Etica&Politica/ Ethics&Politics, 2005, 1

http://www.units.it/etica/2005_1/PELLEGRINO.htm

 

 

Teorie e storia della sopravvenienza: da Hare alla svolta degli anni Novanta

 

Gianfranco Pellegrino

 

Centro di ricerca e studi sui diritti umani

LUISS - Roma

 

 

 

Mondo, sii, e buono;

esisti buonamente

(A. Zanzotto, Al mondo, in Poesie (1938-1986), Mondadori, Milano 1993, p. 167)

 

 

Abstract

At least in the past fifty years, supervenience has been an ubiquitous philosophical concept – employed from metaphysics to ethics. The paper focuses on uses of supervenience in the field of ethics. After a brief survey of the classical debate between realists and anti-realists on supervenience (main participants: Hare, Blackburn, Brink and Railton), an account of the view of language involved in supervenience is presented. Relying on such an account, a turning point is placed in the Nineties, when supervenience was either weakened (in authors like Frank Jackson and Russ Shafer-Landau) or definitely discarded (by J. Dancy and J. Griffin). Both moves lead to a new face taken by normative theory, which ceases to revolve around universal principles – or at least it ceases to build universal principles in the traditional way, by generalizing on similar cases.

 

 

Introduzione: sopravvenienza e realtà morale

 

1. Se si dice che Achille è coraggioso, perché non arretra mai di fronte al pericolo, anche quando si trova in una condizione impari, si deve dire lo stesso di un individuo – reale o ipotetico – che sia esattamente simile al condottiero greco in tutte le caratteristiche non morali rilevanti per determinare il coraggio di Achille: (1) in altre parole, lo si deve dire anche di un altro condottiero che non arretri mai di fronte al pericolo, ecc. Nella metaetica analitica della seconda metà dello scorso secolo, questo dettame di coerenza viene definito «sopravvenienza».(2)

Spesso i termini della filosofia derivano dal linguaggio quotidiano. «Sopravvenienza», invece, nasce già da subito come termine tecnico.(3) Esso indica per l’appunto un vincolo concettuale sull’uso coerente dei termini del linguaggio – del linguaggio morale, nel nostro caso.(4) Se un certo termine predicativo morale – ad es. «buono» o «coraggioso» – viene usato per indicare le caratteristiche morali di un oggetto che ha anche caratteristiche non morali, oggetti esattamente simili (almeno per le loro caratteristiche non morali) debbono essere considerati in possesso della medesima caratteristica morale.

La nozione di «sopravvenienza» è servita ad articolare una serie di intuizioni condivise sull’uso e il funzionamento del linguaggio in generale, e del linguaggio morale ordinario in particolare. Alcune di queste intuizioni compongono direttamente la tesi di sopravvenienza. Altre ne costituiscono le premesse, o a volte il retroterra. Una esposizione di questa visione intuitiva del linguaggio morale, e una definizione analitica della tesi di sopravvenienza, verranno presentate nel par. I.

Dagli anni Cinquanta del secolo scorso (e in particolare negli anni Settanta e Ottanta), c’è stato un dibattito ininterrotto sulla sopravvenienza.(5) La discussione si è concentrata soprattutto su due questioni: a) qual è la migliore concezione di sopravvenienza e b) qual è la migliore analisi filosofica del linguaggio morale, alla luce della migliore concezione di sopravvenienza. Opinione comune è stata che la migliore concezione di sopravvenienza sia quella che rende conto nella maniera più fedele delle intuizioni sulla natura e il funzionamento del linguaggio morale. Una mossa altrettanto comune è stata quella di muovere a certe teorie metaetiche – particolarmente a quelle realiste – l’obiezione di non riuscire a incorporare la nozione di sopravvenienza, e dunque di fallire nel rappresentare adeguatamente la nostra visione condivisa del linguaggio morale.(6)

La sopravvenienza si può ridurre ad un mero vincolo concettuale che regola l’uso dei termini del linguaggio morale in relazione a termini del linguaggio non morale. Ma, così formulato, il vincolo necessita di ulteriori giustificazioni. Per questo, il compito principale delle teorie della sopravvenienza è stato quello di spiegare le ragioni e il senso della tesi di sopravvenienza.(7) Risultando compatibile con spiegazioni differenti, la sopravvenienza è presente in teorie metaetiche anche molto diverse fra loro.

Il requisito che impone di usare il medesimo termine morale per individui o oggetti che condividano le medesime caratteristiche non morali si può spiegare facendo appello all’idea che il linguaggio morale non sia che una descrizione di certe proprietà non morali delle cose: dunque, a proprietà simili deve corrispondere un termine descrittivo simile.(8)

Oppure si può ritenere che il linguaggio morale esprima impegni dei parlanti che debbono essere resi coerenti fra loro, anche in riferimento agli oggetti cui si applicano: quindi, a oggetti simili nelle loro caratteristiche non morali (9) si applicano impegni simili.(10)

Infine, si può pensare che il linguaggio morale faccia riferimento a certe proprietà specificamente morali, le quali sono legate da una qualche relazione con le proprietà non morali degli oggetti: per cui, a proprietà non morali simili saranno legate proprietà morali simili, che dovranno essere denotate dal medesimo termine del linguaggio morale.(11)

Queste tre visioni, come vedremo, saranno tutte articolate nel dibattito metaetico sulla sopravvenienza, dagli anni Cinquanta sino alla fine degli anni Novanta (questo dibattito verrà presentato in maniera più dettagliata nei paragrafi II-IV). Esse sono accomunate da un presupposto comune: la fiducia nella possibilità di distinguere fra linguaggio – o proprietà – morali e linguaggio – o proprietà – non morali. L’idea stessa di sopravvenienza, e le sue funzioni teoriche, si basano sul presupposto che una distinzione del genere sia possibile, fertile e sensata. Inoltre, la distinzione dev’essere tale da consentire l’indipendenza del livello morale da quello non morale. Il linguaggio e le proprietà morali debbono intrattenere delle relazioni, ma non debbono poter essere ridotti, né ancorati in maniera metafisicamente necessaria, al livello del linguaggio o delle proprietà non morali.(12) Si deve trattare, peraltro, di relazioni che abbiano una struttura riconoscibile, di cui si possa fornire uno schema formale. Non è sufficiente che ci sia una qualsiasi relazione fra predicati – o proprietà – morali e non morali: si deve trattare di una relazione stabile e dotata di una forma descrivibile (altrimenti la sopravvenienza diviene una relazione banale o vuota).(13)

Parlare del coraggio di Achille necessariamente significa anche occuparsi delle caratteristiche non morali dell’eroe greco.(14) Ma non si può ridurre a questo, o meglio non è qualsiasi modo di parlarne: chi impara che cos’è il coraggio di Achille, e chi ne fa oggetto del proprio apprezzamento, fa qualcosa di differente rispetto a chi descriva, magari misurandole, le capacità fisiche o mentali del celebre condottiero.

Fino a una certa epoca, questa visione del linguaggio morale, e della sua specificità, è stata l’obiettivo essenziale di chi proponeva teorie sulla sopravvenienza. In questo senso, la sopravvenienza presuppone una certa visione della realtà in generale, e della realtà morale in particolare – una visione che ne costituisce la premessa necessaria. Chi mettesse in dubbio tale premessa, prima o poi dovrebbe rinunciare a far uso della nozione stessa di sopravvenienza come intesa in questo dibattito.

 

 

2. Questo è quello che è accaduto negli anni Novanta. La discussione ha subito una svolta drastica: alcuni autori hanno abbandonato del tutto la nozione di sopravvenienza, ribellandosi all’idea che si tratti di un requisito necessario per una teoria metaetica.(15) Altri, invece, hanno abbracciato concezioni della sopravvenienza che escludono esplicitamente alcune delle intuizioni sull’uso del linguaggio tradizionalmente articolate tramite l’uso di tale nozione.

Entrambe le parti – negatori della sopravvenienza e sostenitori di visioni ristrette di essa – sono accomunate da dubbi abbastanza pronunciati sulla maniera tradizionale di distinguere fra linguaggio, o proprietà, morali e non morali: dubbi che a volte si spingono fino a negare la possibilità di istituire la distinzione, a volte invece si fermano all’idea che non sia possibile tracciare una distinzione abbastanza precisa – o che fra i due livelli non ci siano relazioni abbastanza strutturate perché si possa parlare non tautologicamente di sopravvenienza.(16)

Anticipando: Frank Jackson sosterrà che ci sono distinzioni concettuali fra predicati morali e non morali, ma alla fin fine, a livello metafisico globale, tutto si riduce alle proprietà non morali (che Jackson definisce «descrittive»).(17) Russ Shafer-Landau negherà l’idea che la sopravvenienza sia innanzitutto un vincolo concettuale: egli sosterrà che le proprietà morali sono costituite in maniera metafisicamente necessaria da proprietà non morali (anche se non sono riducibili a queste ultime) e che questa forma di costituzione vmetafisica è prioritaria rispetto al vincolo concettuale rappresentato dalla sopravvenienza. (Queste due versioni di realismo vengono discusse nel par. III.)

Jonathan Dancy, invece, negherà che sia possibile alcuna relazione strutturata e fissa tra il livello delle proprietà morali e quello delle proprietà non morali. Pur ammettendo che il linguaggio morale in qualche modo verta sulle caratteristiche non morali dei propri oggetti, egli ritiene impossibile determinare una volta per tutte l’insieme di proprietà non morali che costituiscono l’oggetto cui si applica un certo predicato morale. Di conseguenza, il requisito di coerenza rappresentato dalla sopravvenienza è o impossibile – non ci sono situazioni simili in cui usare il medesimo predicato – o banale – ogni situazione è uguale a se stessa, e si userà il medesimo predicato solo se si ripeterà (cosa del tutto improbabile) esattamente la stessa situazione.

Secondo James Griffin, invece, anche se è vero che ci viene richiesto di spiegare l’uso che facciamo dei predicati morali («perché dici che Achille è coraggioso?»), e che per farlo menzioniamo le caratteristiche degli oggetti di predicazione («perché è un condottiero che non arretra di fronte al pericolo»), queste spiegazioni vengono condotte anch’esse impiegando il linguaggio morale, dal quale – per così dire – non si esce mai. (Dancy e Griffin sono discussi nel par. IV)

Fino agli anni Novanta, quindi, il dibattito presenta una rappresentazione unitaria e condivisa della realtà morale, come fenomeno sostanzialmente specifico e autonomo rispetto alla realtà non morale, ma non distaccato da essa. Molte delle proposte di quegli anni avevano l’obiettivo di rendere conto del linguaggio e della realtà morale all’interno di una prospettiva più ampia, entro la quale il pensiero morale appariva come parte del pensiero e dell’azione umani in generale, di cui si può dare una spiegazione in termini naturalistici, ma con la larghezza di vedute necessaria a non schiacciarli su elementi necessariamente fisici o materiali.

Negli anni Settanta e Ottanta, realisti e antirealisti sono uniti da una comune cornice naturalista, caratterizzata dall’attenzione alle specificità del pensiero e del linguaggio morale e dal tentativo di inserire questi ultimi in una teoria generale della natura umana e della natura del mondo.(18) Negli anni Novanta, invece, rinasce da un lato la contrapposizione fra forme di realismo metafisico antinaturalista (19) e tentativi di riduzione fiscalista,(20) mentre la proposta di un naturalismo della seconda natura dovuta a John McDowell (21) viene sempre più esplorata, dando vita a visioni della realtà morale come regno autonomo e distinto rispetto agli altri ambiti della natura.(22) A questo si accompagna l’abbandono della sopravvenienza, o la drastica riduzione del suo ruolo. La fine della sopravvenienza come classicamente intesa, dunque, giunge insieme ad un mutamento della visione della realtà morale.

Inoltre, abbandonando la visione tradizionale del linguaggio morale e delle sue relazioni con il linguaggio in generale, negli anni Novanta si scardina anche la tradizionale rappresentazione della teoria etica normativa come indagine articolata intorno alla ricerca di principi universali. Nel dibattito precedente, la sopravvenienza serviva ad articolare una visione che – nonostante le divisioni fra realisti e antirealisti sulla semantica e sull’ontologia – condivideva l’idea per cui il linguaggio morale ordinario permette l’elaborazione di una teoria etica normativa che produce principi di condotta universali.

Gli anni Novanta, invece, mostrano un lento percorso verso una nuova visione del linguaggio morale, che sembra escludere la possibilità stessa di una teoria etica normativa costruita su principi universali. Si tratta del risultato di un’evoluzione lenta: il cosiddetto particolarismo è un tratto distintivo del pensiero di John McDowell, che ha il suo apice negli anni Ottanta e non rifiuta del tutto l’idea di sopravvenienza.(23)

Alcuni degli autori che operano negli anni Novanta e che discuteremo (nello specifico, Frank Jackson e Russ Shafer-Landau) non negano la possibilità di una teoria etica universalista, ma rifiutano solo la maniera tradizionale di derivare principi universali dalla sopravvenienza intesa come vincolo concettuale. James Griffin, pur rifiutando del tutto la nozione di «sopravvenienza», conferma il suo impegno nei confronti di una teoria universalista. È solo Jonathan Dancy che, depotenziando del tutto l’idea di «sopravvenienza», porta alle estreme conseguenze il particolarismo di McDowell e fornisce una metaetica che rende impossibile un’etica articolata attorno a principi universali. Ma – e questa è l’ipotesi che muove la nostra ricostruzione complessiva – egli può arrivare a questa conclusione sulla scorta del dibattito precedente, sfruttando ai suoi fini molte delle obiezioni mosse alla tradizionale teoria della sopravvenienza, che Hare e i suoi epigoni mettevano esplicitamente al servizio di una teoria etica normativa universalista.(24)

In particolare, è la negazione di una distinzione strutturata e precisa fra caratteristiche morali e non morali delle cose che costringe ad abbandonare il progetto di una teoria etica normativa costruita intorno a principi universali, intesi come specificazione di quelle caratteristiche non morali delle cose che, una volta e per tutte, hanno rilevanza morale. Nella versione fornitane da Dancy, il particolarismo sostiene che non è possibile dire che il piacere, ad esempio, sia sempre una cosa buona. Le molte eccezioni a questo principio non sono, come si sarebbe portati a pensare, eccezioni a una rilevanza generalizzata del piacere. Piuttosto, esse mostrano che la rilevanza morale del piacere, al pari di quella di molte altre circostanze e aspetti delle situazioni, fluttua e varia inevitabilmente a seconda dei contesti, e non può essere generalizzata.

