prosecuzione della vita.
Diversamente, coloro che vincolano il rispetto per la sacralità della vita al
contributo umano che questa mette in opera, concorderanno nel decidere che la
vita debba terminare prima che ulteriori investimenti umani siano condannati
alla frustrazione.
Tutto lo sforzo
argomentativo di Dworkin è orientato a persuadere il lettore della familiarità
dell’idea di sacralità della vita,(22)
del suo essere un luogo comune decifrabile attraverso un principio presente a
tutti: la convinzione che esistano determinate attività che sono rispettate
indipendentemente dai loro risultati. In questa direzione, il filosofo del
diritto individua nella natura e nell’arte le due tradizioni che confluiscono
nell’idea del sacro, nel senso che natura e arte rappresentano due processi i
cui prodotti sono per principio inviolabili. Alla luce di queste «ovvietà» sul
sacro, il problema politico viene riformulato in questi termini: una comunità
politica deve rendere i valori intrinseci una questione di decisione collettiva
o di scelta individuale?(23)
La risposta di Dworkin non
si lascia attendere, ed evidentemente propende per il secondo corno del
dilemma. Tuttavia, più che insistere sulla curvatura liberale dell’opzione
politica privilegiata, vale la pena sottolinearne il profilo post-hegeliano,
nel senso che il quadro delineato da Dworkin lascia sussistere, come in Hegel,
un ethos oggettivo.(24)
Senonché questo ethos oggettivo non perde nulla quanto a sostanzialità, come ci
si potrebbe invece aspettare da una teoria liberale; non senza sorpresa, il
profilo anti-hegeliano della proposta dell’autore si esprime altrimenti, vale a
dire nel fatto che l’ethos oggettivo resta svincolato da un rapporto accertato
con la «soggettività della pura certezza di se stessa». Non si dà alcuna
identità concreta del bene e della volontà soggettiva. Non si può evitare di
osservare, infatti, come l’alternativa tra decisione collettiva e scelta
individuale sia compromessa in partenza – risultando, in definitiva, una falsa
alternativa - da un monopolio sociale dell’interpretazione dei cosiddetti
valori ultimi, articolato in maniera tale da vanificare lo spessore dell’apporto
individuale alla scelta. Quindi, se è vero che la comunità politica liberale
non è legittimata a pronunciarsi sulle questioni di valore, essendo queste
irrimediabilmente controverse, è altrettanto vero che la sovranità ultima della
decisione individuale resta una petizione di principio. L’idea di autonomia non
brilla affatto di quella «evidenza accecante»(25) che il pensiero liberale è solito ascriverle. Questo esito
non dipende tanto dall’architettura formale della teoria, bensì dal contenuto –
ovvero, la nozione di sacralità della vita - che informa di sé l’idea del bene
che schieramenti diversi ritengono di onorare nella maniera migliore.
L’incertezza semantica che, a dispetto di ogni pretesa di ovvietà, affligge la
definizione del sacro abbozzata da Dworkin, lo costringe a sottovalutare la
circostanza che le obbligazioni che promanano da quanto è ritenuto sacro, per
definizione, non autorizzano gli individui a decidere liberamente se le
interpretazioni influenti del sacro assumano figure ragionevoli. Ancor meno, il
filosofo statunitense, sembra preoccuparsi dell’eventualità che, nelle
condizioni della società moderna, l’astrazione del ‘sacro’ possa esprimere dei
bisogni che, di fatto, imprimono un’immagine differente – nella forma e nei
contenuti - alla totalità strutturata dei rapporti intersoggettivi, secondo
modalità che non trovano riscontri nel quadro di una visione tradizionale e
ufficialmente codificata della sacralità.
In un linguaggio hegeliano, questa astrazione «intesa come esser riconosciuti è
il momento che rende gli individui nella loro riduzione a singoli e nella loro
astrazione bisogni, mezzi e modi d’appagamento concreti in quanto sociali».(26)
La coincidenza che vede
l’impasse in cui resta impigliato Dworkin presentarsi accanto a rielaborazioni
culturali poste sotto il duplice segno della sacralizzazione del profano e
della profanazione del sacro, è solo la spia di un problema più ampio.
Nell’affrontarlo, non bisogna dimenticare che la condizione sempre più precaria
della secolarizzazione moderna (in una parola: la vulnerabilità che tormenta la
competenza autolegittimante del mondo secolarizzato), più che come
sottoprodotto di un pluralismo normativo preso sul serio, appare come il
corollario di una sempre più intensa sovrapposizione tra vita e politica. Per
questo motivo, nel prendere congedo dalla koiné liberale, vale la pena
transitare verso uno stile di pensiero capace di fiutare la risonanza di un
problema eccedente il linguaggio consueto della filosofia politica. Capace,
cioè, di venire a patti con l’insorgenza di uno scenario entro cui, «quando il
filo della tradizione infine si è spezzato, la lacuna tra passato e futuro ha
cessato di essere una situazione peculiare alla filosofia, un’esperienza
limitata a quei pochi per i quali il pensare costituiva l’attività
fondamentale; è diventata per tutti una realtà e un dilemma tangibile; insomma,
un fatto politico».(27)
3. Vita e politica nel mondo
secolarizzato: intermezzo su Hannah Arendt
Con almeno due decenni di
anticipo sull’istituzionalizzazione dei termini ‘bioetica’ e ‘biopolitica’, e
da una collocazione intellettuale senz’altro eccentrica, al crocevia tra teoria
politica, critica della cultura e filosofia tout court, Hannah Arendt ha
offerto una delle esposizioni filosoficamente più pertinenti sul nesso
patologico sottointeso all’omologazione moderna tra vita e politica (la
«crescita innaturale del naturale»)(28) e
sulle contraddizioni cui esso dà luogo nel contesto di una secolarizzazione
incerta, malgrado il - o forse proprio a causa del - suo farsi riflessiva. Una
secolarizzazione che «non descrive un’epoca in senso forte, proprio perché
‘epoca’ implica rottura e sospensione di un ordine pre-esistente».(29)
Su quest’ultimo punto è bene
evitare immediatamente possibili fraintendimenti: la filosofa ebrea respinge
con decisione sia quelle versioni filosofiche che interpretano il complesso
teorico-pratico moderno come l’immanentizzazione di aspettative escatologiche,
sia quelle che pensano alla modernità come alla realizzazione di una tradizione
nichilistica. Nulla è più estraneo all’habitus
di pensiero arendtiano che il concepire lo svolgimento storico come la monotona
ripetizione di un contenuto teologico espropriato dal monopolio ecclesiastico,
o, alternativamente, come l’eventualizzazione dell’essere nell’inerzia del
pensiero metafisico. Piuttosto, della secolarizzazione, la Arendt coglie il
doppio fondo, avvertendone la drammatica indigenza. Da una parte, infatti, con
la separazione tra Chiesa e Stato, si fa irreversibile lo sfinimento storico
dell’autorità pubblicamente vincolante delle istituzioni e delle credenze
religiose, sicché ogni tentativo di riqualificare in senso teologico-religioso
la sfera politica non può che rovesciarsi in un pervertimento ideologico.(30) Da questo punto di vista, l’autrice di Vita activa non esita a radicalizzare e
ad estendere la tesi sul depauperamento delle categorie di pensiero orientate
verso l’assolutezza del valore, lamentando addirittura la fede disperata in un
valore assoluto da parte degli economisti classici fino a Marx: «nessun
pensatore poteva accettare il semplice fatto che nessun ‘valore assoluto’
esiste nel mercato di scambio, che è la sfera appropriata dei valori, nonché la
circostanza che cercarlo è qualcosa di molto vicino al tentativo di quadrare il
cerchio. La tanto deplorata svalutazione di tutte le cose, cioè la perdita del
loro valore intrinseco, comincia con la loro trasformazione in valori o in
merci, perché da quel momento in poi esse esisteranno solo in relazione a
qualche altra cosa che può essere acquistata al loro posto».(31)
Dall’altra parte, la
studiosa del totalitarismo riconosce che il disincanto del mondo non si è
affatto tradotto nell’affermazione politica del suo carattere autonomo. (32) Al contrario, la secolarizzazione,
avviatasi con il duplice processo dell’espropriazione individuale e
dell’accumulazione della ricchezza sociale, ha accelerato l’esposizione di
interi gruppi umani alle nude esigenze della vita, con il risultato di
intensificare la preoccupazione per se stessi fino a dimenticare quella per il
‘mondo’, termine che nel lessico arendtiano vale come sinonimo di ‘politica’ e
‘sfera pubblica’. Il significato politico della separazione tra Chiesa e Stato,
in questo senso, non coincide, in positivo, con il riconoscimento della
pienezza e dell’autosufficienza del saeculum;
il tratto distintivo della secolarizzazione si lascia decifrare politicamente
attraverso il suo rovescio negativo, vale a dire come sottrazione di autorità,
come perdita di quel fattore esterno – ancorché vincolante - al concreto
esercizio del potere, capace di assicurare durevolezza e stabilità alla vita
politica. È precisamente per via di questa sua fragilità costitutiva che la
sfera pubblica delle società secolarizzate è costantemente minacciata dalla
restaurazione abusiva di contenuti religiosi, non meno che dalla falsa
identificazione tra ‘secolarizzazione autentica’ e ‘laicismo’. «Ma queste
raccomandazioni contraddittorie rivolte alla società libera» scrive la Arendt
«di tornare alla vera religione e diventare più religiosa, o di liberarsi dalla
religione istituzionale (specialmente verso il cattolicesimo, in costante
antagonismo con il laicismo), non riescono a dissimulare il punto su cui le due
parti concordano: ‘religione’ è per entrambe qualunque cosa adempia le funzioni
di una religione».(33) Davanti ad una crisi storicamente
irreversibile dell’autorità, l’errore che accomuna liberali e conservatori si spiega
dunque come adesione acritica ad una logica funzionalista e sostitutiva. Nel
dettaglio, l’errore consiste nell’incapacità di prendere atto dell’esaurimento
di un’esperienza politica e pensare di poter determinare la natura dei fenomeni
non in base al loro contenuto, ma in base alla loro fungibilità. Ragion per
cui, qualsiasi cosa si ritenga in grado di rimpiazzare un contenuto religioso o
una nozione di libertà ormai privi di efficacia storica, viene automaticamente
identificato come religione e come libertà. Caratteristica di questo
funzionalismo, per la pensatrice ebrea, è la sua natura ideologica:
letteralmente, la sua subordinazione ad una logica puramente ideale,
strutturalmente portata ad ignorare i fenomeni e il luogo concreto del loro
apparire: il mondo.
A quest’altezza l’indagine
della Arendt sul rapporto tra politica e vita viene a strutturarsi intorno ai
poli metaforico-concettuali che hanno fatto della sua riflessione un vero e
proprio caso d’eccezione nel panorama della teoria politica contemporanea:
vita/lavoro/società contro natalità/azione/mondo. La costruzione, genealogica e
non deduttiva, di questi plessi
categoriali e il loro impiego in seno al discorso sulla modernità vanno
compresi alla luce di due premesse teoriche. La prima riguarda l’antropologia
filosofica delineata in Vita activa,
che alla tripartizione della prassi in lavoro, opera e azione fa corrispondere
altrettanti, ineliminabili, condizionamenti a cui è sottoposta l’esistenza
umana: rispettivamente, la riproduzione e il sostentamento biologico del corpo;
l’essere-nel-mondo determinato dalla produzione di manufatti che entrano nel
circuito dello scambio; da ultimo, la relazione politica in senso qualificato,
che mette in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali.
