http://www.units.it/etica/2005_1/PELLEGRINO.htm
Centro di ricerca e
studi sui diritti umani
Mondo, sii, e buono;
esisti buonamente
(A.
Zanzotto, Al mondo, in Poesie (1938-1986), Mondadori, Milano 1993, p. 167)
Abstract
At least in the past fifty years, supervenience has been an ubiquitous
philosophical concept – employed from metaphysics to ethics. The paper focuses
on uses of supervenience in the field of ethics. After a brief survey of the
classical debate between realists and anti-realists on supervenience (main
participants: Hare, Blackburn, Brink and Railton), an account of the view of
language involved in supervenience is presented. Relying on such an account, a
turning point is placed in the Nineties, when supervenience was either weakened
(in authors like Frank Jackson and Russ Shafer-Landau) or definitely discarded
(by J. Dancy and J. Griffin). Both moves lead to a new face taken by normative
theory, which ceases to revolve around universal principles – or at least it
ceases to build universal principles in the traditional way, by generalizing on
similar cases. |
1. Se si dice che Achille è coraggioso, perché non
arretra mai di fronte al pericolo, anche quando si trova in una condizione
impari, si deve dire lo stesso di un individuo – reale o ipotetico – che sia
esattamente simile al condottiero greco in tutte le caratteristiche non morali
rilevanti per determinare il coraggio di Achille: (1)
in altre parole, lo si deve dire anche di un altro condottiero che non arretri
mai di fronte al pericolo, ecc. Nella metaetica analitica della seconda metà
dello scorso secolo, questo dettame di coerenza viene definito «sopravvenienza».(2)
Spesso i termini della filosofia derivano dal
linguaggio quotidiano. «Sopravvenienza», invece, nasce già da subito come
termine tecnico.(3) Esso indica per
l’appunto un vincolo concettuale sull’uso coerente dei termini del linguaggio –
del linguaggio morale, nel nostro caso.(4) Se
un certo termine predicativo morale – ad es. «buono» o «coraggioso» – viene
usato per indicare le caratteristiche morali di un oggetto che ha anche
caratteristiche non morali, oggetti esattamente simili (almeno per le loro
caratteristiche non morali) debbono essere considerati in possesso della
medesima caratteristica morale.
La
nozione di «sopravvenienza» è servita ad articolare una serie di intuizioni
condivise sull’uso e il funzionamento del linguaggio in generale, e del
linguaggio morale ordinario in particolare. Alcune di queste intuizioni
compongono direttamente la tesi di sopravvenienza. Altre ne costituiscono le
premesse, o a volte il retroterra. Una esposizione di questa visione intuitiva
del linguaggio morale, e una definizione analitica della tesi di
sopravvenienza, verranno presentate nel par. I.
Dagli anni Cinquanta del secolo scorso (e in
particolare negli anni Settanta e Ottanta), c’è stato un dibattito ininterrotto
sulla sopravvenienza.(5) La
discussione si è concentrata soprattutto su due questioni: a) qual è la
migliore concezione di sopravvenienza e b) qual è la migliore analisi filosofica
del linguaggio morale, alla luce della migliore concezione di sopravvenienza.
Opinione comune è stata che la migliore concezione di sopravvenienza sia quella
che rende conto nella maniera più fedele delle intuizioni sulla natura e il
funzionamento del linguaggio morale. Una mossa altrettanto comune è stata
quella di muovere a certe teorie metaetiche – particolarmente a quelle realiste
– l’obiezione di non riuscire a incorporare la nozione di sopravvenienza, e
dunque di fallire nel rappresentare adeguatamente la nostra visione condivisa
del linguaggio morale.(6)
La sopravvenienza si può ridurre ad un mero vincolo
concettuale che regola l’uso dei termini del linguaggio morale in relazione a
termini del linguaggio non morale. Ma, così formulato, il vincolo necessita di
ulteriori giustificazioni. Per questo, il compito principale delle teorie della
sopravvenienza è stato quello di spiegare le ragioni e il senso della tesi di
sopravvenienza.(7) Risultando compatibile
con spiegazioni differenti, la sopravvenienza è presente in teorie metaetiche
anche molto diverse fra loro.
Il requisito che impone di usare il medesimo
termine morale per individui o oggetti che condividano le medesime caratteristiche
non morali si può spiegare facendo appello all’idea che il linguaggio morale
non sia che una descrizione di certe proprietà non morali delle cose: dunque, a
proprietà simili deve corrispondere un termine descrittivo simile.(8)
Oppure si può ritenere che il linguaggio morale
esprima impegni dei parlanti che debbono essere resi coerenti fra loro, anche
in riferimento agli oggetti cui si applicano: quindi, a oggetti simili nelle
loro caratteristiche non morali (9) si
applicano impegni simili.(10)
Infine, si può pensare che il linguaggio morale
faccia riferimento a certe proprietà specificamente morali, le quali sono
legate da una qualche relazione con le proprietà non morali degli oggetti: per
cui, a proprietà non morali simili saranno legate proprietà morali simili, che
dovranno essere denotate dal medesimo termine del linguaggio morale.(11)
Queste tre visioni, come vedremo, saranno tutte
articolate nel dibattito metaetico sulla sopravvenienza, dagli anni Cinquanta
sino alla fine degli anni Novanta (questo dibattito verrà presentato in maniera
più dettagliata nei paragrafi II-IV). Esse sono accomunate da un presupposto
comune: la fiducia nella possibilità di distinguere fra linguaggio – o
proprietà – morali e linguaggio – o proprietà – non morali. L’idea stessa di
sopravvenienza, e le sue funzioni teoriche, si basano sul presupposto che una
distinzione del genere sia possibile, fertile e sensata. Inoltre, la
distinzione dev’essere tale da consentire l’indipendenza del livello morale da
quello non morale. Il linguaggio e le proprietà morali debbono intrattenere
delle relazioni, ma non debbono poter essere ridotti, né ancorati in maniera metafisicamente
necessaria, al livello del linguaggio o delle proprietà non morali.(12) Si deve trattare, peraltro, di relazioni
che abbiano una struttura riconoscibile, di cui si possa fornire uno schema
formale. Non è sufficiente che ci sia una qualsiasi relazione fra predicati – o
proprietà – morali e non morali: si deve trattare di una relazione stabile e
dotata di una forma descrivibile (altrimenti la sopravvenienza diviene una
relazione banale o vuota).(13)
Parlare del coraggio di Achille necessariamente
significa anche occuparsi delle caratteristiche non morali dell’eroe greco.(14) Ma non si può ridurre a questo, o meglio
non è qualsiasi modo di parlarne: chi impara che cos’è il coraggio di Achille,
e chi ne fa oggetto del proprio apprezzamento, fa qualcosa di differente
rispetto a chi descriva, magari misurandole, le capacità fisiche o mentali del
celebre condottiero.
Fino a una certa
epoca, questa visione del linguaggio morale, e della sua specificità, è stata
l’obiettivo essenziale di chi proponeva teorie sulla sopravvenienza. In questo
senso, la sopravvenienza presuppone una certa visione della realtà in generale,
e della realtà morale in particolare – una visione che ne costituisce la
premessa necessaria. Chi mettesse in dubbio tale premessa, prima o poi dovrebbe
rinunciare a far uso della nozione stessa di sopravvenienza come intesa in
questo dibattito.
2. Questo è quello che è accaduto negli anni
Novanta. La discussione ha subito una svolta drastica: alcuni autori hanno
abbandonato del tutto la nozione di sopravvenienza, ribellandosi all’idea che
si tratti di un requisito necessario per una teoria metaetica.(15) Altri, invece, hanno abbracciato
concezioni della sopravvenienza che escludono esplicitamente alcune delle
intuizioni sull’uso del linguaggio tradizionalmente articolate tramite l’uso di
tale nozione.
Entrambe le parti – negatori della sopravvenienza e
sostenitori di visioni ristrette di essa – sono accomunate da dubbi abbastanza
pronunciati sulla maniera tradizionale di distinguere fra linguaggio, o
proprietà, morali e non morali: dubbi che a volte si spingono fino a negare la
possibilità di istituire la distinzione, a volte invece si fermano all’idea che
non sia possibile tracciare una distinzione abbastanza precisa – o che fra i
due livelli non ci siano relazioni abbastanza strutturate perché si possa
parlare non tautologicamente di sopravvenienza.(16)
Anticipando: Frank Jackson sosterrà che ci sono
distinzioni concettuali fra predicati morali e non morali, ma alla fin fine, a
livello metafisico globale, tutto si riduce alle proprietà non morali (che
Jackson definisce «descrittive»).(17)
Russ Shafer-Landau negherà l’idea che la sopravvenienza sia innanzitutto un
vincolo concettuale: egli sosterrà che le proprietà morali sono costituite in
maniera metafisicamente necessaria da proprietà non morali (anche se non sono
riducibili a queste ultime) e che questa forma di costituzione vmetafisica è
prioritaria rispetto al vincolo concettuale rappresentato dalla sopravvenienza.
(Queste due versioni di realismo vengono discusse nel par. III.)
Jonathan Dancy, invece, negherà che sia possibile
alcuna relazione strutturata e fissa tra il livello delle proprietà morali e
quello delle proprietà non morali. Pur ammettendo che il linguaggio morale in
qualche modo verta sulle caratteristiche non morali dei propri oggetti, egli
ritiene impossibile determinare una volta per tutte l’insieme di proprietà non
morali che costituiscono l’oggetto cui si applica un certo predicato morale. Di
conseguenza, il requisito di coerenza rappresentato dalla sopravvenienza è o
impossibile – non ci sono situazioni simili in cui usare il medesimo predicato
– o banale – ogni situazione è uguale a se stessa, e si userà il medesimo
predicato solo se si ripeterà (cosa del tutto improbabile) esattamente la
stessa situazione.
Secondo
James Griffin, invece, anche se è vero che ci viene richiesto di spiegare l’uso
che facciamo dei predicati morali («perché dici che Achille è coraggioso?»), e
che per farlo menzioniamo le caratteristiche degli oggetti di predicazione
(«perché è un condottiero che non arretra di fronte al pericolo»), queste
spiegazioni vengono condotte anch’esse impiegando il linguaggio morale, dal
quale – per così dire – non si esce mai. (Dancy e Griffin sono discussi nel
par. IV)
Fino agli anni Novanta, quindi, il dibattito
presenta una rappresentazione unitaria e condivisa della realtà morale, come
fenomeno sostanzialmente specifico e autonomo rispetto alla realtà non morale,
ma non distaccato da essa. Molte delle proposte di quegli anni avevano
l’obiettivo di rendere conto del linguaggio e della realtà morale all’interno
di una prospettiva più ampia, entro la quale il pensiero morale appariva come
parte del pensiero e dell’azione umani in generale, di cui si può dare una
spiegazione in termini naturalistici, ma con la larghezza di vedute necessaria
a non schiacciarli su elementi necessariamente fisici o materiali.
Negli anni Settanta e Ottanta, realisti e
antirealisti sono uniti da una comune cornice naturalista, caratterizzata
dall’attenzione alle specificità del pensiero e del linguaggio morale e dal
tentativo di inserire questi ultimi in una teoria generale della natura umana e
della natura del mondo.(18)
Negli anni Novanta, invece, rinasce da un lato la contrapposizione fra forme di
realismo metafisico antinaturalista (19) e
tentativi di riduzione fiscalista,(20)
mentre la proposta di un naturalismo della seconda natura dovuta a John
McDowell (21) viene sempre più
esplorata, dando vita a visioni della realtà morale come regno autonomo e
distinto rispetto agli altri ambiti della natura.(22) A questo si accompagna l’abbandono della sopravvenienza, o la
drastica riduzione del suo ruolo. La fine della sopravvenienza come
classicamente intesa, dunque, giunge insieme ad un mutamento della visione
della realtà morale.
Inoltre, abbandonando la visione tradizionale del
linguaggio morale e delle sue relazioni con il linguaggio in generale, negli
anni Novanta si scardina anche la tradizionale rappresentazione della teoria
etica normativa come indagine articolata intorno alla ricerca di principi
universali. Nel dibattito precedente, la sopravvenienza serviva ad articolare
una visione che – nonostante le divisioni fra realisti e antirealisti sulla
semantica e sull’ontologia – condivideva l’idea per cui il linguaggio morale
ordinario permette l’elaborazione di una teoria etica normativa che produce
principi di condotta universali.
Gli anni Novanta, invece, mostrano un lento
percorso verso una nuova visione del linguaggio morale, che sembra escludere la
possibilità stessa di una teoria etica normativa costruita su principi
universali. Si tratta del risultato di un’evoluzione lenta: il cosiddetto
particolarismo è un tratto distintivo del pensiero di John McDowell, che ha il
suo apice negli anni Ottanta e non rifiuta del tutto l’idea di sopravvenienza.(23)
Alcuni degli autori che operano negli anni Novanta e
che discuteremo (nello specifico, Frank Jackson e Russ Shafer-Landau) non
negano la possibilità di una teoria etica universalista, ma rifiutano solo la
maniera tradizionale di derivare principi universali dalla sopravvenienza
intesa come vincolo concettuale. James Griffin, pur rifiutando del tutto la
nozione di «sopravvenienza», conferma il suo impegno nei confronti di una
teoria universalista. È solo Jonathan Dancy che, depotenziando del tutto l’idea
di «sopravvenienza», porta alle estreme conseguenze il particolarismo di
McDowell e fornisce una metaetica che rende impossibile un’etica articolata
attorno a principi universali. Ma – e questa è l’ipotesi che muove la nostra
ricostruzione complessiva – egli può arrivare a questa conclusione sulla scorta
del dibattito precedente, sfruttando ai suoi fini molte delle obiezioni mosse
alla tradizionale teoria della sopravvenienza, che Hare e i suoi epigoni
mettevano esplicitamente al servizio di una teoria etica normativa
universalista.(24)
In particolare, è la negazione di una distinzione
strutturata e precisa fra caratteristiche morali e non morali delle cose che
costringe ad abbandonare il progetto di una teoria etica normativa costruita
intorno a principi universali, intesi come specificazione di quelle
caratteristiche non morali delle cose che, una volta e per tutte, hanno
rilevanza morale. Nella versione fornitane da Dancy, il particolarismo sostiene
che non è possibile dire che il piacere, ad esempio, sia sempre una cosa buona.