Lo stesso predicato, ad es. «buono», che viene usato per riferirsi alla rilevanza morale di qualcosa – ad es. il piacere – in una certa situazione, in contesti anche apparentemente simili può con piena coerenza venire usato per riferirsi a qualcos’altro, a una caratteristica anche completamente differente. A seconda del contesto, buono è il piacere, ma buono può essere anche il dolore (si pensi alla pena meritata inflitta a un feroce assassino, o al sacrificio compiuto per qualcosa cui si tiene molto, al sacrificio presente per un maggiore piacere futuro).

Questa oscillazione dell’uso del medesimo predicato morale non è affatto incoerente, ma esprime la nostra percezione della specificità morale di situazioni anche apparentemente simili. Pretendere un uso rigidamente coerente dei predicati morali, e codificarlo in una teoria sulle relazioni fra predicati morali e predicati non morali, significa perdere di vista la realtà autentica in cui il linguaggio morale viene quotidianamente usato.(25)

 

 

I. Sopravvenienza e linguaggio morale

 

3. La nozione di «sopravvenienza» articola una serie di intuizioni condivise sulla natura, l’uso e il funzionamento del nostro linguaggio morale quotidiano. Se diciamo che Ulisse è astuto, un individuo del tutto simile ad Ulisse dovrà essere dichiarato anch’egli astuto. Questo vincolo di coerenza non deriva solo dalla richiesta di non contraddirsi: esso si basa sull’idea che chi dica che Ulisse è astuto, se richiesto di spiegarsi o di giustificare la sua valutazione, farà riferimento a caratteristiche di Ulisse che costituiscono la sua astuzia – come il suo comportamento nelle avversità, le sue disposizioni, la sua maniera di parlare. Allora, in un certo senso, tali caratteristiche – che spesso si possono descrivere senza utilizzare termini valutativamente carichi – possono costituire (una parte de)l significato del termine «astuto» in quanto applicato ad Ulisse. E, ovviamente, chi assuma che un certo insieme di caratteristiche sia ciò a cui un certo termine fa riferimento, dovrebbe usare il termine tutte le volte che si trova di fronte a tale insieme. E questo accadrà ovviamente quando ci si trovi di fronte ad un individuo del tutto simile ad Ulisse.

Se chi parla non si comportasse così, verrebbe meno un meccanismo essenziale del linguaggio e della sua comprensione, vale a dire il fatto che con le nostre parole facciamo riferimento a certi insiemi di caratteristiche del mondo – esterno e interno a noi – e questo avviene in maniera stabile e regolare. La stessa parola serve per riferirsi alle stesse cose.

Si può obiettare che non usiamo i predicati morali solo per fare riferimento alle cose, per nominarle: impieghiamo il linguaggio morale anche (o soprattutto) per esprimere i nostri atteggiamenti. Ma si tratta pur sempre di atteggiamenti rivolti al mondo e non interni al linguaggio medesimo.(26) E dunque quel che è stato oggetto di un certo atteggiamento lo sarà stato in virtù di certe sue caratteristiche – se lodiamo Achille in quanto coraggioso, lo facciamo perché si comporta in un certo modo in battaglia, o meglio lodiamo proprio tale comportamento, e magari il carattere che ne è la fonte.(27) E, quindi, quel che condivide le caratteristiche che suscitano un certo atteggiamento deve essere oggetto del medesimo atteggiamento.

 

 

4. La nozione di «sopravvenienza», quindi, articola una precisa visione del linguaggio morale, da cui derivano tre differenti conseguenze, corrispondenti a tre principi di funzionamento del linguaggio morale.

Il linguaggio morale è specifico: ci sono termini specificamente etici e c’è un uso specificamente etico del linguaggio. Se il linguaggio morale non avesse una propria specificità, non si porrebbe neanche il problema del rapporto fra esso e il linguaggio non morale. O, meglio, se il linguaggio morale fosse autonomo e specifico soltanto in maniera apparente, e ci fosse un argomento inoppugnabile per mostrare che esso si riduce al linguaggio non morale, non si darebbe alcuna tesi significativa di sopravvenienza. Se il linguaggio morale non fosse che un insieme di sinonimi esatti di termini appartenenti ad un altro linguaggio non ci sarebbero fra i due linguaggi rapporti più interessanti che una riduzione analitica, in virtù di definizioni lessicali.

D’altra parte, anche nel caso in cui, oltre che specifico, il linguaggio morale fosse anche indipendente non si porrebbero i problemi di coerenza risolti dalla sopravvenienza. Infatti, se il linguaggio morale fosse del tutto indipendente da altri linguaggi, questo vorrebbe dire che al suo interno ogni singolo termine verrebbe specificato facendo riferimento ad altri termini appartenenti al linguaggio morale stesso. Al linguaggio morale si potrebbero ancora applicare requisiti di coerenza, naturalmente – requisiti che impongono di usare lo stesso predicato per fare riferimento al medesimo insieme di caratteristiche. Ma, nel caso di un linguaggio del tutto indipendente, di tali caratteristiche non si potrebbe dare nessuna descrizione differente da quella che ne dà il predicato medesimo, o differente dalle descrizioni ottenibili ricorrendo a termini esattamente sinonimi: quindi non si tratterebbe di un vincolo di coerenza che regola il rapporto fra uso del linguaggio morale e livello non morale.

Un requisito di mera coerenza si può applicare, ad es., al linguaggio indipendente della geometria.(28) Se si definisce «esagonale» una figura con sei angoli, allora si dovrebbero sempre chiamare «esagonali» tutte le figure con sei angoli. Ma questo è diverso dal dire che, se si chiama «coraggioso» un condottiero greco che non arretra di fronte al pericolo, si dovrebbero chiamare «coraggiosi» tutti i condottieri greci che si comportano in maniera simile. Nel secondo caso, «coraggioso», al contrario di «esagonale», è stato specificato facendo riferimento a una descrizione che si pretende non faccia impiego di predicati morali e si ponga dunque al di fuori dal linguaggio morale. Quest’ultimo caso, implicando il rapporto fra due linguaggi (o, secondo alcuni, fra due ambiti ontologici) specifici e differenti, pone il problema di ipotizzare delle relazioni coerenti fra due ordini di predicati. Si tratta sempre di coerenza, ma non è la coerenza richiesta per assicurare il mero uso coerente dei termini all’interno del medesimo ordine di linguaggio. In questo caso, la coerenza regola le relazioni fra due ordini specifici e differenti di linguaggio. Solo questa struttura dà vita ad una tesi di sopravvenienza.

Al contrario del linguaggio della geometria, il linguaggio morale, oltre ad essere specifico (cioè irriducibile al linguaggio non morale), è anche non indipendente,(29) nel senso che non può essere articolato completamente facendo ricorso soltanto alle proprie risorse. Il concetto di «angolo» è del tutto interno al linguaggio della geometria. Non è così per il concetto di «condottiero che non arretra di fronte al nemico in battaglia». Quindi «esagonale» può essere spiegato senza uscire dal linguaggio di cui esso stesso fa parte,(30) mentre «coraggioso» viene spiegato facendo riferimento a caratterizzazioni espresse con un linguaggio non morale.

Il linguaggio morale dunque, in quanto specifico ma non indipendente, si applica al suo esterno, per così dire, ma senza ridursi ad un linguaggio diverso. Dire che Ulisse è astuto significa dire che egli è uno di quegli uomini che sa trarsi d’impaccio nelle avversità. Ma dire che Ulisse è un individuo capace di trarsi d’impaccio nelle avversità non necessariamente significa dire che è astuto. Potrebbe servire per dire che è malizioso, o furbastro.

Questa peculiarità del linguaggio morale, vale a dire la sua specificità (non lo si può ridurre ad altri linguaggi) e la sua non indipendenza (in qualche maniera altri linguaggi sono necessari per farne uso), ha dato filo da torcere agli autori che hanno riflettuto sulla sopravvenienza. Secondo molti, d’altronde, il pregio di una nozione efficace di sopravvenienza è proprio fornire uno schema che consenta di avere una relazione di non indipendenza, ma non di riduzione, fra due ordini di predicati, o di proprietà.(31) È questo che rende la nozione particolarmente adatta ad esprimere la nostra concezione intuitiva del linguaggio morale.

Da questa visione conseguono tre condizioni di funzionamento del linguaggio morale:

 

a. criteri di applicazione: i linguaggi specifici ma indipendenti hanno criteri interni che ne fissano le condizioni di applicazione. Chi padroneggi il concetto di «angolo», sa anche che il predicato «esagonale» non si può applicare alla nota musicale la che viene prodotta da un diapason che vibra. Questo non vuol dire che il la del diapason non è esagonale, nel senso che il predicato «esagonale» è falso del la, come sarebbe il caso se esso venisse applicato ad un triangolo, o alla piramide di Cheope. Il termine semplicemente non è applicabile alla nota musicale la: non è né vero, né falso.

Lo stesso accade nel caso di linguaggi non specifici ma dipendenti. Nell’ipotesi, ad esempio, che il linguaggio della geologia sia assolutamente riducibile a quello della fisica, chi padroneggia il concetto di «roccia sedimentaria» sa anche che il predicato «roccioso» non si può applicare all’idrogeno allo stato gassoso. Come nel caso precedente, non è che il predicato sia falso se applicato ad un insieme di particelle di idrogeno. Esso non è applicabile, semplicemente non è né vero, né falso – è incongruo.

Nel caso del linguaggio morale, invece, da un lato per spiegare l’uso del predicato «coraggioso» si può usare una specificazione esterna al linguaggio morale («condottiero che non arretra di fronte al pericolo»), ma dall’altro è possibile dubitare che a tale specificazione si attagli il solo termine «coraggioso»: si può pensare che siano adeguati termini di senso opposto («pavido»), o semplicemente diverso («spavaldo»).

Inoltre, forse ci sono limiti di applicabilità dei termini morali (come accade per i termini appartenenti ad altri linguaggi), ma essi sono certamente più larghi e sfumati, e non sembrano derivare da criteri relativi solo alle mere definizioni. Si può dire che coraggiosa è una persona, ma anche un’azione: ma forse si può anche dire che un libro, una poesia, e persino un’immagine o una sinfonia sono coraggiosi. E, se si sente che c’è qualcosa che non va in questi usi, risulta difficile spiegarlo facendo appello solo alla definizione del termine o agli altri usi di esso – come avverrebbe invece nel caso di chi si ostinasse a dire che la nota la del diapason è esagonale.

Si è pensato che la sopravvenienza possa rendere conto di queste implicazioni della specificità e della non indipendenza del linguaggio morale. Essa è stata spesso vista come uno schema di relazione asimmetrica: i predicati morali sopravvengono su quelli non morali, ma il medesimo predicato morale può sopravvenire su differenti insiemi di predicati morali (la medesima proprietà morale può essere realizzata da molti insiemi di proprietà non morali),(32) a patto che, se un certo insieme di predicati, o proprietà non morali, sono la base su cui sopravviene un certo predicato morale, alla medesima base si attribuisca sempre il medesimo predicato sopravveniente.

 

b. disaccordo morale e disaccordo verbale: i casi di divergenza sull’applicazione di un termine etico – ad esempio, quando si discuta se un condottiero che non arretra di fronte al pericolo sia coraggioso o spavaldo – non sembrerebbero rappresentare un disaccordo meramente verbale, bensì un disaccordo più sostanziale, un vero e proprio disaccordo morale. Di chi sostenga che il la del diapason è esagonale si può semplicemente dire che sbaglia nell’uso del termine, o che lo usa con un significato differente. Non così per chi sostenga che Achille non è coraggioso, ma spavaldo. In quest’ultimo caso, chi è in disaccordo può sapere che «coraggioso» significa «condottiero greco che non arretra di fronte al pericolo».(33) E tuttavia può dubitare della sensatezza di quest’uso di «coraggioso». Il disaccordo riguarda non l’applicazione, ma i criteri di applicazione del termine: il problema non è se «coraggioso» significhi quello che si crede significhi, ma che cosa dovrebbe significare – che cosa dovremmo qualificare usando il termine «coraggioso».(34)

Una posizione secondo cui il linguaggio morale si riduce assolutamente al linguaggio non morale, oppure secondo cui è assolutamente indipendente e irriducibile, implicherebbe che i casi precedenti costituiscano soltanto una divergenza verbale, sull’applicazione del termine, più che sui criteri di applicazione.

