http://www.units.it/etica/2005_1/GRECO.htm
Dipartimento
di studi filosofici ed epistemologici
Università di Roma
“La Sapienza”
Abstract In this paper I
examine the issue of internal and external reasons as it is presented by
Bernard Williams. I argue that Williams’ internalism is a convincing answer to
the problem of the nature of reasons in ethics, and that it is immune to
various externalist objections made by thinkers belonging to different
philosophical perspectives, such as Derek Parfit, Christine Korsgaard, and John
McDowell. |
1. “Molti
filosofi morali – afferma William K. Frankena (1)
– hanno sostenuto o suggerito che, in un certo senso, per un agente è
logicamente possibile avere un obbligo, o capire di averlo, anche se non possiede
alcuna motivazione, effettiva o potenziale, per compiere l’azione in questione;
altri invece hanno sostenuto o suggerito che ciò è paradossale e logicamente
impossibile”. Queste due posizioni, continua Frankena, possono venire chiamate
rispettivamente “esternalismo” e “internalismo”, in quanto coloro che
aderiscono alla prima “sono convinti che non sia necessario fare alcun
riferimento all’esistenza di motivi da parte dell’agente per l’analisi di un
giudizio morale”; mentre coloro che aderiscono alla seconda “sono ugualmente
convinti che un tale riferimento debba essere necessariamente presente”.(2) Da quando Frankena scrisse il suo saggio (3) il
dibattito sulla natura delle ragioni interne ed esterne – o sull’internalismo e
l’esternalismo, come è anche conosciuto – è cresciuto fino a diventare a tutti
gli effetti una nuova prospettiva dalla quale individuare e classificare un
insieme di problemi etici, dando luogo a una letteratura estremamente ricca e a
una discussione che continua a essere molto accesa.(4)
L’intenzione di questo intervento è di descrivere, brevemente e a grandi linee,
i termini del problema, e alcune implicazioni che esso comporta. Si farà riferimento
in particolare alla formulazione che è stata data da Bernard Williams,(5) il quale presenta a tutt’oggi
l’esposizione forse più limpida ed esaustiva di questa tematica. Si mostrerà
quindi come la specifica posizione internalista di Williams sia in grado di
rispondere alle obiezioni che alcuni filosofi appartenenti a differenti
tradizioni di pensiero muovono contro di essa – si tratta di Derek Parfit,
Christine Korsgaard e John McDowell –, offrendosi come la soluzione più
convincente del problema della natura delle ragioni in etica.
2.
L’argomento delle ragioni interne ed esterne, nell’enunciazione che ne dà
Williams, riguarda fondamentalmente il ruolo della motivazione nel giudizio
pratico, ossia la relazione che esiste tra le ragioni pratiche e la loro
capacità di motivare la nostra volontà. Prima di tutto, è opportuno osservare
che quando si dice di avere una ragione per fare qualcosa si sta facendo
un’affermazione ambigua: essa infatti può essere intesa sia come una
considerazione riguardo a cosa si deve, o è giusto, fare – ossia come una
giustificazione –, sia come una considerazione riguardo a ciò che si è spinti a
fare – ossia come una motivazione. Con lo stesso termine “ragione”, quindi, si
indicano due cose che possono non corrispondere: una ragione “prescrittiva” o
“normativa” (per usare un termine caro alla tradizione kantiana), e una ragione
“motivante”. Non è affatto detto che ciò che si ritiene sia giusto fare porti
automaticamente ad agire di conseguenza: ragioni normative e ragioni motivanti
– giustificazione e motivazione – possono venire distinte.(6) Il dibattito, dunque, ruota attorno allo
statuto delle ragioni e alla capacità che esse hanno di muovere all’azione colui
a cui vengono presentate. Specificamente, il dibattito si fa particolarmente
intricato in quanto si compone – come si vedrà – di riflessioni sia
prescrittive (riguardo a ciò che devo fare) sia psicologiche (riguardo a ciò
che mi porta a fare ciò che devo); ma anche epistemologiche (riguardo al modo
in cui posso conoscere le ragioni che devono guidarmi) e metafisiche (riguardo
allo statuto ontologico di queste ragioni).