(34) L’antropologia sui generis della Arendt - attenta ad evitare fraintendimenti
teologici del tema dei condizionamenti, che determinerebbero una ricaduta nella
problematica nozione di ‘natura umana’ - (35) si interseca poi (e questa è la seconda premessa) con una
genealogia impegnata a mettere a fuoco le modalità specifiche con cui, di volta
in volta, il nesso vita/politica viene ad articolarsi.
Nel dettaglio, tre sono gli
snodi storici presi in considerazione dall’allieva di Heidegger onde far
risaltare le differenti fisionomie assunte, in seno alla tradizione
occidentale, dall’abbinamento tra vita e politica: l’età greco-antica, l’era
cristiana e l’età moderna.(36) Nella concezione greca «la vita individuale,
un βίος con una biografia riconoscibile che va dalla
nascita alla morte, sgorga dalla vita biologica, dalla ζωή; e si
distingue da tutte le altre cose per il suo corso rettilineo, che sembra quasi
tagliare, attraversandoli, i ricorsi circolari dell’esistenza biologica».(37) La sospensione dell’eterna circolarità
biologica della zoé, che nel mondo
omerico sta a significare la ricerca dell’eccellenza e della gloria postuma
attraverso le gesta e le parole dell’eroe, si esprime nel fatto che la
grandezza umana aspira immediatamente all’immortalità. La grandezza dell’eroe,
cioè, è una funzione del suo disprezzo per tutto quanto è istinto di autoconservazione
e preservazione della vita individuale, non esclusa la propria.
La ricerca dell’immortalità
nelle gesta da consegnare alla memoria dei poeti conosce un’inversione già con
il passaggio dalla fase epica a quella propriamente politica. Il mutamento, secondo
la Arendt, raggiunge il culmine nella filosofia di Platone. Egli pone il
desiderio di acquistare gloria sullo stesso piano del desiderio naturale di
generare figli, attraverso il quale la natura rende possibile l’immortalità
della specie, sebbene non assicuri quella del singolo. Pertanto, e inaugurando
così quella vicenda di ostilità tra filosofia e politica che attraversa la
tradizione occidentale, Platone declassa la norma procreativa riservandola
all’uomo comune, e scopre che, per il filosofo, la possibilità di immortalarsi
risiede nel dimorare nei pressi delle cose che sono per sempre. Liberandosi
dalla cura degli affari umani, il filosofo può tenere soltanto «un’attitudine
di contemplazione inattiva e addirittura muta».(38)
L’era cristiana, sotto
l’impressione prodotta dal crollo dell’Impero Romano, formula il rapporto tra
vita e mondo in termini ancora diversi. Per il cristiano, immortali non sono né
il mondo, né il ciclo della vita, né
l’anima separata dal corpo, ma soltanto i singoli viventi nella loro unità
psico-fisica. La vita umana diventa sacra più di ogni altra cosa al mondo, ma
solo perché la vita terrena dell’uomo procede secondo un progetto salvifico
destinato a concludersi con la redenzione eterna nella resurrezione
individuale, sicché nel susseguirsi delle vicende umane deve trovarsi un
significato autonomo trascendente rispetto a tutti i singoli avvenimenti.
Pertanto, l’astensione cristiana dal mondo non si precisa unicamente come pura
negatività ascetica. Si tratta, per meglio dire, di una negatività determinata,
che si appunta, da un lato, contro l’idea che l’agire umano possa in qualche
modo produrre causalmente lo stato futuro e, dall’altro lato, contro il
riconoscimento di una produttività specifica inerente all’azione mondana,
segnatamente la sua capacità di produrre relazioni interumane volute per se
stesse. L’agire cristiano, in ultima analisi, non ha altro scopo che
qualificare la vita del singolo agli occhi di Dio: vivere nella caritas significa che un rapporto
corretto con il mondo può essere impostato unicamente all’insegna della
strumentalità dell’uti. Riferito a
Dio, il mondo è spogliato di ogni autonomia per l’uomo, il quale a propria
volta allontana da sé il pericolo di precipitare nella cupiditas per esso. (39)
Solo apparente, perciò,
è il nesso di continuità che lega all’intimo convincimento della sacralità
della vita l’accento posto sull’interesse personale da parte della filosofia politica
moderna. La modernità si scopre e si dichiara nell’indifferenza verso il
problema dell’immortalità individuale: nella logica processuale sotto la quale
la modernità sussume storia e natura, l’interesse per la vita viene a
coincidere con il trionfo dell’animal laborans. Candidata all’immortalità, da quel momento in poi,
può essere solo la specie. Pars pro toto, l’imperialismo dell’attività lavorativa si
appropria così dell’intero territorio della prassi, uniformandolo e
compromettendone quell’integrità che era basata sulla differenziazione interna.
Ogni finalità dell’agire, si tratti degli affari pubblici, della produzione di
ricchezza o della gestione del tempo libero, è ricondotta al télos sovraordinato
del sostentamento fisico.
La costitutiva incapacità
del lavoro di saldarsi al linguaggio inserendo i suoi esecutori in una rete
personale intersoggettiva, e la rapidità con cui il suo sforzo è consumato
senza lasciare tracce dietro di sé, è ciò che lo assimila, nella sua cronica
insignificanza, alla vita biologica.(40)
Politicizzare il lavoro, traslarne i caratteri verso il mondo pubblicamente
condiviso dai plures, innalzandolo in
tal modo ad archetipo dell’agire è, per la Arendt, una semplice contraddizione
in termini. Equivarrebbe all’assurda pretesa di voler estrarre un linguaggio
dall’afasia. Il lavoro è, tutt’al più, socializzabile nel senso – inusitato per
orecchie marxianamente educate – di potersi estroflettere nel movimento
collettivo, ma sempre simbolicamente muto, del metabolismo vitale. Il processo
di socializzazione così descritto si attaglia, del resto, alla mutazione
morfologica e ontologica a cui la proprietà va soggetta nel mondo moderno,
nella misura in cui cessa di essere «una parte fissa e ben radicata del mondo»
e, trasformandosi in ricchezza sociale, perde anche ogni idoneità ad essere
gestita privatamente.(41)
In polemica con la concezione marxiana del lavoro, la pensatrice ebrea esclude
categoricamente che l’uomo possa «fare della sua attività vitale l’oggetto
stesso della sua volontà e della sua coscienza»,(42)
raddoppiandosi intellettualmente e attivamente fino a capovolgere realmente il
lavoro alienato in attività libera. Pensando antropologicamente il lavoro come
«una delle condizioni di base in cui la vita sulla terra è stata data
all’uomo», anziché, materialisticamente, come un’auto-oggettivazione umana
sussumibile sotto rapporti sociali storicamente mutevoli, la Arendt non può che
emettere un verdetto a senso unico. Il lavoro resta irrimediabilmente
inchiodato alla necessità biologica, inaffrancabile dal dominio del bisogno
fisico: sotto il giogo biologico è impensabile qualsivoglia distinzione tra la
vita individuale e la vita della specie, così come tra libertà e necessità.(43)
In questo passaggio,
l’allieva di Heidegger si mostra ricettiva nei confronti di una connessione,
ormai storiograficamente accertata, tra lo sviluppo del ‘sistema della libertà
naturale’ di Adam Smith e le coeve teorie fisiologiche della scuola medica di
Edimburgo, caratterizzate da un progressivo abbandono del meccanicismo a favore
di una fisiologia vitalista.(44)
In questo contesto matura l’idea, che agli occhi della Arendt risulterà poi la
direttrice egemonica della modernità, che la ricchezza sociale sia il prodotto
di un particolare genere di corpo: un corpo che lavora sulla spinta di
un’energia associata al principio sconosciuto della vita animale. La
celeberrima figura della ‘mano invisibile’ altro non è che la metafora di
questo principio sconosciuto della vita animale che connette tra loro senza
soluzione di continuità – in quella che la Arendt denuncia come ‘finzione comunistica’
– gli atti individuali di auto-interesse e le loro conseguenze economiche.
Dipingere l’economia come un sistema organico significa eo ipso sostenere, da un lato, che lavorare è una forma di
obbedienza al richiamo della natura, una sottomissione al disegno
provvidenziale che si fa manifesto, secondo Smith, nel desiderio degli uomini
di lavorare. Dall’altro lato, questa soluzione erode completamente ogni margine
di autonomia per la politica, in quanto
al corpo è attribuita un’autonormatività interna già da sempre interiorizzata
dagli individui.
Così, dalla fede (il cui
dogma centrale sarebbe l’enigma del plus-valore) nell’infinita e ineguagliabile
produttività del lavoro, ovvero da un’esclusiva considerazione dell’uomo in
quanto essere appartenente ad una specie, la Arendt fa discendere l’eclissi
moderna della libertà. Prova ne è, anzitutto, il degrado della discussione
moderna sulla libertà, in cui questa «non è mai intesa come una condizione
oggettiva dell’esistenza umana, ma o si presenta come un problema insolubile di
soggettività, di una volontà determinata o del tutto indeterminata, oppure si
sviluppa dalla necessità».(45)
L’incapacità moderna di afferrare la differenza concreta tra l’essere liberi e
l’essere costretti dalla necessità, in quest’ottica, è confermata tanto dal
declino della sfera pubblica, quanto dall’estinzione di quella privata
(rigorosamente distinta dall’arena sociale), entrambe perversamente rimpiazzate
da una sorta di economia domestica organizzata su larga scala, in forza della
quale il comportamento sociale diventa l’unica bussola di orientamento per
tutte le regioni della vita.(46) A
questa ipertrofia del sociale corrisponde, del tutto coerentemente, la più
‘sociale’ delle forme di governo: la burocrazia, il governo di nessuno, dove
questo ‘nessuno’ altri non è che «il preteso interesse comune della società nel
suo insieme, da un punto di vista economico, così come la pretesa opinione
comune della buona società nei salotti».(47)
Non mette conto discutere
qui la messe di critiche che sia le periodizzazioni, sia l’antropologia della vita activa messe a punto dalla Arendt
si sono attirate addosso. Critiche che, peraltro,
tendono a dimenticare che la tripartizione tra lavoro, opera e azione non
intende individuare altrettanti gruppi sociali, né pronunciarsi direttamente
sulla configurazione dei rapporti di produzione, bensì tematizzare la relazione
che intercorre tra le principali forme di condizionamento a cui la vita umana è
assoggettata. Trattandosi di una relazione dinamica, dato che il rapporto
reciproco tra le facoltà (non le facoltà stesse) può sempre alterarsi - sia in
quelle congiunture storiche in cui la vita activa è completamente deprezzata a
vantaggio della vita contemplativa, sia nei secoli in cui l’esaltazione del
‘fare’ respinge nell’oscurità le distinzioni interne alla prassi -(48) è naturale che la Arendt rifiuti di
inscriverla tanto in una scienza del comportamento, quanto in un discorso
rivelato sulla natura umana.