La sopravvenienza dovrebbe rendere conto anche di questa peculiare forma del disaccordo espresso con usi difformi del linguaggio morale. La critica più diffusa nel dibattito che prenderemo in esame è stata di non riuscire a rendere conto della valenza peculiare del disaccordo morale, e di non riuscirci per errori nella concezione di sopravvenienza adottata.(35)

 

c. requisiti per la comprensione e l’apprendimento del linguaggio morale: il linguaggio morale è un linguaggio, dopo tutto: e condizione essenziale perché si dia un linguaggio è che esso (o i termini e le espressioni che lo compongono)(36) possano essere appresi e usati in maniera regolare e riconoscibile.

Né la specificità, né la non indipendenza costituiscono ostacoli insormontabili che impediscono l’apprendimento e l’uso regolare del linguaggio morale: dopo tutto, apprendiamo e usiamo linguaggi altamente specifici (come la geometria) e altamente dipendenti (come la geologia). Il problema deriva dall’unione delle due caratteristiche, e dalla natura peculiare dei criteri tipici di applicazione del linguaggio morale. Dal momento che si possono mettere in questione non solo le singole applicazioni, ma anche i criteri di applicazione del linguaggio morale, e che tali criteri non sono analitici, ci possono essere usi sistematicamente difformi – ma non incoerenti – del linguaggio morale. Il neofita può vedere due persone che chiamano il comportamento di Achille l’uno coraggioso, l’altro spavaldo. Come può rendersi conto di trovarsi di fronte ad un uso autentico di un linguaggio e come può capire quali sono le caratteristiche di Achille prese in considerazione?

Il vincolo di coerenza rappresentato dalla sopravvenienza dovrebbe assicurare un mezzo per risolvere questi problemi. Innanzitutto, la sopravvenienza assicura che la stessa persona chiamerà sempre coraggioso lo stesso tipo di persona. Quindi l’osservatore esterno capirà che si tratta di un uso regolare. Inoltre, l’osservatore ben presto si accorgerà che, almeno per la persona osservata, sono un certo tipo di caratteristiche – che accomunano persone anche diverse per altri aspetti – a venire lodate o messe in rilievo usando il termine «coraggioso». A questo punto egli apprenderà a che cosa il termine faccia riferimento – anche se per apprenderne il senso dovrà anche comprendere il modo di usare il termine (e per questo la sopravvenienza potrebbe non essere sufficiente). Ovviamente, il neofita si accorgerà anche che per altre persone sono altre caratteristiche ad essere oggetto dell’apprezzamento espresso dal termine «coraggioso». Ma magari ci sono anche delle caratteristiche comuni, fra gli usi di varie persone, e queste potrebbero costituire un nucleo ristretto e comune di caratteristiche, le quali risultano invariabilmente oggetto del(l’apprezzamento espresso dal) termine in questione.

 

 

5. Alla luce di questa visione del linguaggio morale, la nozione di sopravvenienza si può scomporre in tre parti:

 

i. sopravvenienza: i predicati morali sono connessi a quelli non morali tramite una relazione di variazione parallela (di co-varianza). Di conseguenza,

 

ii. vincolo di coerenza sull’uso dei termini morali: applicare un certo predicato morale a qualcosa impegna logicamente ad applicare il medesimo predicato ad altri oggetti simili in maniera rilevante (o indiscernibili);

 

iii. principio di giustificazione dell’incoerenza: l’applicazione incoerente del medesimo predicato etico si può giustificare solo menzionando delle differenze di natura non etica. Un cambiamento nei predicati applicabili ad un certo oggetto deve dipendere da un mutamento delle qualità non morali dell’oggetto.

 

Così definita, la nozione di sopravvenienza fornisce un criterio di competenza nell’uso del linguaggio morale: chi trasgredisca ai vincoli della sopravvenienza, usa un linguaggio diverso da quello morale, o non usa affatto alcun linguaggio.(37)

 

 

II. Preistoria e storia della sopravvenienza: contro il realismo?

 

6. Nessuna delle tre tesi in cui la sopravvenienza si articola, da sola, è sufficiente ad esprimere la visione del linguaggio che sta dietro alla nozione di sopravvenienza. Una cosiddetta preistoria della sopravvenienza nella filosofia morale prima del Novecento – e prima degli anni Cinquanta – è implausibile, perché prima di allora sicuramente molti autori hanno avanzato nell’una o nell’altra forma alcune delle tre tesi di sopravvenienza, ma nessuno le ha sostenute tutte e tre.(38)

La sopravvenienza nasce quindi nel 1952, ne Il linguaggio della morale di Hare.(39) Egli è il filosofo che per primo, e con maggiore precisione, ha espresso la visione del linguaggio che, secondo la nostra interpretazione, sta dietro alla sopravvenienza. Hare è anche l’obiettivo polemico di molti autori che rifiutano questo modello della sopravvenienza.(40)

Nella metaetica di Hare la sopravvenienza è uno dei passaggi argomentativi che conducono all’universalizzazione. La sopravvenienza è un vincolo all’applicazione coerente di predicati che consente di rendere conto della regola di applicazione di tali predicati: è per questo che essa assicura, contemporaneamente, l’universalizzabilità, ma anche la stabilità e la regolarità d’uso del linguaggio.(41)

Se qualsiasi condottiero greco che non arretri di fronte al pericolo è coraggioso, questo vuol dire che abbiamo universalizzato il significato di «coraggioso» estendendolo a tutti i casi simili, a tutti i casi di condottieri greci che non arretrano di fronte al pericolo. È per questo che chi vuole rifiutare l’universalizzazione – e la possibilità di generalizzare estendendo l’uso di certi predicati e principi etici a casi simili – rifiuta o depotenzia la sopravvenienza.

Hare arriva alla sopravvenienza partendo dall’idea che il linguaggio morale condivida con il linguaggio non morale la presenza di un significato descrittivo.(42) Proprio questo tratto comune permette di rendere universalizzabile il linguaggio morale:(43) i giudizi morali «sono universalizzabili esattamente nello stesso modo in cui lo sono i giudizi descrittivi, e cioè in conseguenza del fatto che tanto le espressioni morali quanto quelle descrittive hanno significato descrittivo; ma nel caso dei giudizi morali le regole universali che determinano questo significato descrittivo non sono semplici regole di significato, ma veri e propri principi morali».(44)

La sopravvenienza, in altri termini, permette di trasportare l’universalizzabilità dai giudizi descrittivi a quelli morali. Proprio perché c’è un ambito descrittivo d’applicazione anche nel caso del linguaggio morale, si può procedere, come nel linguaggio non morale, andando alla ricerca di una regola d’applicazione che valga nei casi simili. Ci deve essere una differenza (non etica) per rendere conto delle differenze nell’ascrizione di predicati etici a due cose rilevantemente simili – e tale differenza deve esserci anche ove non la si possa indicare.(45)

Ma non bisogna commettere l’errore del definizionismo, avverte Hare: una volta scoperta la sopravvenienza come vincolo di coerenza alla predicazione morale, non bisogna presumere che esista un insieme di caratteristiche non morali delle cose «il quale implichi che una cosa è buona»,(46) rendendo così impossibile l’uso del termine come mezzo per comunicare l’atteggiamento valutativo o di lode tipico dell’uso di certe parole, atteggiamento che è un uso linguistico differente dal definire.(47)

Il linguaggio morale ha sì significato descrittivo, ma ha anche e soprattutto significato valutativo,(48) secondo Hare. E quest’ultimo è il significato costante dei termini etici, laddove quello descrittivo può variare ad libitum, senza essere vincolato dal significato valutativo. È necessario che ci sia sempre un rapporto fra i due significati, ma non è necessario che si tratti di un rapporto di determinazione: «la carica valutativa e quella descrittiva […] variano indipendentemente l’una dall’altra».(49)

I principi morali non sono che le regole universali che fissano i significati descrittivi dei termini valutativi. Adottare un principio significa identificare caratteristiche delle cose che hanno rilevanza morale. È il principio morale che si adotta a selezionare le caratteristiche moralmente rilevanti del mondo, e non viceversa: credere che il processo vada nel verso contrario è l’errore del descrittivista.(50)

E ciò in virtù di alcune caratteristiche specifiche del linguaggio morale, primo fra tutti il fatto che non ci siano vincoli prestabiliti di applicazione: «‘Buono’ ha la caratteristica di poter essere applicato a innumerevoli categorie di oggetti»,(51) ma anche di poter essere applicato a nuovi oggetti, di cui non si siano imparati prima i criteri di bontà. E, tuttavia, non paiono esserci elementi comuni, che si possano stabilire in anticipo, identificati da ‘buono’, o tali da poterne garantire l’uso appropriato.(52)

Per costituire una rappresentazione adeguata di queste modalità di funzionamento peculiari del linguaggio morale, secondo Hare, la sopravvenienza deve essere distinta dalla necessitazione.(53) Bisogna distinguere, dice Hare, l’idea che, necessariamente, una cosa che ha una certa proprietà ne ha anche un’altra (che è la necessitazione), dall’idea che, se si conclude che una cosa ha una certa proprietà, è necessario che tale conclusione derivi dalla premessa universale secondo cui un certo tipo di cose – ad esempio cose che hanno una certa proprietà – ha anche certe (altre) proprietà (nella fattispecie quella ascritta nella conclusione) e la cosa in questione appartiene a quel tipo (quest’ultima essendo l’autentica sopravvenienza).(54)

La sopravvenienza rende possibile il fatto che il tipo di cosa preso in considerazione avesse proprietà morali diverse da quelle ascrittegli, pur avendo le medesime proprietà non morali che ha, ma rende impossibile che, una volta asserita la premessa secondo cui tutte le cose di quel tipo hanno la proprietà morale in questione, ci possa essere una cosa di quel tipo che ne manchi.(55) In altri termini, la sopravvenienza «porta con sé l’affermazione dell’esistenza di una “legge” che lega ciò che sopravviene a ciò a cui sopravviene. Essa non ci vincola ad una “legge” particolare; la scelta di una particolare legge […] è opzionale».(56) Da questo Hare trae l’idea che «espressioni come […] “in virtù di”, pur implicando sopravvenienza […] in contesti morali […], non implicano assolutamente la necessità nella premessa universale. Resta, però, comunque un senso in cui le cose possono essere belle perché sono come sono, senza che perciò un certo tipo di cose ci debba necessariamente piacere e senza che per noi diventi necessario qualificare come belle le cose che gli appartengono. Resta nondimeno la necessità che ci sia una premessa universale […] dalla quale, e unitamente ad essa dalla premessa sussuntiva, discende necessariamente la conclusione».(57) Tale premessa ha forza nomologica, ma non è necessaria.(58)

Abbiamo scelto di sostenere che essere un condottiero che non arretra di fronte al pericolo è buono, e in particolare che è coraggioso. Niente poteva rendere questa scelta necessaria: ma una volta fatta, siamo vincolati dalla coerenza a definire sempre coraggioso il comportamento di un condottiero che non arretra di fronte al pericolo – a farlo sempre, tranne che non cambiamo idea.(59)

In tal modo, da un lato si rispettano le peculiarità del linguaggio morale (la sua specificità e la sua non indipendenza), garantendo che il disaccordo morale sia sostanziale e non meramente verbale (le difformità nell’uso di certi termini morali non sono dovute a mera ignoranza del significato descrittivo, bensì al fatto che differenti parlanti possono aver adottato differenti principi morali, che si realizzano in differenti regole di applicazione dei predicati morali). Dall’altro, viene garantita la stabilità e la regolarità dell’uso dei termini morali, e la possibilità di apprendere il linguaggio morale: ci si garantisce «quella costanza nell’uso di un’espressione che è la condizione della sua intelligibilità».(60)

 

 

7. Potrebbe sembrare che la sopravvenienza si concili particolarmente bene con una visione anti-realista del linguaggio morale. La visione del linguaggio morale presupposta dalla sopravvenienza parrebbe presupporre la possibilità per i parlanti di adottare differenti principi morali, visti come vere e proprie regole di applicazione dei predicati morali. Tali predicati, peraltro, si applicano direttamente alle proprietà non morali delle cose: il loro uso esprime un atteggiamento di lode o approvazione di tali proprietà non morali.

Un realista metafisico che si impegni nei confronti della teoria della verità come corrispondenza dovrebbe invece sostenere che l’uso di predicati morali denota l’occorrere di una proprietà specificamente etica. A questo punto, il vincolo di coerenza imposto dalla sopravvenienza si dovrebbe spiegare non facendo appello alla funzione tipica del linguaggio morale, bensì ricorrendo all’idea che certe proprietà morali esistenti nel mondo stiano in una relazione di qualche genere con le proprietà non morali.

A questo punto si pongono per il realista due problemi, messi in luce da Simon Blackburn:(61) se la relazione fosse di dipendenza, il risultato sarebbe la riduzione delle proprietà morali a quelle non morali, e ciò non si concilierebbe con la specificità del linguaggio morale, né con la natura del disaccordo morale.

Ma i realisti potrebbero sostenere che fra proprietà morali e non morali ci sia una relazione di mera co-varianza senza dipendenza. A questo punto si pone un secondo problema: i realisti possono solo postulare, ma non spiegare, questa relazione. Per un anti-realista, invece, la coerenza nell’uso dei predicati etici, e la sua conciliazione con le caratteristiche specifiche del linguaggio morale, si spiegano facendo appello alla natura del linguaggio morale e vengono perfettamente rappresentate dalla visione del pensiero morale come espressione di atteggiamenti e adozione di principi. Peraltro, l’adozione di principi e l’espressione di atteggiamenti consentono sia di spiegare l’idea che si debba dare sopravvenienza in generale, sia le concrete relazioni di sopravvenienza che ci sono nei singoli casi. Che il linguaggio morale sia mezzo per esprimere i propri atteggiamenti e principi spiega perché il linguaggio morale debba applicarsi a caratteristiche non morali. I principi e gli atteggiamenti del singolo parlante, inoltre, spiegano perché – nei singoli casi concreti – certi predicati morali si applicano proprio a certi insiemi di caratteristiche non morali.(62)

Di conseguenza, conclude Blackburn, i realisti non possono rendere conto della sopravvenienza in maniera appropriata, e quindi il realismo fallisce in uno degli obiettivi principali di una teoria metaetica, vale a dire fornire un resoconto della competenza dei parlanti nell’uso dei termini morali.

