Etica & Politica / Ethics & Politics, 2005, 1
http://www.units.it/etica/2005_1/POLIDORI.htm
Abstract The paper
examines the problem of the relation between subject and truth in Michel
Foucault, with special reference to his 1981-2 course at the Collège de France.
Here Foucault argues that the connection between truth and knowledge is
relatively recent in the history of the relation between subject and truth and
Descartes’ s cogito plays an emblematic role in it. The author then
argues against Foucault the importance of the Cartesian stance about truth. |
Per
parlare, o forse meglio, per tentare di dire alcune cose intorno alla questione
«soggetto e verità» ho scelto un testo – alcuni testi, in realtà, ma su uno in
particolare cercherò di concentrarmi – di Michel Foucault. Il testo che ho
scelto si intitola L’ermeneutica del soggetto (1) ed è la trascrizione del corso tenuto da Foucault al Collège
de France nell’anno 1981-1982. Per la precisione e per amore di dettaglio, va
detto che le lezioni vanno dal 6 gennaio al 24 marzo 1982 e sono state
trascritte dalle registrazioni e con l’aiuto degli appunti che Foucault era
solito preparare.
Questa di
prendere in considerazione, per un ciclo di interventi che si intitola
«Soggetto e verità», uno degli ultimi testi, una delle ultime ricerche di
Foucault non è certo un’idea particolarmente geniale, dato che sappiamo molto
bene che proprio a questo tema, alla questione del soggetto, alla questione
della verità e soprattutto al rapporto tra verità e soggetto, Foucault ha
lavorato pressoché esclusivamente nelle sue ultime ricerche e con ancora
maggiore intensità proprio in questo corso. E quindi, incoraggiato oltretutto
da una certa dose di pigrizia, ho deciso di sfruttare il più possibile una
notevolissima quantità di indagini e di informazioni sicuramente disponibili e
facilmente raggiungibili. E così, già da subito, sono riuscito a semplificarmi
notevolmente la vita, dato che in questo corso Foucault in definitiva non parla
di altro se non appunto che del rapporto tra soggetto e verità. Aggiungo
soltanto una precisazione, forse per la maggior parte di noi superflua, e cioè
che, come negli altri suoi lavori di quel periodo, Foucault prende in
considerazione quasi esclusivamente testi e autori dell’antichità, sia greca
che romana, e dei primi secoli dell’era cristiana. Motivo, questo, che non è
affatto estrinseco rispetto a quella che mi sembra essere la strategia
complessiva di Foucault; una strategia che non mira soltanto a una ricognizione
di come stavano le cose circa il soggetto e la verità tanti anni or sono, ma
che vuole rendere ragione di un cambiamento, di una trasformazione, di un
passaggio – o di una serie di trasformazioni e di passaggi – per Foucault
particolarmente significativi. Si tratta infatti di svariati passaggi, ma uno in
particolare mi sembra contenere in sé una serie di questioni. E i due termini
di questo passaggio, o di questa modulazione, che coinvolge il rapporto tra
soggettività e verità, ma che per così dire risulta interna al modo di
concepirsi o di intendersi una sorta di pratica della verità, questi due
termini sono indicati dalle espressioni gnothi seauton, «conosci te
stesso», il famoso precetto dell’oracolo delfico, e epimeleia heautou,
«cura di se stessi», «cura di sé», la cura sui dei latini, nozione
decisamente meno famosa (oggi) dell’altra ma che, come Foucault ha modo di
ricostruire, si trovava molto spesso accoppiata al precetto dell’oracolo. E qui
possiamo entrare se non proprio decisamente nella questione, almeno in quello
che è il preambolo della questione sollevata da Foucault, e che lui stesso
indica con queste parole:
“In alcuni testi che dovremo
esaminare, la regola del «conosci te stesso» risulta formulata all’interno di
una sorta di subordinazione rispetto al precetto della cura di sé. Lo gnothi
seauton («conosci te stesso») appare infatti, in maniera piuttosto chiara e
in una serie di testi nient’affatto secondari, nel quadro più generale dell’epimeleia
heautou (cura di se stessi), come una delle forme, come una delle
conseguenze, e come una sorta di applicazione concreta, precisa e particolare,
della regola generale: è necessario occuparsi di se stessi, è necessario non
dimenticarsi di se stessi, è necessario prendersi cura di se stessi. È solo nel
contesto di tutto ciò che appare e viene formulata la regola «conosci te
stesso», proprio come se si trattasse del momento culminante di tale cura.” (2)
Quello
che ho insomma indicato come presupposto della questione che Foucault si mette
a indagare sta tutto in questa vicinanza, o addirittura in questa concentricità
che lega cura di sé e conoscenza di sé. Il filo rosso della questione «soggetto
e verità» che Foucault ritrova nell’antichità è dunque questa implicazione del
momento chiamiamolo così conoscitivo in una serie di attività, di
atteggiamenti, di pratiche e di esercizi che hanno a che vedere con una
dimensione spirituale sicuramente e decisamente più ampia di quella
dell’atteggiamento conoscitivo stesso. In altri termini, per molti secoli la
verità avrebbe avuto a che fare con una soggettività che non è riducibile a un
soggetto semplicemente conoscente o a una attività puramente conoscitiva; e per
contro il soggetto avrebbe avuto a che fare con la verità attraverso un agire
che si manifestava in forme diversificate e articolate, non riconducibili al
puro atto conoscitivo. A questo proposito si possono menzionare infatti le
varie pratiche attraverso le quali nell’antichità si modellavano e si
plasmavano il proprio atteggiamento, la propria vita, il proprio sé: come nel
caso della parresia, dell’ascesi, della confessione ecc.