Ciò che preme alla filosofa
tedesca, piuttosto, è mettere in luce una circostanza alla quale – lo si può
osservare ex post - il dibattito bioetico contemporaneo sembra non aver
prestato sufficiente attenzione. Il convincimento che, a seguito
dell’introduzione delle biotecnologie, la delimitazione dei confini estremi
della vita umana ponga sfide inedite primariamente all’etica, rischia di
sovraccaricare di responsabilità questa disciplina, a fortiori quando si tenta di estorcerle a forza – ancorché sotto
le mentite spoglie di un’entente cordiale
tra laici e credenti - una nuova geografia morale del sacro. Quello che con
Hannah Arendt viene in primo piano sono, piuttosto, le condizioni
(trascendentali) di impossibilità di un discorso pubblico capace di stringere
in un’unità provvista di senso la questione della riproduzione e della cura
della vita e la semantica del sacro. Se la titolarità al sacro, se il contatto
salvifico con esso, spetta, in senso eminente, ad una vita individuale il cui
principio dipende da un’iniziativa creativa di Dio nella prospettiva della
resurrezione della carne,(49)
allora l’evoluzione che ha visto la parola ‘vita’ affrancarsi progressivamente
dal senso di ‘inalienabile proprietà individuale’ per aderire a quello di
‘sistema di riproduzione sociale’, non può non alterare totalmente le
coordinate della percezione delle questioni bioetiche. Il termine ‘vita’ cessa,
insomma, di designare una sostanza in senso forte e si trasforma
nell’indicatore di una forma dei rapporti sociali messa costantemente a rischio
da un ineliminabile difetto: la sua disperante incapacità di generare
autonomamente spazi condivisi di libertà.
Così, nello scrutare più da
vicino alcune delle procedure mediante le quali la vita si accampa al centro
della politica, si dovranno osservare altrettanti tentativi, ideologicamente
orientati, di riqualificare in chiave morale il discorso filosofico e politico
sulla vita tramite il ricorso alla forza incantatrice del sacro. Ciò, peraltro,
non significa in alcun modo che l’ideologia della vita in atto coincida tout
court con la truffa deliberata ai danni di un gruppo sociale, con l’inganno
pianificato che, una volta smascherato, perde immediatamente ogni efficacia.
Più sottilmente, e dunque più insidiosamente, le rappresentazioni ideologiche
della vita – non solo, come si vedrà, quelle discorsive – si collocano al
livello, identificato da Marx, della menzogna non deliberata, dell’oscurantismo
non volontario, della contraffazione socialmente indotta che si insedia
inconsapevolmente negli individui come una sorta di seconda natura.(50) Senza che, beninteso, questa
considerazione impegni in alcun modo a presupporre una qualche ‘prima natura’.
4. Medicalizzazione sociale
della vita e sentimentalismo epistemico
Solo a prezzo di
semplificazioni gravemente fuorvianti le nuove condizioni biomediche del
nascere e del morire possono essere colte, nei loro risvolti più drammatici, all’insegna del dominio
impersonale della Tecnica. Piuttosto, la tecnica viene oggi ad inserirsi in una
complessa ritualità sociale che, come ha spiegato Michel Foucault, è
coestensiva alla pratica medica pianificata in base ad imperativi di
‘governamentalità’: «Quel che non esiste è la medicina non sociale, la medicina
individualista, clinica, quella del rapporto singolo, che è stata piuttosto un
mito con cui con cui si è giustificata e difesa una certa pratica sociale della
medicina, vale a dire l’esercizio privato della professione».(51) Sembra allora corretto affermare che
l’impiego di certe tecniche diagnostiche realizza il progetto di incoraggiare atteggiamenti,
giudizi di valore e comportamenti il cui carattere ‘naturale’, normalizzante,
viene a dipendere vieppiù da un’ortopedia sociale mediata dall’intervento
medico. In questo senso, le intuizioni di Hannah Arendt in ordine
all’immissione della vita nella sfera pubblica possono ricevere un’ulteriore
puntualizzazione, che procede nel senso della ossessiva medicalizzazione
sociale della vita.
Ivan Illich, parzialmente in
debito e parzialmente in credito con le ricerche foucaultiane, ha insistito con
toni taglienti su questo punto, descrivendo la triplice articolazione –
clinica, sociale e culturale – dell’attuale morbo iatrogeno.(52) La diagnosi di Illich è enunciata con una
veemenza che non lascia spazio a dubbi interpretativi: l’ipertrofia
dell’assistenza sanitaria monopolizzata dalla professione medica non solo ha
determinato il rafforzamento di una società morbosa in cui una quota crescente
di malattie è da addebitare agli interventi sanitari a beneficio di individui
malati. La medicina iatrogena ha fatto altresì del controllo sociale della
popolazione un’attività economica fondamentale, finalizzata a legittimare
ordinamenti sociali in cui molti non riescono ad adattarsi. La continua
creazione di ‘pazienti’ in nome di una migliore qualità della vita servirebbe
allora a convertire le lagnanze politiche in richieste di maggiori terapie,
senza le quali il sistema industriale perderebbe una delle sue principali
difese.
L’aspetto interessante
dell’analisi di Illich risiede nel fatto che essa permette di assegnare
contorni meglio definiti alla polemica arendtiana contro la moderna ontologia
sociale, per la quale ‘essere’ equivale a ‘riprodursi’. Se questo è il quadro,
è possibile guardare alla questione della mancata capacità di riprodurre la
vita non tanto nei termini della frustrazione di un desiderio dei singoli al
servizio del quale invocare la tecnologia e l’ascrizione di diritti
riproduttivi. Piuttosto, si è indotti a riflettere sulla patologizzazione
socio-culturale dell’infertilità, vissuta ora come la trasgressione di un
dovere sociale, ora come la smentita di un’identità sessuale in cui, per usare
un’espressione cara al femminismo, l’ordine simbolico della madre, gioca un
ruolo decisivo.(53)
L’equiparazione tra vita e
riproduzione sociale, in altri termini, finisce con l’attivare un meccanismo di
isterizzazione della sterilità del tutto analogo al dispositivo di
isterizzazione del corpo femminile descritto da Foucault. Il corpo integrato al
campo delle pratiche mediche, per effetto di una patologia che gli sarebbe
intrinseca, è messo in comunicazione organica con il corpo sociale (di cui deve
essere assicurata la fecondità regolata), con lo spazio familiare (a tutela
della norma parentale tradizionale) e con la vita dei figli (che deve essere
garantita grazie ad una responsabilità biologico-morale che dura per tutto il
periodo dell’educazione). La Madre ideale, trasfigurazione della madre reale,
con la sua figura negativa rappresentata dalla ‘donna nervosa’ o dalla donna
sterile, è il rovescio archetipico di questa isterizzazione.(54)
La
sterilità da sanare rinvia alla ricerca di un rimedio che possa reintegrare i
soggetti interessati in quel contesto di significati in cui l’enfasi morale
posta sulla generazione e sulla cura della vita disegna un’omogeneità entro cui, e non
contro cui, prende corpo tutto lo spettro delle differenze individuali. Sotto
questo profilo, non sorprende che il medico venga ad assumere, letteralmente,
un ufficio pastorale improntato ad assicurare la salvezza dei singoli individui. Ora, tale
salvezza implica la produzione in serie di pazienti/clienti, nel senso che solo
eufemisticamente è possibile parlare di una libera scelta da parte dei
candidati all’acquisto della vita nella sua potenza riproduttiva. In virtù
dell’obbligatorietà della salvezza, il potere pastorale della medicina può
domandare agli altri un’obbedienza assoluta, e tale obbedienza rappresenta una
delle condizioni indispensabili ai fini della salvezza.
Un’altra condizione di
possibilità per l’ufficio del potere pastorale è che il paziente si impegni in
un esercizio di confessione esauriente e permanente. È in questo modo, secondo
Foucault, che si arriva al problema della sessualità, al quale il Cristianesimo
ha dato una risposta ambivalente, stabilendo una ‘morale media’ fra ascetismo e
attenzione alla società civile: «Si trattava di far funzionare il corpo, i
piaceri, la sessualità, all’interno di una società che aveva i suoi bisogni, le
sue necessità, una certa organizzazione familiare e specifiche necessità
riproduttive».(55) Da questo punto di vista, basterebbe pensare
a come l’intensificazione programmata dei controlli pre-natali aumenti la
probabilità che la donna venga colpita e condizionata dall’emblema ‘feto’,
interpretando lo stadio di un processo evolutivo dal punto di vista del
risultato atteso.(56)
Nell’ambito di tale intervento l’esame clinico riveste un’importanza vitale.
Vale la pena dare ancora la parola a Foucault: «L’esame combina le tecniche
della gerarchia che sorveglia e quelle della sanzione che normalizza. È un
controllo normalizzatore, una sorveglianza che permette di qualificare,
classificare punire. Stabilisce sugli individui una visibilità attraverso la
quale essi vengono differenziati e sanzionati».(57)
Di questa eccezionalità
epistemica dello sguardo clinico, che coinvolge in maniera del tutto peculiare
il corpo femminile, ripercuotendosi sulla percezione e sulla comprensione
normativa del vissuto, ha dato conto, tra gli altri, la storica Barbara Duden,
(58) segnalando come la storia del corpo femminile
ne includa in realtà due: una storia di superficie, legata allo sguardo medico,
artistico e religioso sulla carne, e una storia associata invece all’esperienza
invisibile che ha luogo sotto la pelle. Fino al XIX secolo questa vicenda, per
dir così ‘sotterranea’, è stata decisiva in rapporto al riscontro della
gravidanza: il primo movimento del feto, un’esperienza sensoriale accessibile
solo alla madre, conferiva alle donne il potere di definire la propria
condizione attraverso un’affermazione circa il proprio corpo. A partire
dall’Ottocento, quando l’eliminazione del feto diventa oggetto del diritto,
questa esperienza, peraltro carica di significati simbolici,(59) è stata privata di ogni significato
sociale. La gravidanza è venuta progressivamente a perdere quella dimensione
privata in ragione della quale il nascituro era collocato nella società degli
invisibili. La storia del feto, emancipata da quella della madre, si è
convertita nella storia di una progressiva visualizzazione connessa alla
socializzazione del corpo femminile. Nel XX secolo, infatti, l’interno del
corpo cessa di essere l’oggetto di un’esperienza percettiva irriducibilmente
privata e diventa la scena di una vicenda pubblicamente osservabile. La grande
novità è rappresentata dall’opportunità di oggettivare fotograficamente
l’immagine del blastocito. Scrive la Duden: «Sin dal 1965, la corsa del seme
maschile verso l’ovulo è stata autenticata per milioni di persone dalla
fotografia di Lennart Nilsson. La foto illustra la rappresentazione divulgativa
di un processo genetico. Tuttavia non si tratta solo dell’illustrazione di un
processo biologico-molecolare. La sfumatura (la connotazione o il significato
parallelo) insita nella rappresentazione degli spermatozoi come atleti in pieno
sprint, legittima la visione del mondo del fotografo. L’idea che la società
degli anni Sessanta ha di se stessa consente al fotografo di mostrare come la
vita, il valore più alto, inizi il proprio processo di sviluppo come risultato
di una gara per la conquista di un bene di limitata disponibilità, ovvero
l’ovulo femminile».(60)
La vita, il bene più alto,
diventa miracolosamente concettualizzabile secondo i criteri dell’autorappresentazione
simbolica di una società. Alla vita viene assegnato uno schema non
dall’immaginazione trascendentale, ma dalla risultanza vettoriale di decine di
migliaia di misurazioni submicroscopiche ingrandite milioni di volte. Con
l’introduzione dell’ecografia, una misura di controllo della crescita normale
del feto viene accettata come rivelazione dell’esistenza di un soggetto
provvisto di personalità giuridica. Entrambi i procedimenti danno luogo a casi
di misplaced concreteness: nella misura
in cui la pelle cessa di costituire un confine invalicabile, si ritiene di
poter vedere illimitatamente. In tal modo, la registrazione strumentale delle
immagini mette in moto il gioco del vedere come, secondo modalità
cognitivamente ben più dissonanti e catastrofiche di quelle messe in luce dalle
analisi di Wittgenstein.(61)
Perché se nel vedere come wittgensteiniano percezione e interpretazione si
danno contemporaneamente, e si tratta dell’improvviso balenare di una relazione
tra l’oggetto e altri oggetti, nella raffigurazione dello zigote e del feto
viene meno ogni correlazione tra percezione e interpretazione. L’homo futurus che si vuole scorgere nelle
immagini non dipende da un effetto di riorientamento gestaltico, bensì da una
decisione, in definitiva, di natura etico-politica.(62) In questa circostanza il vedere come
consiste nell’assegnare ad un concetto astratto l’apparenza di una realtà
visibile, quella di un essere umano nella sua interezza fisica e spirituale. La
‘fotografia’ viene investita di realtà e a quella realtà si attribuisce un
valore. Alla base di questo procedimento di visualizzazione
dell’invisibile si trova la tendenza ad
attribuire il titolo di realtà solo a ciò che può essere registrato con
apposite apparecchiature. Questa tendenza dà luogo al paradosso per cui le
‘opinioni fotografate’ vengono innalzate al rango di osservazioni scientifiche
in virtù delle quali si pretende di regolamentare i diritti di soggetti la cui
esistenza non può essere confermata, in senso giuridico, da nessun testimone
oculare.