L’obiezione sembrerebbe implicare che la sopravvenienza intesa come vincolo sulla competenza nell’uso del linguaggio sia incompatibile con il realismo. Questo non è esatto, dal momento che il realista può sostenere che la necessaria co-estensione fra due ordini di proprietà morali e non morali sia sintetica – dunque sia metafisicamente, ma non analiticamente necessaria. Una identità necessaria ma a posteriori fra proprietà morali e non morali può essere impiegata per spiegare l’uso coerente dei predicati morali senza implicare che tale uso derivi da una riduzione analitica del significato dei termini morali a quello di termini non morali. In altre parole, le proprietà morali e quelle non morali, là fuori, co-variano e sono co-estensive, e i concetti utilizzati per denotarle – i predicati morali e non morali – debbono tenere conto di tale variazione.

Ma non è possibile definire i concetti morali facendo uso solo di termini non morali: perché, come sostengono alcune versioni di naturalismo non riduzionista (il cosiddetto «naturalismo di Cornell»), l’identità fra un certo predicato morale (ad es., «buono») e un certo predicato non morale (ad es., «sensazione di piacere») non è ovvia (come sarebbe quella fra «scapolo» e «uomo non sposato»), anche se le proprietà denotate sono co-estensive. Casi del genere sono peraltro assai diffusi nelle scienze naturali. Possiamo dire che la proprietà «acqua» e quella «essere composto di due parti di idrogeno ed una di ossigeno» sono necessariamente co-estensive. Ma non solo tale co-estensione è stata scoperta a posteriori, in virtù del progresso della conoscenza scientifica: si tratta anche di una identità non ovvia, dato che si potrebbe non esserne a conoscenza. Di conseguenza, alcuni parlanti possono sensatamente, pur essendo a conoscenza del linguaggio che parlano, ritenere che l’acqua non sia l’elemento composto di due parti di idrogeno ed una di ossigeno, ma sia il liquido che scorre nei fiumi. Visto in questo modo, il disaccordo morale appare come un disaccordo epistemologico non banale.(63)

Le reali obiezioni che l’argomentazione di Blackburn può comportare riguardano non tanto la sopravvenienza, ma la teoria metafisica ed epistemologica che i realisti usano per darne conto.(64) Da un lato, si può obiettare che le proprietà morali postulate dai realisti siano metafisicamente bizzarre se viste alla luce di una concezione scientifica o naturalista del mondo.(65) Dall’altro si può osservare che il realista deve comunque spiegare il vincolo di coerenza nell’uso del linguaggio morale presupponendo non solo fatti morali, ma anche una conoscenza di essi.(66)

Ora, da una parte, si potrebbe pensare che la coerenza nel linguaggio derivi proprio dalla conoscenza dei fatti morali denotati. Ma questo impedirebbe per l’appunto la possibilità che i parlanti siano in disaccordo in maniera non banale. Il disaccordo morale si ridurrebbe ad un errore percettivo.

D’altra parte, se la conformità alla sopravvenienza non viene spiegata come prodotto di una percezione morale, il realista deve fornire un’altra spiegazione – una spiegazione ulteriore anche rispetto alla mera menzione dei fatti morali. La coerenza nell’uso dei predicati morali, dato che non proviene dalla conoscenza dei fatti morali da essi denotati, non viene spiegata dall’occorrere della stessa proprietà morale quando ci sia il medesimo insieme di proprietà non morali. È necessaria, allora, un’altra spiegazione.

 

III. La svolta degli anni Novanta: realismo e nuova sopravvenienza

 

8. Uno dei frutti dell’attacco di Blackburn al realismo in nome della sopravvenienza è stato, paradossalmente, il rifiorire di teorie realiste. Ma il realismo di Cornell menzionato nel paragrafo precedente era forse una possibilità già presente nelle pieghe dell’argomentazione di Blackburn – e messa in luce infatti fin dalle prime reazioni al saggio del 1973. Più interessante è il tentativo, compiuto alla fine degli anni Novanta da Frank Jackson, di tornare ad una posizione di realismo – e naturalismo – analitico, che prevede esplicitamente la possibilità di ridurre i predicati morali a quelli non morali. E altrettanto interessante è la posizione proposta da Schafer-Landau, che presenta una forma di realismo metafisico ispirato a Moore. La versione di sopravvenienza prevista in queste due forme di realismo rappresenta un radicale allontanamento dalla visione del linguaggio morale che costituisce l’orizzonte della sopravvenienza nel dibattito da Hare a Blackburn.

Frank Jackson usa la sopravvenienza come premessa per una teoria secondo cui non si dà nessuna natura morale sui generis delle cose che non possa venire descritta come una natura descrittiva. Questa posizione descrittivista viene presentata come valida sia a livello metafisico, sia a livello concettuale: pertanto questo tipo di naturalismo (che, nella versione di Jackson, è una forma di fisicalismo) si distanzia dal precedente naturalismo di Cornell.(67)

Jackson ritiene che sia possibile analizzare in termini puramente descrittivi il linguaggio morale, a patto di operare con descrizioni del mondo sufficientemente ricche. Per difendere questa tesi, egli propone di vedere la sopravvenienza come una relazione metafisica globale, che connette tutti i presunti predicati morali e tutti i predicati descrittivi. La sopravvenienza non è più la relazione fra un (o ciascun) predicato morale e uno o più predicati descrittivi, bensì è quella fra l’insieme di tutti i predicati morali e quello di tutti i predicati descrittivi. Così intesa la sopravvenienza è vera a priori e necessaria.

Jackson dimostra che è così tramite la seguente argomentazione. Il linguaggio morale si rivolge, almeno in parte, alle cose viste nella loro natura non morale. Ora, si ammetta pure che l’insieme di caratteristiche non morali cui si fa riferimento con un predicato morale non possa essere fissato: di volta in volta (in differenti casi, reali o ipotetici) il medesimo predicato si applica a differenti insiemi di caratteristiche non morali delle cose. Si consideri però l’insieme – potenzialmente infinito – di tutti gli insiemi di caratteristiche non morali delle cose cui un certo predicato morale si applica. Si consideri l’insieme di tutte le caratteristiche in cui si potrebbe applicare «coraggioso», in tutti i casi, reali e possibili, in cui tale predicato morale viene applicato: «condottiero che non arretra di fronte al pericolo», o «essere umano che valuta alla luce di piena informazione le conseguenze della propria azione», o …, e così via. L’insieme di tutte queste differenti specificazioni costituisce una descrizione in termini non morali di quello cui si applica «coraggioso», in tutti i casi, reali e possibili, in cui tale predicato morale viene applicato. Ma, se è così, tutte le volte che applichiamo «coraggioso» lo applichiamo a uno dei membri di quell’insieme, e solo a membri che ne fanno parte. E questo è sufficiente per dire che quell’insieme implica la proprietà che «coraggioso» denota – o i predicati che descrivono quell’insieme implicano il predicato «coraggioso» – e ne viene anche implicato. E ovviamente la doppia implicazione vale a fortiori se si considera l’insieme di tutti i predicati morali nelle sue relazioni con l’insieme di tutti i predicati non morali.

Di conseguenza, dalla sopravvenienza globale del morale sul descrittivo si deduce che le proprietà morali sono proprietà descrittive:(68) «quello che rimane nel linguaggio, una volta tolti i termini etici, in via di principio è adeguato per ascrivere le proprietà che si ascrivono facendo uso dei termini etici»,(69) sostiene Jackson. Pertanto, non ci sono distinzioni fatte in termini morali che in linea di principio non si possano istituire anche in termini descrittivi.(70)

Jackson mostra che la sua posizione, pur essendo esplicitamente riduzionista e descrittivista, può rendere conto di molte delle caratteristiche del linguaggio morale tradizionalmente spiegate tramite la sopravvenienza. Innanzitutto, il suo uso della sopravvenienza si fonda esplicitamente sull’idea che il linguaggio morale si applichi a una realtà non morale. Anche secondo Jackson, fa parte della nostra concezione del vocabolario morale che esso serva a istituire distinzioni che riguardano la natura descrittiva delle cose.(71)

Inoltre, Jackson si avvantaggia molto della natura globale della sua tesi di sopravvenienza: essa rende la sua posizione compatibile con l’idea che la natura morale delle cose potrebbe in parte essere determinata dalle nostre reazioni e atteggiamenti, dal momento che i fatti relativi a tali reazioni ed atteggiamenti, considerati in termini descrittivi, si possono concepire come parte dell’insieme complessivo di caratteristiche non morali su cui le proprietà morali sopravvengono.

La teoria di Jackson, per di più, risulta compatibile con la realizzabilità multipla: una descrizione ricca della natura morale (la descrizione che esplicitamente incorpora i vari casi ipotetici e reali di applicazione di un termine morale) lascia possibili differenti realizzazioni fisiche, in differenti casi possibili. Quello a cui il linguaggio morale si riduce non è un singolo insieme di caratteristiche non morali, ma l’insieme disgiuntivo di tutte le possibili caratteristiche non morali. Né si tratta di una teoria eliminativista: i termini morali – osserva Jackson – possono essere necessari per cogliere le similarità tra i vari assetti descrittivi che secondo la sopravvenienza costituiscono la natura morale del mondo, anche nell’ipotesi in cui le proprietà morali non fossero altro che proprietà descrittive infinitamente disgiuntive, senza che ci fosse altro nel mondo che similarità rilevanti fra tali modalità descrittive.(72)

 

 

9. Ma, nonostante questa flessibilità, la teoria di Jackson rappresenta un allontanamento drastico dalla visione del linguaggio espressa dalla sopravvenienza nel dibattito precedente. I punti di allontanamento sono essenzialmente due: la visione del disaccordo morale e la struttura globale della tesi di sopravvenienza esposta da Jackson.

Il primo punto viene riconosciuto dallo stesso Jackson. Alla fine del suo libro, egli liquida in maniera sbrigativa e brusca l’obiezione basata sulla questione del disaccordo morale. L’idea che il disaccordo morale non si riduca, in ultima analisi, al disaccordo verbale – afferma Jackson –è il prodotto residuale dell’«ubriacatura» indotta dai passati secoli dominati da forme di «platonismo» assiologico: i termini morali riguardano solo la realtà, e chi è in disaccordo sul rilievo morale della medesima realtà è in disaccordo sul significato dei termini morali usati. Chi, d’altra parte, volesse sostenere che il disaccordo morale non è sul significato, bensì è un disaccordo fra atteggiamenti, dovrebbe rendersi conto che questo non implica certo l’espressivismo (come sostiene Blackburn):(73) anche una forma di soggettivismo cognitivista, secondo cui gli asserti morali sono credenze che riguardano gli atteggiamenti valutativi sulle cose di chi usa gli asserti medesimi, implica del tutto ovviamente che, in caso di disaccordo, due persone abbiano differenti atteggiamenti valutativi sulla medesima cosa.(74)

Il secondo punto di distacco non viene messo in luce da Jackson, ma si tratta di un allontanamento essenziale. La sopravvenienza, nel dibattito precedente, era uno schema per illustrare i criteri di competenza nell’uso del linguaggio morale. L’obiettivo era di fornire condizioni necessarie e sufficienti, secondo una visione del linguaggio esemplata sull’uso dei linguaggi naturali. Dietro alle riflessioni di Hare e Blackburn, ma anche dei naturalisti di Cornell, stava il parlante ordinario, alle prese non tanto con un intero linguaggio, ma con un insieme di termini specifici – i termini morali – inclusi nella sua lingua naturale. La sopravvenienza illuminava le condizioni di uso e di significato di singoli termini e di singoli asserti contenenti tali termini.

Adesso invece Jackson si occupa del linguaggio nel suo complesso, di un insieme di espressioni che sopravvengono su un altro insieme. Si potrebbe pensare che dalla sopravvenienza globale si possano trarre delle tesi di sopravvenienza locale, ma l’inferenza è bloccata dalle seguenti considerazioni. In primo luogo, si tratta di un errore, dato che mentre la sopravvenienza globale può essere vera a priori e necessaria appunto per la sua natura globale, la verità e la necessità non si trasmettono a relazioni locali di sopravvenienza.(75) (Inoltre, come mostrerà Dancy, c’è la possibilità di pensare che, a livello locale, non si dia affatto sopravvenienza, ma sussista una relazione differente, la risultanza).(76)

In secondo luogo, la validità della sopravvenienza si basa su una disgiunzione infinita che, se può essere compresa come concetto dai parlanti naturali, non può essere maneggiata per davvero, estensionalmente – dati i poteri finiti delle menti umane. Dunque, i singoli parlanti possono sapere che il linguaggio morale nel suo complesso sopravviene su quello non morale, ma questo non dice nulla su quali caratteristiche non morali siano quelle su cui sopravviene il singolo predicato morale, o quelle su cui sopravviene generalmente. Questo sbarra la strada a esiti riduzionisti, ma forse impedisce anche di stabilire un vincolo cogente di coerenza ai singoli atti di uso del linguaggio. Di conseguenza, siamo passati da una teoria delle condizioni necessarie e sufficienti per l’uso concreto del linguaggio ad una indagine sulle condizioni necessarie – ma certo non sufficienti – perché ci sia un linguaggio morale.