Le molte eccezioni a questo principio non sono, come si sarebbe portati a
pensare, eccezioni a una rilevanza generalizzata del piacere. Piuttosto, esse
mostrano che la rilevanza morale del piacere, al pari di quella di molte altre
circostanze e aspetti delle situazioni, fluttua e varia inevitabilmente a
seconda dei contesti, e non può essere generalizzata.
Lo stesso predicato, ad es. «buono», che
viene usato per riferirsi alla rilevanza morale di qualcosa – ad es. il piacere
– in una certa situazione, in contesti anche apparentemente simili può con
piena coerenza venire usato per riferirsi a qualcos’altro, a una caratteristica
anche completamente differente. A seconda del contesto, buono è il piacere, ma
buono può essere anche il dolore (si pensi alla pena meritata inflitta a un
feroce assassino, o al sacrificio compiuto per qualcosa cui si tiene molto, al
sacrificio presente per un maggiore piacere futuro).
Questa oscillazione dell’uso del medesimo predicato
morale non è affatto incoerente, ma esprime la nostra percezione della
specificità morale di situazioni anche apparentemente simili. Pretendere un uso
rigidamente coerente dei predicati morali, e codificarlo in una teoria sulle
relazioni fra predicati morali e predicati non morali, significa perdere di
vista la realtà autentica in cui il linguaggio morale viene quotidianamente
usato.(25)
3. La nozione di «sopravvenienza» articola una
serie di intuizioni condivise sulla natura, l’uso e il funzionamento del nostro
linguaggio morale quotidiano. Se diciamo che Ulisse è astuto, un individuo del
tutto simile ad Ulisse dovrà essere dichiarato anch’egli astuto. Questo vincolo
di coerenza non deriva solo dalla richiesta di non contraddirsi: esso si basa
sull’idea che chi dica che Ulisse è astuto, se richiesto di spiegarsi o di
giustificare la sua valutazione, farà riferimento a caratteristiche di Ulisse
che costituiscono la sua astuzia – come il suo comportamento nelle avversità,
le sue disposizioni, la sua maniera di parlare. Allora, in un certo senso, tali
caratteristiche – che spesso si possono descrivere senza utilizzare termini
valutativamente carichi – possono costituire (una parte de)l significato del
termine «astuto» in quanto applicato ad Ulisse. E, ovviamente, chi assuma che
un certo insieme di caratteristiche sia ciò a cui un certo termine fa
riferimento, dovrebbe usare il termine tutte le volte che si trova di fronte a
tale insieme. E questo accadrà ovviamente quando ci si trovi di fronte ad un
individuo del tutto simile ad Ulisse.
Se chi parla non si comportasse così, verrebbe meno
un meccanismo essenziale del linguaggio e della sua comprensione, vale a dire
il fatto che con le nostre parole facciamo riferimento a certi insiemi di
caratteristiche del mondo – esterno e interno a noi – e questo avviene in
maniera stabile e regolare. La stessa parola serve per riferirsi alle stesse
cose.
Si può obiettare che non usiamo i predicati morali
solo per fare riferimento alle cose, per nominarle: impieghiamo il linguaggio
morale anche (o soprattutto) per esprimere i nostri atteggiamenti. Ma si tratta
pur sempre di atteggiamenti rivolti al mondo e non interni al linguaggio
medesimo.(26) E dunque quel che è
stato oggetto di un certo atteggiamento lo sarà stato in virtù di certe sue
caratteristiche – se lodiamo Achille in quanto coraggioso, lo facciamo perché
si comporta in un certo modo in battaglia, o meglio lodiamo proprio tale
comportamento, e magari il carattere che ne è la fonte.(27) E, quindi, quel che condivide le
caratteristiche che suscitano un certo atteggiamento deve essere oggetto del
medesimo atteggiamento.
4. La nozione di «sopravvenienza», quindi, articola una precisa visione del linguaggio morale, da cui derivano tre differenti conseguenze, corrispondenti a tre principi di funzionamento del linguaggio morale.
Il linguaggio morale è specifico: ci sono termini specificamente etici e c’è un uso
specificamente etico del linguaggio. Se il linguaggio morale non avesse una
propria specificità, non si porrebbe neanche il problema del rapporto fra esso
e il linguaggio non morale. O, meglio, se il linguaggio morale fosse autonomo e
specifico soltanto in maniera apparente, e ci fosse un argomento inoppugnabile
per mostrare che esso si riduce al linguaggio non morale, non si darebbe alcuna
tesi significativa di sopravvenienza. Se il linguaggio morale non fosse che un
insieme di sinonimi esatti di termini appartenenti ad un altro linguaggio non
ci sarebbero fra i due linguaggi rapporti più interessanti che una riduzione
analitica, in virtù di definizioni lessicali.
D’altra parte, anche nel caso in cui, oltre che
specifico, il linguaggio morale fosse anche indipendente non si porrebbero
i problemi di coerenza risolti dalla sopravvenienza. Infatti, se il linguaggio
morale fosse del tutto indipendente da altri linguaggi, questo vorrebbe dire
che al suo interno ogni singolo termine verrebbe specificato facendo
riferimento ad altri termini appartenenti al linguaggio morale stesso. Al
linguaggio morale si potrebbero ancora applicare requisiti di coerenza,
naturalmente – requisiti che impongono di usare lo stesso predicato per fare
riferimento al medesimo insieme di caratteristiche. Ma, nel caso di un
linguaggio del tutto indipendente, di tali caratteristiche non si potrebbe dare
nessuna descrizione differente da quella che ne dà il predicato medesimo, o
differente dalle descrizioni ottenibili ricorrendo a termini esattamente
sinonimi: quindi non si tratterebbe di un vincolo di coerenza che regola il
rapporto fra uso del linguaggio morale e livello non morale.
Un requisito di mera coerenza si può applicare, ad
es., al linguaggio indipendente della geometria.(28) Se si definisce «esagonale» una figura con sei angoli, allora
si dovrebbero sempre chiamare «esagonali» tutte le figure con sei angoli. Ma
questo è diverso dal dire che, se si chiama «coraggioso» un condottiero greco
che non arretra di fronte al pericolo, si dovrebbero chiamare «coraggiosi»
tutti i condottieri greci che si comportano in maniera simile. Nel secondo
caso, «coraggioso», al contrario di «esagonale», è stato specificato facendo
riferimento a una descrizione che si pretende non faccia impiego di predicati
morali e si ponga dunque al di fuori dal linguaggio morale. Quest’ultimo caso,
implicando il rapporto fra due linguaggi (o, secondo alcuni, fra due ambiti
ontologici) specifici e differenti, pone il problema di ipotizzare delle
relazioni coerenti fra due ordini di predicati. Si tratta sempre di coerenza,
ma non è la coerenza richiesta per assicurare il mero uso coerente dei termini
all’interno del medesimo ordine di linguaggio. In questo caso, la coerenza
regola le relazioni fra due ordini specifici e differenti di linguaggio. Solo
questa struttura dà vita ad una tesi di sopravvenienza.
Al contrario del linguaggio della geometria, il
linguaggio morale, oltre ad essere specifico (cioè irriducibile al linguaggio
non morale), è anche non indipendente,(29) nel senso che non può essere articolato completamente facendo
ricorso soltanto alle proprie risorse. Il concetto di «angolo» è del tutto
interno al linguaggio della geometria. Non è così per il concetto di «condottiero
che non arretra di fronte al nemico in battaglia». Quindi «esagonale» può
essere spiegato senza uscire dal linguaggio di cui esso stesso fa parte,(30) mentre «coraggioso» viene spiegato
facendo riferimento a caratterizzazioni espresse con un linguaggio non morale.
Il linguaggio morale dunque, in quanto specifico ma
non indipendente, si applica al suo esterno, per così dire, ma senza ridursi ad
un linguaggio diverso. Dire che Ulisse è astuto significa dire che egli è uno
di quegli uomini che sa trarsi d’impaccio nelle avversità. Ma dire che Ulisse è
un individuo capace di trarsi d’impaccio nelle avversità non necessariamente
significa dire che è astuto. Potrebbe servire per dire che è malizioso, o
furbastro.
Questa peculiarità del linguaggio morale, vale a
dire la sua specificità (non lo si può ridurre ad altri linguaggi) e la sua non
indipendenza (in qualche maniera altri linguaggi sono necessari per farne uso),
ha dato filo da torcere agli autori che hanno riflettuto sulla sopravvenienza.
Secondo molti, d’altronde, il pregio di una nozione efficace di sopravvenienza
è proprio fornire uno schema che consenta di avere una relazione di non
indipendenza, ma non di riduzione, fra due ordini di predicati, o di
proprietà.(31) È questo che rende la
nozione particolarmente adatta ad esprimere la nostra concezione intuitiva del
linguaggio morale.
Da questa visione conseguono tre condizioni
di funzionamento del linguaggio morale:
a. criteri di applicazione: i linguaggi specifici ma indipendenti hanno
criteri interni che ne fissano le condizioni di applicazione. Chi padroneggi il
concetto di «angolo», sa anche che il predicato «esagonale» non si può
applicare alla nota musicale la che viene prodotta da un diapason che vibra.
Questo non vuol dire che il la del diapason non è esagonale, nel senso che il
predicato «esagonale» è falso del la, come sarebbe il caso se esso venisse
applicato ad un triangolo, o alla piramide di Cheope. Il termine semplicemente
non è applicabile alla nota musicale la: non è né vero, né falso.
Lo stesso accade nel caso di linguaggi non
specifici ma dipendenti. Nell’ipotesi, ad esempio, che il linguaggio
della geologia sia assolutamente riducibile a quello della fisica, chi padroneggia
il concetto di «roccia sedimentaria» sa anche che il predicato «roccioso» non
si può applicare all’idrogeno allo stato gassoso. Come nel caso precedente, non
è che il predicato sia falso se applicato ad un insieme di particelle di
idrogeno. Esso non è applicabile, semplicemente non è né vero, né falso – è
incongruo.
Nel caso del linguaggio morale, invece, da un
lato per spiegare l’uso del predicato «coraggioso» si può usare una
specificazione esterna al linguaggio morale («condottiero che non arretra di
fronte al pericolo»), ma dall’altro è possibile dubitare che a tale
specificazione si attagli il solo termine «coraggioso»: si può pensare che
siano adeguati termini di senso opposto («pavido»), o semplicemente diverso
(«spavaldo»).
Inoltre, forse ci sono limiti di applicabilità dei
termini morali (come accade per i termini appartenenti ad altri linguaggi), ma
essi sono certamente più larghi e sfumati, e non sembrano derivare da criteri
relativi solo alle mere definizioni. Si può dire che coraggiosa è una persona,
ma anche un’azione: ma forse si può anche dire che un libro, una poesia, e
persino un’immagine o una sinfonia sono coraggiosi. E, se si sente che c’è
qualcosa che non va in questi usi, risulta difficile spiegarlo facendo appello
solo alla definizione del termine o agli altri usi di esso – come avverrebbe
invece nel caso di chi si ostinasse a dire che la nota la del diapason è
esagonale.
Si è pensato che la sopravvenienza possa rendere
conto di queste implicazioni della specificità e della non indipendenza del
linguaggio morale. Essa è stata spesso vista come uno schema di relazione
asimmetrica: i predicati morali sopravvengono su quelli non morali, ma il
medesimo predicato morale può sopravvenire su differenti insiemi di predicati
morali (la medesima proprietà morale può essere realizzata da molti insiemi di
proprietà non morali),(32) a
patto che, se un certo insieme di predicati, o proprietà non morali, sono la
base su cui sopravviene un certo predicato morale, alla medesima base si
attribuisca sempre il medesimo predicato sopravveniente.
b. disaccordo morale e disaccordo verbale: i casi di divergenza sull’applicazione di un
termine etico – ad esempio, quando si discuta se un condottiero che non arretra
di fronte al pericolo sia coraggioso o spavaldo – non sembrerebbero
rappresentare un disaccordo meramente verbale, bensì un disaccordo più
sostanziale, un vero e proprio disaccordo morale. Di chi sostenga che il la del
diapason è esagonale si può semplicemente dire che sbaglia nell’uso del
termine, o che lo usa con un significato differente. Non così per chi sostenga
che Achille non è coraggioso, ma spavaldo. In quest’ultimo caso, chi è in
disaccordo può sapere che «coraggioso» significa «condottiero greco che non
arretra di fronte al pericolo».(33) E
tuttavia può dubitare della sensatezza di quest’uso di «coraggioso». Il
disaccordo riguarda non l’applicazione, ma i criteri di applicazione del
termine: il problema non è se «coraggioso» significhi quello che si crede
significhi, ma che cosa dovrebbe significare – che cosa dovremmo qualificare
usando il termine «coraggioso».(34)
Una posizione secondo cui il linguaggio morale si
riduce assolutamente al linguaggio non morale, oppure secondo cui è
assolutamente indipendente e irriducibile, implicherebbe che i casi precedenti
costituiscano soltanto una divergenza verbale, sull’applicazione del termine,
più che sui criteri di applicazione.
La sopravvenienza dovrebbe rendere conto anche di
questa peculiare forma del disaccordo espresso con usi difformi del linguaggio
morale. La critica più diffusa nel dibattito che prenderemo in esame è stata di
non riuscire a rendere conto della valenza peculiare del disaccordo morale, e
di non riuscirci per errori nella concezione di sopravvenienza adottata.(35)
c. requisiti
per la comprensione e l’apprendimento del linguaggio morale: il linguaggio morale è un linguaggio, dopo
tutto: e condizione essenziale perché si dia un linguaggio è che esso (o i
termini e le espressioni che lo compongono)(36) possano essere appresi e usati in maniera regolare e
riconoscibile.