In questo
movimento paradossale si può ravvisare uno degli aspetti salienti della moderna
alleanza tra sacro e profano. Il concetto sostantivo di vita, di cui l’embrione
è il nuovo soggetto, è estraneo tanto allo spettro semantico coperto dal
termine greco bíos, che si
riferisce alla vita qualificata, alla forma di vita, quanto alla significazione
della mera esistenza biologica racchiusa
nel termine zoé. Quando, nel
discorso corrente, si associa all’embrione l’idea di vita, è evidente che non
ci si riferisce né al bíos né alla zoé, bensì ad una vita sostantiva. Il concetto sostantivo di
vita rimanda alla partecipazione in Cristo, distinta dalla semplice esistenza:
in questa accezione, nella tradizione cristiana, la vita è sacra e la santità
si identifica con la vita. Nella costruzione rappresentativa dell’embrione,
pertanto, stando all’analisi della Duden, si incarna un idolo trasferito nel
corpo della madre, che diventa il teatro – letteralmente, la scena pubblica
- di una moderna ierofania.
5. Implicazioni filosofiche del
sentimentalismo epistemico
Nell’epoca dell’immagine del
mondo, se ne può concludere, «l’essere dell’ente è cercato e rintracciato
nell’esser-rappresentato dell’ente».(63)
La lettura heideggeriana coglie con efficacia il sostrato filosofico di questo
passaggio, inscrivendolo nel territorio concettuale della repraesentatio
moderna. Tra le manifestazioni del mondo moderno, come è noto, Heidegger
annovera la progettazione dell’agire umano in termini di cultura (Kultur), intesa come realizzazione dei
supremi valori mediante l’impegno a favore dei più alti beni dell’uomo, e la
sdivinizzazione (Entgötterung). Nello
stato di indecisione rispetto a Dio caratteristica della modernità si assiste,
da una parte, ad una cristianizzazione che avanza ponendo alla base del mondo
l’infinito; dall’altra, il cristianesimo intende la propria cristianità come
visione del mondo, rendendosi così moderno. Solo quando l’essere dell’ente è
cercato nella rappresentazione ha senso parlare, per Heidegger, di immagine del
mondo; il mondo medievale, ad esempio, è metafisicamente impossibilitato a
costituirsi ad immagine, in quanto considera l’ente come ens creatum, «il frutto dell’azione creatrice personale di Dio
inteso come causa prima e suprema».(64)
Il cristianesimo ridotto a
visione del mondo, secondo questa lettura, non può non contaminarsi con, e non
contaminare a propria volta di sé, quel processo che consiste nel «prendere
possesso della sfera dei poteri umani come luogo di misura e di dominio
dell’ente nel suo insieme […]. L’ente assume la stabilità di ciò che ci sta
dinanzi come oggetto e riceve così il sigillo dell’essere».(65) La moderna reificazione della vita
trasfigurata nella figura dell’embrione, non dipende dalla degradazione di
questo a res, ma precisamente
dall’antropologizzazione che consegue alla sua riduzione a subjectum portatore di valore. Questa lettura sembra giustificare pienamente la conclusione netta
a cui perviene la Duden circa le origini del nuovo sentimentalismo epistemico,
offrendole una cornice interpretativa più solida: «Quella vita che con la sua
tirannia etica domina il discorso contemporaneo appartiene alla storia
dell’illusione e dell’inganno – o forse della religione – non alla storia del
corpo».(66)
Occorre puntualizzare,
a questo punto, che il sentimentalismo epistemico denunciato dalla Duden non
reclama solo un’interpretazione dal punto di vista della critica della cultura,
ma comporta anche una serie di implicazioni filosofiche su cui non conviene
sorvolare. Uno degli aspetti più rimarchevoli della moderna prosopopea
dell’embrione, vigorosamente sostenuta dal magistero ecclesiastico, consiste
nella vera e propria funzione suppletiva svolta dalle immagini rispetto alla richiesta di
un’argomentazione cogente. La difesa della personalità del concepito trae una
forza miracolosa dall’inedita solidarietà che si instaura tra la manipolazione
tecnologica ed il piano strettamente fideistico; solidarietà ancor più
impressionante, laddove questa sembra mal conciliarsi una tradizione di
pensiero che non ha mai smesso di rivendicare per sé l’eredità della filosofia
di Tommaso d’Aquino.
La vicenda del progressivo
abbandono, da parte della Chiesa cattolica, della dottrina embriologica di
Tommaso è, nelle sue linee generali, nota. (67) La dottrina tomista prende le mosse dalla polemica contro le
posizioni, come quella di Alberto Magno, che descrivono la generazione umana
come un processo graduale e continuo in forza del quale la medesima virtus generativa, con il progredire
della formazione degli organi, produrrebbe prima l’anima vegetativa, poi
l’anima sensitiva e infine quella razionale. A questa tesi l’Aquinate muove
obiezioni sia di natura logica, sia di natura onto-teologica. Anzitutto, sostiene
Tommaso, ogni vivente, in un dato istante, può essere animato da un’anima
soltanto, ragion per cui l’ipotesi di una successione cumulativa di anime
risulta irricevibile. In secondo luogo, ammettere un processo graduale e
continuo destinato a concludersi con la formazione dell’anima razionale
significa pregiudicare ogni argomento razionale a favore del dogma della
resurrezione, dal momento che uno svolgimento coerente di questa tesi dovrebbe
terminare con il riconoscimento dell’immortalità dell’anima. Allo scopo di
aggirare questa difficoltà, Tommaso afferma che l’embrione acquista una species completa solo dopo un processo
di generazioni e corruzioni di anima vegetativa e anima sensitiva che altera la
specie del formato fino a quando non ha luogo l’infusione divine dell’anima
razionale. (68)
A fronte di
un’argomentazione tanto minuta, che qui si è potuta ripercorrere solo per sommi
capi, colpisce come la filosofia cattolica attuale abbia rinunciato ad un
impegno teorico altrettanto determinato in ordine alla chiarificazione dello
statuto ontologico dell’embrione, come si può evincere, ad esempio, da queste
parole: «Se nello sviluppo embrionale la vita biologica si dissociasse da
quella propriamente umana, non si riuscirebbe a spiegare l’identità del
soggetto, e saremmo di fatto in presenza di una dicotomia tra l’io e la sua
corporeità. È contro la logica del principio di identità che da una corporeità
biologica già costituita secondo una sua essenza derivi, in una seconda fase,
un essere umano a cui questa corporeità è intrinseca».(69)
Questa argomentazione,
finalizzata a contestare non solo la dottrina dell’animazione ritardata, ma
anche la tesi della sopravvenienza dell’umanità attraverso processi di
socializzazione che possono aver luogo solo dopo la nascita, con
l’apprendimento del linguaggio, prova, sostanzialmente, due cose. La prima è
che l’enunciato sull’identità d’essenza è logicamente compatibile con la
dottrina dell’animazione immediata dell’embrione. La seconda è che l’autore si
muove in un orizzonte concettuale, in ultima analisi pre-kantiano, entro il
quale l’esistenza viene assimilata ad un predicato logico. Ciò che in questo
ragionamento non ottiene soddisfazione è la possibilità di vedere dimostrato il
fatto che la parola ‘embrione’ denoti un reale essere umano, tesi che, al
contrario, viene presupposta come già inscritta nella logica formale del
principio di identità. Non stupisce, allora, che l’accesso al piano ontologico
sia guadagnato mediante il salto fideistico: «Per la Sacra Scrittura, la
persona è sempre il volto, l’immagine di Dio, l’essere che sta in dialogo con
Yahvé. La base di questo dialogo è proprio la relazione Creatore-creatura,
vista nel senso più ontologico possibile, ma senza dimenticare che in Dio la
sua relazione è uguale alla sua trascendenza […]. È questa relazione che ha la
capacità di fondare un nuovo modo di essere».(70)
6. Riscattare l’origine: Jürgen
Habermas o Hannah Arendt?
La
tirannia dell’embrione, con tutta la sua corte di orpelli retorici predisposti
a creare un’impressione di profondità, è anche, ma non solo, la
tirannia di una prestazione simbolica. Non sarà quindi il ripristino del
divieto delle immagini a dischiudere la prospettiva di una liberazione da
questo ricatto. Non bisogna dimenticare, infatti, quello che l’embrione
rappresenta. Ciò al posto di cui, per via di condensazione metaforica, esso
sta: una norma di vita, ovvero - tenendo fermo alle acquisizioni arendtiane di
cui si è detto - una norma riproduttiva latu sensu. Proprio
in ragione del suo carattere disumanante e spersonalizzante, questa norma
riproduttiva è costretta a cercare una fonte di legittimazione morale in
qualcosa che, a rigore, umano non è. A questo peculiare bisogno di radicamento
morale, sempre pronto a tramutarsi in abuso - a maggior ragione quando viene
nobilitato da locuzioni come ‘responsabilità metafisica’ - sono dedicate le
riflessioni conclusive.
Il
dibattito sulla vita polarizzatosi intorno alla figura dell’embrione, com’è
naturale che accada in un contesto di frammentazione e di specializzazione dei
saperi, si è via via scompaginato imboccando linee di fuga differenziate: lo
statuto giuridico dell’embrione, la regolamentazione della procreazione
medicalmente assistita, la sperimentazione sulle cellule staminali embrionali,
la possibilità di praticare interventi - terapeutici o migliorativi -
direttamente sul genoma umano, sono solo alcune tra queste. Sullo sfondo, non
vanno dimenticate le mai sopite inquietudini connesse al tema dell’aborto. Non
è semplice, pertanto, ricapitolare tutti i versanti della questione in una
problematica filosofica unitaria senza imbattersi, contemporaneamente, nel
rischio di un eccesso di astrazione.