Se questo
è dunque il piano preliminare, una sorta di vestibolo che introduce la
contestualizzazione della ricerca di Foucault, il punto o uno dei punti – e
comunque quello che a mio parere si segnala per maggiore intensità – intorno al
quale tutta la ricostruzione critica e storica non si stanca di girare è
costituito dal fatto che a un certo momento queste due modalità, rimaste per
secoli vicinissime e addirittura coimplicate nella questione della verità –
certamente non in maniera immutata, non sempre secondo la medesima
configurazione, anzi; e grande parte della ricostruzione di Foucault attraverso
i testi che prende in esame fa vedere proprio il diverso peso e le diverse
articolazioni tra la cura di sé e il «conosci te stesso» – queste due modalità
dunque si separano. Riporto un altro passo, sempre dalla lezione del primo
giorno, quella in cui Foucault a grandi linee introduce l’intero corso:
“… mi sembra vi sia stato un
certo momento – e quando dico «momento» non intendo assolutamente situare tutto
ciò in una data definita, oppure localizzarlo, o individualizzarlo attorno a
una e una sola persona – in cui il legame tra l’accesso alla verità, divenuto
sviluppo autonomo della conoscenza, e l’esigenza di una trasformazione del
soggetto, e del suo essere, da parte del soggetto stesso, è stato, credo
definitivamente, spezzato.” (3)
Siamo
dunque di fronte a una sorta di svolta o di rottura o di soglia, un passaggio
insomma, che in certa misura segna la separazione, all’interno della
spiritualità, del lavoro diciamo così della conoscenza dal lavoro del soggetto
su se stesso. Non è certo superfluo, né ha un significato puramente
storiografico, aggiungere che questa separazione sia riconducibile al momento
in cui
“Descartes ha detto che la
filosofia basta a se stessa ai fini della conoscenza, e quando Kant ha
completato sostenendo che se la conoscenza ha dei limiti, essi risiedono
interamente nella stessa struttura del soggetto conoscente, vale a dire proprio
in ciò che permette la conoscenza.” (4)
E
affinché i presupposti di questa analisi di Foucault siano del tutto chiariti e
precisati, riporto ancora un passo che si trova in una sorta di intervista che
risale al 1983.
“… la cosa straordinaria nei
testi di Descartes è che egli è riuscito a sostituire un soggetto come
fondamento delle pratiche di conoscenza, a un soggetto costituito attraverso le
pratiche di sé.”
Ciò è molto importante. Anche se
è vero che la filosofia greca ha fondato la razionalità, essa ha sempre
sostenuto che un soggetto non poteva avere accesso alla verità se prima non
aveva operato su se stesso un certo lavoro che doveva consentirgli di conoscere
la verità: un lavoro di purificazione, di conversione dell’anima per mezzo
della contemplazione dell’anima stessa. Abbiamo anche il tema dell’esercizio
stoico per mezzo del quale un soggetto in primo luogo istituisce la propria
autonomia ed indipendenza – e la fonda attraverso una relazione piuttosto
complessa con la conoscenza del mondo, dal momento che è questa conoscenza a
garantirgli la sua indipendenza, ed è solo una volta che l’abbia garantita che
egli sarà capace di riconoscere l’ordine del mondo così come esso è. Nella
cultura europea, fino al xvi
secolo, il problema rimane: «Qual è il lavoro che devo effettuare su me stesso
per diventare capace e degno di accedere alla verità?» In altri termini, la
verità ha sempre un prezzo; non è possibile nessun accesso alla verità senza
ascesi. Nella cultura occidentale, fino al xvi
secolo, l’ascetismo e l’accesso alla verità sono sempre rimasti più o meno
oscuramente legati.