 

 

10. Per argomentare in favore di una teoria realista non naturalista, Shafer-Landau prende esplicitamente in considerazione l’obiezione di Blackburn. Secondo quest’ultimo, come abbiamo visto, i realisti non possono rendere conto della sopravvenienza come vincolo sulla padronanza del linguaggio morale, perché la loro teoria non consente di evitare la riduzione e di ammettere la realizzabilità multipla.

Shafer-Landau risponde rifiutando i termini del problema come posti da Blackburn. Egli ritorna alla necessità metafisica, e non accetta i limiti imposti da Blackburn che restringono il discorso alla necessità concettuale. Quindi il principale allontanamento di questa forma di realismo metafisico dal quadro tradizionale sta nel ricorrere alla sopravvenienza soprattutto come schema metafisico, e solo in maniera secondaria e derivata come vincolo concettuale. L’attenzione passa dal linguaggio morale ad una presunta realtà metafisica di natura morale. La realtà morale nel dibattito tradizionale era una realtà linguistica (e mentale). Adesso ridiventa – come in Moore – una realtà autentica e sui generis.(77)

Ma da questo punto in poi Shafer-Landau propone una teoria che tenta di accogliere tutte le determinazioni della visione tradizionale della sopravvenienza. Egli rifiuta l’idea che la sopravvenienza sia un vincolo concettuale da spiegare facendo appello alla natura del linguaggio, e che esso non si possa spiegare ricorrendo ad una tesi metafisica. Ma, a parte questo, viene confermato il quadro tradizionale: nelle sue mani, la sopravvenienza è anche un vincolo concettuale imposto all’uso del linguaggio, non implica la riduzione e ammette la realizzabilità multipla.

Shafer-Landau propone l’idea che un certo insieme di proprietà non morali esemplificate realizzino o costituiscano per necessità metafisica una certa proprietà morale – anche se questa costituzione metafisicamente necessaria non implica alcuna identità fra proprietà morali e non morali.

Questo è possibile perché Shafer-Landau crede che concetti logicamente differenti denotino anche proprietà ontologicamente differenti, e dunque la costituzione, in mano sua, non implica né riduzione, né identità, ma solo necessaria co-estensione.(78) Inoltre, secondo Shafer-Landau la costituzione è limitata ad un solo mondo, quello attuale, e quindi ammette la possibilità che, se il mondo fosse stato diverso, altre proprietà non morali avrebbero potuto costituire la proprietà morale in questione .(79)

La costituzione metafisica presupposta da Shafer-Landau spiega la relazione di co-varianza che costituisce la sopravvenienza vista come vincolo concettuale. Essere coraggiosi è un concetto che denota una proprietà necessariamente costituita, nel caso attuale, dall’essere un condottiero greco che non arretra di fronte al pericolo. È per questo che, ogni qual volta ci si trovi di fronte alla proprietà di essere un condottiero greco ecc., ci si troverà di fronte anche alla proprietà di essere coraggiosi, e si dovrà usare il concetto usato per denotarla, vale a dire «coraggioso».

Infatti, anche se la relazione di costituzione metafisica non ne implica una analoga a livello concettuale, essa ha il potere di spiegare la sopravvenienza a livello concettuale. O, almeno, il fatto che, nel mondo attuale, una certa proprietà morale sia costituita da un certo insieme di proprietà non morali è sufficiente a spiegare certi vincoli sulla predicazione. È sufficiente nel senso che è l’unico fatto cui si possa fare appello, un fatto al di là del quale non si può andare: è così e basta. Perché chiedere ulteriori spiegazioni?(80)

Dall’altro lato, Shafer-Landau spiega anche la possibilità che – a livello concettuale – sia possibile adottare differenti principi, vale a dire ipotizzare la possibilità che un insieme differente di proprietà non morali possa costituire una certa proprietà morali. Questo è perfettamente possibile, egli sostiene, e non necessita di alcuna ulteriore spiegazione: si tratta semplicemente di un errore metafisico. D’altronde, è sempre stato possibile, e non problematico, concepire cose impossibili dal punto di vista metafisico.(81)

Rimane da spiegare perché siano proprio certe proprietà non morali a costituire certe altre proprietà morali. L’anti-realista, si ricordi, può cavarsela dicendo che questo viene spiegato dai principi adottati dalla persona che sta giudicando la situazione, o dai suoi atteggiamenti – o dagli atteggiamenti tipici, o evolutivamente selezionati, degli esseri umani nel loro complesso. Il realismo non-naturalista di Shafer-Landau, non implicando riduzione o identità fra proprietà morali e non morali, ed ammettendo la realizzabilità multipla, parrebbe a questo punto trovarsi in difficoltà.

Ma questa difficoltà – risponde Shafer-Landau – è comune a tutte le teorie, perché quella posta è una questione che in realtà si può risolvere solo addentrandosi nella teoria etica normativa. Infatti, in realtà l’antirealismo non spiega perché proprio una certa proprietà non morale costituisca una certa proprietà morale. Esso afferma soltanto che, se questo avviene, ciò deriva dall’adozione di un certo principio. Per spiegare perché proprio quelle proprietà siano ciò che costituisce, ad esempio, l’astuzia, c’è bisogno di un principio normativo che dica che cos’è l’astuzia, e fornisca giustificazioni. E, se si tratta di un principio normativo, questa via non è di certo sbarrata al realista non-naturalista. Possono essere i principi della teoria etica normativa a giustificare il fatto che certe proprietà non morali realizzino una certa proprietà morale, e lo facciano necessariamente.(82) E le scelte metaetiche che si fanno non influenzano certo la possibilità di dedicarsi alla ricerca etica normativa.

 

 

IV. La svolta degli anni Novanta: generalismo, sopravvenienza e teoria etica normativa

 

11. Nonostante il loro parziale distacco dalla nozione tradizionale di sopravvenienza, le due posizioni presentate sopra condividono molti dei presupposti del dibattito precedente agli anni Novanta. Innanzitutto, presuppongono che l’alternativa principale sia quella fra realismo e antirealismo, oltre che fra naturalismo e non naturalismo. In secondo luogo, non mettono affatto in dubbio l’idea che ci siano due ambiti di discorso – o di realtà –, le cui relazioni sono descritte e regolate dalla tesi di sopravvenienza (per quanto la posizione di Jackson rappresenti un enorme indebolimento di quest’idea).

Infine, nessuno dei due autori dubita che, nonostante le divergenze, le varie posizioni metaetiche possano tutte egualmente fungere da premessa dell’indagine etica normativa intesa, secondo la visione tradizionale, come ricerca di principi di condotta universali. Semmai, l’alternativa è fra chi, sostenendo che la sopravvenienza sia solo una tesi concettuale, ammette che si diano principi universali ma non necessariamente veri (Hare e Blackburn), e chi – come Jackson e Shafer-Landau (ma anche i realisti di Cornell prima di loro) – ritiene che sia possibile arrivare a principi che siano necessariamente veri.

Ma nel dibattito degli anni Novanta viene rappresentata una novità ulteriore rispetto a questo orizzonte comune, una novità che però parte proprio dai risultati di questo dibattito. Infatti, fin dal 1993, Jonathan Dancy ha messo in dubbio la possibilità di una teoria etica normativa articolata attorno a principi universali, e ha argomentato a favore di una visione particolarista del pensiero morale normativo. Questa tesi viene difesa tramite due argomenti che riguardano rispettivamente proprio la sopravvenienza e la possibilità di una distinzione strutturata fra discorso morale e non morale – o, meglio, fra proprietà morali e non morali.

Se si guarda al dibattito che si è aperto sulla proposta di Dancy, si nota che la contrapposizione ora è sempre meno fra realisti e antirealisti e sempre più fra generalisti e particolaristi. Molti generalisti condividono l’impostazione di realismo metafisico presupposta da Dancy, ma ne rifiutano gli esiti particolaristi. Ma l’antirealismo è in grado di condividere molte delle conclusioni implicate dal particolarismo.(83) La posizione di James Griffin, d’altronde, condivide con la metaetica di Dancy il rifiuto di una distinzione netta fra discorso morale e etico, pur non traendone alcun esito particolarista.(84)

In Libertà e ragione, considerando le possibili concezioni metaetiche differenti dalla propria, Hare distingueva il descrittivismo dalla propria posizione, mettendo in luce che – laddove i descrittivisti ritengono che il significato descrittivo esaurisca tutto il significato degli asserti etici – i prescrittivisti, pur ammettendo la possibilità di un significato descrittivo, vi affiancano il significato valutativo. Ma le due posizioni condividono l’idea che i giudizi morali siano universalizzabili – e questo, come è evidente, proprio in grazia del fatto che entrambe ammettono un significato descrittivo delle asserzioni morali. I descrittivisti che rifiutano l’universalizzazione sono, secondo Hare, semplicemente incoerenti, dato che ammettere il significato descrittivo è ciò che consente di universalizzare.

L’unica posizione descrittivista che possa negare l’universalizzazione, nota Hare, è una forma di particolarismo non naturalista, la quale pretenda che le regole di significato delle parole valutative siano «logicamente indipendenti da quelle di parole non valutative». Il sostenitore di questa posizione potrebbe ammettere soltanto una versione banale dell’universalizzazione,(85) per cui l’unico aspetto rilevante è «semplicemente il possesso della proprietà non naturale sui generis della bontà», e quindi ci si potrebbe rifiutare di chiamare buono un oggetto privo di tale proprietà, ma che fosse, per tutte le altre proprietà non morali, esattamente uguale a quello che si è già chiamato buono.(86) Il particolarismo di Dancy occupa esattamente la posizione annunciata da Hare nel lontano 1963, ma la teoria viene elaborata notevolmente e appare molto più robusta di quanto non sembri nelle sbrigative pagine di Hare.

La prima mossa di Dancy per argomentare contro la possibilità che ci possano essere principi universali non banali consiste in una distinzione fra due relazioni differenti che possono unire proprietà morali e non morali: la sopravvenienza e la risultanza. In maniera simile a Jackson, Dancy intende la sopravvenienza come un relazione di co-varianza da istituire a livello globale, fra il livello delle proprietà morali e quello delle proprietà non morali nel loro complesso.(87) La relazione che invece sussiste fra una singola proprietà morale – e il concetto che la denota – e quel certo insieme di proprietà non morali che la realizzano viene invece definita «risultanza».

Dancy, riprendendo la terminologia – se non la teoria – di W.D. Ross,(88) descrive questa relazione come una sorta di costituzione – la cui natura è intuitivamente semplice e metafisicamente basilare, pur non essendo ulteriormente spiegabile. Le proprietà morali sono quelle che sono «in virtù di» certe proprietà non morali, che le costituiscono. Si tratta di un fenomeno comune nella realtà più ordinaria. La proprietà di essere un tavolo risulta da una serie di proprietà che si collocano ad un livello metafisico differente – come la solidità, ad esempio, ma anche una certa disposizione di atomi entro una certa porzione di spazio-tempo. Un tavolo è un tavolo in virtù di proprietà come la solidità, ecc. La ripidezza di un pendio è costituita – «risulta» – da una serie di proprietà di esso, come l’inclinazione, la pendenza, ecc. Non ci sono spiegazioni ulteriori della relazione denotata dalla locuzione «in virtù di» – sostiene Dancy.(89)

Per Dancy, la risultanza ha molte delle virtù della sopravvenienza del dibattito tradizionale. È evidente, infatti, che essa non implica identità, né riduzione. Le proprietà che costituiscono la cosiddetta «base di risultanza» sono a volte appartenenti ad un livello ontologico differente da quelle che da loro risultano. Ma, anche se così non fosse (come può accadere nel caso di certe proprietà valutative che possono risultare da altre proprietà egualmente valutative: la crudeltà, ad esempio, può risultare dalla spietatezza), sarebbe errato sostenere che le proprietà da cui una certa proprietà risulta sono identiche alla proprietà risultante. E questo anche perché – secondo Dancy – differenti basi di risultanza possono dare origine alla medesima proprietà risultante. La teoria della risultanza, in altre parole, ammette la realizzabilità multipla.

Ma su quali basi Dancy – in un quadro abbastanza simile a quello di Shafer-Landau – giustifica una relazione di risultanza che non implica né riduzione né identità e ammette la realizzabilità multipla? E soprattutto in che cosa consiste l’autentica differenza fra risultanza e sopravvenienza?

Dancy adotta una complessa teoria epistemologica e metafisica per giustificare questa visione della relazione fra proprietà morali e non morali. Si tratta di una teoria che, in maniera alquanto paradossale, giustifica alcuni desiderata della visione tradizionale del linguaggio morale e della sopravvenienza sacrificandone altri. Dancy, infatti, giustifica una visione non riduzionista della relazione fra proprietà morali e non morali rinunciando a qualsiasi possibilità di avere un linguaggio morale capace di produrre principi universali. Rinunciando del tutto a qualsiasi residuo di naturalismo, egli abbandona anche il progetto di analisi del linguaggio morale che, iniziando almeno da Hare, si spingeva fino a Jackson e Shafer-Landau.

Hare, infatti, sosteneva che, fino a un certo punto, il naturalismo fosse nel giusto: fino a quando ammetteva la possibilità di un significato descrittivo degli asserti morali – un significato descrittivo selezionato dalle regole di applicazione dei termini morali, ma universalizzabile e del tutto descrivibile in termini non morali.(90) Sono proprio queste ultime due proprietà del significato descrittivo di Hare che Dancy rende impossibili. E, ancora paradossalmente, egli non rifiuta per questo l’intuizione di fondo di quella visione del linguaggio. Anche per Dancy il linguaggio morale è specifico, ma non indipendente dalla natura. Eppure qualsiasi possibilità di una relazione strutturata fra linguaggio morale e natura viene esclusa.