Come si è accennato nelle
battute iniziali, Jürgen Habermas ha avanzato una proposta in questa direzione
dal tenore marcatamente revisionista.(71)
Tale revisione si profila, nelle sue linee fondamentali, come la sospensione di
un atteggiamento intellettuale al quale il filosofo tedesco dà un nome preciso:
astensione giustificata.(72)
Il ragionamento corre, grosso modo, come segue: un’etica postmetafisica può
adeguarsi alle condizioni del pluralismo ideologico solo nella misura in cui
omette di pronunciare giudizi di valore sulla particolare direzione dei
progetti di vita individuali e collettivi. Tuttavia, non appena lo sviluppo
delle biotecnologie fa venir meno il confine tra la natura che noi «siamo» e la
dotazione organica che noi «ci diamo», condizionando irreversibilmente la
direzione dei progetti di vita perseguiti, ecco che la filosofia non può più
esimersi dal prendere una posizione di merito. Davanti a scelte che escludono
la possibilità di tornare sui propri passi, la neutralità procedurale perde la
propria ragion d’essere e la filosofia ritrova le motivazioni di una politica
determinata a sovrapporsi, democratizzandola, all’officina antropologica dei
laboratori. «Dipende solo dall’autocomprensione di questi soggetti» scrive
Habermas «come essi vogliono sfruttare la portata dei nuovi margini
decisionali. Essi possono farlo in maniera autonoma, a partire da
considerazioni normative che rientrano nella formazione democratica della
volontà, oppure in maniera arbitraria, a partire da preferenze soggettive che
si soddisfano attraverso il mercato».(73)
Di primo
acchito, dunque, la riappropriazione filosofica delle questioni di contenuto
sembrerebbe evolversi verso la critica di una forma di vita che lascia al
mercato il compito di distribuire le opportunità di accesso alle risorse
sanitarie e di selezionare gli obiettivi della ricerca scientifica. I rischi di
un’eugenetica liberale sarebbero fatti risalire, in ultima analisi, al suo
essere esposta alle dinamiche anarchiche del profitto. Sarebbe, appunto, il
confluire dell’eugenetica nel meccanismo della giustificazione formale di
squilibri e disomogeneità sostanziali, molto più sensibilmente della sua
tracotanza demiurgica, a corrompere le basi di una corretta impostazione del
problema dell’universalità antropologica. Se questo fosse l’intendimento di
Habermas, se ne potrebbe concludere che
il problema etico-politico della ‘vita buona’ ritorna prepotentemente in primo
piano a causa dei fallimenti (accertati e/o prevedibili) del mercato in
rapporto all’implementazione di diritti che investono immediatamente la base
biologica dell’autocomprensione normativa del genere umano. I fondamenti di
un’universalità antropologica da salvaguardare, secondo questa linea d’analisi,
si appresterebbero ad essere dichiarati incompatibili con una concezione
spontaneistica dell’ordine socio-politico.
Senonché, come viene in
chiaro dopo poche righe, altro è il senso delle osservazioni di Habermas. Vale
la pena trascrivere il passo per esteso: «Ciò che diventa oggi manipolabile è
qualcosa di diverso, ossia quella contingenza finora indisponibile del processo
di fecondazione per cui non potevamo prevedere il combinarsi delle due serie
cromosomiche. Ma a partire dal momento in cui viene padroneggiata, questa
contingenza esce dall’ombra e sembra diventare una condizione indispensabile al
poter-essere-se-stessi e alla natura fondamentalmente egualitaria delle nostre relazioni
interpersonali. Infatti, il giorno in cui gli adulti potessero considerare come
producibile e modellabile il corredo genetico dei loro figli, e dunque
progettarne a piacimento un ‘design’ accettabile, essi verrebbero con ciò
stesso a esercitare, sui loro prodotti geneticamente manipolati, un potere di
disposizione che – penetrando nelle basi somatiche dell’autoriferimento
spontaneo e della libertà etica di un’altra persona – era finora sembrato
essere lecitamente esercitabile soltanto sulle cose e non sulle persone. A quel
punto, i figli potrebbero chiedere conto e ragione ai creatori del loro menoma,
e considerarli responsabili per le conseguenze, a loro avviso indesiderate, di
una certa disposizione biologica iniziale della loro storia di vita».(74)
In linea di massima, la
questione della manipolazione del corredo genetico umano può essere affrontata
da diversi punti di vista. Un’alternativa teorica che presenta i vantaggi di un
lungo collaudo è la seguente: si può adottare una prospettiva
consequenzialista, e fare intervenire considerazioni basate sul calcolo delle
probabilità per valutare il margine di tollerabilità morale dell’alterazione
genetica. Oppure, si può optare per un punto di vista deontologico e avanzare
la quaestio iuris: è possibile fondare discorsivamente il diritto
all’assunzione dell’inedito ruolo creativo che la tecnologia mette a
disposizione? E, in tal caso, chi può avanzare un titolo valido all’assunzione
di tale ruolo? Si può dire che la prima alternativa mantenga molto meno di
quanto prometta, nel senso che l’affidabilità del calcolo rischia di essere
inficiata dalla necessità di formulare una serie indeterminata di ipotesi
controfattuali sugli effetti di una selezione programmata delle caratteristiche
genetiche. A ben vedere, però, nell’ottica di Habermas, anche la formulazione
classica della soluzione deontologica risulta poco convincente, dal momento che
«con la decisione irreversibile che una certa persona prende nei riguardi della
dotazione ‘naturale’ di un’altra persona, nasce un rapporto interpersonale mai
visto prima».(75) Il logoramento delle categorie etiche
tradizionali, se ne deduce, dipende dall’inadeguatezza dei loro assunti taciti.
Nell’etica tradizionale, infatti, gli attori partecipano sempre ad un presente
comune, di modo che, a rigor di logica, non sussistono ostacoli in rapporto
alla verifica del consenso. Quello che viene meno, nel momento in cui la
prospettiva di un’ ingerenza umana nel corso dell’evoluzione naturale si fa
realistica, sono proprio i presupposti intersoggettivi della contemporaneità e
della reciprocità. Accade così che, mentre in rapporto al nostro destino di
socializzazione, culturalmente condizionato, conserviamo la libertà di
assumerci criticamente la responsabilità della nostra storia di vita, la
fabbricazione prenatale del nostro genoma smentisce la possibilità di
un’autocomprensione revisionistica e instaura un rapporto irreversibile di
dipendenza tra genitori e figli.
Non sfuggirà, dietro a
queste considerazioni, l’ombra lunga di Hans Jonas, di cui Habermas riprende
stilemi e istanze teoriche. In effetti, la somiglianza tra il passaggio
habermasiano dalla morale procedurale all’antropologia normativa e la
rivisitazione in chiave metafisica dell’etica da parte di Jonas,(76) è impressionante. Come si ricorderà, il
programma etico-filosofico rubricato sotto l’etichetta di principio
responsabilità prende le mosse dal rilievo della differenza specifica della
tecnica moderna, che non trova eguali in nessuna epoca precedente. Mentre,
infatti, nel passato tutto il campo dell’agire restava confinato nel regno
artificiale della polis – enclave umana strappata allo sfondo
sempre uniforme della natura –, oggi gli interventi tecnici arrivano ad
intaccare direttamente le forze generatrici della physis.(77) La tecnica moderna, così Jonas, sancisce la
vittoria dell’homo faber, vale a dire
il trionfo di un attore collettivo capace di programmare quelli che un tempo
erano solo esperimenti mentali, in vista della loro realizzazione. Poiché,
tuttavia, la quantità delle grandezze note cresce assieme alla quantità delle
incognite, un’etica basata sulla logica del calcolo si rivela inservibile. A
questo punto, e posto che per Jonas «la vita è l’evento in cui l’essere
manifesta il proprio valore»,(78)
il problema dell’abisso etico scavato dalla ‘dialettica dell’Illuminismo’
dischiude una diversa prospettiva: «la questione è se, senza ristabilire la
categoria del sacro che fu distrutta nel modo più radicale dall’illuminismo
scientifico, possiamo disporre di un’etica che sia in grado di imbrigliare le
forze estreme che oggi possediamo e, quasi coattivamente, continuiamo ad
acquistare ed esercitare senza posa».(79)
Solo il timore della trasgressione del sacro, dunque, può compensare il margine
di incertezza che minaccia le prestazioni razionali. Jonas si dispone poi a
dare spessore ontologico al recupero della categoria del sacro: poiché,
infatti, non c’è nessuna contraddizione logica nell’idea che umanità cessi di
sopravvivere nella sua integrità ontologica, il fatto che essa debba continuare
a esistere - e continuare a farlo secondo un determinato esser-così – può
trovare fondazione solo nella metafisica. Il nuovo imperativo morale, di
conseguenza, suona così: «agisci in modo che le conseguenze della tua azione
siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra».(80) In merito alla qualifica di autenticità,
non sussistono dubbi: si tratta, anzitutto, di conservare l’eredità di
un’evoluzione naturale precedente, sulla base del fatto che l’ingratitudine verso
l’eredità è incompatibile con la fruizione del suo dono.(81) La comunanza di destino tra uomo e natura
si esprime, poi, nella circostanza che è proprio quest’ultima a offrire,
attraverso la norma parentale, l’unico esempio di devozione totalmente
altruistica: «In effetti è questo rapporto, legato al fatto biologico della
riproduzione, verso la progenie non autonoma, e non il rapporto tra adulti
indipendenti (dal quale scaturisce l’idea dei diritti e dei doveri reciproci)
che sta all’origine dell’idea di responsabilità in quanto tale; e la sua sfera
d’azione, costantemente volta a sollevare pretese, è il luogo più originario
della sua pratica».(82)
Lo sguardo sul futuro
inaugurato dal principio responsabilità finisce così con il ripiegarsi
sull’origine: ciò che l’umanità futura deve essere, infatti, è determinato da
ciò che essa, per natura, è già da sempre. La proposta di Jonas, con le sue
premesse vitaliste, conferma – con segno mutato - un assunto fatto valere dalla
Arendt nel contesto di una discussione finalizzata a mostrare come «la nascita
e la morte degli esseri umani non sono semplici eventi naturali, ma sono
connesse a un mondo in cui singoli individui – uniche, insostituibili e irripetibili
entità – appaiono o da cui scompaiono».(83) L’assunto in questione è che senza il riferimento ad un mondo
in cui nascere e morire, non sarebbe possibile stabilire alcuna differenza tra
la specie umana e tutte le altre specie animali. Sicché «una filosofia della
vita che non arriva, come in Nietzsche, all’affermazione dell’eterno ritorno
come il più alto principio di ogni essere, semplicemente ignora ciò di cui
parla».(84)
Habermas non arriva certo al
punto di enunciare una dottrina dell’eterno ritorno, ma raccoglie senz’altro
più di uno spunto dalla filosofia della vita di Jonas, specialmente nel
rimarcare l’esigenza che la libertà - soggettivamente vissuta in riferimento ad
una dotazione organica di cui non siamo gli autori – riconduca la sua origine
ad un cominciamento indisponibile. (85)
Occorre, secondo Habermas, che la persona associ la propria libertà ad un
principio sottratto, «nei termini in cui lo è Dio o la natura», al potere di
disposizione di altre persone. A sostegno della propria tesi, il filosofo
tedesco cita, abbastanza sorprendentemente, Hannah Arendt: «Essa parte dall’osservazione
che la nascita di un bambino non rappresenta semplicemente un’altra storia di
vita, bensì una nuova storia di vita. Questo cominciamento enfatico della vita
umana la Arendt lo ricollega all’intuitiva certezza dei soggetti agenti di
poter dare spontaneamente inizio a qualcosa di nuovo. […] Con questo concetto,
la Arendt getta un ponte tra il cominciamento creaturale e la consapevole
facoltà del soggetto adulto di cominciare nuove catene d’azione».(86)
Che si tratti di una
citazione del tutto strumentale, e, più precisamente, di un fraintendimento
ontologizzante della filosofia della natalità di Hannah Arendt, lo si può
comprendere tenendo presente che il problema del nuovo inizio è posto dalla
Arendt in rapporto all’azione nel mondo. La contingenza dell’inizio – cioè, in
sostanza: la libertà - dipende dal fatto che esso non è deducibile da alcun
antecedente di ordine causale, Dio e natura compresi. Ragion per cui, la
natalità, nell’accezione arendtiana, non può essere letta né come un fenomeno
biologico, né tanto meno come un attestato ontologico della dimensione
creaturale della realtà.(87)
«Con la parola e l’agire» scrive la Arendt, «ci inseriamo nel mondo umano, e
questo inserimento è come una seconda nascita».(88)
Ciò significa che attraverso il discorso e l’azione, ossia politicamente, gli uomini si
distinguono, anziché essere meramente distinti. Kantianamente, fanno qualcosa
di se stessi, in quanto esseri liberi. Tale prerogativa all’autodistinzione si
fonda esclusivamente su una capacità di inziativa la cui garanzia risiede
nell’esistenza di un mondo, anziché nella preservazione di una natura.