“Penso che Descartes abbia rotto
con ciò allorché affermò che per accedere alla verità, è sufficiente essere un
soggetto qualsiasi capace di vedere ciò che è evidente. L’evidenza è
sostituita all’ascesi nel punto in cui la relazione con sé interseca la
relazione con gli altri e con il mondo. La relazione con sé non ha più bisogno
di essere ascetica per entrare in rapporto con la verità. È sufficiente che la
relazione con sé riveli la verità manifesta di ciò che si può vedere da soli
per apprendere in modo definitivo quella verità. Così, posso essere immorale e
tuttavia conoscere la verità. Credo che questa sia un’idea che, più o meno
esplicitamente, era rifiutata da tutta la cultura precedente. Prima di
Descartes non era possibile essere impuri, immorali, e conoscere ugualmente la
verità. Con Descartes, l’evidenza immediata è sufficiente. Dopo Descartes,
abbiamo un soggetto di conoscenza non ascetico. Questa trasformazione rende
possibile l’istituzionalizzazione della scienza moderna.” (5)
Ancora
una volta, saremmo subito tentati di dire, ecco che la ragione compare sulla
scena foucaultiana a tracciare le sue demarcazioni, i suoi limiti, i suoi
recinti, a scindere insomma il soggetto, l’uomo – l’esperienza di sé, anche, se
vogliamo – in una parte in cui ha modo di riconoscersi, di verificarsi,
verrebbe la tentazione di dire, e in un’altra parte destinata a rimanergli
estranea, interdetta, proibita. Ecco di nuovo Cartesio, verrebbe da pensare,
che dalla Storia della follia non cessa di costituire un punto di
riferimento tanto preciso e per vari aspetti «negativo» quanto stabile e
sicuro, una sorta insomma di termine di paragone utile in moltissime occasioni
e soprattutto indispensabile quando Foucault vuole mostrare la discriminante e
violenta azione della «ragione» nella storia. Ma le cose non stanno proprio in
questo modo; certo Cartesio è uno con cui Foucault non smette di combattere,
con cui non smette di fare i conti, ma non è certo il suo unico punto di
riferimento polemico, né in questo corso né in altri testi. Qui, per esempio,
aggiunge subito che vanno precisate le responsabilità per quanto riguarda la spaccatura
tra conoscenza e cura di sé: non è tanto grazie a un conflitto tra la
spiritualità e la scienza, dice Foucault, che a un certo punto la conoscenza si
è ritagliata una dimensione diciamo così sua propria e dissociata, quanto
invece grazie alla teologia, alla teologia di derivazione aristotelica (quindi
la scolastica, san Tommaso) che,
“proponendosi
come riflessione razionale destinata, a partire dal cristianesimo naturalmente,
a fondare una fede con una vocazione a sua volta universale, istituiva al contempo
il principio di un soggetto conoscente in generale, un soggetto cioè che
trovava in Dio il suo modello, il suo punto di compimento assoluto, il suo più
alto grado di perfezione, e al tempo stesso il suo creatore e proprio per
questo il suo modello.” (6)
Più e
prima dunque del razionalismo cartesiano, il vincolo tra spiritualità e
conoscenza, tra rapporto del soggetto con la verità in termini di cura di sé
(pratiche di ascesi ecc.) e in termini di conoscenza di sé, si spezza a causa
di un diciamo così «soggettivismo» di matrice e di origine teologica. D’altra
parte, non è certo Foucault il primo ad avere messo in luce come l’idea di
soggetto che si ritrova in Cartesio sia di sicura e precisa derivazione
teologica. Ma, senza indugiare troppo in questa faccenda, e per arrivare infine
a quello che mi sembra un punto (o almeno una traccia) fondamentale per capire
il tipo di interesse che muove Foucault, torniamo a leggere il passo che
avevamo interrotto per precisare il contesto cartesiano e kantiano in cui
Foucault, in un primo momento, colloca la rottura tra spiritualità e
conoscenza. «Mi sembra vi sia stato un certo momento», avevamo letto, «in cui
il legame tra l’accesso alla verità […] e l’esigenza di una trasformazione del soggetto
[…] è stato, credo definitivamente, spezzato». E continua Foucault:
“È inutile che vi dica che,
quando affermo che mi sembra che tale legame sia stato definitivamente
interrotto, non ci credo neanche un po’. Tutto l’interesse della cosa deriva
per l’appunto dal fatto che i legami non sono stati bruscamente recisi come in
seguito a un taglio improvviso.” (7)
Ecco
dunque, scivolato non proprio impercettibilmente ma comunque come una specie di
effetto retorico messo accanto a una tesi precisa e compatta per farla
risaltare ancora di più attraverso la smentita di alcune sue circostanze
storiche, il punto da cui incominciare. Insomma Foucault dice: farò questo
corso per mostrare che cura di sé e conoscenza di sé a lungo (e magari non
sempre in maniera invariata) sono state insieme; poi, a un certo punto, si sono
separate, il legame si è spezzato definitivamente. Questo momento coincide con
l’asse Cartesio-Kant, che per altro non fa che raccogliere il legato della
teologia aristotelico-tomista, ed eccoci qua pronti a documentare questa tesi.