 

 

12. Dancy rifiuta l’ipotesi che le proprietà non morali da cui risultano le proprietà morali possano essere descritte in termini esclusivamente non morali. Questo vuol dire che, se non si impone un concetto morale sul livello della realtà non morale, essa risulta – ai fini del discorso morale – del tutto «informe» – (91)  anche se la proprietà morale denotata risulta da una base non morale. In altre parole, anche se il concetto «coraggioso» rimanda in qualche modo all’insieme di proprietà che consistono nell’essere un condottiero che non arretra di fronte al pericolo, questo risulta visibile per così dire dall’interno, una volta compreso il concetto, e per chi lo comprende. A nulla varrebbe cercare di insegnare il concetto a chi non lo padroneggia parlandogli soltanto di condottieri che non arretrano di fronte al pericolo.

Inoltre, continua Dancy, «coraggioso» può significare molte cose, in molti contesti. Oltre che informe, la base di risultanza dei concetti etici non è fissa, ma è piuttosto suscettibile di variazioni dovute al contesto. Anzi, questa caratteristica metafisica della base di risultanza ne spiega l’informità a livello epistemologico. Infatti, qualsiasi elemento del contesto può risultare di rilevanza morale tale da far sì che quello che prima era elemento sufficiente a dare origine ad una certa proprietà morale non lo sia più ora. Lo stesso comportamento dello stesso condottiero che non arretra di fronte al pericolo può essere, in un’occasione anche solo di poco diversa, spavalderia – e non coraggio. E questo non deriva, secondo Dancy, dal fatto che si tratti di un osservatore diverso, che adotta principi diversi – o che si tratti dello stesso osservatore che ha cambiato idea, come direbbe Hare.

Il problema è che non si danno mai contesti abbastanza simili: infatti, perché si possano dare contesti simili capaci di originare proprietà morali simili dovrebbe darsi la possibilità di generalizzare le relazioni di risultanza – vale a dire la possibilità di ritenere che dallo stesso insieme di proprietà non morali risulti sempre lo stesso insieme di proprietà morali. Ma questo non è possibile – almeno non lo è se si ritiene, come Dancy, che il contesto influenzi sempre la rilevanza morale di certe proprietà non morali.

In particolare, la generalizzazione non è possibile se si comprende che la base di risultanza di una certa proprietà morale è costituita da quelle proprietà non morali dalle quali essa risulta – e solo da quelle. Di conseguenza, una volta ammesso che una variazione nel contesto – qualsiasi variazione – può influenzare la rilevanza morale di certi tratti della situazione, allora se ne dedurrà che la base di risultanza varia sempre, e sempre variano le proprietà morali capaci di risultare da certe proprietà non morali.

In particolare, Dancy distingue fra le proprietà non morali che sono in grado di originare altre proprietà morali e le proprietà la cui presenza costituisce una condizione necessaria perché altre proprietà non morali diano vita a proprietà morali. Della base di risultanza fanno parte solo le proprietà che direttamente ne fanno risultare altre. Ma la presenza o l’assenza di altre proprietà – che fanno soltanto parte del contesto – influenza l’operare delle proprietà che costituiscono la base di risultanza.(92) Il non arretrare di fronte al pericolo dà origine al coraggio, quando questo porti ad una vittoria in condizioni impari. Il non arretrare di fronte al pericolo dà origine alla spavalderia, quando costi la vita di troppe vittime innocenti. Della base di risultanza fa parte, nei due casi, solo il non arretrare di fronte al pericolo. È errato dire che il coraggio sia (risultante dal)l’avere ingaggiato una battaglia in condizioni impari o che la spavalderia sia (risultante da)l rischio di sacrificare vittime innocenti. Il coraggio e la spavalderia derivano entrambi dal non arretrare di fronte al pericolo. Le altre proprietà menzionate costituiscono piuttosto le condizioni che determinano che il non arretrare di fronte al pericolo produca, rispettivamente, il coraggio o la spavalderia.

La base di sopravvenienza invece è globale: essa non coincide con la base di risultanza, ma comprende l’intero contesto – al limite tutti i contesti possibili. È ovvio che se a questo livello un’azione risulta coraggiosa lo sarà qualsiasi altra cosa esattamente simile – qualsiasi altra cosa posta in un contesto globale esattamente simile. Ma questo non implica che, se una certa azione è coraggiosa, lo sarà anche qualsiasi altra azione che ha le medesime proprietà che rendono coraggiosa la prima azione: in questo caso, quelle proprietà possono non svolgere l’opera che ci si aspetta, perché nel contesto globale mancano le condizioni che lo rendono possibile.(93)

Ora, conclude Dancy, la sopravvenienza è ciò che permette di costruire principi: ma la sopravvenienza si è rivelata essere solo una tesi o banale (in un contesto esattamente simile, un’azione mantiene lo stesso valore morale, evidentemente: ma ci sono contesti esattamente simili?) o non informativa (che cos’è, all’interno di un’infinita elencazione di proprietà, le quali costituiscono la base globale di sopravvenienza, che rende una certa azione coraggiosa?). Forse si potrebbero desumere principi dalla risultanza: ma, dato che la base di risultanza è informe e non si può fissare, da essa non si ottengono dei principi generalizzabili. Quello che assicura il coraggio questa volta potrebbe non farlo dopo: un principio che menziona quello che rende coraggiosa l’azione adesso in un contesto differente può rivelarsi semplicemente falso. Né è corretto, conclude Dancy, inferire la risultanza dalla sopravvenienza. Piuttosto, è il contrario: il fatto che le proprietà morali risultino da quelle non morali, esteso a livello globale, conduce alla sopravvenienza, e la spiega.(94)

Quindi Dancy, facendo leva su una forma di olismo metafisico ed epistemologico, esclude la possibilità di principi universali significativi. Ma questo, ovviamente, si porta con sé anche l’idea di linguaggio che rendeva possibili tali principi: una visione del linguaggio in cui i principi universali erano regole di applicazione di predicati morali basati sulla generalizzazione e sulla possibilità di casi simili non banali. Ma questo risultato viene ottenuto mantenendo molte delle premesse da cui la tesi di sopravvenienza derivava. Anche per Dancy il linguaggio morale si applica a proprietà non morali: il problema è che la distinzione fra risultanza e sopravvenienza, e l’olismo, rendono le relazioni fra proprietà morali e non morali non soltanto vaghe, ma anche fluttuanti e informi.

 

 

13. Nell’argomentare contro la sopravvenienza, paradossalmente, James Griffin si distacca di più di quanto faccia Dancy dalla visione tradizionale del linguaggio morale, ma mantiene aperta la possibilità di principi morali universali. Infatti, al contrario di Dancy, Griffin abbandona del tutto l’idea che il linguaggio morale si applichi alla realtà non morale e che sia possibile distinguere proprietà morali e non morali. Egli riconosce che la sopravvenienza parte da una serie di intuizioni apparentemente plausibili, ma sostiene che un’approfondita analisi di tali intuizioni ne mina la plausibilità.

Griffin muove alla sopravvenienza le seguenti obiezioni. In primo luogo (riecheggiando almeno in parte le considerazioni esposte nella precedente sezione), egli mostra che la sopravvenienza deve riguardare proprietà naturali rilevanti per la spiegazione delle proprietà valutative sopravvenienti, altrimenti ci potrebbero sempre essere differenze nelle proprietà naturali che sarebbero capaci di giustificare una differenza nelle proprietà valutative senza però risultare interessanti per la comprensione della rilevanza morale – come ad esempio potrebbero essere differenze di mera collocazione spazio-temporale. L’unica differenza fra due casi in cui qualcuno non arretra di fronte al pericolo potrebbe essere che l’uno avviene durante la guerra di Troia, l’altro durante l’assedio di Tebe. Ma l’uno viene giudicato un atto di coraggio, l’altro di spavalderia. È possibile che la differenza sia giustificata dalla mera distanza cronologica fra le due azioni? Ma, se si considerano solo le proprietà che risultano rilevanti per capire la ragione del giudizio valutativo, dal momento che molte cose rilevanti non sono naturali, e molte cose naturali non sono rilevanti, la sopravvenienza rischia di risultare falsa.(95) È possibile che siano alcune caratteristiche valutative a essere rilevanti per il valore di un oggetto, sicché in oggetti con caratteristiche naturali irrilevanti eguali il valore può cambiare.(96)

Inoltre, continua Griffin, la sopravvenienza presuppone una distinzione fatti/valori che dà per risolta la domanda cui si dovrebbe invece rispondere: quali sono i confini del mondo, della realtà o dei fatti? E questa domanda viene elusa presupponendo che sicuramente il valore non possa fare parte di tale sfera fattuale o reale.(97) D’altra parte, è vero che le proprietà valutative sono sopravvenienti, cioè è necessario per spiegarle fare appello ad altre proprietà: ma può essere sufficiente fare appello ad altre proprietà valutative più specifiche, e può non essere necessario fare appello a proprietà non morali.(98) E, comunque, fare menzione di proprietà non morali non è di certo sufficiente a rendere conto di certe asserzioni valutative, a renderle vere.(99) Anche Griffin ritiene – come Dancy – che la base su cui le proprietà morali sopravvengono non possa essere descritta in maniera puramente non morale. Ma, alla luce del suo anti-riduzionismo, Griffin conclude che la specificazione delle proprietà e dei concetti morali si può attuare tutta dentro il livello morale, senza uscirne mai fuori. È possibile, egli sostiene, che ad un certo punto si arrivi a riconoscere la mera presenza di un valore, e non si possa più spingersi oltre.(100)

Ma da questa posizione, come abbiamo anticipato, Griffin non trae le conclusioni di Dancy: il percorso di allontanamento dalla sopravvenienza finisce con una contrapposizione fra chi sostiene la possibilità di una teoria etica normativa, e chi ne nega la concepibilità stessa. Griffin infatti precisa di non voler negare che ci siano delle proprietà non morali che costituiscono tutto quello che significa, per un certo oggetto, avere le caratteristiche valutative che ha.(101) Piuttosto, egli conferma la propria fiducia nella possibilità di stabilire, all’interno della teoria etica normativa, che certe proprietà non morali costituiscono ciò che in certe azioni e situazioni è moralmente rilevante. Ma, secondo Griffin, a questo risultato si arriva attraverso una comparazione coerentista con altre proprietà morali, e non affidandosi al sogno impossibile di scoprire quali sono le proprietà non morali che garantiscono la rilevanza morale di certi atti e situazioni.(102) Principi generali sono possibili, dunque – al contrario di quello che sosteneva Dancy. Ma non si possono dedurre da una tesi generale di sopravvenienza – proprio come sosteneva Dancy.

 

 

V. Conclusioni: come si apprende il linguaggio morale?

 

14. Che morale si può trarre da questa ricostruzione del dibattito sulla sopravvenienza? Dovrebbero essere chiari a questo punto le caratteristiche strutturali del dibattito (una prima fase di costruzione della sopravvenienza nella sua forma tradizionale, una seconda fase di cambiamento e progressivo abbandono di essa), le dicotomie che lo percorrono (realismo/antirealismo, naturalismo/antinaturalismo, generalismo/particolarismo), e i presupposti in discussione (essenzialmente la possibilità di distinguere il discorso morale da quello non morale). Un risultato definitivo dovrebbe essere la fine del sogno di una distinzione fra livello morale e non morale che assicuri relazioni strutturate e fisse fra i due livelli. Acquisita dovrebbe essere anche l’idea che la possibilità stessa di una teoria etica normativa, e l’aspetto che essa assume, dipendono dalle scelte teoriche che si fanno in quest’ambito.

C’è però forse un dato ulteriore da mettere in luce. Eravamo partiti da una visione del linguaggio morale articolata attorno all’idea che esso fosse specifico – differente da altri linguaggi – ma non indipendente – dotato di relazioni con gli altri linguaggi. Quest’idea è stata differentemente declinata, ma mai abbandonata del tutto – anche negli autori più scettici. Questa visione del linguaggio morale implica che esso possa essere appreso a partire da altri linguaggi – anche se non garantisce che ci siano vie prestabilite per tale apprendimento, o condizioni che ne assicurino il successo. Essa esclude, se non altro, l’idea che il linguaggio morale sia un cosmo a sé, tale per cui chi ci è dentro da sempre lo comprende, e chi ne è fuori sia destinato a rimanervi estraneo.

Eppure, da un lato, questa sembra essere la visione che può essere suggerita (anche se non certo implicata) da tesi estreme come quella di Dancy, secondo cui non è in via di principio possibile neanche alludere alle differenze che istituiamo fra situazioni, azioni e caratteri tramite concetti morali facendo uso di concetti non morali. E questa tesi, almeno se assunta come tesi di principio, sembra presupporre una visione totalmente differente del linguaggio morale, una visione che lo vede sì come specifico ma anche come indipendente – più simile alla matematica di quanto si pensi abitualmente. Quindi, nella teoria di Dancy c’è almeno una contraddizione, la contraddizione fra deriva verso l’indipendenza del linguaggio morale e metafisica della risultanza delle proprietà morali da quelle non morali. E questa contraddizione potrebbe costituire una spinta a ritornare indietro, fino ad ammettere la possibilità di relazioni maggiormente strutturate fra proprietà morali e non morali, che rendano pienamente merito alla non indipendenza del linguaggio morale.