3. Cosa
si intende precisamente per ragioni “interne”ed “esterne”? Nella terminologia
di Williams, una ragione per compiere F (7) – dove F sta per
un qualsiasi verbo d’azione – è detta “interna” se essa dipende da un qualche
motivo – un desiderio, un progetto, uno scopo, un fine – posseduto da un agente
(A) che verrà soddisfatto da F; se
l’agente non avesse quel dato motivo, allora l’affermazione “A possiede una
ragione per compiere F” sarebbe
falsa. Al contrario, una ragione per compiere F è detta
“esterna” se essa vale per l’agente anche se egli non ha alcun motivo che
sarebbe soddisfatto da F; quindi,
anche se l’agente non possedesse quel dato motivo, l’affermazione “A possiede
una ragione per compiere F” sarebbe
tuttavia vera. In altre parole, una posizione “internalista” afferma che una
ragione, per esser tale, deve potermi motivare – pertanto, per un internalista
ragioni normative e ragioni motivanti coincidono. Una posizione “esternalista”,
invece, afferma che non è affatto necessario che una ragione, per esser tale,
debba anche motivarmi – e dunque per un esternalista ragioni normative e
ragioni motivanti appartengono a due classi differenti che non necessariamente
si incontrano. In questo senso, non è tanto l’enunciato “A ha una ragione per
compiere F” che esprime nel modo
migliore una ragione esterna, quanto piuttosto l’enunciato “esiste una ragione
perché A compia F”, attraverso il quale si
mostra più chiaramente come il momento normativo possa sussistere senza che
l’agente riconosca la ragione in questione come motivante per lui.
4. La tesi centrale di Williams è che tutte le ragioni per agire sono
interne, e quindi che non esistono ragioni esterne. In particolare, egli
elabora un modello di ispirazione humeano.(8) Secondo
questo modello, un agente ha una ragione per compiere F solo se è possibile individuare un “percorso deliberativo
valido” (sound deliberative route) (9)
che ci permetta di ricondurre la ragione in questione al “complesso
motivazionale soggettivo” (S) dell’agente.(10) Con S Williams intende l’insieme dei desideri dell’agente
intesi in senso ampio, ma anche “disposizioni valutative, modelli di reazione
emotiva, legami personali, nonché progetti di vario tipo […] in cui si
concretizza l’impegno dell’agente”.(11)
Per Williams allora, una ragione normativa è tale solo se può essere fatta
risalire a un qualche elemento già presente nell’S dell’agente, ossia solo se,
partendo da S, deliberando razionalmente – dove con “razionalmente” si fa
riferimento esclusivamente a una razionalità mezzi-fini – e conoscendo i fatti
rilevanti, l’agente sarà motivato a compiere F.
5.
Ciononostante, può darsi il caso, secondo Williams, che l’agente abbia in
effetti delle ragioni per fare o non fare qualcosa, anche se al momento non le
riconosce come ragioni per lui. Egli fa l’esempio di qualcuno che voglia bere
un bicchiere di gin tonic, ma non sappia che la sostanza che crede sia gin in
realtà è benzina. Questa persona, sostiene Williams, ha comunque una ragione di
non mischiare quella sostanza con acqua tonica e berla, anche se adesso non è
motivato a tale riguardo. Si tratta di una ragione esterna? “Esiste una
ragione” per questa persona di non mischiare quella sostanza all’acqua tonica e
berla, indipendentemente da quanto è presente nel suo S? Secondo Williams, non
è così. È proprio perché questa persona desidera del gin e non della benzina
che si spiega perché non ha una ragione di prendere la sostanza che ha di
fronte: se sapesse che si tratta di benzina e non di gin, non la userebbe per
fare il suo cocktail. Una spiegazione di questo tipo può essere data senza mai
prescindere dal complesso motivazionale soggettivo dell’agente: se egli avesse
l’informazione giusta, infatti, esisterebbe un percorso deliberativo valido che
permetterebbe, a partire dal suo S, di rendere conto del fatto che egli ha una
ragione – una ragione interna – di non usare della benzina per il suo cocktail.
Non ci troviamo di fronte a un caso di una ragione esterna, ma solo di una
falsa credenza. Pertanto, il riferimento alle nozioni di complesso
motivazionale soggettivo e di percorso deliberativo valido permette a Williams
di presentare la posizione internalista in maniera tale da potere ammettere che
sia vero che un agente ha una ragione per fare qualcosa anche se al momento
egli non la riconosca e non sia motivato da essa: come emerge dall’esempio del
gin e della benzina, la cosa fondamentale perché una certa ragione sia una
ragione per un agente è che essa possa venire ricondotta, attraverso un
percorso deliberativo valido, a un elemento già presente nel complesso
motivazionale soggettivo dell’agente.