Attenzione, però: al fatto che «tale legame sia stato definitivamente
interrotto, non ci credo neanche un po’». E allora come riformulare in maniera
più precisa la tesi di Foucault in questo corso? Proviamo nel modo seguente:
nonostante la teologia e il culmine teologico-gnoseologico dell’età moderna,
che hanno fatto di tutto per separare la pratica della verità come conoscenza
dalla pratica della verità come «necessità spirituale di un lavoro del soggetto
su se stesso», il legame, il vincolo tra queste due dimensioni non si è affatto
spezzato ma, tutt’al più, è stato occultato, ricoperto, nascosto.
Ed è,
questa, una tesi che – non fosse altro che per il modo nel quale è formulata e
per l’estensione di tempo cui si riferisce – ben difficilmente potrebbe essere
considerata una tesi esclusivamente «storica», «storiografica»; questa doppia
dimensione della verità accompagna infatti per Foucault tutta la storia
dell’Occidente. Certo lui non lo afferma e non lo asserisce come se si
trattasse di un dato per dire così strutturale (non lo farebbe mai); ma al
fatto che lui non creda «neanche un po’» all’interruzione definitiva di tale
legame fa eco, un paio di pagine dopo, quest’altra affermazione:
“Riconsiderate tutta quanta la
filosofia del xix secolo – o
almeno una buona parte: in ogni caso Hegel, Schelling, Schopenhauer, Nietzsche,
lo Husserl della Krisis, e anche Heidegger – e potrete vedere come
persino all’interno di questa tradizione, sia essa squalificata, svalutata,
presa di mira criticamente, o al contrario esaltata come nel caso di Hegel,
sempre la conoscenza – l’atto di conoscenza – rimanga legata alle esigenze
della spiritualità. In tutte queste filosofie, infatti, una determinata
struttura di spiritualità tenta di connettere la conoscenza, l’atto di
conoscenza, le condizioni di tale atto di conoscenza, e infine i suoi effetti,
a una trasformazione nell’essere stesso del soggetto.” (8)
Non sarà,
insomma, quella di Foucault una tesi diciamo così di carattere strutturale, e
di sicuro almeno non lo è in prima battuta; ma altrettanto sicuramente
assomiglia molto a una tesi di carattere storico-universale, sulla cui base
Foucault ha quindi la possibilità di andare a vedere in che maniera, con quanta
intensità e con quanta frequenza, attraverso quali percorsi la dimensione che
lui definisce «spirituale» del rapporto tra soggetto e verità ha agito in primo
piano ovvero è stata oscurata, occultata, nascosta dalla dimensione «conoscitiva»,
pur tuttavia senza cessare di esistere, di funzionare, di agire.
Va
comunque precisato che, se questa «tesi», come mi è parso di poterla definire,
è sicuramente presente e notevolmente rilevante all’interno della
organizzazione del lavoro critico che Foucault conduce sulla verità, il suo
lavoro di ricostruzione dei rapporti tra il soggetto e la verità nella cultura
e nella società dell’antichità costituisce di gran lunga la parte più
significativa del suo interesse. Gli spunti diciamo così «polemici» nei
confronti del razionalismo cartesiano o della deriva esclusivamente
«gnoseologica» della verità sono alquanto ridotti. Eppure credo che siano
indispensabili per capire almeno in certa parte il senso complessivo
dell’operazione di Foucault, di quell’attraversamento, in altre parole, del
«soggetto» e della sua questione (della questione «genealogica» che Foucault
riconosce nel soggetto) su cui non si è mai stancato di lavorare e che forse
rappresenta uno dei titoli più generali di tutto il suo lavoro. E, sempre a
questo proposito, così come non vanno trascurati gli spunti polemici nei
confronti del razionalismo in generale, non andrebbero ignorati nemmeno quegli
spunti polemici che provengono dai suoi (forse meno frequenti) confronti con i
contemporanei. Con quei contemporanei, in particolare, che più si sarebbero
orientati a lasciare non tematizzata proprio la questione della soggettività
nei suoi aspetti genealogici. Qui l’elenco dei nomi potrebbe essere anche
piuttosto lungo, ma non credo sia tanto una questione di nomi quanto di precise
strategie. Nel merito delle quali Foucault a più riprese, soprattutto in alcune
interviste, non ha esitato a entrare. Vorrei riportare a questo proposito