Né la specificità, né la non indipendenza costituiscono
ostacoli insormontabili che impediscono l’apprendimento e l’uso regolare del
linguaggio morale: dopo tutto, apprendiamo e usiamo linguaggi altamente
specifici (come la geometria) e altamente dipendenti (come la geologia). Il
problema deriva dall’unione delle due caratteristiche, e dalla natura peculiare
dei criteri tipici di applicazione del linguaggio morale. Dal momento che si
possono mettere in questione non solo le singole applicazioni, ma anche i
criteri di applicazione del linguaggio morale, e che tali criteri non sono
analitici, ci possono essere usi sistematicamente difformi – ma non
incoerenti – del linguaggio morale. Il neofita può vedere due persone che
chiamano il comportamento di Achille l’uno coraggioso, l’altro spavaldo. Come
può rendersi conto di trovarsi di fronte ad un uso autentico di un linguaggio e
come può capire quali sono le caratteristiche di Achille prese in
considerazione?
Il vincolo di coerenza rappresentato dalla
sopravvenienza dovrebbe assicurare un mezzo per risolvere questi problemi.
Innanzitutto, la sopravvenienza assicura che la stessa persona chiamerà sempre
coraggioso lo stesso tipo di persona. Quindi l’osservatore esterno capirà che
si tratta di un uso regolare. Inoltre, l’osservatore ben presto si accorgerà che,
almeno per la persona osservata, sono un certo tipo di caratteristiche – che
accomunano persone anche diverse per altri aspetti – a venire lodate o messe in
rilievo usando il termine «coraggioso». A questo punto egli apprenderà a che
cosa il termine faccia riferimento – anche se per apprenderne il senso dovrà
anche comprendere il modo di usare il termine (e per questo la sopravvenienza
potrebbe non essere sufficiente). Ovviamente, il neofita si accorgerà anche che
per altre persone sono altre caratteristiche ad essere oggetto
dell’apprezzamento espresso dal termine «coraggioso». Ma magari ci sono anche
delle caratteristiche comuni, fra gli usi di varie persone, e queste potrebbero
costituire un nucleo ristretto e comune di caratteristiche, le quali risultano
invariabilmente oggetto del(l’apprezzamento espresso dal) termine in questione.
5. Alla luce di questa visione del linguaggio
morale, la nozione di sopravvenienza si può scomporre in tre parti:
i. sopravvenienza:
i predicati morali sono connessi a quelli non morali tramite una relazione
di variazione parallela (di co-varianza). Di conseguenza,
ii. vincolo
di coerenza sull’uso dei termini morali: applicare un certo predicato morale a
qualcosa impegna logicamente ad applicare il medesimo predicato ad altri
oggetti simili in maniera rilevante (o indiscernibili);
iii. principio
di giustificazione dell’incoerenza: l’applicazione incoerente del medesimo
predicato etico si può giustificare solo menzionando delle differenze di natura
non etica. Un cambiamento nei predicati applicabili ad un certo oggetto deve
dipendere da un mutamento delle qualità non morali dell’oggetto.
Così
definita, la nozione di sopravvenienza fornisce un criterio di competenza
nell’uso del linguaggio morale: chi trasgredisca ai vincoli della
sopravvenienza, usa un linguaggio diverso da quello morale, o non usa affatto
alcun linguaggio.(37)
II.
Preistoria e storia della sopravvenienza: contro il realismo?
6. Nessuna delle tre tesi in cui la sopravvenienza
si articola, da sola, è sufficiente ad esprimere la visione del linguaggio che
sta dietro alla nozione di sopravvenienza. Una cosiddetta preistoria della
sopravvenienza nella filosofia morale prima del Novecento – e prima degli anni
Cinquanta – è implausibile, perché prima di allora sicuramente molti autori
hanno avanzato nell’una o nell’altra forma alcune delle tre tesi di
sopravvenienza, ma nessuno le ha sostenute tutte e tre.(38)
La sopravvenienza nasce quindi nel 1952, ne Il
linguaggio della morale di Hare.(39)
Egli è il filosofo che per primo, e con maggiore precisione, ha espresso la
visione del linguaggio che, secondo la nostra interpretazione, sta dietro alla
sopravvenienza. Hare è anche l’obiettivo polemico di molti autori che rifiutano
questo modello della sopravvenienza.(40)
Nella
metaetica di Hare la sopravvenienza è uno dei passaggi argomentativi che
conducono all’universalizzazione. La sopravvenienza è un vincolo
all’applicazione coerente di predicati che consente di rendere conto della
regola di applicazione di tali predicati: è per questo che essa assicura,
contemporaneamente, l’universalizzabilità, ma anche la stabilità e la regolarità
d’uso del linguaggio.(41)
Se qualsiasi condottiero
greco che non arretri di fronte al pericolo è coraggioso, questo vuol dire che
abbiamo universalizzato il significato di «coraggioso» estendendolo a tutti i
casi simili, a tutti i casi di condottieri greci che non arretrano di fronte al
pericolo. È per questo che chi vuole rifiutare l’universalizzazione – e la
possibilità di generalizzare estendendo l’uso di certi predicati e principi
etici a casi simili – rifiuta o depotenzia la sopravvenienza.
Hare arriva alla sopravvenienza partendo dall’idea
che il linguaggio morale condivida con il linguaggio non morale la presenza di
un significato descrittivo.(42) Proprio questo tratto comune permette di
rendere universalizzabile il linguaggio morale:(43) i giudizi morali «sono universalizzabili esattamente nello
stesso modo in cui lo sono i giudizi descrittivi, e cioè in conseguenza del
fatto che tanto le espressioni morali quanto quelle descrittive hanno
significato descrittivo; ma nel caso dei giudizi morali le regole universali
che determinano questo significato descrittivo non sono semplici regole di
significato, ma veri e propri principi morali».(44)
La sopravvenienza, in altri termini, permette di
trasportare l’universalizzabilità dai giudizi descrittivi a quelli morali.
Proprio perché c’è un ambito descrittivo d’applicazione anche nel caso del
linguaggio morale, si può procedere, come nel linguaggio non morale, andando
alla ricerca di una regola d’applicazione che valga nei casi simili. Ci deve
essere una differenza (non etica) per rendere conto delle differenze
nell’ascrizione di predicati etici a due cose rilevantemente simili – e tale
differenza deve esserci anche ove non la si possa indicare.(45)
Ma non bisogna commettere l’errore del
definizionismo, avverte Hare: una volta scoperta la sopravvenienza come vincolo
di coerenza alla predicazione morale, non bisogna presumere che esista un
insieme di caratteristiche non morali delle cose «il quale implichi che una
cosa è buona»,(46) rendendo così
impossibile l’uso del termine come mezzo per comunicare l’atteggiamento
valutativo o di lode tipico dell’uso di certe parole, atteggiamento che è un
uso linguistico differente dal definire.(47)
Il linguaggio morale ha sì significato descrittivo,
ma ha anche e soprattutto significato valutativo,(48) secondo Hare. E quest’ultimo è il significato costante dei
termini etici, laddove quello descrittivo può variare ad libitum, senza
essere vincolato dal significato valutativo. È necessario che ci sia sempre un
rapporto fra i due significati, ma non è necessario che si tratti di un
rapporto di determinazione: «la carica valutativa e quella descrittiva […]
variano indipendentemente l’una dall’altra».(49)
I principi morali non sono che le regole universali
che fissano i significati descrittivi dei termini valutativi. Adottare un
principio significa identificare caratteristiche delle cose che hanno rilevanza
morale. È il principio morale che si adotta a selezionare le caratteristiche
moralmente rilevanti del mondo, e non viceversa: credere che il processo vada
nel verso contrario è l’errore del descrittivista.(50)
E ciò in virtù di alcune caratteristiche specifiche
del linguaggio morale, primo fra tutti il fatto che non ci siano vincoli
prestabiliti di applicazione: «‘Buono’ ha la caratteristica di poter essere
applicato a innumerevoli categorie di oggetti»,(51) ma anche di poter essere applicato a nuovi oggetti, di cui
non si siano imparati prima i criteri di bontà. E, tuttavia, non paiono esserci
elementi comuni, che si possano stabilire in anticipo, identificati da ‘buono’,
o tali da poterne garantire l’uso appropriato.(52)
Per costituire una rappresentazione adeguata di
queste modalità di funzionamento peculiari del linguaggio morale, secondo Hare,
la sopravvenienza deve essere distinta dalla necessitazione.(53) Bisogna distinguere, dice Hare, l’idea
che, necessariamente, una cosa che ha una certa proprietà ne ha anche un’altra
(che è la necessitazione), dall’idea che, se si conclude che una cosa ha una
certa proprietà, è necessario che tale conclusione derivi dalla premessa
universale secondo cui un certo tipo di cose – ad esempio cose che hanno una
certa proprietà – ha anche certe (altre) proprietà (nella fattispecie quella
ascritta nella conclusione) e la cosa in questione appartiene a quel tipo
(quest’ultima essendo l’autentica sopravvenienza).(54)
La sopravvenienza rende possibile il fatto che il
tipo di cosa preso in considerazione avesse proprietà morali diverse da quelle
ascrittegli, pur avendo le medesime proprietà non morali che ha, ma rende
impossibile che, una volta asserita la premessa secondo cui tutte le cose di
quel tipo hanno la proprietà morale in questione, ci possa essere una cosa di
quel tipo che ne manchi.(55)
In altri termini, la sopravvenienza «porta con sé l’affermazione dell’esistenza
di una “legge” che lega ciò che sopravviene a ciò a cui sopravviene. Essa non
ci vincola ad una “legge” particolare; la scelta di una particolare legge […] è
opzionale».(56) Da questo Hare trae
l’idea che «espressioni come […] “in virtù di”, pur implicando sopravvenienza
[…] in contesti morali […], non implicano assolutamente la necessità nella
premessa universale. Resta, però, comunque un senso in cui le cose possono
essere belle perché sono come sono, senza che perciò un certo tipo di cose ci
debba necessariamente piacere e senza che per noi diventi necessario
qualificare come belle le cose che gli appartengono. Resta nondimeno la
necessità che ci sia una premessa universale […] dalla quale, e unitamente ad
essa dalla premessa sussuntiva, discende necessariamente la conclusione».(57) Tale premessa ha forza nomologica, ma non
è necessaria.(58)
Abbiamo scelto di sostenere che essere un condottiero
che non arretra di fronte al pericolo è buono, e in particolare che è
coraggioso. Niente poteva rendere questa scelta necessaria: ma una volta fatta,
siamo vincolati dalla coerenza a definire sempre coraggioso il comportamento di
un condottiero che non arretra di fronte al pericolo – a farlo sempre, tranne
che non cambiamo idea.(59)
In tal modo, da un lato si rispettano le
peculiarità del linguaggio morale (la sua specificità e la sua non
indipendenza), garantendo che il disaccordo morale sia sostanziale e non
meramente verbale (le difformità nell’uso di certi termini morali non sono
dovute a mera ignoranza del significato descrittivo, bensì al fatto che
differenti parlanti possono aver adottato differenti principi morali, che si
realizzano in differenti regole di applicazione dei predicati morali).
Dall’altro, viene garantita la stabilità e la regolarità dell’uso dei termini
morali, e la possibilità di apprendere il linguaggio morale: ci si garantisce
«quella costanza nell’uso di un’espressione che è la condizione della sua
intelligibilità».(60)
7. Potrebbe sembrare che la sopravvenienza si concili particolarmente bene con una visione anti-realista del linguaggio morale. La visione del linguaggio morale presupposta dalla sopravvenienza parrebbe presupporre la possibilità per i parlanti di adottare differenti principi morali, visti come vere e proprie regole di applicazione dei predicati morali. Tali predicati, peraltro, si applicano direttamente alle proprietà non morali delle cose: il loro uso esprime un atteggiamento di lode o approvazione di tali proprietà non morali.
Un realista metafisico che si impegni nei
confronti della teoria della verità come corrispondenza dovrebbe invece sostenere
che l’uso di predicati morali denota l’occorrere di una proprietà
specificamente etica. A questo punto, il vincolo di coerenza imposto dalla
sopravvenienza si dovrebbe spiegare non facendo appello alla funzione tipica
del linguaggio morale, bensì ricorrendo all’idea che certe proprietà morali
esistenti nel mondo stiano in una relazione di qualche genere con le proprietà
non morali.
A questo punto si pongono per il realista due
problemi, messi in luce da Simon Blackburn:(61) se la relazione fosse di dipendenza, il risultato sarebbe la
riduzione delle proprietà morali a quelle non morali, e ciò non si
concilierebbe con la specificità del linguaggio morale, né con la natura del
disaccordo morale.
Ma i realisti potrebbero sostenere che fra
proprietà morali e non morali ci sia una relazione di mera co-varianza senza
dipendenza. A questo punto si pone un secondo problema: i realisti possono solo
postulare, ma non spiegare, questa relazione. Per un anti-realista, invece, la
coerenza nell’uso dei predicati etici, e la sua conciliazione con le
caratteristiche specifiche del linguaggio morale, si spiegano facendo appello
alla natura del linguaggio morale e vengono perfettamente rappresentate dalla
visione del pensiero morale come espressione di atteggiamenti e adozione di
principi. Peraltro, l’adozione di principi e l’espressione di atteggiamenti
consentono sia di spiegare l’idea che si debba dare sopravvenienza in generale,
sia le concrete relazioni di sopravvenienza che ci sono nei singoli casi. Che
il linguaggio morale sia mezzo per esprimere i propri atteggiamenti e principi
spiega perché il linguaggio morale debba applicarsi a caratteristiche non
morali. I principi e gli atteggiamenti del singolo parlante, inoltre, spiegano perché
– nei singoli casi concreti – certi predicati morali si applicano proprio a
certi insiemi di caratteristiche non morali.(62)
Di conseguenza, conclude Blackburn, i realisti non
possono rendere conto della sopravvenienza in maniera appropriata, e quindi il
realismo fallisce in uno degli obiettivi principali di una teoria metaetica,
vale a dire fornire un resoconto della competenza dei parlanti nell’uso dei
termini morali.