Inoltre, se si bada alle relazioni che il linguaggio morale ha con altri linguaggi, e si ipotizza che ci sia una priorità di apprendimento di altri linguaggi rispetto al linguaggio morale (il che ovviamente è da dimostrare, per quanto sembri plausibile), si deve fornire una teoria dell’apprendimento del linguaggio morale che tenga conto di tutto questo. Hare forniva una teoria dell’uso e dell’apprendimento del linguaggio morale: può darsi che tale teoria fosse errata, e anche un po’ ingenua. Ma fra i più recenti critici dell’universalismo di Hare non sembrano esserci teorie capaci di scalzare quella visione. La storia della sopravvenienza, dunque, indica se non altro il lavoro che rimane da fare nel futuro.

 

 

Note

 

(1) Sulla funzione della specificazione di rilevanza nella sopravvenienza – e sui possibili problemi da essa creati – si veda il par. IV.13. seguente.

(2) Per un panorama, si v. A. Miller, An Introduction to Contemporary Metaethics, Polity, Cambridge 2003, in particolare pp. 31-3, 53-6, 249-50.

(3)   Sull’origine del termine nella filosofia di lingua inglese si veda J. Kim, Supervenience as a Philosophical Concept, pp. 1-2, in “Metaphilosophy”, XXI, 1990, pp. 1-27 e La mente e il mondo fisico, Mc-Graw Hill, Milano 2000 [ed. or. Mind in a Physical World, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1998], pp. 6-7, R.M. Hare, La sopravvenienza, p. 70, in Saggi di teoria etica, Il Saggiatore, Milano 1992 [ed. or. Essays on Ethical Theory, Oxford University Press, Oxford 1989], pp. 71-86 (originariamente comparso in “Proceedings of the Aristotelian Society” suppl. vol., LVIII, 1984).

(4) Ma «sopravvenienza» è un concetto ubiquo, diffuso trasversalmente in molti ambiti e discipline, soprattutto in filosofia della mente e metafisica (si veda Kim, “Supervenience as a Philosophical Concept”, La mente e il mondo fisico, Supervenience and Mind, Cambridge University Press, Cambridge, 1993, D. Davidson, Azioni ed eventi, il Mulino, Bologna 1992 [ed. or. Essays on Actions and Events, Oxford University Press, Oxford 1980], F. Jackson, From Metaphysics to Ethics. A Defence of Conceptual Analysis, Oxford, Clarendon Press, Oxford 1998).

(5) Una ricostruzione complessiva ed esaustiva del dibattito metaetico con particolare attenzione alla sopravvenienza non è stata ancora compiuta, a conoscenza di chi scrive. Utili possono essere Hare, La sopravvenienza, Kim, Supervenience as a Philosophical Concept, J. Klagge, Supervenience: Perspectives V. Possible Worlds, in “Philosophical Quarterly”, XXXVII, 1987, pp. 312-3 e Supervenience: Ontological and Ascriptive, in “Australasian Journal of Philosophy”, LXI, 1988, pp. 460-70.

(6) Il testo più rappresentativo è S. Blackburn, Supervenience Revisited, in Essays in Quasi-Realism, Oxford University Press, Oxford 1993, pp. 130-40 (ma originariamente apparso in Exercises in Analysis, a cura di I. Hacking, Cambridge University Press, Cambridge 1985); la posizione di Blackburn viene presentata e discussa nel paragrafo II.7. seguente.

(7) Sulla necessità di spiegare la sopravvenienza insistono in particolare S. Blackburn, in Supervenience Revisited e nel saggio che ne costituisce la versione precedente, Moral Realism, contenuto anch’esso in Essays in Quasi-Realism, pp. 111-29, (ma originariamente apparso in Morality and Moral Reasoning, a cura di John Casey, Methuen, London 1973), e Kim, La mente e il mondo fisico, pp. 13-5.

(8) Come si vedrà in seguito (par. III.8.), questa posizione viene presentata e difesa, con il nome di «descrittivismo analitico», in Jackson, From Metaphysics to Ethics, cap. 6.

(9) Vale a dire oggetti che siano simili in tutte le loro caratteristiche, o tutte le loro caratteristiche rilevanti, tranne l’essere ciò verso cui si dirige lo specifico impegno in questione.

(10) Questa visione del linguaggio morale e della sopravvenienza accomuna Hare e Blackburn, come vedremo (par. II.6.-7.). Ma recentemente una posizione simile viene esposta da A. Gibbard, Thinking How to Live, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2003, cap. 5.

(11) Una versione recente di questa posizione è R. Shafer-Landau, Moral Realism, Clarendon Press, Oxford 2003 (discusso oltre nel paragrafo III.10.).

(12) In altre parole, la sopravvenienza è co-varianza senza riduzione (si veda Kim, Supervenience as a Philosophical Concept, pp. 8-9).

(13) Si veda M. Smith, Does the Evaluative Supervene on the Natural?, pp. 92-3, in Well-Being and Morality. Essays in Honour of James Griffin, a cura di R. Crisp e B. Hooker, Clarendon Press, Oxford 2000, pp. 91-114. Come si vedrà in seguito – specialmente nel paragrafo IV – l’idea che ci sia sempre una qualche relazione fra livello morale e non morale – una relazione qualsiasi – non verrà quasi mai messa in dubbio. Quella che verrà meno sarà la fiducia che tale relazione si possa descrivere tramite uno schema formale fisso.

(14) Questa, come si sosterrà nel par. I.4., è una caratteristica distintiva del linguaggio morale.

(15) Tale la sopravvenienza era secondo tutti i partecipanti alla fase precedente del dibattito (si veda R.M. Hare, Il linguaggio della morale, Ubaldini, Roma 1968, p. 120, § 8.2. [ed. or. The Language of Morals, Clarendon Press, Oxford 1952], Blackburn, Moral Realism, p. 121).

(16) Questo presupposto necessario della sopravvenienza viene messo in luce efficacemente da Smith, Does the Evaluative Supervene on the Natural?, pp. 92-6.

(17) Jackson, From Metaphysics to Ethics, pp. 119-22.

(18) Si tratta di una forma di naturalismo che, al di là delle divergenze specifiche, unisce pensatori come Blackburn e Gibbard, Boyd e Brink – i quali, pur non essendo certamente i soli protagonisti della scena metaetica degli anni Ottanta (in quegli anni John McDowell portava a compimento il suo progetto, che conduce ad un naturalismo molto diverso, e molti pensatori di ispirazione kantiana elaboravano teorie metaetiche complessive), ne hanno occupato certamente gran parte. Considerando il naturalismo in metaetica si è soliti distinguere fra «naturalismo sostantivo» e «naturalismo metodologico» (si veda P. Railton, Naturalism and Prescriptivity, in “Social Philosophy and Policy”, VII, 1989, pp. 151-74). La sommaria ricostruzione presentata nel testo trascura questa distinzione, a favore di una differenza fra forme di naturalismo non riduzionista (che a parere di chi scrive accomuna tutti gli autori menzionati all’inizio di questa nota) e naturalismo riduzionista (per una ricostruzione attenta a queste differenze si v. P. Donatelli, La teoria morale analitica: un bilancio degli ultimi venticinque anni, pp. 27-44, in Etica analitica. Analisi, teorie, applicazioni, a cura di P. Donatelli ed E. Lecaldano, LED, Milano 1996, pp. 9-133).

(19) Si vedano J. Griffin, Value Judgement, Oxford University Press, Oxford 1996, D. McNaughton, Moral Vision, Basil Blackwell, Oxford 1988, J. Dancy, Moral Reasons, Basil Blackwell, Oxford 1993, R.M. Adams, Finite and Infinite Goods. A Framework for Ethics, Oxford University Press, Oxford 1999.

(20) Ovviamente, i progetti di riduzione non sono una novità degli anni Novanta, e corrono paralleli a forme non riduzioniste di naturalismo – e la critica a forme di naturalismo riduzionista data almeno dal famoso open question argument di Moore (si veda G.E. Moore, Principia Ethica, Cambridge University Press, Cambridge 1903, I, §§ 8-14). Nondimeno, la posizione di Jackson che esamineremo in seguito è esplicitamente intenzionata ad argomentare a favore di una forma di fisicalismo e della riduzione analitica dei termini morali a quelli descrittivi.

(21) Si veda J. McDowell, Mind and World, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1994, p. 84.

(22) Cfr. ad esempio D. Wiggins, Cognitivism, Naturalism, and Normativity, in Reality, Representation, and Projection, a cura di J. Haldane e C. Wright, Oxford University Press, Oxford 1993, pp. 301-14.

(23) Si veda J. McDowell, Il non cognitivismo e la questione del seguire una regola, p. 164, in Donatelli e Lecaldano, Etica analitica, pp. 159-82 [ed. or. Non-Cognitivism and Rule Following, in Wittgenstein: to Follow a Rule, a cura di S.H. Holtzmann e C.M. Leich, Routledge and Kegan, London 1981, pp. 141-62].

(24) Cfr. D. McNaughton e P. Rawling, Unprincipled Ethics, pp. 257-62, in Moral Particularism, a cura di B. Hooker e O. Little, Clarendon Press, Oxford 2000, pp. 256-75.

(25) Dancy, Moral Reasons, pp. 60-2, 66-71.

(26) Si veda, per una versione di espressivismo che accentua il fatto che gli atteggiamenti e i sentimenti morali sono rivolti al mondo, S. Blackburn, Ruling Passions. A Theory of Practical Reasoning, Clarendon Press, Oxford 1998, pp. 122-5, 253-6.

(27) Ma sull’oggetto della valutazione non tutti gli espressivisti sono d’accordo: Blackburn sembra propendere per l’idea che si valutino azioni e sentimenti, ma non caratteri nel loro complesso (si veda Ruling Passions, pp. 8-14, 27-37), e anche Gibbard tende a ritenere che i sentimenti e le reazioni altrui, e le norme da cui derivano, siano oggetto di valutazione privilegiato (si veda A. Gibbard, Wise Choices, Apt Feelings. A Theory of Normative Judgment, Clarendon Press, Oxford 1990, pp. 6-9, 45-52).

(28) O più propriamente al linguaggio della geometria inteso come parte di quel linguaggio indipendente che è la matematica (assunto come comprensivo di logica, teoria degli insiemi, aritmetica e geometria).

(29) La non indipendenza, se accoppiata alla specificità, non corrisponde alla dipendenza: se così fosse, infatti, (alla luce di certe assunzioni semantiche) il linguaggio morale sarebbe riducibile a quello da cui dipende, perdendo la propria specificità.

(30) Ma si veda la nota 28 precedente.

(31) Si veda Kim, Supervenience as a Philosophical Concept, pp. 8-9.

(32) In altre parole, la sopravvenienza dovrebbe permettere la realizzabilità multipla.

(33) Ovviamente, si può trattare di un significato relativo: relativo a chi parla, a una certa cultura, a un certo contesto. Ma, anche ipotizzando che si diano solo significati relativi, contestare l’uso di un certo predicato morale – secondo questo modo di pensare – non equivale soltanto a sostituire un significato ad un altro, bensì a contestare un certo uso, o una certa attribuzione di significato.

(34) Cfr. R.M. Hare, L’ontologia in etica, pp. 96-7, in Saggi di teoria etica, pp. 87-103 [ed. or. in Morality and Objectivity: Essays in Memory of John Mackie, a cura di T. Honderich, Routledge and Kegan, London 1985], Libertà e ragione, il Saggiatore, Milano 19902, p. 269, § X.7. [ed. or. Freedom and Reason, Oxford University Press, Oxford 1963].

(35) Questa è la strategia di Blackburn (Moral Realism, p. 114 e Supervenience Revisited, pp. 132-4), ma anche di Hare (in Che cosa fa di una scelta una scelta razionale?, pp. 51-2, in Saggi di teoria etica, pp. 36-52 [ed. or. in “Review of Metaphysics”, XXXII, 1979]).

(36) Ma ovviamente ci sono molte teorie su che cosa esattamente sia un linguaggio, e qui non si intende prendere posizione su nessuna di esse, né si intende adottarne una in particolare.

(37) Cfr. Blackburn, Supervenience Revisited, pp. 136-7.

(38) Gli autori che sembrano essere menzionati come possibili progenitori della sopravvenienza sono Sidgwick e Moore. Sidgwick sicuramente ha espresso, come ricorda Kim (Supervenience as a Philosophical Concept, pp. 5-6), l’idea che qualsiasi differenza di giudizio morale su situazioni apparentemente simili vada giustificata menzionando una differenza non morale rilevante (si veda H. Sidgwick, I metodi dell’etica, il Saggiatore, Milano 1995, III, cap. I, § 3, p. 238 [ed. or. The Methods of Ethics, Hackett, Indianapolis, 1981 (19077)]). Ma Sidgwick utilizza quest’idea per articolare una teoria normativa incentrata su principi universali nel contesto di una metaetica molto diversa da quella che ammette un ruolo rilevante della sopravvenienza. In particolare, è vero che Sidgwick ha una teoria etica normativa universalista strutturalmente simile a quella che Hare trarrà dalla sopravvenienza – e dall’universalizzazione (come si vedrà in questo paragrafo). Ma la metaetica di Sidgwick è assolutamente minima, e non presuppone alcuna visione complessiva del linguaggio morale e della sua logica (si veda R. Shaver, Sidgwick’s Minimal Metaethics, “Utilitas”, XII, 2000, pp. 261-77). Di conseguenza, il suo universalismo non deriva da una tesi di ordine concettuale o logico.