qualche brano da alcune di queste interviste. La prima, del 1978, si intitola
«La scena della filosofia», e a un certo punto, riferendosi ad autori quali
Deleuze, Klossowski, Bataille, Blanchot, Foucault dice:
“… sono sempre loro ad aver
fatto emergere, per primi, il problema del soggetto come problema
fondamentale per la filosofia e per il pensiero moderno. Detto in altri
termini, mi sembra, infatti, che da Descartes fino a Sartre – e non lo dico
affatto in modo polemico – il soggetto fosse per l’appunto considerato come
qualcosa di fondamentale, ma che non si poteva affrontare in modo critico:
qualcosa, insomma, che non si poteva mettere in questione. Da ciò,
verosimilmente, deriva il fatto che – come in ogni caso ha fatto osservare
Lacan – Sartre non abbia mai ammesso l’inconscio nel senso di Freud. Non poteva
infatti affiorare l’idea che il soggetto non costituisca la forma fondamentale
ed originaria, ma si formi, piuttosto, a partire da un certo numero di processi
che, a loro volta, non appartengono all’ordine della soggettività, bensì ad un
altro ordine, evidentemente assai difficile da nominare e da far apparire, ma
ben più fondamentale ed originario che non il soggetto stesso. Il soggetto ha
una genesi, il soggetto ha una formazione, il soggetto ha una storia. Il
soggetto non è dunque originario. E chi l’aveva detto per primo? Freud,
naturalmente.” (9)
E già da
qui mi sembra che siamo in presenza di una inequivocabile scelta di campo, da
parte di Foucault, rispetto a una ben precisa e molto importante situazione
della filosofia francese contemporanea, di quella generazione di pensatori che
recepirono in Francia la fenomenologia. Al cospetto dei quali non solo Foucault
mette in risalto l’importanza dei vari Bataille, Blanchot, Deleuze, Klossowski,
ma addirittura riesce per un momento a riabilitare in maniera assai decisa la
figura di Freud; solo per un momento, va detto, e con due necessarie
precisazioni: limitatamente alla questione del soggetto e comunque attraverso
la decisiva lettura che ne ha dato Lacan. Una scelta di campo che deriva proprio
dalla posizione filosofica che al soggetto o alla soggettività viene assegnata:
una posizione fondamentale, anche e addirittura fondativa, da parte della
filosofia dominante in Francia negli anni sessanta, una filosofia incapace,
secondo Foucault, di recepire una idea di soggetto diversa da quella, appunto
fenomenologica, di «donatore di senso» e perciò necessariamente sorda alle
istanze e alle questioni che allora provenivano da un certa attenzione a
Nietzsche (autore decisivo per Foucault) e più ancora dalla psicoanalisi.
Riporto ancora un brano da un’altra intervista, di qualche anno dopo,
intitolata «Strutturalismo e post-strutturalismo»:
“Si trattava, per la precisione,
del problema dell’inconscio – inconscio che non era certo compatibile con un’analisi
di tipo fenomenologico. E la miglior prova del fatto che non potesse venir
compreso all’interno della fenomenologia (almeno per come la concepivano i
francesi) è che Sartre o Merleau-Ponty – non parlo degli altri – hanno
instancabilmente tentato di ridurre quello che, secondo loro, era il
positivismo, o il meccanicismo, o la tendenza alla «reificazione», di Freud, e
ciò in nome dell’affermazione di un soggetto costituente. E quando, all’incirca
all’epoca in cui cominciavano a porsi i problemi del linguaggio, Lacan ha detto
che, dato il modo in cui l’inconscio funziona, per quanti sforzi si facessero,
non lo si sarebbe mai potuto ridurre agli effetti di donazione di senso di cui
è capace il soggetto fenomenologico, ha formulato così un problema del tutto
simmetrico rispetto a quello posto dai linguisti. In tal modo, il soggetto
fenomenologico veniva squalificato una seconda volta da parte della
psicoanalisi, dopo che era già accaduto ad opera della teoria linguistica.” (10)
E, per
precisare la sua posizione in questa ricostruzione molto sommaria ma
significativa di come stavano le cose in Francia negli anni sessanta, una
pagina dopo Foucault dichiara che il suo problema si era posto nei seguenti
termini:
“è in grado, un soggetto di tipo
fenomenologico, trans-storico, di rendere conto della storicità della ragione?