L’obiezione sembrerebbe implicare che la sopravvenienza
intesa come vincolo sulla competenza nell’uso del linguaggio sia incompatibile
con il realismo. Questo non è esatto, dal momento che il realista può sostenere
che la necessaria co-estensione fra due ordini di proprietà morali e non morali
sia sintetica – dunque sia metafisicamente, ma non analiticamente necessaria.
Una identità necessaria ma a posteriori fra proprietà morali e non morali può
essere impiegata per spiegare l’uso coerente dei predicati morali senza
implicare che tale uso derivi da una riduzione analitica del significato dei
termini morali a quello di termini non morali. In altre parole, le proprietà
morali e quelle non morali, là fuori, co-variano e sono co-estensive, e i
concetti utilizzati per denotarle – i predicati morali e non morali – debbono
tenere conto di tale variazione.
Ma non è possibile definire i concetti morali
facendo uso solo di termini non morali: perché, come sostengono alcune versioni
di naturalismo non riduzionista (il cosiddetto «naturalismo di Cornell»),
l’identità fra un certo predicato morale (ad es., «buono») e un certo predicato
non morale (ad es., «sensazione di piacere») non è ovvia (come sarebbe quella
fra «scapolo» e «uomo non sposato»), anche se le proprietà denotate sono
co-estensive. Casi del genere sono peraltro assai diffusi nelle scienze
naturali. Possiamo dire che la proprietà «acqua» e quella «essere composto di
due parti di idrogeno ed una di ossigeno» sono necessariamente co-estensive. Ma
non solo tale co-estensione è stata scoperta a posteriori, in virtù del
progresso della conoscenza scientifica: si tratta anche di una identità non
ovvia, dato che si potrebbe non esserne a conoscenza. Di conseguenza, alcuni
parlanti possono sensatamente, pur essendo a conoscenza del linguaggio che
parlano, ritenere che l’acqua non sia l’elemento composto di due parti di
idrogeno ed una di ossigeno, ma sia il liquido che scorre nei fiumi. Visto in
questo modo, il disaccordo morale appare come un disaccordo epistemologico non
banale.(63)
Le reali obiezioni che l’argomentazione di
Blackburn può comportare riguardano non tanto la sopravvenienza, ma la teoria
metafisica ed epistemologica che i realisti usano per darne conto.(64) Da un lato, si può obiettare che le
proprietà morali postulate dai realisti siano metafisicamente bizzarre se viste
alla luce di una concezione scientifica o naturalista del mondo.(65) Dall’altro si può osservare che il
realista deve comunque spiegare il vincolo di coerenza nell’uso del linguaggio
morale presupponendo non solo fatti morali, ma anche una conoscenza di essi.(66)
Ora, da una parte, si
potrebbe pensare che la coerenza nel linguaggio derivi proprio dalla conoscenza
dei fatti morali denotati. Ma questo impedirebbe per l’appunto la possibilità
che i parlanti siano in disaccordo in maniera non banale. Il disaccordo morale
si ridurrebbe ad un errore percettivo.
D’altra parte, se la conformità alla sopravvenienza
non viene spiegata come prodotto di una percezione morale, il realista deve
fornire un’altra spiegazione – una spiegazione ulteriore anche rispetto alla
mera menzione dei fatti morali. La coerenza nell’uso dei predicati morali, dato
che non proviene dalla conoscenza dei fatti morali da essi denotati, non viene
spiegata dall’occorrere della stessa proprietà morale quando ci sia il medesimo
insieme di proprietà non morali. È necessaria, allora, un’altra spiegazione.
III. La
svolta degli anni Novanta: realismo e nuova sopravvenienza
8. Uno dei
frutti dell’attacco di Blackburn al realismo in nome della sopravvenienza è
stato, paradossalmente, il rifiorire di teorie realiste. Ma il realismo di
Cornell menzionato nel paragrafo precedente era forse una possibilità già
presente nelle pieghe dell’argomentazione di Blackburn – e messa in luce
infatti fin dalle prime reazioni al saggio del 1973. Più interessante è il
tentativo, compiuto alla fine degli anni Novanta da Frank Jackson, di tornare
ad una posizione di realismo – e naturalismo – analitico, che prevede
esplicitamente la possibilità di ridurre i predicati morali a quelli non
morali. E altrettanto interessante è la posizione proposta da Schafer-Landau,
che presenta una forma di realismo metafisico ispirato a Moore. La versione di
sopravvenienza prevista in queste due forme di realismo rappresenta un radicale
allontanamento dalla visione del linguaggio morale che costituisce l’orizzonte
della sopravvenienza nel dibattito da Hare a Blackburn.
Frank Jackson usa la sopravvenienza come premessa
per una teoria secondo cui non si dà nessuna natura morale sui generis delle
cose che non possa venire descritta come una natura descrittiva. Questa
posizione descrittivista viene presentata come valida sia a livello metafisico,
sia a livello concettuale: pertanto questo tipo di naturalismo (che, nella
versione di Jackson, è una forma di fisicalismo) si distanzia dal precedente
naturalismo di Cornell.(67)
Jackson ritiene che sia possibile analizzare in
termini puramente descrittivi il linguaggio morale, a patto di operare con
descrizioni del mondo sufficientemente ricche. Per difendere questa tesi, egli
propone di vedere la sopravvenienza come una relazione metafisica globale, che
connette tutti i presunti predicati morali e tutti i predicati descrittivi. La
sopravvenienza non è più la relazione fra un (o ciascun) predicato morale e uno
o più predicati descrittivi, bensì è quella fra l’insieme di tutti i predicati
morali e quello di tutti i predicati descrittivi. Così intesa la sopravvenienza
è vera a priori e necessaria.
Jackson dimostra che è così tramite la seguente
argomentazione. Il linguaggio morale si rivolge, almeno in parte, alle cose
viste nella loro natura non morale. Ora, si ammetta pure che l’insieme di
caratteristiche non morali cui si fa riferimento con un predicato morale non
possa essere fissato: di volta in volta (in differenti casi, reali o ipotetici)
il medesimo predicato si applica a differenti insiemi di caratteristiche non
morali delle cose. Si consideri però l’insieme – potenzialmente infinito – di
tutti gli insiemi di caratteristiche non morali delle cose cui un certo
predicato morale si applica. Si consideri l’insieme di tutte le caratteristiche
in cui si potrebbe applicare «coraggioso», in tutti i casi, reali e
possibili, in cui tale predicato morale viene applicato: «condottiero che
non arretra di fronte al pericolo», o «essere umano che valuta alla luce di
piena informazione le conseguenze della propria azione», o …, e così via.
L’insieme di tutte queste differenti specificazioni costituisce una descrizione
in termini non morali di quello cui si applica «coraggioso», in tutti i
casi, reali e possibili, in cui tale predicato morale viene applicato. Ma, se
è così, tutte le volte che applichiamo «coraggioso» lo applichiamo a uno dei
membri di quell’insieme, e solo a membri che ne fanno parte. E questo è
sufficiente per dire che quell’insieme implica la proprietà che «coraggioso»
denota – o i predicati che descrivono quell’insieme implicano il predicato
«coraggioso» – e ne viene anche implicato. E ovviamente la doppia implicazione
vale a fortiori se si considera
l’insieme di tutti i predicati morali nelle sue relazioni con l’insieme di
tutti i predicati non morali.
Di conseguenza, dalla sopravvenienza globale del
morale sul descrittivo si deduce che le proprietà morali sono proprietà
descrittive:(68) «quello che rimane
nel linguaggio, una volta tolti i termini etici, in via di principio è adeguato
per ascrivere le proprietà che si ascrivono facendo uso dei termini etici»,(69) sostiene Jackson. Pertanto, non ci sono
distinzioni fatte in termini morali che in linea di principio non si possano
istituire anche in termini descrittivi.(70)
Jackson mostra che la sua posizione, pur essendo
esplicitamente riduzionista e descrittivista, può rendere conto di molte delle
caratteristiche del linguaggio morale tradizionalmente spiegate tramite la
sopravvenienza. Innanzitutto, il suo uso della sopravvenienza si fonda
esplicitamente sull’idea che il linguaggio morale si applichi a una realtà non
morale. Anche secondo Jackson, fa parte della nostra concezione del vocabolario
morale che esso serva a istituire distinzioni che riguardano la natura
descrittiva delle cose.(71)
Inoltre, Jackson si avvantaggia molto della natura
globale della sua tesi di sopravvenienza: essa rende la sua posizione
compatibile con l’idea che la natura morale delle cose potrebbe in parte essere
determinata dalle nostre reazioni e atteggiamenti, dal momento che i fatti
relativi a tali reazioni ed atteggiamenti, considerati in termini descrittivi,
si possono concepire come parte dell’insieme complessivo di caratteristiche non
morali su cui le proprietà morali sopravvengono.
La teoria di Jackson, per di più, risulta
compatibile con la realizzabilità multipla: una descrizione ricca della natura
morale (la descrizione che esplicitamente incorpora i vari casi ipotetici e
reali di applicazione di un termine morale) lascia possibili differenti
realizzazioni fisiche, in differenti casi possibili. Quello a cui il linguaggio
morale si riduce non è un singolo insieme di caratteristiche non morali, ma l’insieme
disgiuntivo di tutte le possibili caratteristiche non morali. Né si tratta di
una teoria eliminativista: i termini morali – osserva Jackson – possono essere
necessari per cogliere le similarità tra i vari assetti descrittivi che secondo
la sopravvenienza costituiscono la natura morale del mondo, anche nell’ipotesi
in cui le proprietà morali non fossero altro che proprietà descrittive
infinitamente disgiuntive, senza che ci fosse altro nel mondo che similarità
rilevanti fra tali modalità descrittive.(72)
9. Ma, nonostante questa flessibilità, la teoria di
Jackson rappresenta un allontanamento drastico dalla visione del linguaggio
espressa dalla sopravvenienza nel dibattito precedente. I punti di
allontanamento sono essenzialmente due: la visione del disaccordo morale e la
struttura globale della tesi di sopravvenienza esposta da Jackson.
Il primo punto viene riconosciuto dallo stesso
Jackson. Alla fine del suo libro, egli liquida in maniera sbrigativa e brusca
l’obiezione basata sulla questione del disaccordo morale. L’idea che il
disaccordo morale non si riduca, in ultima analisi, al disaccordo verbale –
afferma Jackson –è il prodotto residuale dell’«ubriacatura» indotta dai passati
secoli dominati da forme di «platonismo» assiologico: i termini morali
riguardano solo la realtà, e chi è in disaccordo sul rilievo morale della
medesima realtà è in disaccordo sul significato dei termini morali usati. Chi,
d’altra parte, volesse sostenere che il disaccordo morale non è sul significato,
bensì è un disaccordo fra atteggiamenti, dovrebbe rendersi conto che questo non
implica certo l’espressivismo (come sostiene Blackburn):(73) anche una forma di soggettivismo
cognitivista, secondo cui gli asserti morali sono credenze che riguardano gli
atteggiamenti valutativi sulle cose di chi usa gli asserti medesimi, implica
del tutto ovviamente che, in caso di disaccordo, due persone abbiano differenti
atteggiamenti valutativi sulla medesima cosa.(74)
Il secondo punto di
distacco non viene messo in luce da Jackson, ma si tratta di un allontanamento
essenziale. La sopravvenienza, nel dibattito precedente, era uno schema per
illustrare i criteri di competenza nell’uso del linguaggio morale. L’obiettivo
era di fornire condizioni necessarie e sufficienti, secondo una visione del
linguaggio esemplata sull’uso dei linguaggi naturali. Dietro alle riflessioni
di Hare e Blackburn, ma anche dei naturalisti di Cornell, stava il parlante ordinario,
alle prese non tanto con un intero linguaggio, ma con un insieme di termini
specifici – i termini morali – inclusi nella sua lingua naturale. La
sopravvenienza illuminava le condizioni di uso e di significato di singoli
termini e di singoli asserti contenenti tali termini.
Adesso invece Jackson si occupa del linguaggio nel
suo complesso, di un insieme di espressioni che sopravvengono su un altro
insieme. Si potrebbe pensare che dalla sopravvenienza globale si possano trarre
delle tesi di sopravvenienza locale, ma l’inferenza è bloccata dalle seguenti
considerazioni. In primo luogo, si tratta di un errore, dato che mentre la
sopravvenienza globale può essere vera a priori e necessaria appunto per la sua
natura globale, la verità e la necessità non si trasmettono a relazioni locali
di sopravvenienza.(75)
(Inoltre, come mostrerà Dancy, c’è la possibilità di pensare che, a livello
locale, non si dia affatto sopravvenienza, ma sussista una relazione
differente, la risultanza).(76)
In secondo luogo, la
validità della sopravvenienza si basa su una disgiunzione infinita che, se può
essere compresa come concetto dai parlanti naturali, non può essere maneggiata
per davvero, estensionalmente – dati i poteri finiti delle menti umane. Dunque,
i singoli parlanti possono sapere che il linguaggio morale nel suo complesso
sopravviene su quello non morale, ma questo non dice nulla su quali
caratteristiche non morali siano quelle su cui sopravviene il singolo predicato
morale, o quelle su cui sopravviene generalmente. Questo sbarra la strada a
esiti riduzionisti, ma forse impedisce anche di stabilire un vincolo cogente di
coerenza ai singoli atti di uso del linguaggio. Di conseguenza, siamo passati
da una teoria delle condizioni necessarie e sufficienti per l’uso concreto del
linguaggio ad una indagine sulle condizioni necessarie – ma certo non
sufficienti – perché ci sia un linguaggio morale.