6. L’internalismo quindi,
nel modo in cui viene presentato da Williams, riesce a rendere conto della
relazione tra giustificazione e motivazione perché – dato il presupposto
internalista per cui ha senso parlare di ragioni solo se esse sono ragioni per
qualcuno – stabilisce un nesso tra considerazioni normative e considerazioni
esplicative. Infatti, dicendo che A ha una ragione per compiere F,
si intende che A compie F per quella ragione, una
ragione che comparirà nella spiegazione di ciò che A sta facendo. D’altra
parte, se si spiega ciò che A sta facendo nei termini della ragione che A
possiede per fare quella cosa, si sta ricostruendo razionalmente la sua
condotta, vale a dire, ci si sta riferendo a una considerazione che ha effetto
sull’agire di A proprio perché per lui essa possiede una valenza normativa –
una valenza normativa che è garantita dalla possibilità di ricondurre la
ragione in questione a un elemento presente nell’S di A attraverso un percorso
deliberativo valido. In questo senso, la ragione che è possibile ascrivere
all’agente in un’asserzione in terza persona (“A non deve usare quella sostanza
per fare il suo cocktail, perché non è gin ma benzina”) corrisponde a quanto
l’agente può ascrivere a se stesso in un’asserzione in prima persona, come
risultato di una deliberazione corretta a partire dal suo S (“non devo usare
quella sostanza per il mio cocktail, perché voglio bere gin e non benzina, e so
che quella sostanza è effettivamente benzina”). La forza dell’analisi proposta
da Williams, quindi, sta nella sua portata interpretativa: le azioni che gli
individui compiono possono venire descritte in termini di ragioni normative, e
a loro volta le ragioni sono normative perché vengono riconosciute come tali
dagli individui, i quali si comporteranno in certi modi a partire da esse.
7. Ora, a
monte di una soluzione di questo tipo c’è un presupposto riguardo alla natura
delle ragioni normative (un presupposto che Williams riprende da Hume ma che,
come si vedrà, non è una sua esclusiva): quello secondo cui la loro
prescrittività o normatività consiste essenzialmente in una forza motivante.
Per Williams, se qualcuno ha una ragione o un dovere o un obbligo – siano essi
morali o meno – di fare qualcosa, questa ragione, dovere o obbligo devono in
qualche modo motivarlo, ossia egli deve essere in grado di riconoscere, in
qualche modo, di avere una ragione, un dovere o un obbligo che avanzano delle
pretese nei suoi confronti, tali da spingerlo ad agire di conseguenza in forza
della loro autorità. L’internalismo di Williams è in grado di spiegare la forza
motivante delle ragioni normative proprio perché esse sono in relazione agli S
degli agenti; cosa questa che invece, a suo avviso, non può riuscire agli
esternalisti. Essi, infatti, definendo le ragioni normative senza tenere conto
delle motivazioni originarie di chicchessia, non possono spiegare come esse
possano influenzarne la condotta. Di volta in volta, continua Williams, gli
esternalisti concepiranno il legame tra il raggiungimento della credenza di un
asserto indicante una ragione esterna e l’acquisizione di una motivazione “in
un modo speciale”, che consiste nel fatto che l’agente “in un qualche senso,
esamina il problema in modo corretto”, oppure “delibera correttamente”.(12) Il problema, conclude Williams, è che in
tutti questi casi l’esternalista è inevitabilmente oscuro, poiché non precisa
mai in che cosa consista quella correttezza che dovrebbe permettere all’agente
di venire mosso da una ragione esterna a prescindere da qualsiasi riferimento
alle sue motivazioni effettive.
8. In
realtà, molti esternalisti non concepiscono affatto questa oscurità come un
problema, poiché a loro avviso è il presupposto che la normatività sia
fondamentalmente una forza motivante a dovere essere messo da parte. Al
contrario, per loro tenere insieme obbligo e motivazione è un vero e proprio
errore logico, in quanto le ragioni giustificanti – e tra esse, in special modo
le ragioni propriamente morali – e le ragioni motivanti appartengono a due
classi distinte che non vanno confuse. Ad esempio, gran parte delle critiche
che Frankena muove alle varie forme di internalismo che egli prende in
considerazione ruotano tutte attorno all’errore che verrebbe commesso prendendo
quello che è un legame solo contingente tra obbligo e motivo per un legame
logico. Al contrario, a suo avviso, i due sensi in cui si può intendere il
termine “ragione” – ragione giustificante o morale, ovvero ragione motivante –
vanno tenuti ben distinti, poiché del primo si dà una spiegazione estenalista,
mentre del secondo se ne dà una internalista.(13) In Reasons and Motivation (14) Derek Parfit presenta in maniera
molto chiara la natura del disaccordo che oppone esternalisti e internalisti a
questo proposito. Secondo Parfit, che abbraccia una posizione esternalista
estrema, ciò che contraddistingue una ragione specificamente morale non è la
sua capacità di influenzare la condotta delle persone, ma la sua verità. E la
sfera delle verità normative godrebbe di uno statuto suo proprio, irriducibile
a qualsiasi cosa che non sia già in partenza normativo. Anche se non è
possibile spiegare in che cosa consistono i concetti normativi, continua
Parfit, possiamo tuttavia mostrare in che cosa essi non consistono. Una