L’origine, per la Arendt, non può essere altro che l’«azione che innova
continuamente, che modifica la naturalità ciclica degli eventi e che ha come
strumento specifico del rapporto politico la persuasione».(89)
Il potenziale intimidatorio
insito nella logica del riscatto ontologico dell’origine della vita è notevole,
soprattutto allorché questo si innesta in un contesto sociale di aspettative
generalizzate in cui l’istanza vitalista, come si è visto, detiene un prestigio
di cui è difficile intravedere un declino a breve termine. Un prestigio che,
probabilmente, accresce le proprie quote quando sui soggetti umani grava -
indipendentemente dal contatto personale con la tecnologia bioemedica - la
cappa costante e continua dell’insicurezza. Tuttavia, non è detto che l’intimidazione
debba sortire gli effetti desiderati. Veramente pericolosa è la pretesa,
avanzata in nome di una speciale competenza filosofica, di poter dar voce agli
interessi di ciò che, non esistendo, non può nemmeno sensatamente sperare di
essere rappresentato. La credenziale teorica più vistosa che questa
socializzazione anticipata della posterità – la risposta all’appello dell’Altro
- sembra poter vantare, è l’aver trovato formulazione in un’espressione
filosoficamente seducente: euristica della paura. Nel mondo secolarizzato,
inevitabilmente, si incrina il binomio tradizionale spes/metus, per il quale la speranza evangelica costituisce la
vittoria contro la paura della morte. Di questi elementi, un tempo
inscindibilmente connessi, resta solo il timore, bisognoso di una
riqualificazione morale in vista degli oneri che deve poter sostenere. Secondo
interpretazioni influenzate da Jonas, ciò dipende dal fatto che, quando le
potenzialità di intervento sulla natura dischiudono scenari apocalittici, si
deve attribuire alla previsione di sventura un peso maggiore rispetto alla
previsione di salvezza. La disponibilità a lasciarsi influenzare dalla paura,
allora, non solo viene salutata come manifestazione di affidabilità morale e
lungimiranza intellettuale, ma viene anche dichiarata euristicamente
sufficiente a fondare una dottrina dei principi capace di orientare la
politica. Dalla parte opposta, si dice, sono collocate la sconsiderata
imprudenza o l’imperdonabile sprovvedutezza di chi non avverte il pericolo.
Ragion per cui, il corollario naturale del principio responsabilità non può non
prevedere un’élite destinata a farsi
carico della responsabilità per la vita futura. (90) L’infausta conseguenza di un’euristica connotata in tal senso
si lascia facilmente intuire: convertire
in necessità storica l’illusione di un potere dei saggi (magari coadiuvati dai
ministri del culto) che, in virtù di una presunta innocenza garantita da un
accordo di massima su principi trasformati dogmaticamente in oggetto di
conoscenza, assuma su di sé la missione ‘epocale’ di ricondurre Prometeo
scatenato a più miti consigli.
Note
(*) Queste pagine sono il
risultato di una serie di riflessioni maturate mentre in Italia divampava la
polemica intorno alla legge 40 sulla procreazione assistita e sul relativo referendum abrogativo. Le conversazioni
e gli scambi epistolari avuti con la prof.ssa Luisa Accati e con la dott.ssa
Laura Lanzillo, hanno attirato la mia attenzione su aspetti del dibattito che,
altrimenti, sarebbero rimasti oscuri. A loro va il mio ringraziamento per la
disponibilità alla discussione, senza che ciò mi esoneri dalla totale
responsabilità dei contenuti di questo intervento
(1)
J. Habermas, Il futuro della natura umana
(2001), trad. it. Einaudi, Torino 2002, p. 35 (corsivo mio).
(2)
Cfr. H. Jonas, Il principio
responsabilità (1979), trad. it. Einaudi, Torino 2002, p. 163: «Intendo sostenere
davvero in senso stretto che qui l’essere di un ente, sul semplice piano
ontico, postula in modo immanente ed evidente un dovere degli altri; e lo
postulerebbe anche se la natura non venisse in soccorso di questo dovere con la
forza degli istinti e dei sentimenti, anzi anche se non lo alleggerisse dalla
parte più gravosa dei suoi compiti».
(3)
E. Lecaldano, Bioetica, Laterza,
Roma-Bari 1999, p. 205.
(4)
Per un esame critico del ‘teorema’ della secolarizzazione resta utile H.
Blumenberg, La legittimità dell’età
moderna (1966), trad. it. Marietti, Genova 1992, in particolare pp. 9-127.
(5)
C. Schmitt, L’epoca delle
neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, in Id., Le categorie del ‘politico’, trad. it. Il Mulino, Bologna 1972, pp.
167-183.
(6)
Cfr. P. Singer, Ripensare la vita
(1994), trad. it. Il Saggiatore, Milano 1996; Id., L’etica della sacralità della vita è una malata terminale?, in Id.,
La vita come si dovrebbe (2000),
trad. it. Il Saggiatore, Milano 2001, pp. 191-204. In Italia, una posizione
analoga a quella di Singer è sostenuta, tra gli altri, da M. Mori, L’etica della qualità della vita e la natura
della bioetica, “Rivista di filosofia”, XCII, 1, 2001, pp. 153-175.
Riallacciandosi alla tassonomia avanzata dal sociologo T.H. Marshall in Cittadinanza e classe sociale (1963),
trad. it. Utet, Torino 1976, pp. 1-71, Mori guarda alla bioetica come al
compimento storico-politico della tradizione etica moderna: come la fase
intercorsa tra il Settecento e il Novecento ha assistito, rispettivamente, alle
battaglie per la cittadinanza civile, politica e sociale, così la bioetica del
nuovo millennio rappresenta la continuazione di questo processo di ampliamento
della cittadinanza esteso alla dimensione biologica e sanitaria.
(7)
Va detto che, da parte cattolica, non mancano voci che hanno screditato come
falso dilemma la dicotomia tra sacralità della vita e qualità della vita. Cfr.
G. Piana, Bioetica, Garzanti, Milano
2002.
(8) Per
una rassegna sull’applicazione delle teorie metaetiche ai problemi di bioetica
si vedano, tra gli altri, E. Baccarini, Bioetica.
Analisi filosofiche liberali, Trauben, Torino 2002 e R. Mordacci, Una introduzione alle teorie morali.
Confronto con la bioetica, Feltrinelli, Milano 2003.
(9) R.
Mordacci, Una introduzione alle teorie
morali, cit., p. 108.
(10) Assumo, per una serie di ragioni che
potrebbero trovare un banco di prova decisivo nell’impostazione della tematica
antropologica, che l’alternativa tra creazionismo ed evoluzionismo rappresenti
un caso esemplare di ‘metafisiche influenti’ o Weltanschauungen tra loro incompatibili.Va comunque ricordato che
sta prendendo quota l’ipotesi (cfr. O. Franceschelli, Dio e Darwin. Natura e uomo tra evoluzione e creazione, Donzelli,
Roma 2005) di una risposta conciliativa alla sfida darwiniana, sulla base della
constatazione che «nessun Dio potrebbe risultare più laico e meno riducibile a
idolo del Dio creator ed evolutor che, per amore, decide di
creare contraendo la propria presenza e la propria potenza fino a concedere al
creato autonomia evolutiva». L’ipotesi di lavoro, cioè, consiste nel «rendere
plausibile» Darwin sintonizzando l’evoluzionismo con la nozione ebraica di Tzimtzum e quella cristiana di kenosis, peraltro variamente riprese in
ambito filosofico - si pensi solo alla nozione di de-creazione intorno alla
quale ruota il pensiero di Simone Weil. Al
di là di ogni possibile perplessità di natura teologica su espressioni quali
«Dio laico», nonché di natura filosofica su formule sbrigativamente risolutive
secondo le quali la ‘naturalezza’ della natura altro non esprimerebbe che la
‘creaturalità’ del creato, preme qui sottolineare il risvolto politico di una
soluzione concepita in vista del dialogo tra credenti e non credenti, finalizzato
a neutralizzare tanto il fondamentalismo, quanto l’ateismo (allineati dall’autore quanto a vis polemica e sterilità teorica). Non è
possibile approfondire la questione in questa sede, ma il minimo che si può
osservare è una drastica defezione intellettuale dalla tradizione ‘dialogica’
rappresentata dal liberalismo filosofico contemporaneo, sostanzialmente unanime
nel ritenere che il consenso debba essere costruito intorno a valori
esclusivamente politici, soggetti al controllo della ragione pubblica.
(11) Un precedente che presenta interessanti
analogie con quanto si sta venendo a delineare in questa sede, è dato dal nesso
vita/proprietà intorno al quale John Locke ha sviluppato la propria filosofia
politica. Da una parte, infatti, la filosofia sociale tradizionale, organizzata
intorno al concetto di lex aeterna,
secondo cui gli uomini, inseriti nel regolare ordine dell’universo, convivono
sulla base di norme naturali derivate da quest’ordine, è un modello della cui validità
Locke non dubita. Dall’altra, però, la dissoluzione della visione medievale del
mondo conduce Locke ad operare uno svuotamento del diritto di natura
tradizionale, nel senso che il filosofo inglese attribuisce al diritto
soggettivo di autoconservazione un peso sconosciuto al giusnaturalismo
classico. Il modello del diritto naturale di ascendenza stoico-cristiana, in
altri termini, sopravvive solo nella forma, mentre, in ordine ai contenuti,
decisiva è l’immissione di considerazioni influenzate dal neo-epicureismo
francese dei seguaci di Gassendi, ovvero una teoria delle condizioni e dei
motivi della riproduzione sociale che caratterizza la ricerca del piacere e la
spinta all’autoconservazione come forze motrici del processo. Sul problema
della secolarizzazione come ‘svuotamento’ del diritto di natura tradizionale si
veda W. Euchner, La filosofia politica di
John Locke (1969), trad. it. Laterza, Roma-Bari 1976.
(12) J. Habermas, Fede e sapere,
in Id., Il futuro della natura umana,
cit., p. 107. Cfr. anche Id., Dialogo su
Dio e il mondo, in Id., Tempo di
passaggi (2001), trad. it. Feltrinelli, Milano 2004, pp. 127-147.