10. Per argomentare in favore di una teoria
realista non naturalista, Shafer-Landau prende esplicitamente in considerazione
l’obiezione di Blackburn. Secondo quest’ultimo, come abbiamo visto, i realisti
non possono rendere conto della sopravvenienza come vincolo sulla padronanza
del linguaggio morale, perché la loro teoria non consente di evitare la
riduzione e di ammettere la realizzabilità multipla.
Shafer-Landau risponde rifiutando i termini del
problema come posti da Blackburn. Egli ritorna alla necessità metafisica, e non
accetta i limiti imposti da Blackburn che restringono il discorso alla
necessità concettuale. Quindi il principale allontanamento di questa forma di
realismo metafisico dal quadro tradizionale sta nel ricorrere alla
sopravvenienza soprattutto come schema metafisico, e solo in maniera secondaria
e derivata come vincolo concettuale. L’attenzione passa dal linguaggio morale
ad una presunta realtà metafisica di natura morale. La realtà morale nel
dibattito tradizionale era una realtà linguistica (e mentale). Adesso ridiventa
– come in Moore – una realtà autentica e sui generis.(77)
Ma da questo punto in poi Shafer-Landau propone una
teoria che tenta di accogliere tutte le determinazioni della visione
tradizionale della sopravvenienza. Egli rifiuta l’idea che la sopravvenienza
sia un vincolo concettuale da spiegare facendo appello alla natura del
linguaggio, e che esso non si possa spiegare ricorrendo ad una tesi metafisica.
Ma, a parte questo, viene confermato il quadro tradizionale: nelle sue mani, la
sopravvenienza è anche un vincolo concettuale imposto all’uso del linguaggio,
non implica la riduzione e ammette la realizzabilità multipla.
Shafer-Landau propone l’idea che un certo
insieme di proprietà non morali esemplificate realizzino o costituiscano per
necessità metafisica una certa proprietà morale – anche se questa costituzione
metafisicamente necessaria non implica alcuna identità fra proprietà morali e
non morali.
Questo è possibile perché Shafer-Landau crede che
concetti logicamente differenti denotino anche proprietà ontologicamente
differenti, e dunque la costituzione, in mano sua, non implica né riduzione, né
identità, ma solo necessaria co-estensione.(78) Inoltre, secondo Shafer-Landau la costituzione è limitata ad
un solo mondo, quello attuale, e quindi ammette la possibilità che, se il mondo
fosse stato diverso, altre proprietà non morali avrebbero potuto costituire la
proprietà morale in questione .(79)
La costituzione metafisica
presupposta da Shafer-Landau spiega la relazione di co-varianza che costituisce
la sopravvenienza vista come vincolo concettuale. Essere coraggiosi è un
concetto che denota una proprietà necessariamente costituita, nel caso attuale,
dall’essere un condottiero greco che non arretra di fronte al pericolo. È per
questo che, ogni qual volta ci si trovi di fronte alla proprietà di essere un
condottiero greco ecc., ci si troverà di fronte anche alla proprietà di essere
coraggiosi, e si dovrà usare il concetto usato per denotarla, vale a dire
«coraggioso».
Infatti, anche se la relazione di costituzione
metafisica non ne implica una analoga a livello concettuale, essa ha il potere
di spiegare la sopravvenienza a livello concettuale. O, almeno, il fatto che,
nel mondo attuale, una certa proprietà morale sia costituita da un certo
insieme di proprietà non morali è sufficiente a spiegare certi vincoli sulla
predicazione. È sufficiente nel senso che è l’unico fatto cui si possa fare
appello, un fatto al di là del quale non si può andare: è così e basta. Perché
chiedere ulteriori spiegazioni?(80)
Dall’altro lato, Shafer-Landau spiega anche la
possibilità che – a livello concettuale – sia possibile adottare differenti
principi, vale a dire ipotizzare la possibilità che un insieme differente di
proprietà non morali possa costituire una certa proprietà morali. Questo è
perfettamente possibile, egli sostiene, e non necessita di alcuna ulteriore
spiegazione: si tratta semplicemente di un errore metafisico. D’altronde, è
sempre stato possibile, e non problematico, concepire cose impossibili dal
punto di vista metafisico.(81)
Rimane da spiegare perché
siano proprio certe proprietà non morali a costituire certe altre proprietà
morali. L’anti-realista, si ricordi, può cavarsela dicendo che questo viene
spiegato dai principi adottati dalla persona che sta giudicando la situazione,
o dai suoi atteggiamenti – o dagli atteggiamenti tipici, o evolutivamente
selezionati, degli esseri umani nel loro complesso. Il realismo non-naturalista
di Shafer-Landau, non implicando riduzione o identità fra proprietà morali e
non morali, ed ammettendo la realizzabilità multipla, parrebbe a questo punto
trovarsi in difficoltà.
Ma questa difficoltà – risponde Shafer-Landau – è
comune a tutte le teorie, perché quella posta è una questione che in realtà si
può risolvere solo addentrandosi nella teoria etica normativa. Infatti, in
realtà l’antirealismo non spiega perché proprio una certa proprietà non morale
costituisca una certa proprietà morale. Esso afferma soltanto che, se questo
avviene, ciò deriva dall’adozione di un certo principio. Per spiegare perché
proprio quelle proprietà siano ciò che costituisce, ad esempio, l’astuzia, c’è
bisogno di un principio normativo che dica che cos’è l’astuzia, e fornisca
giustificazioni. E, se si tratta di un principio normativo, questa via non è di
certo sbarrata al realista non-naturalista. Possono essere i principi della
teoria etica normativa a giustificare il fatto che certe proprietà non morali
realizzino una certa proprietà morale, e lo facciano necessariamente.(82) E le scelte metaetiche che si fanno non
influenzano certo la possibilità di dedicarsi alla ricerca etica normativa.
IV. La
svolta degli anni Novanta: generalismo, sopravvenienza e teoria etica normativa
11. Nonostante il loro parziale distacco dalla
nozione tradizionale di sopravvenienza, le due posizioni presentate sopra
condividono molti dei presupposti del dibattito precedente agli anni Novanta.
Innanzitutto, presuppongono che l’alternativa principale sia quella fra
realismo e antirealismo, oltre che fra naturalismo e non naturalismo. In
secondo luogo, non mettono affatto in dubbio l’idea che ci siano due ambiti di
discorso – o di realtà –, le cui relazioni sono descritte e regolate dalla tesi
di sopravvenienza (per quanto la posizione di Jackson rappresenti un enorme
indebolimento di quest’idea).
Infine, nessuno dei due autori dubita che,
nonostante le divergenze, le varie posizioni metaetiche possano tutte
egualmente fungere da premessa dell’indagine etica normativa intesa, secondo la
visione tradizionale, come ricerca di principi di condotta universali. Semmai,
l’alternativa è fra chi, sostenendo che la sopravvenienza sia solo una tesi
concettuale, ammette che si diano principi universali ma non necessariamente
veri (Hare e Blackburn), e chi – come Jackson e Shafer-Landau (ma anche i
realisti di Cornell prima di loro) – ritiene che sia possibile arrivare a principi
che siano necessariamente veri.
Ma nel dibattito degli anni Novanta viene
rappresentata una novità ulteriore rispetto a questo orizzonte comune, una
novità che però parte proprio dai risultati di questo dibattito. Infatti, fin
dal 1993, Jonathan Dancy ha messo in dubbio la possibilità di una teoria etica
normativa articolata attorno a principi universali, e ha argomentato a favore
di una visione particolarista del pensiero morale normativo. Questa tesi viene
difesa tramite due argomenti che riguardano rispettivamente proprio la
sopravvenienza e la possibilità di una distinzione strutturata fra discorso
morale e non morale – o, meglio, fra proprietà morali e non morali.
Se si guarda al dibattito che si è aperto sulla
proposta di Dancy, si nota che la contrapposizione ora è sempre meno fra
realisti e antirealisti e sempre più fra generalisti e particolaristi. Molti
generalisti condividono l’impostazione di realismo metafisico presupposta da
Dancy, ma ne rifiutano gli esiti particolaristi. Ma l’antirealismo è in grado
di condividere molte delle conclusioni implicate dal particolarismo.(83) La posizione di James Griffin,
d’altronde, condivide con la metaetica di Dancy il rifiuto di una distinzione
netta fra discorso morale e etico, pur non traendone alcun esito
particolarista.(84)
In Libertà e ragione, considerando le
possibili concezioni metaetiche differenti dalla propria, Hare distingueva il
descrittivismo dalla propria posizione, mettendo in luce che – laddove i
descrittivisti ritengono che il significato descrittivo esaurisca tutto il
significato degli asserti etici – i prescrittivisti, pur ammettendo la
possibilità di un significato descrittivo, vi affiancano il significato
valutativo. Ma le due posizioni condividono l’idea che i giudizi morali siano
universalizzabili – e questo, come è evidente, proprio in grazia del fatto che
entrambe ammettono un significato descrittivo delle asserzioni morali. I
descrittivisti che rifiutano l’universalizzazione sono, secondo Hare,
semplicemente incoerenti, dato che ammettere il significato descrittivo è ciò
che consente di universalizzare.
L’unica posizione descrittivista che possa negare
l’universalizzazione, nota Hare, è una forma di particolarismo non naturalista,
la quale pretenda che le regole di significato delle parole valutative siano
«logicamente indipendenti da quelle di parole non valutative». Il sostenitore
di questa posizione potrebbe ammettere soltanto una versione banale
dell’universalizzazione,(85)
per cui l’unico aspetto rilevante è «semplicemente il possesso della proprietà
non naturale sui generis della bontà», e quindi ci si potrebbe rifiutare
di chiamare buono un oggetto privo di tale proprietà, ma che fosse, per tutte
le altre proprietà non morali, esattamente uguale a quello che si è già
chiamato buono.(86)
Il particolarismo di Dancy occupa esattamente la posizione annunciata da Hare
nel lontano 1963, ma la teoria viene elaborata notevolmente e appare molto più
robusta di quanto non sembri nelle sbrigative pagine di Hare.
La prima mossa di Dancy per argomentare contro la
possibilità che ci possano essere principi universali non banali consiste in
una distinzione fra due relazioni differenti che possono unire proprietà morali
e non morali: la sopravvenienza e la risultanza. In maniera
simile a Jackson, Dancy intende la sopravvenienza come un relazione di
co-varianza da istituire a livello globale, fra il livello delle proprietà
morali e quello delle proprietà non morali nel loro complesso.(87) La relazione che invece sussiste fra una
singola proprietà morale – e il concetto che la denota – e quel certo insieme
di proprietà non morali che la realizzano viene invece definita «risultanza».
Dancy, riprendendo la terminologia – se non la
teoria – di W.D. Ross,(88)
descrive questa relazione come una sorta di costituzione – la cui natura è
intuitivamente semplice e metafisicamente basilare, pur non essendo
ulteriormente spiegabile. Le proprietà morali sono quelle che sono «in virtù
di» certe proprietà non morali, che le costituiscono. Si tratta di un fenomeno
comune nella realtà più ordinaria. La proprietà di essere un tavolo risulta da
una serie di proprietà che si collocano ad un livello metafisico differente –
come la solidità, ad esempio, ma anche una certa disposizione di atomi entro
una certa porzione di spazio-tempo. Un tavolo è un tavolo in virtù di proprietà
come la solidità, ecc. La ripidezza di un pendio è costituita – «risulta» – da
una serie di proprietà di esso, come l’inclinazione, la pendenza, ecc. Non ci
sono spiegazioni ulteriori della relazione denotata dalla locuzione «in virtù
di» – sostiene Dancy.(89)
Per Dancy, la risultanza ha molte delle virtù della
sopravvenienza del dibattito tradizionale. È evidente, infatti, che essa non
implica identità, né riduzione. Le proprietà che costituiscono la cosiddetta
«base di risultanza» sono a volte appartenenti ad un livello ontologico
differente da quelle che da loro risultano. Ma, anche se così non fosse (come
può accadere nel caso di certe proprietà valutative che possono risultare da
altre proprietà egualmente valutative: la crudeltà, ad esempio, può risultare
dalla spietatezza), sarebbe errato sostenere che le proprietà da cui una certa
proprietà risulta sono identiche alla proprietà risultante. E questo anche
perché – secondo Dancy – differenti basi di risultanza possono dare origine
alla medesima proprietà risultante. La teoria della risultanza, in altre
parole, ammette la realizzabilità multipla.
Ma su quali basi Dancy – in un quadro abbastanza
simile a quello di Shafer-Landau – giustifica una relazione di risultanza che
non implica né riduzione né identità e ammette la realizzabilità multipla? E
soprattutto in che cosa consiste l’autentica differenza fra risultanza e
sopravvenienza?
Dancy adotta una complessa teoria epistemologica e
metafisica per giustificare questa visione della relazione fra proprietà morali
e non morali. Si tratta di una teoria che, in maniera alquanto paradossale,
giustifica alcuni desiderata della visione tradizionale del linguaggio morale e
della sopravvenienza sacrificandone altri. Dancy, infatti, giustifica una
visione non riduzionista della relazione fra proprietà morali e non morali
rinunciando a qualsiasi possibilità di avere un linguaggio morale capace di
produrre principi universali. Rinunciando del tutto a qualsiasi residuo di
naturalismo, egli abbandona anche il progetto di analisi del linguaggio morale
che, iniziando almeno da Hare, si spingeva fino a Jackson e Shafer-Landau.
Hare, infatti, sosteneva che, fino a un certo
punto, il naturalismo fosse nel giusto: fino a quando ammetteva la possibilità
di un significato descrittivo degli asserti morali – un significato descrittivo
selezionato dalle regole di applicazione dei termini morali, ma
universalizzabile e del tutto descrivibile in termini non morali.(90) Sono proprio queste ultime due proprietà
del significato descrittivo di Hare che Dancy rende impossibili. E, ancora
paradossalmente, egli non rifiuta per questo l’intuizione di fondo di quella
visione del linguaggio. Anche per Dancy il linguaggio morale è specifico, ma
non indipendente dalla natura. Eppure qualsiasi possibilità di una relazione
strutturata fra linguaggio morale e natura viene esclusa.