spiegazione come quella di Williams, ad esempio – e, con essa, qualsiasi
spiegazione che faccia dipendere la normatività delle ragioni dalla presenza di
un precedente motivo negli agenti –, nell’ottica di Parfit va senz’altro
rifiutata, in quanto ridurrebbe la dimensione normativa a fatti meramente
psicologici; una spiegazione di questo genere, pertanto, non è normativa “nella
maniera rilevante”.(15)
Anche in questo caso, l’internalista alla Williams ha buon gioco nel ribadire
l’accusa di oscurità verso una dimensione normativa di cui ci si limita a
dichiarare l’esistenza autonoma, senza mai entrare nel merito di ciò in cui in
effetti consista. Al contrario, l’analisi internalista potrà anche venire
accusata di psicologismo; ma almeno offre una spiegazione convincente del
perché la dimensione normativa è qualcosa che riguarda gli individui. È lo
stesso Parfit, tuttavia, ad ammettere che una tesi come la sua, per cui ci
sarebbero verità irriducibilmente normative, ha delle implicazioni metafisiche
molto forti – le quali vanno chiarite, sotto pena di fare dell’esternalismo la
tipica posizione filosofica che sembra promettere molto, ma che in realtà non è
altro che il prodotto di una confusione concettuale.
9. La
tesi di Williams pone domande scomode a tutti coloro che sostengono l’esistenza
di ragioni esterne tout court,
indipendentemente dal fatto che gli individui arrivino a comprenderle: essi
infatti devono spiegare sia la natura di queste supposte ragioni indipendenti –
un problema ontologico – sia come gli agenti possano conoscerle – un problema
epistemologico – sia, una volta conosciutele, come esse possano motivarli – un
problema psicologico. In altre parole, gli esternalisti (16) sono accusati di fare della questione
delle ragioni per agire un problema esclusivamente teorico, laddove esso invece
sembrerebbe essere eminentemente pratico: per gli esternalisti la questione
finirebbe per riguardare solo il modo in cui gli individui si devono
relazionare a delle entità – le ragioni – la cui verità è determinata a
prescindere dal fatto che esse abbiano influenza sulle persone, ossia a
prescindere dal fatto che esse rappresentino genuine ragioni per agire proprio
per quelle persone. Come si è visto, per gli esternalisti il piano normativo e
il piano motivante sono – e devono essere – separati; essi richiedono soluzioni
differenti, e il fatto che gli individui siano in effetti motivati da ragioni
normative diventa un problema di psicologia che non riguarda affatto la natura
delle ragioni in gioco. Al contrario, per Williams – e per gli internalisti in
generale – perché si possa parlare di ragioni per agire il piano normativo e
quello motivante non possono essere divisi: perché una ragione per compiere F sia normativamente efficace essa deve anche motivare
l’agente, e le ragioni esterne vengono rifiutate poiché si pretende che esse
abbiano un valore normativo per gli agenti anche qualora essi rimangano
indifferenti alla prescrittività di queste ragioni.
10. Le
critiche di Williams si rivolgono anche a una particolare forma di
internalismo, le cui conclusioni possono essere avvicinate a quelle
dell’esternalismo: si tratta di quelle teorie che sostengono che le ragioni non
sono tanto oggetto di conoscenza, quanto il risultato di una procedura
deliberativa razionale di un qualche tipo; una posizione di questo genere è
stata abbracciata da molti kantiani contemporanei. Esempi paradigmatici sono le
teorie di Thomas Nagel e Christine Korsgaard.(17) Entrambi concepiscono la normatività – allo stesso modo di
Williams – come una forza motivante – e in questo senso si differenziano da
quegli esternalisti che separano giustificazione e motivazione. Ma – a
differenza di Williams – essi non legano il momento della motivazione ai
desideri dei singoli agenti particolari, bensì a quello specifico aspetto del
loro S che è la razionalità pratica. Una razionalità pratica che, a sua volta,
rappresenta la fonte della normatività. Nella lettura che ne dà Williams,
dunque, questa forma di kantismo si presenta come un internalismo sui
generis: per un kantiano, infatti, la razionalità pratica è un aspetto
costitutivo dei soggetti morali, che possono esser detti tali proprio perché
condividono questo tratto comune che li rende tutti allo stesso modo “cittadini
del regno dei fini”; e poiché questa razionalità sarebbe una caratteristica
intrinseca della natura dei soggetti morali, essi avrebbero in sé una facoltà
in grado di assicurare sia la prescrittività delle ragioni sia la loro presa
motivante. In questo senso, a garantire la normatività ci sarebbe una
razionalità pratica la cui validità motiva gli agenti, ma non attraverso un
desiderio, bensì a partire dalla ragione stessa.(18) In particolare, Korsgaard ha messo in discussione l’assunto
secondo cui si deve essere scettici circa l’idea che la condotta umana possa
essere guidata dalla ragione pratica in quanto questa, da sola, sarebbe
incapace di motivare. In Skepticism about Practical Reason,(19) Korsgaard argomenta che lo “scetticismo
motivazionale” verso la ragione pratica dipende in realtà da uno “scetticismo
del contenuto”; vale a dire, dipende da un pregiudizio verso l’idea che
principi formali razionali possano avere un qualsiasi contenuto e possano
fornire una guida sostantiva per la nostra scelta e per il nostro agire.