(13) Su questo, di Habermas, si vedano almeno:
Fatti e norme. Contributi a una teoria
discorsiva del diritto e della democrazia (1992), trad. it. Guerini e
Associati, Milano 1996; Giustezza contro
verità. Sul senso della validità prescrittiva dei giudizi e delle norme morali,
in Id., Verità e giustificazione
(1999), trad. it. Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 265-309; Morale, diritto, politica (1992), trad. it. Edizioni di Comunità,
Torino 2001; Lo stato democratico di
diritto. Nesso paradossale di principi contraddittori?, in Id., Tempo di passaggi, cit., pp. 83-100.
(14) Cfr. E. Lecaldano, L’etica teorica e la qualità della vita, “Rivista di filosofia”,
XCII, 1, 2001, pp. 7-30.
(15) P. Singer, Ripensare la vita, cit., pp. 195-196.
(16) Cfr. Acta
Apostolicae Sedis, 49, 1957, p. 1031, cit. in H. Tristram Engelhardt Jr., Manuale di bioetica (1996²), trad. it.
Il Saggiatore, Milano 1999, p. 292. Significativamente gli anni del pontificato
di Pio XII sono stati ricordati come l’epoca della massima espressione della
morale medica della Chiesa cattolica. Cfr. E. Sgreccia, Manuale di bioetica (1988), Vita e pensiero, Milano 1999, p. 18.
(17) M. Charlesworth, L’etica della vita (1993), trad. it. Donzelli, Roma 1996, p. 40.
(18) Ciò sembra confermato, peraltro,
dall’emergenza, in seno a gruppi cattolici e protestanti fermamente contrari
all’aborto, di un’etica coerente della
vita che prescrive: l’opposizione alla pena capitale; l’impegno per
promuovere un sistema di assistenza sanitaria più giusto verso i poveri e
sistemi di welfare per il
miglioramento della qualità della vita e della sua durata; l’opposizione alla
legalizzazione dell’eutanasia attiva anche per malati terminali. Cfr. R.
Dworkin, Il dominio della vita
(1993), trad. it. Edizioni di Comunità, Milano 1994, pp. 66-68.
(19) Com’è dimostrato, peraltro, dal crescente
interesse filosofico per la biopolitica. Su questo cfr. R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi,
Torino 2004.
(20) Su questo cfr. S. Maffettone, Il valore della vita, Mondadori, Milano
1998.
(21) R. Dworkin, Il dominio della vita, cit., p. 4. Il richiamo all’impostazione
lockeana del problema della tolleranza è sin troppo evidente. Per uno studio
critico attento a mostrare come, in epoca moderna, 1) la tolleranza non si
riferisca ad un atteggiamento specificamente morale, ma esibisca un nucleo
politico funzionale alla costruzione dello Stato moderno e 2) come intorno a
tale nucleo politico si strutturi la neutralizzazione dei conflitti interni, in
concomitanza con processi di disciplinamento sociale, si veda M. L. Lanzillo, Tolleranza, Il Mulino, Bologna 2001.
(22) Cfr. R. Dworkin, Il dominio della vita, cit., in particolare pp. 93-138.
(23) Ibidem,
p. 34.
(24) Il riferimento, ovviamente, è a G. W. F.
Hegel, Lineamenti di filosofia del
diritto (1821), trad. it. Laterza, Roma-Bari 2004. Si veda in particolar
modo la formulazione concettuale della transizione speculativa dalla moralità
all’eticità nel § 141, p. 131: «[…]. Ma l’integrazione delle due totalità
relative nell’identità assoluta, è già in
sé portata a compimento, poiché precisamente questa soggettività della pura
certezza di se stessa, questa soggettività aleggiante per sé nella sua vanità,
è identica con l’universalità astratta del bene; - l’identità, quindi concreta del bene e della volontà
soggettiva, la verità dei medesimi, è l’eticità».
(25) M. Charlesworth, L’etica della vita, cit., p. 3.
(26) G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 192, p. 161.
(27) H.
Arendt, Premessa: la lacuna tra passato e
futuro, in Id., Tra passato e futuro
(1961), trad. it. Garzanti, Milano 2001, p. 37.
(28) H. Arendt, Vita activa (1958), trad. it. Bompiani, Milano 1964, pp. 53-54.
(29) C. Galli, Hannah Arendt e le categorie politiche della modernità, in R. Esposito
(a cura di), La pluralità
irrappresentabile, QuattroVenti, Urbino 1987, p. 24. Per il problema della modernità in Hannah Arendt si veda anche, in
un’ottica comparata, E. Brient, Hans
Blumenberg and Hannah Arendt on the ‘Unwordly Wordliness’ of the Modern Age,
“Journal of the History of Ideas”, LXI, 3, 2000, pp. 513-532.
(30) Cfr. H. Arendt, Religione e politica (1953), trad. it. in “Aut Aut”, 271-272, 1996,
pp. 59-76.
(31) H. Arendt, Vita activa, cit., p. 119.
(32) Ibidem,
p. 187: «La perdita moderna della fede non ha origini religiose – non può
essere ricondotta alla Riforma e alla Controriforma, i due grandi movimenti
religiosi dell’età moderna – e il suo raggio non è ristretto alla sola sfera
religiosa. Inoltre, anche se ammettiamo che l’età moderna cominciò con
un’improvvisa e inesplicabile eclissi della trascendenza, della fede in un
aldilà, da ciò non consegue affatto che questa perdita abbia rigettato gli
uomini nel mondo. Al contrario, l’evidenza storica mostra che gli uomini
moderni non furono proiettati nel mondo, ma in se stessi».
(33) H. Arendt, Che cos’è l’autorità?, in Id., Tra
passato e futuro, cit., p. 144.
(34) Ibidem,
pp. 7-17. L’idea di una sfera politica priva di mediazioni può suonare a molte
orecchie come un’autentica contraddizione in termini. Non potendo svolgere qui
una disamina esaustiva su questo punto, basti ricordare sommariamente,
anzitutto, che l’ottica di Hannah Arendt (in questo più kantiana della maggior
parte dei neokantiani del secondo Novecento) non è ricostruttiva, né
coerentista, ma eminentemente critica. In questa circostanza il dispositivo critico
è indirizzato contro la colonizzazione della sfera pubblica da parte del
sociale (in altri termini: contro la tendenza ad assimilare l’azione politica
alla transazione di mercato) e contro la forma politica che riflette la
sostanza dei rapporti sociali: la
rappresentanza. Sotto questo profilo, la critica della Arendt non potrebbe
essere più estesa, rivolgendosi sia contro l’idea democratica di delega
popolare (dal momento che parole e azioni, le uniche attività dotate di
significato politico, non possono essere rappresentate), sia contro l’idea
(hegeliana, ma a ben vedere, anche hobbesiana) che la rappresentanza realizzi
simbolicamente la sostanza nella quale il soggetto consapevole si riconosce.
Sul legame tra Hobbes e Hegel, accomunati in nome di un «razionalismo moderno
irreale» e di un «realismo moderno
irrazionale» si veda Vita activa,
cit., p. 223. Per la critica della rappresentanza moderna si vedano, oltre a Vita activa, H. Arendt, Sulla rivoluzione (1963), trad. it.
Edizioni di Comunità, Torino 1996 e il volume di frammenti postumi Che cos’è la politica? (1993), trad. it.
Edizioni di Comunità, Torino 2001.
(35) Antropologia sui generis non solo nel senso che «la questione della natura dell’uomo
è una questione tanto teologica quanto quella della natura di Dio; entrambe si possono porre soltanto
nell’ambito di una risposta rivelata divinamente». H. Arendt, Vita activa, cit., p. 243, n2 (corsivo
mio). Va detto altresì che, diversamente dalle versioni dell’antropologia
filosofica ‘classica’ di Scheler, Gehlen e Plessner - secondo le quali
l’apertura al mondo che caratterizza l’uomo dipende da un atteggiamento
oggettivante e da una prassi finalizzata a trasformare le contingenze in
occasioni per un agire orientato al successo -, la Arendt concepisce il mondo
essenzialmente come una struttura di relazione per un’ azione concertata che
coinvolge non la falsa astrazione Uomo, ma gli uomini al plurale. Una simile
differenza si spiega, probabilmente, con il fatto che, per l’antropologia
filosofica, l’esigenza di un’immagine globale dell’uomo si traduce in un
approccio ermeneutico ai risultati delle ricerche scientifiche: di quelle
ricerche, in definitiva, che guardano all’uomo come ad un «progetto posto in
essere dalla natura». La Arendt si muove, invece, su una linea più vicina
all’impostazione pragmatica delineata da Kant, in virtù della quale 1) la
domanda sull’uomo non ha affatto un ruolo fondativo; 2) solo in quanto la
filosofia assume un significato cosmico (non scolastico) i suoi problemi si
intersecano legittimamente con la domanda sull’uomo; 3) tale domanda non
investe ciò che la natura fa dell’uomo, ma ciò che l’uomo, in quanto essere
libero, può e deve fare di stesso. Cfr. I. Kant, Antropologia pragmatica (1798), trad. it. Laterza, Roma-Bari 2001 e
Id., Logica (1800), trad. it.,
Laterza, Roma-Bari 1984. Sul tema dell’antropologia filosofica della Arendt si
può vedere L. Savarino, Per una politica
della mente. Hannah Arendt e l’antropologia filosofica, “Discipline
filosofiche”, XIII, 1, 2003, pp. 215-237. Sull’antropologia filosofica
‘classica’, sviluppatasi a partire dalla fina degli anni Venti, cfr. M. T.
Pansera, Antropologia filosofica. La
peculiarità dell’umano in Scheler, Gehlen e Plessner, Mondatori, Milano
2001.
(36) Cfr. H. Arendt, Vita activa, cit., pp. 13-17 e Id., Il concetto di storia: nell’antichità e oggi, in Id., Tra passato e futuro, cit., pp.
70-111.
(37) Ibidem,
p. 71.
(38) Ibidem,
p. 77.
(39) A questi temi la Arendt aveva dedicato il
suo primo libro, Il concetto d’amore in
Agostino (1929), trad. it. SE, Milano 2004, che riproduce sostanzialmente
il testo della dissertazione tenuta a Heidelberg con Karl Jaspers nel 1928.
Cfr. anche R. Bodei, Hannah Arendt
interprete di Agostino, e G. Rametta, Osservazioni
su «Der Liebesbegriff bei Augustin» di Hannah Arendt, entrambi in R.
Esposito (a cura di), La pluralità
irrappresentabile, cit., pp. 113-121 e pp. 123-138.
(40) Cfr. H. Arendt, Vita activa, cit., p. 62.
(41) Ibidem,
pp. 50-51.
(42) K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, trad. it. Einaudi,
Torino 2002, p. 78.
(43) Per questa ragione, il lavoro
(nell’accezione arendtiana) perde anche quella centralità epistemologica che, nell’Ideologia
tedesca in particolar modo, Marx gli attribuisce. Non solo l’analisi del
lavoro alienato, infatti, consente al rivoluzionario di Treviri di aggirare la
giustificazione lockeana della proprietà privata. Il lavoro si inserisce altresì come elemento
di mediazione tra l’antropologia filosofica di Feuerbach e l’economia,
qualificandosi come istanza genetica che mette Marx nelle condizioni di
impostare il problema della storia liberandosi dall’eredità di Hegel e rompendo
con la logica essenzialista. Per la Arendt, al contrario, l’improduttività
politica del lavoro fa tutt’uno con la sua improduttività storica.
(44) Su questo cfr. C. Packham, The
Physiology of Political Economy: Vitalism and Adam Smtih’s ‘Wealth of Nations,
“Journal of the History of Ideas”, LXIII, 3, 2002, pp. 465-481.
(45) H. Arendt, Vita activa, cit., p. 51.