12. Dancy rifiuta l’ipotesi che le proprietà non
morali da cui risultano le proprietà morali possano essere descritte in termini
esclusivamente non morali. Questo vuol dire che, se non si impone un concetto
morale sul livello della realtà non morale, essa risulta – ai fini del discorso
morale – del tutto «informe» – (91) anche se la proprietà morale denotata
risulta da una base non morale. In altre parole, anche se il concetto
«coraggioso» rimanda in qualche modo all’insieme di proprietà che consistono
nell’essere un condottiero che non arretra di fronte al pericolo, questo
risulta visibile per così dire dall’interno, una volta compreso il concetto, e
per chi lo comprende. A nulla varrebbe cercare di insegnare il concetto a chi
non lo padroneggia parlandogli soltanto di condottieri che non arretrano di
fronte al pericolo.
Inoltre, continua Dancy, «coraggioso» può
significare molte cose, in molti contesti. Oltre che informe, la base di
risultanza dei concetti etici non è fissa, ma è piuttosto suscettibile di
variazioni dovute al contesto. Anzi, questa caratteristica metafisica della
base di risultanza ne spiega l’informità a livello epistemologico. Infatti,
qualsiasi elemento del contesto può risultare di rilevanza morale tale da far
sì che quello che prima era elemento sufficiente a dare origine ad una certa
proprietà morale non lo sia più ora. Lo stesso comportamento dello stesso
condottiero che non arretra di fronte al pericolo può essere, in un’occasione
anche solo di poco diversa, spavalderia – e non coraggio. E questo non deriva,
secondo Dancy, dal fatto che si tratti di un osservatore diverso, che adotta
principi diversi – o che si tratti dello stesso osservatore che ha cambiato
idea, come direbbe Hare.
Il problema è che non si danno mai contesti
abbastanza simili: infatti, perché si possano dare contesti simili capaci di
originare proprietà morali simili dovrebbe darsi la possibilità di
generalizzare le relazioni di risultanza – vale a dire la possibilità di
ritenere che dallo stesso insieme di proprietà non morali risulti sempre lo
stesso insieme di proprietà morali. Ma questo non è possibile – almeno non lo è
se si ritiene, come Dancy, che il contesto influenzi sempre la rilevanza morale
di certe proprietà non morali.
In particolare, la generalizzazione non è possibile
se si comprende che la base di risultanza di una certa proprietà morale è
costituita da quelle proprietà non morali dalle quali essa risulta – e solo da
quelle. Di conseguenza, una volta ammesso che una variazione nel contesto –
qualsiasi variazione – può influenzare la rilevanza morale di certi tratti
della situazione, allora se ne dedurrà che la base di risultanza varia sempre,
e sempre variano le proprietà morali capaci di risultare da certe proprietà non
morali.
In particolare, Dancy distingue fra le proprietà
non morali che sono in grado di originare altre proprietà morali e le proprietà
la cui presenza costituisce una condizione necessaria perché altre proprietà
non morali diano vita a proprietà morali. Della base di risultanza fanno parte
solo le proprietà che direttamente ne fanno risultare altre. Ma la presenza o
l’assenza di altre proprietà – che fanno soltanto parte del contesto –
influenza l’operare delle proprietà che costituiscono la base di risultanza.(92) Il non arretrare di fronte al pericolo dà
origine al coraggio, quando questo porti ad una vittoria in condizioni impari.
Il non arretrare di fronte al pericolo dà origine alla spavalderia, quando
costi la vita di troppe vittime innocenti. Della base di risultanza fa parte,
nei due casi, solo il non arretrare di fronte al pericolo. È errato dire che il
coraggio sia (risultante dal)l’avere ingaggiato una battaglia in condizioni
impari o che la spavalderia sia (risultante da)l rischio di sacrificare vittime
innocenti. Il coraggio e la spavalderia derivano entrambi dal non arretrare di
fronte al pericolo. Le altre proprietà menzionate costituiscono piuttosto le
condizioni che determinano che il non arretrare di fronte al pericolo produca,
rispettivamente, il coraggio o la spavalderia.
La base di sopravvenienza invece è globale: essa
non coincide con la base di risultanza, ma comprende l’intero contesto – al
limite tutti i contesti possibili. È ovvio che se a questo livello un’azione
risulta coraggiosa lo sarà qualsiasi altra cosa esattamente simile – qualsiasi
altra cosa posta in un contesto globale esattamente simile. Ma questo non
implica che, se una certa azione è coraggiosa, lo sarà anche qualsiasi altra
azione che ha le medesime proprietà che rendono coraggiosa la prima azione: in
questo caso, quelle proprietà possono non svolgere l’opera che ci si aspetta,
perché nel contesto globale mancano le condizioni che lo rendono possibile.(93)
Ora, conclude Dancy, la sopravvenienza è ciò che
permette di costruire principi: ma la sopravvenienza si è rivelata essere solo
una tesi o banale (in un contesto esattamente simile, un’azione mantiene lo
stesso valore morale, evidentemente: ma ci sono contesti esattamente simili?) o
non informativa (che cos’è, all’interno di un’infinita elencazione di
proprietà, le quali costituiscono la base globale di sopravvenienza, che rende
una certa azione coraggiosa?). Forse si potrebbero desumere principi dalla
risultanza: ma, dato che la base di risultanza è informe e non si può fissare,
da essa non si ottengono dei principi generalizzabili. Quello che assicura il
coraggio questa volta potrebbe non farlo dopo: un principio che menziona quello
che rende coraggiosa l’azione adesso in un contesto differente può rivelarsi
semplicemente falso. Né è corretto, conclude Dancy, inferire la risultanza
dalla sopravvenienza. Piuttosto, è il contrario: il fatto che le proprietà
morali risultino da quelle non morali, esteso a livello globale, conduce alla
sopravvenienza, e la spiega.(94)
Quindi Dancy, facendo leva
su una forma di olismo metafisico ed epistemologico, esclude la possibilità di
principi universali significativi. Ma questo, ovviamente, si porta con sé anche
l’idea di linguaggio che rendeva possibili tali principi: una visione del
linguaggio in cui i principi universali erano regole di applicazione di
predicati morali basati sulla generalizzazione e sulla possibilità di casi
simili non banali. Ma questo risultato viene ottenuto mantenendo molte delle
premesse da cui la tesi di sopravvenienza derivava. Anche per Dancy il
linguaggio morale si applica a proprietà non morali: il problema è che la
distinzione fra risultanza e sopravvenienza, e l’olismo, rendono le relazioni
fra proprietà morali e non morali non soltanto vaghe, ma anche fluttuanti e
informi.
13. Nell’argomentare contro la sopravvenienza,
paradossalmente, James Griffin si distacca di più di quanto faccia Dancy dalla
visione tradizionale del linguaggio morale, ma mantiene aperta la possibilità
di principi morali universali. Infatti, al contrario di Dancy, Griffin
abbandona del tutto l’idea che il linguaggio morale si applichi alla realtà non
morale e che sia possibile distinguere proprietà morali e non morali. Egli
riconosce che la sopravvenienza parte da una serie di intuizioni apparentemente
plausibili, ma sostiene che un’approfondita analisi di tali intuizioni ne mina
la plausibilità.
Griffin muove alla sopravvenienza le seguenti
obiezioni. In primo luogo (riecheggiando almeno in parte le considerazioni
esposte nella precedente sezione), egli mostra che la sopravvenienza deve
riguardare proprietà naturali rilevanti per la spiegazione delle proprietà
valutative sopravvenienti, altrimenti ci potrebbero sempre essere differenze
nelle proprietà naturali che sarebbero capaci di giustificare una differenza
nelle proprietà valutative senza però risultare interessanti per la
comprensione della rilevanza morale – come ad esempio potrebbero essere
differenze di mera collocazione spazio-temporale. L’unica differenza fra due
casi in cui qualcuno non arretra di fronte al pericolo potrebbe essere che
l’uno avviene durante la guerra di Troia, l’altro durante l’assedio di Tebe. Ma
l’uno viene giudicato un atto di coraggio, l’altro di spavalderia. È possibile
che la differenza sia giustificata dalla mera distanza cronologica fra le due
azioni? Ma, se si considerano solo le proprietà che risultano rilevanti per
capire la ragione del giudizio valutativo, dal momento che molte cose rilevanti
non sono naturali, e molte cose naturali non sono rilevanti, la sopravvenienza
rischia di risultare falsa.(95) È
possibile che siano alcune caratteristiche valutative a essere rilevanti per il
valore di un oggetto, sicché in oggetti con caratteristiche naturali irrilevanti
eguali il valore può cambiare.(96)
Inoltre, continua Griffin, la sopravvenienza
presuppone una distinzione fatti/valori che dà per risolta la domanda cui si
dovrebbe invece rispondere: quali sono i confini del mondo, della realtà o dei
fatti? E questa domanda viene elusa presupponendo che sicuramente il valore non
possa fare parte di tale sfera fattuale o reale.(97) D’altra parte, è vero che le proprietà valutative sono
sopravvenienti, cioè è necessario per spiegarle fare appello ad altre
proprietà: ma può essere sufficiente fare appello ad altre proprietà valutative
più specifiche, e può non essere necessario fare appello a proprietà non
morali.(98) E, comunque, fare
menzione di proprietà non morali non è di certo sufficiente a rendere conto di
certe asserzioni valutative, a renderle vere.(99) Anche Griffin ritiene – come Dancy – che la base su cui le
proprietà morali sopravvengono non possa essere descritta in maniera puramente
non morale. Ma, alla luce del suo anti-riduzionismo, Griffin conclude che la
specificazione delle proprietà e dei concetti morali si può attuare tutta
dentro il livello morale, senza uscirne mai fuori. È possibile, egli sostiene,
che ad un certo punto si arrivi a riconoscere la mera presenza di un valore, e
non si possa più spingersi oltre.(100)
Ma da questa posizione, come abbiamo anticipato,
Griffin non trae le conclusioni di Dancy: il percorso di allontanamento dalla
sopravvenienza finisce con una contrapposizione fra chi sostiene la possibilità
di una teoria etica normativa, e chi ne nega la concepibilità stessa. Griffin
infatti precisa di non voler negare che ci siano delle proprietà non morali che
costituiscono tutto quello che significa, per un certo oggetto, avere le
caratteristiche valutative che ha.(101)
Piuttosto, egli conferma la propria fiducia nella possibilità di stabilire,
all’interno della teoria etica normativa, che certe proprietà non morali
costituiscono ciò che in certe azioni e situazioni è moralmente rilevante. Ma,
secondo Griffin, a questo risultato si arriva attraverso una comparazione
coerentista con altre proprietà morali, e non affidandosi al sogno impossibile
di scoprire quali sono le proprietà non morali che garantiscono la rilevanza
morale di certi atti e situazioni.(102) Principi generali sono possibili, dunque – al contrario di
quello che sosteneva Dancy. Ma non si possono dedurre da una tesi generale di
sopravvenienza – proprio come sosteneva Dancy.
V. Conclusioni:
come si apprende il linguaggio morale?
14. Che morale si può trarre da questa
ricostruzione del dibattito sulla sopravvenienza? Dovrebbero essere chiari a
questo punto le caratteristiche strutturali del dibattito (una prima fase di
costruzione della sopravvenienza nella sua forma tradizionale, una seconda fase
di cambiamento e progressivo abbandono di essa), le dicotomie che lo percorrono
(realismo/antirealismo, naturalismo/antinaturalismo,
generalismo/particolarismo), e i presupposti in discussione (essenzialmente la
possibilità di distinguere il discorso morale da quello non morale). Un
risultato definitivo dovrebbe essere la fine del sogno di una distinzione fra
livello morale e non morale che assicuri relazioni strutturate e fisse fra i
due livelli. Acquisita dovrebbe essere anche l’idea che la possibilità stessa
di una teoria etica normativa, e l’aspetto che essa assume, dipendono dalle
scelte teoriche che si fanno in quest’ambito.
C’è però forse un dato ulteriore da mettere in
luce. Eravamo partiti da una visione del linguaggio morale articolata attorno
all’idea che esso fosse specifico – differente da altri linguaggi – ma non
indipendente – dotato di relazioni con gli altri linguaggi. Quest’idea è stata
differentemente declinata, ma mai abbandonata del tutto – anche negli autori
più scettici. Questa visione del linguaggio morale implica che esso possa
essere appreso a partire da altri linguaggi – anche se non garantisce che ci
siano vie prestabilite per tale apprendimento, o condizioni che ne assicurino
il successo. Essa esclude, se non altro, l’idea che il linguaggio morale sia un
cosmo a sé, tale per cui chi ci è dentro da sempre lo comprende, e chi ne è
fuori sia destinato a rimanervi estraneo.
Eppure, da un lato, questa sembra essere la visione
che può essere suggerita (anche se non certo implicata) da tesi estreme come
quella di Dancy, secondo cui non è in via di principio possibile neanche
alludere alle differenze che istituiamo fra situazioni, azioni e caratteri
tramite concetti morali facendo uso di concetti non morali. E questa tesi,
almeno se assunta come tesi di principio, sembra presupporre una visione
totalmente differente del linguaggio morale, una visione che lo vede sì come
specifico ma anche come indipendente – più simile alla matematica di quanto si
pensi abitualmente. Quindi, nella teoria di Dancy c’è almeno una
contraddizione, la contraddizione fra deriva verso l’indipendenza del
linguaggio morale e metafisica della risultanza delle proprietà morali da
quelle non morali. E questa contraddizione potrebbe costituire una spinta a
ritornare indietro, fino ad ammettere la possibilità di relazioni maggiormente
strutturate fra proprietà morali e non morali, che rendano pienamente merito
alla non indipendenza del linguaggio morale.