Sostenendo che solo i desideri motivano, mentre la ragione pratica è inerte,
non si sta facendo altro che una petizione di principio. Di fatto, secondo
Korsgaard qualsiasi conclusione che prenda le mosse da considerazioni di ordine
motivazionale non fornisce alcun argomento a favore dello scetticismo riguardo
alla ragione pratica: se si potesse mostrare che di fatto c’è una legge di
ragione che avanza pretese sulla nostra condotta, essa potrebbe benissimo
essere in grado di motivarci, senza bisogno dalla presenza di un desiderio.(20) D’altra parte, conclude Korsgaard,
qualora questa legge non governasse la nostra condotta, anche una volta che la
si conoscesse, ciò non sarebbe una ragione valida per essere scettici nei suoi
confronti: infatti, la necessità sta nella legge, non in noi, e se falliamo nel
seguirne i dettami, questo dimostra soltanto un limite della nostra
razionalità.
11. Ora,
Williams riconosce che l’argomento di Korsgaard è fondamentalmente corretto:
per quanto riguarda lo statuto della ragione pratica, lo “scetticismo del
contenuto” non dipende dallo “scetticismo della motivazione”. Tuttavia, egli
non può accettare la soluzione offerta da Korsgaard (e dal modello kantiano in
generale): il modello humeano abbracciato da Williams rappresenta una sfida sia
al cognitivismo etico sia soprattutto al razionalismo. Ciò che Willams mette in
discussione non è soltanto l’idea che le ragioni pratiche siano qualcosa che si
conosce, ma anche la convinzione che esista un unico procedimento deliberativo
razionale in grado di fornire le ragioni per agire corrette, e che questa
razionalità sia capace di motivare da sé senza passare per i desideri. In quanto
i kantiani fanno dipendere la prescrittività delle ragioni dalla razionalità,
sebbene sia improprio classificarli tra i sostenitori di ragioni esterne,
anch’essi vengono toccati dalle osservazioni di Williams. A suo avviso,
infatti, quel percorso deliberativo valido che permette di ricavare le ragioni
per agire a partire dal complesso motivazionale soggettivo dell’agente non ha
nulla a che spartire con la razionalità, bensì corrisponde a un processo di
tipo euristico e creativo, attraverso il quale ci figuriamo che cosa potrebbe
soddisfare i nostri fini, i nostri desideri o i nostri valori. Non si tratta di
un’applicazione corretta della razionalità, bensì di un esercizio dell’immaginazione che chiama in causa tutto il
nostro S, al termine del quale nuovi elementi faranno parte di S e altri
verranno eliminati. È un processo che, in quanto riguarda l’immaginazione e non
la razionalità – se non una razionalità intesa in senso banalmente strumentale
– è fondamentalmente indeterminato: non esiste alcun limite a quello sviluppo
che va dal pensiero razionale all’ispirazione o alla conversione; laddove
invece l’appello alla razionalità che Williams non accetta ha la pretesa di
individuare ragioni pratiche definitive che valgano indifferentemente per
tutti. Quello che preme maggiormente a Williams è di mostrare come sia del
tutto insensato accusare colui che non riconosce determinate ragioni di essere
irrazionale; colui che dovrebbe rispondere all’appello di certe ragioni potrà
venir tacciato di essere, di volta in volta, crudele o egoista o sconsiderato –
ovverosia, di lui si può dire a buon diritto che è insensibile – ma non irrazionale. Williams non nega che chi è
indifferente alle ragioni possa essere biasimato; ma queste critiche non
possono essere fatte affermando che esiste una procedura razionale valida a
prescindere dagli S degli agenti, né tanto meno dicendo che le ragioni in
questione erano vere precedentemente il loro essere riconosciute tali dagli
agenti stessi. Deliberare giustamente, dunque, è un processo che si svolge a
partire dall’attuale complesso
motivazionale soggettivo degli agenti, ne dipende interamente e non può essere
regolato a partire da criteri esterni all’insieme stesso che ne garantiscano la
correttezza.