(46) Va ricordato che, per la Arendt, i
risvolti drammatici dell’immissione della vita (nell’accezione che equipara
vita biologica, lavoro e la traduzione di questi nel concetto di ‘economia
politica’) nella sfera pubblica vengono in luce non nella storia delle idee,
bensì nel concreto svolgimento storico, allorché, nella fase tardo-ottocentesca
dell’imperialismo, l’emancipazione politica della borghesia coincise con il
tentativo di ampliare la sfera di potere senza la creazione di un
corrispondente corpo politico. Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo (1951), trad. it. Edizioni di
Comunità, pp. 171-419.
(47) H. Arendt, Vita activa, cit., p. 30.
(48) Su questo cfr. H. Arendt, La
tradizione e l’età moderna, in Id., Tra
passato e futuro, cit., pp. 41-69.
(49) In questo senso, e al di fuori di
considerazioni di ordine teologico, non andrebbe sottovalutata la valenza
simbolica dell’immagine evangelica del sepolcro vuoto, ossia essere la
resurrezione un evento privo di testimoni oculari, sottratto cioè alla sfera
pubblica.
(50) Per un inquadramento del problema
dell’ideologia in rapporto ai sistemi segnici, in quanto forma di
programmazione sociale resta un punto di riferimento F. Rossi-Landi, Ideologia, Isedi, Milano 1976.
(51) M. Foucault, La medicalizzazione indefinita (1974), in Id., Antologia, trad. it. Feltrinelli, Milano 2005, p. 151.
(52) Cfr. I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute (1976), trad. it.
Boroli Editore, Milano 2005.
(53) Il pensiero femminista italiano, per
quanto se ne possa dare una rappresentazione unitaria, sembra poco incline a
considerare questo punto, sottolineando di preferenza la questione della
scomparsa del corpo femminile dai nuovi scenari riproduttivi. In quest’ottica,
la denuncia della dilagante retorica sulla vita, che tende a fare dell’embrione
il protagonista solitario della nascita,
segnala soprattutto la preoccupazione per la desessualizzazione della
procreazione, che minerebbe alla base la possibilità di portare nel discorso la
differenza femminile. In altre parole, si sostiene che se il corpo femminile
viene oggettivato a puro contenitore biologico, l’essere donna è condannato a
vedersi privo di rappresentazioni simboliche proprie. Su questo cfr. M. L.
Boccia, G. Zuffa, L’eclissi della madre,
Nuove Pratiche Editrice, Milano 1998.
(54) Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere (1976), trad. it. Feltrinelli, Milano 2004,
pp. 92-93.
(55) Ibidem,
p. 178 (corsivo mio). A questo riguardo sono sintomatiche le considerazioni della
filosofa inglese Mary Warnock, argomentate in termini laici, in relazione al
problema della maternità surrogata: «Le obiezioni si incentrano essenzialmente
sulla considerazione che introdurre terze persone nel processo di procreazione,
che dovrebbe basarsi esclusivamente su un rapporto a due, significa minare il
valore del legame coniugale». Cfr. M. Warnock, A question of Life, Basil Blackwell,
(56) Non è un caso che la Chiesa cattolica condanni
la diagnosi pre-impianto sugli embrioni, guardando invece favorevolmente alla
diagnosi pre-natale che, nelle parole di Elio Sgreccia, «consente innanzitutto
di tranquillizzare quelle mamme che vivrebbero con preoccupazione la loro
maternità – e, perciò, potrebbero essere tentate
di abortire». Cfr. A. Piazza, E. Sgreccia, L’individuo
e l’embrione, “Micromega”, 3, 2005, p. 41 (corsivo mio). Recentemente
Benedetto XVI ha invitato a vedere nel feto il volto del nascituro: alcuni
hanno voluto leggervi un implicito richiamo alla filosofia del volto di
Emmanuel Lévinas. Più plausibilmente, il riferimento del Pontefice è al Salmo
4, 7: «Chi ci farà gustare il bene? Fuggita è da noi, o Signore, la luce del
tuo volto», con il quale, per altro, si apre anche l’enciclica di Giovanni
Paolo II Veritatis splendor, pur con
una variante nella traduzione: «Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo
volto». Come è noto, in merito al rispetto della personalità del concepito, il
Nuovo Testamento non fornisce indicazioni esplicite. C’è chi ha voluto trovarle
nell’epistola ai Galati, laddove Paolo elenca le opere della carne il cui
compimento preclude l’accesso al regno di Dio (Ga, 5,19-21). Tra questi
comportamenti immorali si trova l’impiego delle veneficia (pharmakeia),
termine solitamente tradotto con ‘magie’, ‘stregonerie’. Chi propende per
un’interpretazione non restrittiva del termine,
tale quindi da includere anche l’uso di droghe abortive, argomenta sulla
base del fatto che già la lex
Cornelia de sicariis et veneficis (81
a.C.) contro gli assassini e gli avvelenatori era stata ampliata alle veneficia capaci di provocare la morte
del feto. Resta fermo, in ogni caso, che per un’esplicita presa di posizione a
favore del nascituro in quanto plasmatos
di Dio, bisognerà attendere la patristica cristiana. Clemente Alessandrino, nel
contesto di una discussione sulla contraccezione, si riferisce in questi
termini alle donne che assumono abortivi per nascondere le relazioni
extra-coniugali: «eae enim, ut
fornicationem celent, exitalia medicamenta adhibentes, quae prorsus in
perniciem ducunt, simul cum fetu omnem humanitatem perdunt» (Paedagogi 2, 10). Antenagora, da parte
sua, afferma che Dio si prende cura degli embrioni per il semplice fatto che
sono esseri viventi e che il rispetto della vita del feto rappresenta una
garanzia morale per il rispetto della vita dell’adulto:«qui mulieres illas, quae medicamenta ad abortum utuntur, homicidas esse
et rationem huius abortus Deo reddituras dicimus, quomodo hominem occideremus?
Non enim eiusdem est fetum in utero animal esse, ac Deo curae esse existimare,
et editum in lucem occidere» (Legatio
Pro Christianis, 35).
(57) M. Foucault, Sorvegliare e punire (1975), trad. it. Einaudi, Torino 1993, in particolare
p. 202. Si veda anche Id., La società
disciplinare (1973), in Id., Antologia,
cit., pp. 81-96.
(58) B. Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico (1991), trad. it. Bollati
Boringhieri, Torino 1994.
(59) Il riferimento è all’incontro, narrato
nel Vangelo di Luca, tra Maria ed Elisabetta. Cfr. Lc 1, 41-42: «Ed ecco che,
appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, le balzò in seno il bambino».
(60) B. Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico, cit., p. 27.
(61) Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche (1953), trad. it.
Einaudi, Torino 1999, pp. 255-282.
(62) Dworkin ricorda come, all’indomani della
sentenza della Corte Suprema che nel 1973 portò alla dichiarazione di
incostituzionalità della legge texana
che considerava l’aborto un crimine, i gruppi pro-vita entrarono nell’arena
politica ingaggiando «una guerra di pubbliche relazioni, distribuendo film ed
ecografie di feti sviluppati ormai simili a bambini che, se sollecitati con un
ago, si ritraevano in modo da far immaginare che reagissero al dolore». Cfr. R.
Dworkin, Il dominio della vita, cit.,
p. 9.
(63) M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Id., Sentieri interrotti (1950), trad. it. La Nuova Italia, Firenze
2002, p. 88.
(64) Ibidem,
p. 89.
(65) Ibidem,
p. 93.
(66) B. Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico, cit., p. 115.
(67) Cfr. M. Mori, La capanna dello zio Tom, “Diario del mese”, 65, 2005, pp. 94-103.
(68) Sull’embriologia tomista cfr. L. Cova, Prius animal quam homo. Aspetti dell’embriologia tommasiana, in Parva naturalia. Saperi naturali, natura e
vita, Atti dell’XI convegno della Società Italiana per lo Studio del
Pensiero Medievale, pp. 357-378.
(69) R. Lucas Lucas, Fondazione antropologica dei problemi bioetica, “Gregorianum”,
LXXX, 4, 1999, p. 712. Cfr. anche Id., Antropologia
e problemi bioetici, Edizioni San Paolo, Milano 2001.
(70) Ibidem,
p. 735.
(71) Si è già visto come il modello
deliberativo habermasiano sia messo in crisi dalle nuove premesse dell’etica
del genere e dall’apertura di credito alle visioni del mondo di matrice
religiosa. Va ricordato, altresì, che Habermas arriva a porsi in conflitto con
il se stesso che, nel 1958, formulava una serrata critica dell’antropologia
filosofica, considerandola una degenerazione in un «discorso acritico»
destinata a sfociare «in una dogmatica con conseguenze politiche, tanto più
pericolosa quanto più pretende di essere una scienza disinteressata». Cfr. J.
Habermas, Antropologia, trad. it. in
G. Preti (a cura di), Filosofia,
Enciclopedia Feltrinelli Fischer, Milano 1966, p. 35.
(72) Cfr. J. Habermas, Il futuro della natura umana, cit., pp. 5-18.
(73) Ibidem,
p. 15.
(74) Ibidem,
p. 16.
(75) Ibidem,
(corsivo mio).
(76) Sull’etica di Hans Jonas cfr. R.
Mordacci, Una introduzione alle
teorie morali, cit., pp. 288-327; P.
Becchi, L’etica pratica di Hans Jonas può
fare a meno della metafisica?, “Paradigmi”, XXII, 66, 2004, pp. 389-405.
(77) Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 5.
(78) R. Mordacci, Una introduzione alle teorie morali, cit., p. 292.
(79) H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 31. (corsivo mio). È quasi
superfluo dire che questa prospettiva è stata aperta, in definitiva, dalla
riflessione heideggeriana sulla tecnica. Cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi (1957), trad. it.
Mursia, Milano 1991, p. 27: «Quanto più ci avviciniamo al pericolo, tanto più
chiaramente cominciano a illuminarsi le vie verso ciò che salva, e tanto più
noi domandiamo. Perché il domandare è la pietà (Frömmigkeit) del pensiero».
(80) H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 16.
(81) Ibidem, p. 41.
(82) Ibidem, p. 50.
(83) H. Arendt, Vita activa,
cit., p. 69.
(84) Ibidem.
(85) Cfr. J. Habermas, Il futuro della natura umana, cit., p. 59.
(86) Ibidem,
pp. 59-60.
(87) In un contesto diverso, Roberto Esposito
(cfr. L’origine della politica. Hannah
Arendt o Simone Weil, Donzelli, Roma 1997, pp. 39-48) è pervenuto ad esiti
non difformi da quelli della lettura habermasiana della filosofia di Hannah
Arendt. Premesso un nesso di continuità tra il tema arendtiano dell’origine e
quello heideggeriano dell’autenticità, l’autore ritiene che la natalità, presso
l’autrice di Vita activa, esibisca
una portata ontologica e non semplicemente fenomenologica, trattandosi di un
venire all’essere dal nulla. Altrove, segnatamente in Bíos, cit., pp. 194-196, Esposito osserva che assumendo un fenomeno
biologico - la nascita - come elemento differenziale rispetto alla circolarità
biologica, «la Arendt ha cercato in essa la chiave ontopolitica per dare alla
vita una forma coincidente con la sua medesima condizione di esistenza». In
entrambi i casi, valgono le obiezioni già sollevate contro l’interpretazione
habermasiana.
(88) H. Arendt, Vita activa, cit., p. 128.
(89) R. Bodei, Hannah Arendt interprete di Agostino, cit., p. 113.
(90) H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 188.