È su questo punto che la lettura di Nietzsche ha rappresentato, per me,
l’elemento di rottura: c’è una storia del soggetto, esattamente come c’è una
storia della ragione. […] Direi, dunque, che tutto ciò che è accaduto verso gli
anni Sessanta derivava probabilmente da una identica insoddisfazione nei
confronti della teoria fenomenologica del soggetto.” (11)
Mi
sembrava utile fare questa breve digressione o ricognizione «storica» per
mettere in chiaro alcuni elementi che stanno a sostegno della analisi che
Foucault conduce sul modo in cui la soggettività, il soggetto si è costruito,
attraverso tutta una serie di variazioni e di differenziazioni, nel mondo
antico e, anche, nelle epoche successive. E mi sembra del tutto plausibile,
dopo queste dichiarazioni di Foucault che ho ricuperato un po’ qua e un po’ là,
ritornare al corso sull’Ermeneutica del soggetto riportando un passaggio
che potrebbe tranquillamente stare a conclusione delle dichiarazioni che
abbiamo appena letto:
“Dovremmo evitare, pertanto, di
dar vita a una storia continua dello gnothi seauton, una storia che
avrebbe inoltre come inevitabile postulato, implicito o esplicito, una teoria generale
e universale del soggetto, mentre credo che dovremmo, invece, cominciare con
un’analitica delle forme della riflessività che costituiscono il soggetto come
tale. Insieme a tale analitica delle forme della riflessività, dovremo avviare
anche una storia delle pratiche che servono loro da supporto, per poter
attribuire tutto il suo significato – il suo significato variabile, storico, e
mai universale – al vecchio principio tradizionale del «conosci te stesso».” (12)
Mi sembra
che, a questo punto, sia persino superfluo, oltre che difficile, accentuare
ulteriormente l’importanza e il peso di questa mossa critica con la quale
Foucault affronta la questione della verità (o dei vari tipi di verità, o dei
«giochi di verità» come anche li chiama in altri testi (13)) in rapporto alla costituzione del soggetto e alla sua
posizione o funzione, in definitiva mai riconducibile a presupposto, a
fondamento. E ciò con tutte le verità o i gradi o le modulazioni di verità che
ne derivano. Sicuramente, se vogliamo attraversare un testo come L’ermeneutica
del soggetto (testo che, ovviamente, di attraversamenti ne consentirebbe
più di uno), se lo vogliamo attraversare per capire che tipo di operazione
critica Foucault ha in mente sia a riguardo del «soggetto» e delle sue
costruzioni (che sono dichiaratamente il suo tema) sia a riguardo della verità
(e soprattutto di quella verità che un soggetto certo di sé ha la possibilità
di «oggettivare», da cui ha la possibilità di separarsi perché oramai è certo
di sé più di qualsiasi verità possibile, che ne sta a fondamento e come tale
funge quasi da verità della verità), allora abbiamo sicuramente modo di vedere
quanto irrinunciabile sia la portata critica del suo lavoro nei confronti di
una soggettività che si pretende saldamente al centro e al fondo di ogni sapere
e probabilmente anche di ogni nozione di uomo. E ciò in quanto proprio il
lavoro di Foucault ci consente di ricuperare una configurazione del soggetto
attraverso la quale trapela costantemente «il suo significato variabile,
storico, e mai universale». Credo che, insieme con il pensiero di Nietzsche e
con la psicoanalisi, il lavoro di Foucault – il quale del resto della
psicoanalisi non trascura sempre l’importanza – per quanto riguarda la
possibilità di una ricognizione di cosa sia la questione del soggetto e della
soggettività, sia assolutamente indispensabile. E soprattutto quando, come
credo si possa dire del momento attuale, del presente, le forme di
soggettivazione o anche di assoggettamento sembrano moltiplicarsi e
differenziarsi, ed eludere insomma una possibilità di conoscenza teorica e
perciò inevitabilmente riduttiva. Ma credo anche, affermando questo, di non
dire niente di particolarmente inedito, dato che lo stesso Foucault era
estremamente attento alle forme di soggettivazione del presente.
Insomma,
a seguire la via indicata da Foucault, si trova che il soggetto non è soltanto
(e oramai più) pensabile come un elemento residuale di un gesto teorico, come
un dato che si colloca a fondamento di ogni sapere possibile e quindi anche in
una sorta di immunità, di autoesclusione, di esclusione di sé da qualsiasi
sapere critico; non è più quella sorta di deriva dogmatica – per quanto
riguarda la propria costituzione e collocazione in rapporto alla verità – che
avrebbe preso inizio proprio dagli esiti del «momento cartesiano» per giungere
fino alla (o a certa) fenomenologia. A seguire la via indicata da Foucault il
soggetto assume piuttosto e forse soprattutto la configurazione di un luogo,
sicuramente non originario, in cui saperi, norme, leggi, pratiche di
assoggettamento, politiche eccetera si incrociano e danno vita e forma a quella
che è una «condizione», una condizione che è certo anche configurabile al
presente, la nostra «condizione» in quanto appunto «condizionati», proprio
perché soggetti, soggetti la cui genealogia non può servirsi di saperi del
tutto trasparenti, autoreferenziali o definitivi.