12.
Nonostante tutto, la posizione internalista, così come è espressa da Williams,
non soddisferà tutti coloro che condividono l’obiezione di fondo secondo cui
resterebbe inspiegata una caratteristica centrale delle ragioni normative:
quella di restare appunto prescrittive nonostante possano non motivarci. Una
simile critica ha dunque come presupposto proprio quella separazione tra
ragioni normative e ragioni motivanti – che in un’ottica più specificatamente
kantiana corrisponde a una divisione netta tra la ragione da una parte e i desideri
dall’altra – che viene negata dall’internalismo. Le idee di giustificazione
pratica da cui prendono le mosse le due impostazioni sono quindi l’una
l’opposto dell’altra, e sono il segno di inquietudini filosofiche profondamente
diverse: se da una parte l’esternalismo vede nell’analisi concettuale il
momento principale in cui si individuano le ragioni, la quale soltanto
garantirebbe l’universalità e l’imparzialità che accompagnano la nozione di
normatività; dall’altra invece l’internalismo rifiuta qualunque indagine che
prescinda dalla psicologia degli individui – pena la caduta in un’astrazione
filosofica che lascia inspiegata proprio la praticità delle ragioni – e
illustra i diversi concetti normativi (21) non a partire da certe condizioni strutturali del pensiero
pratico razionale, ma da un’idea di natura umana in cui la razionalità è una
facoltà tra le altre accanto ai sentimenti e alle passioni.
13.
Queste opposte inquietudini filosofiche emergono anche dall’esame di una
differente forma di esternalismo: quella elaborata da John McDowell. In Might
There Be External Reasons?,(22) egli prende in considerazione il
ragionamento che porta Williams a sostenere l’esistenza delle sole ragioni
interne. McDowell riconosce che, perché possa darsi un enunciato indicante una
ragione esterna, esso deve essere vero prima che gli individui vengano motivati
da essa. Il problema, dunque, ruota attorno al passaggio che porta gli
individui dal non essere motivati all’esserlo: è possibile che una ragione
motivi, restando tuttavia una ragione esterna? Anche McDowell condivide il
presupposto tanto di Williams quanto di Nagel e di Korsgaard che la normatività
deve avere una forza motivante. A suo avviso, se si arriva a credere nella
verità di un’asserzione circa una ragione esterna, si sarà motivati di
conseguenza. Specificamente, questo arrivare a credere consisterà in una
deliberazione corretta, che ci permetterà di vedere le cose nella giusta luce.
Ora, secondo McDowell non c’è nulla di metafisicamente misterioso nell’idea di
considerare le cose correttamente. Rifacendosi all’insegnamento di Aristotele,(23) egli sostiene che ciò non è altro che il
risultato di una educazione appropriata: colui che viene educato in modo
appropriato è in grado di percepire le cose correttamente, e quindi di esserne
motivato. Solo chi ha ricevuto la giusta educazione può cogliere gli aspetti
eticamente rilevanti della realtà e quindi muoversi opportunamente in essa;
d’altra parte, se questa educazione è venuta a mancare, nessuna forma di
deliberazione – né una che parta dal complesso motivazionale soggettivo attuale
dell’agente, né tanto mento una che faccia appello a una razionalità di tipo kantiano
– può condurci ad agire secondo quanto le ragioni esterne ci dicono di fare. In
un caso del genere, si può fare appello solo a una conversione. Anche Williams
nomina la conversione quando parla dei modi in cui il complesso motivazionale
soggettivo di un agente può venire modificato. Nel caso di McDowell, tuttavia,
la conversione corrisponde a una forma di adeguamento da parte dell’agente a
una realtà che è già eticamente pregna indipendentemente dal suo conformarsi a
essa: le ragioni, infatti, sono esterne al soggetto – nel senso che non possono
essere ricondotte alla sua psicologia – ma restano interne a una dimensione
dell’etica che può essere conosciuta se idoneamente educati.
14.