Inoltre, se si bada alle
relazioni che il linguaggio morale ha con altri linguaggi, e si ipotizza che ci
sia una priorità di apprendimento di altri linguaggi rispetto al linguaggio
morale (il che ovviamente è da dimostrare, per quanto sembri plausibile), si
deve fornire una teoria dell’apprendimento del linguaggio morale che tenga
conto di tutto questo. Hare forniva una teoria dell’uso e dell’apprendimento
del linguaggio morale: può darsi che tale teoria fosse errata, e anche un po’
ingenua. Ma fra i più recenti critici dell’universalismo di Hare non sembrano
esserci teorie capaci di scalzare quella visione. La storia della
sopravvenienza, dunque, indica se non altro il lavoro che rimane da fare nel
futuro.
Note
(1)
Sulla funzione della specificazione di rilevanza nella sopravvenienza – e sui
possibili problemi da essa creati – si veda il par. IV.13. seguente.
(2) Per un panorama, si v. A. Miller, An Introduction to
Contemporary Metaethics, Polity, Cambridge 2003, in particolare pp. 31-3,
53-6, 249-50.
(3) Sull’origine del termine nella filosofia di
lingua inglese si veda J. Kim, Supervenience as a Philosophical Concept,
pp. 1-2, in “Metaphilosophy”, XXI, 1990, pp. 1-27 e La
mente e il mondo fisico, Mc-Graw
Hill, Milano 2000 [ed. or. Mind in a Physical World, MIT Press, Cambridge
(Mass.) 1998], pp. 6-7, R.M. Hare, La sopravvenienza, p. 70, in Saggi
di teoria etica, Il Saggiatore,
Milano 1992 [ed. or. Essays on
Ethical Theory,
Oxford University Press, Oxford 1989], pp. 71-86 (originariamente comparso in
“Proceedings of the Aristotelian Society” suppl. vol., LVIII, 1984).
(4) Ma «sopravvenienza» è un concetto ubiquo,
diffuso trasversalmente in molti ambiti e discipline, soprattutto in filosofia
della mente e metafisica (si veda Kim, “Supervenience as a Philosophical Concept”, La
mente e il mondo fisico, Supervenience and Mind, Cambridge University
Press, Cambridge, 1993, D. Davidson, Azioni ed eventi, il Mulino, Bologna 1992 [ed. or. Essays
on Actions and Events, Oxford
University Press, Oxford 1980], F. Jackson,
From Metaphysics to Ethics. A Defence of Conceptual Analysis, Oxford, Clarendon Press, Oxford 1998).
(5) Una ricostruzione complessiva ed esaustiva
del dibattito metaetico con particolare attenzione alla sopravvenienza non è
stata ancora compiuta, a conoscenza di chi scrive. Utili possono essere Hare, La
sopravvenienza, Kim, Supervenience as a Philosophical Concept, J. Klagge, Supervenience: Perspectives
V. Possible Worlds, in “Philosophical
Quarterly”, XXXVII, 1987, pp. 312-3 e Supervenience:
Ontological and Ascriptive, in
“Australasian Journal of Philosophy”, LXI, 1988, pp. 460-70.
(6) Il
testo più rappresentativo è S. Blackburn, Supervenience Revisited, in Essays
in Quasi-Realism, Oxford
University Press, Oxford 1993, pp. 130-40 (ma originariamente apparso in Exercises in Analysis, a cura di I. Hacking, Cambridge University
Press, Cambridge 1985); la posizione di Blackburn viene presentata e discussa
nel paragrafo II.7. seguente.
(7) Sulla necessità di spiegare la
sopravvenienza insistono in particolare S. Blackburn, in Supervenience Revisited e nel
saggio che ne costituisce la versione precedente, Moral Realism, contenuto anch’esso in Essays in Quasi-Realism, pp.
111-29, (ma originariamente apparso in Morality and Moral Reasoning, a cura
di John Casey, Methuen, London 1973), e Kim, La mente e il mondo fisico, pp. 13-5.
(8) Come
si vedrà in seguito (par. III.8.), questa posizione viene presentata e difesa,
con il nome di «descrittivismo analitico», in Jackson, From
Metaphysics to Ethics, cap. 6.
(9) Vale a dire oggetti che siano simili in
tutte le loro caratteristiche, o tutte le loro caratteristiche rilevanti,
tranne l’essere ciò verso cui si dirige lo specifico impegno in questione.
(10) Questa visione del linguaggio morale e
della sopravvenienza accomuna Hare e Blackburn, come vedremo (par. II.6.-7.).
Ma recentemente una posizione simile viene esposta da A. Gibbard, Thinking How to Live, Harvard
University Press, Cambridge (Mass.) 2003, cap. 5.
(11) Una versione recente di questa posizione
è R. Shafer-Landau, Moral Realism, Clarendon Press, Oxford 2003 (discusso oltre nel
paragrafo III.10.).
(12)
In altre parole, la sopravvenienza è co-varianza senza riduzione (si veda Kim, Supervenience
as a Philosophical Concept, pp.
8-9).
(13) Si veda
M. Smith, Does the Evaluative Supervene on the Natural?, pp. 92-3, in
Well-Being and Morality. Essays in Honour of James Griffin, a cura di R. Crisp e B. Hooker, Clarendon Press,
Oxford 2000, pp. 91-114. Come si vedrà in seguito – specialmente nel paragrafo
IV – l’idea che ci sia sempre una qualche relazione fra livello morale e non
morale – una relazione qualsiasi – non verrà quasi mai messa in dubbio. Quella
che verrà meno sarà la fiducia che tale relazione si possa descrivere tramite uno
schema formale fisso.
(14) Questa, come si sosterrà nel par. I.4., è una
caratteristica distintiva del linguaggio morale.
(15)
Tale la sopravvenienza era secondo tutti i partecipanti alla fase precedente
del dibattito (si veda R.M. Hare, Il linguaggio della morale, Ubaldini, Roma 1968, p. 120, § 8.2. [ed. or. The Language of
Morals, Clarendon Press, Oxford 1952], Blackburn, Moral Realism, p. 121).
(16) Questo presupposto necessario della
sopravvenienza viene messo in luce efficacemente da Smith, Does the Evaluative
Supervene on the Natural?, pp. 92-6.
(17) Jackson, From Metaphysics to Ethics, pp. 119-22.
(18)
Si tratta di una forma di naturalismo che, al di là delle divergenze
specifiche, unisce pensatori come Blackburn e Gibbard, Boyd e Brink – i quali,
pur non essendo certamente i soli protagonisti della scena metaetica degli anni
Ottanta (in quegli anni John McDowell portava a compimento il suo progetto, che
conduce ad un naturalismo molto diverso, e molti pensatori di ispirazione
kantiana elaboravano teorie metaetiche complessive), ne hanno occupato
certamente gran parte. Considerando il naturalismo in metaetica si è soliti
distinguere fra «naturalismo sostantivo» e «naturalismo metodologico» (si veda
P. Railton, Naturalism and Prescriptivity, in “Social Philosophy and Policy”, VII,
1989, pp. 151-74). La sommaria ricostruzione presentata nel testo trascura
questa distinzione, a favore di una differenza fra forme di naturalismo non
riduzionista (che a parere di chi scrive accomuna tutti gli autori menzionati
all’inizio di questa nota) e naturalismo riduzionista (per una ricostruzione
attenta a queste differenze si v. P. Donatelli, La teoria morale
analitica: un bilancio degli ultimi venticinque anni, pp. 27-44, in Etica
analitica. Analisi, teorie, applicazioni, a cura di P. Donatelli ed E.
Lecaldano, LED, Milano 1996, pp. 9-133).
(19) Si vedano J. Griffin, Value Judgement, Oxford University Press,
Oxford 1996, D. McNaughton, Moral Vision, Basil Blackwell, Oxford 1988,
J. Dancy, Moral Reasons, Basil
Blackwell, Oxford 1993, R.M. Adams,
Finite and Infinite Goods. A Framework for Ethics, Oxford University Press,
Oxford 1999.
(20) Ovviamente, i progetti di riduzione non
sono una novità degli anni Novanta, e corrono paralleli a forme non
riduzioniste di naturalismo – e la critica a forme di naturalismo riduzionista
data almeno dal famoso open question argument di Moore (si veda G.E. Moore, Principia Ethica,
Cambridge University Press, Cambridge 1903, I, §§ 8-14). Nondimeno, la
posizione di Jackson che esamineremo in seguito è esplicitamente intenzionata
ad argomentare a favore di una forma di fisicalismo e della riduzione analitica
dei termini morali a quelli descrittivi.
(21) Si veda J. McDowell, Mind and World, Harvard University
Press, Cambridge (Mass.) 1994, p. 84.
(22) Cfr. ad
esempio D. Wiggins, Cognitivism, Naturalism, and Normativity, in Reality, Representation, and
Projection, a cura di J. Haldane e C.
Wright, Oxford University Press, Oxford 1993, pp. 301-14.
(23) Si veda J. McDowell, Il non cognitivismo e la
questione del seguire una regola, p. 164, in Donatelli e
Lecaldano, Etica
analitica, pp. 159-82 [ed. or. Non-Cognitivism and Rule
Following, in Wittgenstein:
to Follow a Rule, a cura di S.H. Holtzmann e
C.M. Leich, Routledge and Kegan, London 1981, pp. 141-62].
(24) Cfr. D. McNaughton e P. Rawling, Unprincipled Ethics, pp. 257-62, in Moral Particularism, a cura di B. Hooker e O. Little, Clarendon
Press, Oxford 2000, pp. 256-75.
(25) Dancy, Moral
Reasons, pp. 60-2, 66-71.
(26) Si veda, per una versione di
espressivismo che accentua il fatto che gli atteggiamenti e i sentimenti morali
sono rivolti al mondo, S. Blackburn, Ruling Passions. A
Theory of Practical Reasoning,
Clarendon Press, Oxford 1998, pp. 122-5, 253-6.
(27) Ma
sull’oggetto della valutazione non tutti gli espressivisti sono d’accordo:
Blackburn sembra propendere per l’idea che si valutino azioni e sentimenti, ma
non caratteri nel loro complesso (si veda Ruling Passions, pp. 8-14, 27-37), e anche
Gibbard tende a ritenere che i sentimenti e le reazioni altrui, e le norme da
cui derivano, siano oggetto di valutazione privilegiato (si veda A. Gibbard, Wise Choices, Apt Feelings.
A Theory of Normative Judgment, Clarendon Press, Oxford 1990, pp. 6-9, 45-52).
(28) O
più propriamente al linguaggio della geometria inteso come parte di quel
linguaggio indipendente che è la matematica (assunto come comprensivo di
logica, teoria degli insiemi, aritmetica e geometria).
(29)
La non indipendenza, se accoppiata alla specificità, non corrisponde alla
dipendenza: se così fosse, infatti, (alla luce di certe assunzioni semantiche)
il linguaggio morale sarebbe riducibile a quello da cui dipende, perdendo la
propria specificità.
(30) Ma si veda la nota 28 precedente.
(31)
Si veda Kim, Supervenience
as a Philosophical Concept, pp. 8-9.
(32)
In altre parole, la sopravvenienza dovrebbe permettere la realizzabilità
multipla.
(33) Ovviamente, si può trattare di un
significato relativo: relativo a chi parla, a una certa cultura, a un certo
contesto. Ma, anche ipotizzando che si diano solo significati relativi,
contestare l’uso di un certo predicato morale – secondo questo modo di pensare
– non equivale soltanto a sostituire un significato ad un altro, bensì a contestare un certo
uso, o una certa attribuzione di significato.
(34) Cfr. R.M. Hare, L’ontologia in etica, pp.
96-7, in Saggi
di teoria etica, pp. 87-103 [ed. or. in Morality and Objectivity: Essays in Memory of John
Mackie, a cura di T. Honderich, Routledge and Kegan, London 1985],
Libertà e
ragione, il Saggiatore, Milano 19902, p. 269, § X.7. [ed. or. Freedom and Reason, Oxford University Press, Oxford 1963].
(35) Questa è la strategia di Blackburn (Moral Realism, p. 114 e
Supervenience
Revisited, pp. 132-4), ma anche di Hare (in Che cosa fa di una scelta
una scelta razionale?, pp. 51-2, in Saggi di teoria etica, pp. 36-52 [ed. or. in “Review of
Metaphysics”, XXXII, 1979]).
(36)
Ma ovviamente ci sono molte teorie su che cosa esattamente sia un linguaggio, e
qui non si intende prendere posizione su nessuna di esse, né si intende
adottarne una in particolare.
(37) Cfr. Blackburn, Supervenience Revisited, pp. 136-7.
(38) Gli autori che sembrano essere menzionati
come possibili progenitori della sopravvenienza sono Sidgwick e Moore. Sidgwick
sicuramente ha espresso, come ricorda Kim (Supervenience as a Philosophical Concept, pp.
5-6), l’idea che qualsiasi differenza di giudizio morale su situazioni
apparentemente simili vada giustificata menzionando una differenza non morale
rilevante (si veda H. Sidgwick, I metodi dell’etica, il Saggiatore, Milano
1995, III, cap. I, § 3, p. 238 [ed. or. The Methods of Ethics, Hackett, Indianapolis, 1981 (19077)]). Ma
Sidgwick utilizza quest’idea per articolare una teoria normativa incentrata su
principi universali nel contesto di una metaetica molto diversa da quella che
ammette un ruolo rilevante della sopravvenienza. In particolare, è vero che
Sidgwick ha una teoria etica normativa universalista strutturalmente simile a
quella che Hare trarrà dalla sopravvenienza – e dall’universalizzazione (come
si vedrà in questo paragrafo). Ma la metaetica di Sidgwick è assolutamente
minima, e non presuppone alcuna visione complessiva del linguaggio morale e
della sua logica (si veda R. Shaver, Sidgwick’s Minimal Metaethics,
“Utilitas”, XII, 2000, pp. 261-77). Di conseguenza, il suo universalismo non
deriva da una tesi di ordine concettuale o logico.