E
tuttavia mi sento di fare ancora una osservazione, che non vuole assolutamente
intaccare o sminuire l’importanza di tutto ciò che abbiamo appena riconosciuto
a Foucault. Ed è una osservazione che riguarda un aspetto che, non soltanto nel
corso su L’ermeneutica del soggetto o in questo tipo di ricerche oppure
anche nelle dichiarazioni delle varie interviste, è come sotteso, questo
aspetto, al pensiero di Foucault e ai suoi gesti. Mi riferisco a quella che
forse è una impressione, qualcosa che si mostra solo a uno sguardo laterale,
forse parziale e interessato. Uno sguardo che, pur volgendosi nella direzione
indicata da Foucault, vuole tenere in considerazione quella che a mio parere ha
l’aria di una certa rapidità, una certa fretta, talvolta eccessivamente
sbrigativa. La rapidità con la quale – la si può avvertire tanto nelle sue ultime
ricerche quanto anche nel grande testo di esordio sulla follia – Foucault si
precipita a prendere le distanze da quello che potemmo, proprio con lui,
chiamare il «momento cartesiano». E la domanda che a Foucault andrebbe rivolta,
o che almeno in qualche occasione e, ripeto, lateralmente verrebbe voglia di
rivolgergli – in particolare tutte le volte che questa presa di distanza, oltre
a essere sbrigativa, sembra risuonare con toni alquanto negativi e quasi come
una specie di condanna – è una domanda che vorrebbe chiamare in causa
precisamente il luogo dal quale proviene lo stesso gesto critico di Foucault.
Verrebbe cioè da chiedere a Foucault se il luogo da cui lui rivolge lo sguardo
a quelli che sono gli oggetti delle sue indagini non sia forse esso stesso – in
certa misura e necessariamente – interno proprio a quel «momento cartesiano».
Se il suo sguardo non sia interno cioè a una sorta di strategia conoscitiva
riconducibile a un sapere oggettivante, a sua volta sostenuto da una dimensione
(non voglio dire «soggetto») costituente. Verrebbe in altri termini da
chiedergli se la strategia di verità del suo discorso, che gli consente di
riconoscere la dimensione del soggetto, di individuarla storicamente, che gli
consente di oggettivarla, circoscriverla e definirla nella sua portata insieme
storica e universale, nonché di mostrare tutti i suoi effetti e le sue derive
diciamo così «dogmatiche», non sia forse anch’essa implicata in ciò – la
soggettività del «momento cartesiano» appunto – di cui deve dare conto.
È davvero
pensabile, insomma, che il gesto critico con cui Foucault indaga il soggetto,
indaga la verità, indaga i rapporti mutevoli e i vari momenti di questi
rapporti, possa – e ciò proprio in quanto «sapere» – collocarsi esternamente a
quello che è il suo campo di indagine? Esternamente, anche, a una strategia di
verità, esternamente insomma a se stesso; collocarsi, in altre parole, a una
distanza di sicurezza da quella dimensione «costituente» che, in fondo a se
stessa, non può non incontrare una sorta di deriva «dogmatica»? Il fatto di
costituire a oggetto del proprio sguardo e del proprio sapere critico il
soggetto come luogo di intersezione eventuale di svariate dimensioni (delle
pratiche e delle teorie ecc.), al punto da metterne in luce la costituzione
storica non universale, non residuale, non irriducibile, non originaria e non
atemporale, non fenomenologico-cartesiana se vogliamo, è forse garanzia
sufficiente per riconoscere in quello stesso sguardo critico – come tale
necessariamente e inevitabilmente «costituente» – un momento privo di
soggettività «cartesianamente» o «fenomenologicamente» intesa? Lo sguardo di
Foucault non ha forse al proprio interno, come ogni sguardo, un presupposto
gnoseologico, conoscitivo? Non ha forse necessariamente, a proprio presupposto
e a proprio sostegno, un momento di soggettività che rimane necessariamente e
inevitabilmente esterno rispetto ai discorsi e alle descrizioni, non
intaccabile da quelle stesse strategie critiche che gli consentono, per altro
verso, di costituire e governare teoricamente gli oggetti della propria
indagine? Qual è, dove si situa, come si disloca e soprattutto da dove proviene
lo sguardo di Foucault nel momento in cui si rivolge a quel soggetto che si
trova storicamente costituito attraverso innumerevoli e svariate pratiche,
preso in molteplici «giochi di verità»? Non è forse un passaggio
indispensabile, inevitabile anche per il discorso di Foucault, una sorta di
condizione necessaria, anche se sicuramente non sufficiente, il passaggio attraverso
il «momento cartesiano»?