Quello di McDowell consiste dunque in un modello cognitivista, che vede
l’individuo che ha ricevuto l’educazione appropriata – il phronimos di
aristotelica memoria – come l’ideale dell’agente morale esemplare. Il phronimos è colui per il quale le ragioni esterne
– esterne perché irriducibili a una spiegazione di tipo psicologico, in quanto
appartengono alla realtà – sono ragioni interne – interne poiché il phronimos si è plasmato in maniera tale da
riconoscerle come ragioni per lui, e pertanto da essere motivato da esse.(24) Anche McDowell rifiuta la soluzione
offerta da Williams perché ritiene che pecchi di psicologismo: l’esclusivo
riferimento che Williams fa al complesso motivazionale soggettivo per spiegare
la deliberazione non riesce, secondo McDowell, a rendere conto della dimensione
critica delle ragioni, la quale, per essere davvero tale, deve poter essere
esercitata anche su quella base psicologica a cui Williams alla fine riconduce
qualsiasi ragione. Tuttavia, dato il modo in cui Williams imposta il problema,
la constatazione di uno psicologismo di fondo non è da lui considerato come un
limite, ma come un merito della sua posizione. Ciò che a Williams interessa,
infatti, è di non perdere mai il legame con gli individui particolari per cui
determinate ragioni sono ragioni, e questo perché a suo avviso ciò che ha
primariamente importanza in etica – ciò di cui si deve rendere conto
eticamente, e che va salvaguardato (25) –
sono gli individui, non le ragioni. Nel caso del modello aristotelico di McDowell,
invece, per Williams viene meno qualsiasi riferimento agli individui
particolari.(26) Il phronimos
non è mai qualcuno di preciso; si tratta solo di un tipo ideale che ci permette
non tanto di correlare azioni a persone, quanto piuttosto tipi di azioni a tipi
di circostanze – una correlazione che può essere espressa al meglio nella
formula “nelle circostanze X, c’è una ragione di compiere F”. Una formula che a rigore può essere soddisfatta da
chiunque, senza dover riferirsi al complesso motivazionale soggettivo di
nessuno; allo stesso modo in cui chiunque può osservare una regola generale
(“si deve massimizzare l’utilità generale”) o rispettare un principio
universale (“si deve agire sempre come se la propria massima fosse una legge
universale”). Ma secondo Williams il problema, ancora una volta, è che è
virtualmente impossibile prescindere da una spiegazione delle ragioni per agire
che faccia appello a individui particolari. E dal momento che essi non
corrispondono a tipi ideali, è molto probabile che non abbiano alcuna speranza
di adeguarsi al modello del phronimos. Infatti, muovendo dal loro
complesso motivazionale soggettivo, essi potrebbero rivelarsi degli agenti
imperfetti – e sapere di esserlo – che, come tali, non hanno affatto una
ragione di comportarsi in determinate circostanze come invece avrebbe ragione
di comportarsi un agente perfetto quale è il phronimos. Alla fine,
conclude Williams, le ragioni per agire in determinate circostanze saranno
comunque quelle ricavabili dagli S di individui particolari inevitabilmente
imperfetti, e non quelle di un tipo ideale; e, se questo è vero, non è chiaro
come si possa evitare di ricadere nell’internalismo.
15. Da
parte sua, Williams fa notare come, la maggior parte delle volte, l’appello che
viene fatto a ragioni esterne che dovrebbero guidare la condotta degli esseri
umani, in realtà non corrisponde ad altro che a un desiderio inespresso che in
effetti gli esseri umani riconoscano quelle ragioni come ragioni per loro. Per
Williams, dicendo a un individuo che ha una ragione per fare qualcosa – o
consigliandoli una certa condotta in nome di una certa ragione, o biasimandolo
per non essersi comportato secondo i dettami di una certa ragione –
l’esternalista non sta facendo altro che proiettare i propri desideri – le
proprie “disposizioni valutative”, i propri “modelli di reazione emotiva”,
eccetera; vale a dire, elementi presenti nel suo S – su questo individuo, nella
speranza che li riconosca come suoi. Si tratta, cioè – come Williams chiarisce
attraverso l’esame della nozione di colpa (27) – di un appello di natura prolettica, di una previsione
ottimistica che colui a cui si rivolgono le nostre ragioni riconoscerà di
doversi comportare in un certo modo che reputiamo corretto. Di fatto, secondo
Williams è molto frequente che questa aspettativa venga soddisfatta, poiché le
persone hanno già nei loro S gli elementi su cui possono fare presa le ragioni
che vengono presentate loro. Quando ciò non avvenisse, è comunque presente in
essi una più generale motivazione a evitare la disapprovazione altrui, per cui
anche se non è vero di un certo individuo che aveva una ragione di agire in un
certo modo, può tuttavia esserlo in maniera indiretta; vale a dire, l’individuo
può giungere ad agire in un certo modo in virtù della disposizione a
comportarsi come egli ritiene che gli altri si aspettino da lui. Secondo
Williams dunque, la nozione di colpa, ma anche il nostro dare un consiglio a
qualcuno, mostrano bene come, sebbene ci si esprima in termini di ragioni che
si pretendono esterne – nel caso della colpa, “avevi una ragione per farlo
(anche se non lo sapevi)”; nel caso del consiglio, “avresti una ragione per
farlo (anche se non lo sai)” –, in realtà non si sta facendo appello ad altro
che a un bisogno di riconoscimento da parte di qualcuno il cui complesso
motivazionale soggettivo e i cui processi deliberativi che da esso prendono le
mosse sono, come si è visto, inevitabilmente indeterminati (per cui, nel caso della
colpa, si esprime la speranza
che, qualora l’individuo in questione si trovasse a dover deliberare
nuovamente, giungerebbe a una conclusione differente alla luce delle ragioni
che ora gli sono state presentate; mentre, nel caso del consiglio, si sta invitando
l’individuo in questione ad agire in un certo modo poiché “se fossimo in lui”,
noi agiremmo in quel modo). L’insistenza nel sostenere che, ciononostante, ci
sono ragioni esterne, resta per Williams un’affermazione incomprensibile, e
rischia di non essere altro che una forma di moralismo frutto di una fantasia
filosofica: del desiderio di far sì che la moralità vada al di là della
semplice capacità di indicare chi sono gli immorali, i vili o i recalcitranti,
così da realizzare il “progetto magico” di trasformare il proprio risentimento
in una forma di potere coercitivo. (28)
(1) W. K.