Una tesi
di sopravvenienza viene attribuita a Moore da Blackburn (Supervenience Revisited, p. 130),
Kim (Supervenience
as a Philosophical Concept, p. 6), Klagge (Supervenience: Ontological and Ascriptive, p. 461)
e da Shafer-Landau
(Moral Realism, p. 85).
Tuttavia, sarebbe più corretto sostenere che Moore adotta una tesi di necessitazione
(la distinzione fra le due tesi si deve a Hare, La sopravvenienza, pp. 74-7,
come vedremo più oltre in questo paragrafo): secondo Moore, le proprietà
morali, pur non potendo essere ridotte a quelle non morali, sono da esse
determinate (si veda G.E. Moore, Reply to my Critics, p. 588, in The Philosophy of G.E. Moore, a cura
di P. Schlipp, Open Court, La Salle (Ill.) 1942). Questa tesi in primo luogo è
di ordine metafisico e non concettuale – come invece è la sopravvenienza (anche
se alcuni sostengono che si dia una versione ontologica della sopravvenienza,
si veda Klagge,
Supervenience: Ontological and Ascriptive). In secondo luogo, la
necessitazione produce una visione del linguaggio morale assolutamente difforme
da quella che abbiamo rintracciato alla base della sopravvenienza. Se è
metafisicamente necessario che certe proprietà non morali costituiscano o siano
co-estensive con le proprietà morali (questo vuol dire che le une sono determinate dalle
altre), e il linguaggio morale denota o esprime le proprietà morali, le
condizioni di applicazione del linguaggio morale non sono fluttuanti come nella
visione precedentemente esposta. Esse sono invece fissate dalla metafisica, una
metafisica che esclude la possibilità di una realizzabilità multipla delle proprietà
morali. Invece, la realizzabilità multipla è proprio quello che viene richiesto
dalla visione del linguaggio morale articolata dalla sopravvenienza, come
presentata in precedenza.
(39) Si veda Il linguaggio della morale, pp.
80-1, § 5.2. Secondo Kim (Supervenience as a Philosophical Concept, pp. 3-4), però, il
termine risale ai teorici emergentisti britannici del secolo scorso. Il
medesimo Hare, peraltro, ammette di non essere stato il primo a usare il
termine (La sopravvenienza, p. 71).
(40) Cfr. McNaughton e Rawling, Unprincipled
Ethics,
p. 262.
(41)
Secondo Hare, infatti, «tutti i giudizi valutativi hanno implicitamente
carattere universale, vale a dire si riferiscono ed esprimono l’adesione a un
criterio che viene applicato ad altri casi simili» (Il linguaggio della morale, p.
118, § 8.1), e, inoltre, «il significato del verbo ‘dovere’ e di altre parole
morali è tale che una persona che le usa è con ciò tenuta a accettare una
regola universale» (Libertà e
ragione, p. 62, § III.1.).
(42) Questo, secondo Hare, è «uno dei tratti
più caratteristici delle parole valutative»: «‘buono’ e altri termini del
genere designano proprietà ‘sopravvenienti’ o ‘consequenziali’» (ivi, p. 37-44,
§§ II.2.-4.); «se esprimo un giudizio morale intorno a una cosa, ciò deve
avvenire in virtù di una qualche caratteristica della cosa stessa» (ivi, p. 72,
§ III.5.).
(43)
«La caratteristica dei giudizi valutativi che chiamiamo universalizzabilità –
sostiene Hare – è semplicemente quella che essi condividono con i giudizi
descrittivi, vale a dire il fatto che essi hanno entrambi significato
descrittivo» (ivi, p. 43, § II.4.).
(44)
Ivi, p. 61, § III.1.
(45) Hare, Il linguaggio della morale, p. 80, §
5.2.
(46) Ivi, p. 81, § 5.3.
(47) Ivi, pp. 83-8, §§ 5.4.-7., p. 108, § 7.2.: «se esistesse
[…] una congiunzione C di caratteristiche descrittive tale che ‘Giorgio ha C’
implica ‘Giorgio è moralmente buono’ […], non potremmo lodare un uomo perché
possiede quelle caratteristiche; potremmo solo dire che le possiede» (ivi, p.
131, § 9.3.).
(48) Ivi, pp.
33-60, cap. II.
(49) Ivi, p.
113, § 7.5.
(50) «Quando un principio sia stato adottato
[…], le sue formulazioni e le sue applicazioni acquistano […] un significato
descrittivo. […] Nel caso in cui, anziché adottare questo principio, ne
avessimo adottato un altro, le cosiddette regole della nostra lingua sarebbero
state diverse. E analogamente, se, invece che questo principio, ne avessimo
adottato un altro, sarebbero stati diversi anche quelli che, in modo
fuorviante, chiamiamo “fatti morali”; questi fatti non sono nient’altro che
forti disposizioni nostre a chiamare ingiusti certi fatti. Naturalmente, è bensì
un fatto che noi abbiamo certe disposizioni; ma queste disposizioni noi non le
abbiamo se non in virtù di un fatto ulteriore, ossia dell’adozione da parte
nostra di quel principio: ciò che non sarebbe stato un fatto, nel caso in cui
ne avessimo adottato un altro. […] La decisione morale fondamentale, quella che
esige riflessione morale razionale, è in primo luogo l’adozione di quel
principio» (Cos’è
che fa di una scelta una scelta razionale?, pp. 51-2).
(51)
R.M. Hare, Il linguaggio della morale, p. 91, § 6.2
(52) Ivi, p.
94-9, § 6.3.-5.
(53) Cfr. Miller, An Introduction, p. 54.
(54)
«Una volta affermato che c’è (anche se non siamo in grado di dire quale sia)
una premessa universale che regge e che questa, congiuntamente con una premessa
sussuntiva che pure regge (sebbene anche di essa non siamo in grado di dire
quale sia), implica logicamente che il caso ha la proprietà morale in
questione, ne discenderà che qualunque altro caso esattamente uguale a questo
per altri versi avrà la medesima proprietà morale; anch’esso infatti non potrà
che essere sussumibile sotto la stessa premessa universale» (La sopravvenienza,
p. 78).
(55) Ivi, pp.
75-7. In altri termini, chiarisce Hare, «la premessa universale non ha bisogno
di essere una verità necessaria», come è evidente nel caso della bellezza: «la
bellezza è sopravveniente rispetto alle proprietà descrittive […]; ma quando
esprimiamo il nostro apprezzamento per una stanza dicendo che è bella non siamo
vincolati dal tipo di stanza su cui esprimiamo il nostro apprezzamento» (ivi, pp.
79-80).
(56) Ivi, p.
74.
(57) Ivi, p.
80.
(58) Ivi, pp.
80-1.
(59) Per queste sue caratteristiche, il tipo
di sopravvenienza adottato da Hare è stato definito «prospettico» (si veda
Klagge,
Supervenience: Perspectives V. Possible Worlds, pp. 313-5). Klagge
sostiene anche che la sopravvenienza prospettica è forte, vale a dire valida in
tutti i mondi possibili – almeno all’interno di quella prospettiva.
Quest’osservazione sembra difficile da comprendere, come sembra oscura,
peraltro, la nozione di sopravvenienza forte (per cui si veda J. Kim, Concepts of Supervenience, in
“Philosophy and Phenomenological Research”, LXV, pp. 153-76), almeno se la si
intende come un rapporto di necessaria co-varianza fra certi insiemi di
proprietà valido in tutti i mondi possibili. Infatti, in questa forma parrebbe
trattarsi di necessitazione, più che sopravvenienza: e, perché la
sopravvenienza possa rendere conto di certe caratteristiche del linguaggio
morale, sembra essenziale distinguerla dalla necessitazione. Si potrebbe
pensare ad una forma di sopravvenienza forte, ma rigorosamente concettuale
(cfr. Blackburn, Supervenience
Revisited, p. 137)? L’idea potrebbe essere che, una volta che
qualcosa venga definito «coraggioso» in virtù di certe sue caratteristiche non
morali, tutte le cose ad esso simili debbono essere chiamate «coraggiose» – nel
mondo attuale e in tutti i mondi possibili. Questa tesi si potrebbe
interpretare in due maniere: (1) Se qualcosa è coraggioso in quanto ha certe
caratteristiche, allora è logicamente necessario che qualcosa che è esattamente
simile (indiscernibile) sia – almeno per chi ha coniato la definizione di
«coraggioso» in questione – egualmente coraggioso. E perché escludere che qualcosa
di esattamente simile possa ricorrere in un mondo possibile differente da
quello attuale? (2) Il fatto che definire qualcosa «coraggioso» significa che
la cosa in questione ha certe caratteristiche si può spiegare postulando che
tali caratteristiche determinino quello che costituisce l’essere coraggioso, in
tutti i mondi possibili. Dunque, se qualcosa è coraggioso in quanto ha certe
caratteristiche, allora è logicamente e metafisicamente necessario che qualcosa
che è ad esso simile almeno per le caratteristiche in questione sia egualmente
coraggioso. Ora, (1) è alquanto banale, e se è questo quello che Klagge intende
dire, allora è vero – ma poco utile. (2), invece, è quantomeno opinabile.
Lasciando da parte la tesi secondo cui qualsiasi definizione rintraccia una
relazione di determinazione metafisica, anche chi ritenga che una qualche forma
di costituzione metafisica della realtà spieghi il possesso di certe
caratteristiche morali, nonché l’uso di certi termini del linguaggio morale
(come vedremo, nel par. III.10., che farà Shafer-Landau), può arrestarsi prima
della necessitazione – e concedere la possibilità che in altri mondi possibili
le cose vadano diversamente.
(60)
R.M. Hare, Libertà e ragione, p. 34, § II.1.
(61) Blackburn, Moral Realism, pp. 119-23.
(62) Cfr.
Shafer-Landau, Moral Realism, pp. 82-3.
(63) Si veda
J. Klagge, An Alleged Difficulty Concerning Moral Properties, p. 375, in “Mind”, XCIII, 1984, pp. 370-80, D.O.
Brink, Moral Realism and the Foundations of Ethics, Cambridge University Press, Cambridge 1989, pp.
197-210.
(64)
Cfr. Hare, La sopravvenienza, pp. 71-2, 77.
(65) Cfr. J. Mackie, Ethics: Inventing Right and Wrong, Penguin, Harmondsworth
1977, p. 38.
(66) Cfr. Miller, An Introduction, p. 33, 288 n. 3.
(67) Jackson, From Metaphysics to Ethics, pp. 144-6.
(68) Ivi, pp.
122-3.
(69) Ivi, p. 121.
(70) Ivi, p.
123.
(71) Ivi, p.
125.
(72) Ivi, pp. 124-5.
(73) S. Blackburn, Spreading the Word. Groundings in
the Philosophy of Language, Clarendon Press, Oxford 1984, pp. 182-7.
(74) Jackson, From Metaphysics to Ethics,
pp. 161-2.
(75) Cfr. J.
Raz, The Truth in Particularism, p. 51, in Hooker e Little, Moral
Particularism, pp. 48-78.
(76)
Vedi il par. IV.11. seguente.
(77) Si potrebbe osservare che anche per il
realismo di Cornell la realtà morale non era esclusivamente linguistica e
mentale, ma costituiva un ambito metafisico autentico. Ma si noti che comunque
i realisti di Cornell sono dei naturalisti, per cui quello che chiamano realtà
morale è un pezzo della natura, un pezzo di qualcos’altro – come per Hare e
Blackburn la realtà morale è un pezzo del linguaggio e della mente umani. Per
Shafer-Landau parrebbe esserci un ambito sui generis della realtà, in cui si
collocano proprietà morali – anche se egli sostiene, parsimoniosamente, che la
realtà morale è formata solo da proprietà esemplificate, e non da sostanze
distinte dalle sostanze ordinarie (Moral Realism, pp. 74-5).
(78) Ivi, pp. 90-2.
(79) Ivi, pp.
72-8, 86.
(80) Ivi, p.
86-8.
(81) Ivi, p.
86.
(82) Ivi, pp.
95-6.
(83) Si veda ad esempio quanto osserva
Blackburn in
Ruling Passions, p. 317.
(84)
Una posizione simile viene espressa da Joseph Raz (The Truth in Particularism, pp.
53-5).
(85) Cfr.
McNaughton e Rawling, Unprincipled Ethics, p. 263.
(86) Hare, Libertà e ragione, p. 47 (ma vedi anche le
pp. 45-6).
(87) Ma cfr. anche Raz, The Truth in Particularism, p. 51.
(88) Ma la terminologia di Ross, secondo cui
le proprietà morali risultano, o sono consequenziali, a quelle non morali,
compare anche in Hare (si veda W.D. Ross, The Right
and the Good, a cura di Ph. Stratton-Lake, Clarendon Press, Oxford 2002
[ed. or. 1930], pp. 79, 88, 155, e Hare, Il linguaggio della morale, p. 80, §
5.2.).
(89) Dancy, Moral Reasons, pp. 73-4, Ethics
Without Principles, Clarendon Press, Oxford 2004, p. 85.
(90)
Hare, Libertà e ragione, p. 50, § II.6.
(91) Cfr. Dancy, Moral Reasons, p. 76.
(92) Ivi, pp. 76-7, Ethics Without Principles, pp. 86-7.
(93) Ivi, p.
87.
(94)
D’altronde, la risultanza non è altro che l’idea che il linguaggio morale sia
specifico ma non indipendente.
(95) Griffin, Value Judgement, p. 45.
(96) Ivi, p. 46, J. Griffin, Replies, p. 297, in Crisp e
Hooker, Well-Being and Morality, pp. 281-313.
(97) Griffin, Value Judgement, pp. 48-51.
(98) M. Smith, Does the Evaluative Supervene on the Natural?, pp. 109-10.
(99) J. Griffin, Replies, p. 301.
(100)
Ivi, p. 301.
(101) Ivi, p.
302.
(102) M. Smith, Does the Evaluative
Supervene on the Natural?, pp.
113-4.