Non
voglio certo qui tentare una genealogia dello sguardo di Foucault, o una sorta
di metagenealogia della questione dei rapporti tra soggetto e verità. Quello su
cui, invece, vorrei cercare di fermare per un momento l’attenzione – e ciò non
contro ma proprio a partire da Foucault e grazie al suo averci messo in
condizione di distinguere diversi momenti e regimi di verità, nonché di effetti
di verità che attraversano il soggetto – ciò su cui forse non si dovrebbe
procedere più di tanto rapidamente, è la possibilità che – mi sembra – si trovi
implicata proprio dal «momento cartesiano» stesso di volgersi in certa misura
anche contro di sé. La capacità e la possibilità, cioè, di disarticolare la
propria compattezza, e di sostenere e reggere (in tutti i sensi
dell’espressione) uno sguardo come quello di Foucault. Il suo gesto critico,
storico e filosofico insieme, non proviene in fondo (anche e necessariamente)
da quello che potremmo definire forse come un riflettere sempre anche contro di
sé, una pratica e un agire conoscitivi che, pur in un movimento di ritorno a se
stessi e ai propri presupposti, si volgono nel medesimo tempo e lungo la
medesima direzione anche contro se stessi?
Sto
cercando insomma di mostrare che forse anche all’interno di quello che è
riconosciuto da Foucault – e magari anche da noi – come il soggetto della
conoscenza, il movimento soggettivo della certezza di sé su cui possono
fondarsi i saperi della ragione, forse, dicevo, anche all’interno di quel
«momento cartesiano» che per Foucault è dell’ordine della chiusura, o per lo
meno rappresenta il momento nel quale il soggetto acquisisce la possibilità di
raggiungere la verità al di fuori di (e al riparo da) qualsiasi modificazione
di sé, anche (e forse soprattutto) in quel momento è invece necessario che
qualcosa come una modificazione abbia luogo. Una modificazione che non è
dell’ordine della «cura di sé» e delle sue derivazioni ascetiche,
parresiastiche ecc., ma che tuttavia custodisce un tenore pratico – e sarei
quasi tentato di dire «etico» – proprio all’interno del momento conoscitivo. Ho
insomma l’impressione che se il sapere, se i saperi, quelli che inevitabilmente
si fondano in quello che continuiamo per comodità a chiamare «momento
cartesiano», non mantenessero al proprio interno la possibilità di modificarsi,
la possibilità di autointaccarsi, la possibilità di autosospendersi, la
possibilità di agire, riflessivamente, sullo stesso soggetto anche contro la
sua «chiusura» e la sua deriva dogmatica, ho l’impressione, dicevo, che non
sarebbe stato possibile e forse nemmeno concepibile quello sguardo che Foucault
dirige sulla soggettività. Non sarebbe stato, credo, possibile a Foucault
ricollocare la soggettività nella storia o nelle storie, osservarla nel suo costituirsi
come intreccio di pratiche, di discorsi, di investimenti, di «giochi di
verità»; non sarebbe stato possibile individuarla nella sua dimensione
eventuale, sia storica che etica, se il suo discorso e le sue strategie
conoscitive non avessero trovato la possibilità di utilizzare anche quel
«momento cartesiano», e di riceverne una sorta di ospitalità. Non è forse anche
da una soggettività che non può davvero fermarsi o chiudersi all’interno di sé
– ma che, proprio nel suo rapporto con la verità, ritrova la possibilità di
aprirsi anche contro se stessa – che provengono lo sguardo di Foucault e le sue
verità sul soggetto?
(1) M.
Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982)
(2001), Edizione stabilita da F. Gros, trad. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano
2003.
(2) Ivi, pp.
6-7.
(3) Ivi, p.
22.
(4) Sono precisazioni, queste, che Foucault non
pronuncia ma che risultano dagli appunti per la lezione, cfr. Ivi, pp. 22-23,
nota.
(5) «Sulla genealogia dell’etica: compendio di un work
in progress» (1983), in H.L. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel
Foucault (1983), trad. di vari, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 280.
(6) M.
Foucault, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 23.
(7) Ivi, pp.
22-23.
(8) Ivi, p.
25.
(9) Id., Il
discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, a cura di M. Bertani,
Einaudi, Torino 2001, p. 234.
(10) Ivi, p.
306.
(11) Ivi, pp.
307-308.
(12) Id., L’ermeneutica
del soggetto, cit., p. 413.
(13) Per la
nozione di «giochi di verità» cfr. soprattutto Id., Discorso e verità nella
Grecia antica (1985), ed. italiana a cura di A. Galeotti, Donzelli, Roma
1996 e Id., Tecnologie del sé (1988), trad. di S. Marchignoli, Bollati
Boringhieri, Torino 1992.