Una tesi di sopravvenienza viene attribuita a Moore da Blackburn (Supervenience Revisited, p. 130), Kim (Supervenience as a Philosophical Concept, p. 6), Klagge (Supervenience: Ontological and Ascriptive, p. 461) e da Shafer-Landau (Moral Realism, p. 85). Tuttavia, sarebbe più corretto sostenere che Moore adotta una tesi di necessitazione (la distinzione fra le due tesi si deve a Hare, La sopravvenienza, pp. 74-7, come vedremo più oltre in questo paragrafo): secondo Moore, le proprietà morali, pur non potendo essere ridotte a quelle non morali, sono da esse determinate (si veda G.E. Moore, Reply to my Critics, p. 588, in The Philosophy of G.E. Moore, a cura di P. Schlipp, Open Court, La Salle (Ill.) 1942). Questa tesi in primo luogo è di ordine metafisico e non concettuale – come invece è la sopravvenienza (anche se alcuni sostengono che si dia una versione ontologica della sopravvenienza, si veda Klagge, Supervenience: Ontological and Ascriptive). In secondo luogo, la necessitazione produce una visione del linguaggio morale assolutamente difforme da quella che abbiamo rintracciato alla base della sopravvenienza. Se è metafisicamente necessario che certe proprietà non morali costituiscano o siano co-estensive con le proprietà morali (questo vuol dire che le une sono determinate dalle altre), e il linguaggio morale denota o esprime le proprietà morali, le condizioni di applicazione del linguaggio morale non sono fluttuanti come nella visione precedentemente esposta. Esse sono invece fissate dalla metafisica, una metafisica che esclude la possibilità di una realizzabilità multipla delle proprietà morali. Invece, la realizzabilità multipla è proprio quello che viene richiesto dalla visione del linguaggio morale articolata dalla sopravvenienza, come presentata in precedenza.

(39) Si veda Il linguaggio della morale, pp. 80-1, § 5.2. Secondo Kim (Supervenience as a Philosophical Concept, pp. 3-4), però, il termine risale ai teorici emergentisti britannici del secolo scorso. Il medesimo Hare, peraltro, ammette di non essere stato il primo a usare il termine (La sopravvenienza, p. 71).

(40) Cfr. McNaughton e Rawling, Unprincipled Ethics, p. 262.

(41) Secondo Hare, infatti, «tutti i giudizi valutativi hanno implicitamente carattere universale, vale a dire si riferiscono ed esprimono l’adesione a un criterio che viene applicato ad altri casi simili» (Il linguaggio della morale, p. 118, § 8.1), e, inoltre, «il significato del verbo ‘dovere’ e di altre parole morali è tale che una persona che le usa è con ciò tenuta a accettare una regola universale» (Libertà e ragione, p. 62, § III.1.).

(42) Questo, secondo Hare, è «uno dei tratti più caratteristici delle parole valutative»: «‘buono’ e altri termini del genere designano proprietà ‘sopravvenienti’ o ‘consequenziali’» (ivi, p. 37-44, §§ II.2.-4.); «se esprimo un giudizio morale intorno a una cosa, ciò deve avvenire in virtù di una qualche caratteristica della cosa stessa» (ivi, p. 72, § III.5.).

(43) «La caratteristica dei giudizi valutativi che chiamiamo universalizzabilità – sostiene Hare – è semplicemente quella che essi condividono con i giudizi descrittivi, vale a dire il fatto che essi hanno entrambi significato descrittivo» (ivi, p. 43, § II.4.).

(44) Ivi, p. 61, § III.1.

(45) Hare, Il linguaggio della morale, p. 80, § 5.2.

(46) Ivi, p. 81, § 5.3.

(47) Ivi, pp. 83-8, §§ 5.4.-7., p. 108, § 7.2.: «se esistesse […] una congiunzione C di caratteristiche descrittive tale che ‘Giorgio ha C’ implica ‘Giorgio è moralmente buono’ […], non potremmo lodare un uomo perché possiede quelle caratteristiche; potremmo solo dire che le possiede» (ivi, p. 131, § 9.3.).

(48) Ivi, pp. 33-60, cap. II.

(49) Ivi, p. 113, § 7.5.

(50) «Quando un principio sia stato adottato […], le sue formulazioni e le sue applicazioni acquistano […] un significato descrittivo. […] Nel caso in cui, anziché adottare questo principio, ne avessimo adottato un altro, le cosiddette regole della nostra lingua sarebbero state diverse. E analogamente, se, invece che questo principio, ne avessimo adottato un altro, sarebbero stati diversi anche quelli che, in modo fuorviante, chiamiamo “fatti morali”; questi fatti non sono nient’altro che forti disposizioni nostre a chiamare ingiusti certi fatti. Naturalmente, è bensì un fatto che noi abbiamo certe disposizioni; ma queste disposizioni noi non le abbiamo se non in virtù di un fatto ulteriore, ossia dell’adozione da parte nostra di quel principio: ciò che non sarebbe stato un fatto, nel caso in cui ne avessimo adottato un altro. […] La decisione morale fondamentale, quella che esige riflessione morale razionale, è in primo luogo l’adozione di quel principio» (Cos’è che fa di una scelta una scelta razionale?, pp. 51-2).

(51) R.M. Hare, Il linguaggio della morale, p. 91, § 6.2

(52) Ivi, p. 94-9, § 6.3.-5.

(53) Cfr. Miller, An Introduction, p. 54.

(54) «Una volta affermato che c’è (anche se non siamo in grado di dire quale sia) una premessa universale che regge e che questa, congiuntamente con una premessa sussuntiva che pure regge (sebbene anche di essa non siamo in grado di dire quale sia), implica logicamente che il caso ha la proprietà morale in questione, ne discenderà che qualunque altro caso esattamente uguale a questo per altri versi avrà la medesima proprietà morale; anch’esso infatti non potrà che essere sussumibile sotto la stessa premessa universale» (La sopravvenienza, p. 78).

(55) Ivi, pp. 75-7. In altri termini, chiarisce Hare, «la premessa universale non ha bisogno di essere una verità necessaria», come è evidente nel caso della bellezza: «la bellezza è sopravveniente rispetto alle proprietà descrittive […]; ma quando esprimiamo il nostro apprezzamento per una stanza dicendo che è bella non siamo vincolati dal tipo di stanza su cui esprimiamo il nostro apprezzamento» (ivi, pp. 79-80).

(56) Ivi, p. 74.

(57) Ivi, p. 80.

(58) Ivi, pp. 80-1.

(59) Per queste sue caratteristiche, il tipo di sopravvenienza adottato da Hare è stato definito «prospettico» (si veda Klagge, Supervenience: Perspectives V. Possible Worlds, pp. 313-5). Klagge sostiene anche che la sopravvenienza prospettica è forte, vale a dire valida in tutti i mondi possibili – almeno all’interno di quella prospettiva. Quest’osservazione sembra difficile da comprendere, come sembra oscura, peraltro, la nozione di sopravvenienza forte (per cui si veda J. Kim, Concepts of Supervenience, in “Philosophy and Phenomenological Research”, LXV, pp. 153-76), almeno se la si intende come un rapporto di necessaria co-varianza fra certi insiemi di proprietà valido in tutti i mondi possibili. Infatti, in questa forma parrebbe trattarsi di necessitazione, più che sopravvenienza: e, perché la sopravvenienza possa rendere conto di certe caratteristiche del linguaggio morale, sembra essenziale distinguerla dalla necessitazione. Si potrebbe pensare ad una forma di sopravvenienza forte, ma rigorosamente concettuale (cfr. Blackburn, Supervenience Revisited, p. 137)? L’idea potrebbe essere che, una volta che qualcosa venga definito «coraggioso» in virtù di certe sue caratteristiche non morali, tutte le cose ad esso simili debbono essere chiamate «coraggiose» – nel mondo attuale e in tutti i mondi possibili. Questa tesi si potrebbe interpretare in due maniere: (1) Se qualcosa è coraggioso in quanto ha certe caratteristiche, allora è logicamente necessario che qualcosa che è esattamente simile (indiscernibile) sia – almeno per chi ha coniato la definizione di «coraggioso» in questione – egualmente coraggioso. E perché escludere che qualcosa di esattamente simile possa ricorrere in un mondo possibile differente da quello attuale? (2) Il fatto che definire qualcosa «coraggioso» significa che la cosa in questione ha certe caratteristiche si può spiegare postulando che tali caratteristiche determinino quello che costituisce l’essere coraggioso, in tutti i mondi possibili. Dunque, se qualcosa è coraggioso in quanto ha certe caratteristiche, allora è logicamente e metafisicamente necessario che qualcosa che è ad esso simile almeno per le caratteristiche in questione sia egualmente coraggioso. Ora, (1) è alquanto banale, e se è questo quello che Klagge intende dire, allora è vero – ma poco utile. (2), invece, è quantomeno opinabile. Lasciando da parte la tesi secondo cui qualsiasi definizione rintraccia una relazione di determinazione metafisica, anche chi ritenga che una qualche forma di costituzione metafisica della realtà spieghi il possesso di certe caratteristiche morali, nonché l’uso di certi termini del linguaggio morale (come vedremo, nel par. III.10., che farà Shafer-Landau), può arrestarsi prima della necessitazione – e concedere la possibilità che in altri mondi possibili le cose vadano diversamente.

(60) R.M. Hare, Libertà e ragione, p. 34, § II.1.

(61) Blackburn, Moral Realism, pp. 119-23.

(62) Cfr. Shafer-Landau, Moral Realism, pp. 82-3.

(63) Si veda J. Klagge, An Alleged Difficulty Concerning Moral Properties, p. 375, in “Mind”, XCIII, 1984, pp. 370-80, D.O. Brink, Moral Realism and the Foundations of Ethics, Cambridge University Press, Cambridge 1989, pp. 197-210.

(64) Cfr. Hare, La sopravvenienza, pp. 71-2, 77.

(65) Cfr. J. Mackie, Ethics: Inventing Right and Wrong, Penguin, Harmondsworth 1977, p. 38.

(66) Cfr. Miller, An Introduction, p. 33, 288 n. 3.

(67) Jackson, From Metaphysics to Ethics, pp. 144-6.

(68) Ivi, pp. 122-3.

(69) Ivi, p. 121.

(70) Ivi, p. 123.

(71) Ivi, p. 125.

(72) Ivi, pp. 124-5.

(73) S. Blackburn, Spreading the Word. Groundings in the Philosophy of Language, Clarendon Press, Oxford 1984, pp. 182-7.

(74) Jackson, From Metaphysics to Ethics, pp. 161-2.

(75) Cfr. J. Raz, The Truth in Particularism, p. 51, in Hooker e Little, Moral Particularism, pp. 48-78.

(76) Vedi il par. IV.11. seguente.

(77) Si potrebbe osservare che anche per il realismo di Cornell la realtà morale non era esclusivamente linguistica e mentale, ma costituiva un ambito metafisico autentico. Ma si noti che comunque i realisti di Cornell sono dei naturalisti, per cui quello che chiamano realtà morale è un pezzo della natura, un pezzo di qualcos’altro – come per Hare e Blackburn la realtà morale è un pezzo del linguaggio e della mente umani. Per Shafer-Landau parrebbe esserci un ambito sui generis della realtà, in cui si collocano proprietà morali – anche se egli sostiene, parsimoniosamente, che la realtà morale è formata solo da proprietà esemplificate, e non da sostanze distinte dalle sostanze ordinarie (Moral Realism, pp. 74-5).

(78) Ivi, pp. 90-2.

(79) Ivi, pp. 72-8, 86.

(80) Ivi, p. 86-8.

(81) Ivi, p. 86.

(82) Ivi, pp. 95-6.

(83) Si veda ad esempio quanto osserva Blackburn in Ruling Passions, p. 317.

(84) Una posizione simile viene espressa da Joseph Raz (The Truth in Particularism, pp. 53-5).

(85) Cfr. McNaughton e Rawling, Unprincipled Ethics, p. 263.

(86) Hare, Libertà e ragione, p. 47 (ma vedi anche le pp. 45-6).

(87) Ma cfr. anche Raz, The Truth in Particularism, p. 51.

(88) Ma la terminologia di Ross, secondo cui le proprietà morali risultano, o sono consequenziali, a quelle non morali, compare anche in Hare (si veda W.D. Ross, The Right and the Good, a cura di Ph. Stratton-Lake, Clarendon Press, Oxford 2002 [ed. or. 1930], pp. 79, 88, 155, e Hare, Il linguaggio della morale, p. 80, § 5.2.).

(89) Dancy, Moral Reasons, pp. 73-4, Ethics Without Principles, Clarendon Press, Oxford 2004, p. 85.

(90) Hare, Libertà e ragione, p. 50, § II.6.

(91) Cfr. Dancy, Moral Reasons, p. 76.

(92) Ivi, pp. 76-7, Ethics Without Principles, pp. 86-7.

(93) Ivi, p. 87.

(94) D’altronde, la risultanza non è altro che l’idea che il linguaggio morale sia specifico ma non indipendente.

(95) Griffin, Value Judgement, p. 45.

(96) Ivi, p. 46, J. Griffin, Replies, p. 297, in Crisp e Hooker, Well-Being and Morality, pp. 281-313.

(97) Griffin, Value Judgement, pp. 48-51.

(98) M. Smith, Does the Evaluative Supervene on the Natural?, pp. 109-10.

(99) J. Griffin, Replies, p. 301.

(100) Ivi, p. 301.

(101) Ivi, p. 302.

(102) M. Smith, Does the Evaluative Supervene on the Natural?, pp. 113-4.