Frankena, Obligation and Motivation in Recent Moral Philosophy, in Essays
in Moral Philosophy, ed. by A.J. Melden, Seattle, University of Washington
Press, 1958, pp. 40-81.
(2) W. K.
Frankena, Obligation and Motivation in Recent Moral Philosophy, cit.,
pp. 40.
(3)
Frankena non è stato il primo a impostare il problema. Il
dibattito prende l’avvio con W.D. Falk, ‘Ought’ and Motivation,
“Proceedings of the Aristotelian Society”, 48 (1947-48), pp. 492-510.
Ristampato in Ought, Reasons, and Morality, Ithaca and London, Cornell
University Press, 1986, pp. 21-41.
(4)
Per avere un quadro esaustivo del panorama filosofico che sta dietro alla
discussione sulle ragioni interne ed esterne si può consultare S. Darwall – A.
Gibbard – P. Railton, Toward Fin
de siècle Ethics: Some Trends,
in Moral Discourse & Practice. Some Philosophical Approaches, a
cura di S. Darwall – A. Gibbard – P. Railton, New York – Oxford, Oxford
University Press, 1997.
(5) B. Williams esamina il problema delle ragioni interne ed esterne nei
seguenti saggi: Internal and External Reasons, in B. Williams, Moral Luck, Cambridge, Cambridge
University Press, 1981, pp. 101-13; trad. it. con il titolo Ragioni interne
ed esterne, in Sorte morale, Milano, Il Saggiatore, 1987, pp.
133-47; Internal Reasons and the Obscurity of Blame, in B. Williams, Making
Sense of Humanity and Other Philosophical Papers 1982 – 1993, Cambridge,
Cambridge University Press, 1995, pp. 35-45; Replies, in World, Mind,
and Ethics. Essays on the Ethical Philosophy of Bernard Williams, a cura di
J.E.J. Altham e R. Harrison, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, pp.
186-94 e 214-16; Some Further Notes on Internal and External Reasons, in
Varieties of Practical Reasoning, a cura di E. Millgram, Cambridge
(Mass.), MIT Press, 2001, pp. 91-97.
(6)
Questo punto è spiegato molto chiaramente in P. Donatelli, La filosofia
morale, Roma – Bari, Laterza, 2001, capp. 1 e 3.
(7) Questa è la formalizzazione che Williams
introduce in Internal and External Reasons, e che oggi è diventata
standard.
(8) B. Williams, Internal and External Reasons, cit., p. 102; trad. it. cit., p. 134. È infatti in David Hume che
normalmente si suole riconoscere il “padre nobile” di tutti gli internalismi.
(9) B.
Williams, Internal Reasons and the Obscurity of Blame, cit., pp. 35-36.
(10) B.
Williams, Internal and External Reasons, cit., p. 102; trad. it. cit.,
p. 134.
(11) B. Williams, Internal and External Reasons, cit., p. 105; trad.
it. cit., p.138. In
questo senso, l’operazione di Williams sarebbe un tentativo di rimanere fedele
alla prospettiva di Hume, tentando però di allargarne la portata. Si veda al riguardo quanto si dice in G. Cullity – B. Gaut, Introduction,
in Ethics and Practical Reason, a cura di G. Cullity e B. Gaut, Oxford,
Clarendon Press, 1997, pp. 1-27, ma anche T.M. Scanlon, Williams on Internal
and External Reasons, in T.M. Scanlon,
What We Owe to Each Other,
Cambridge (Mass.) – London, The Belknap Press of Harvard University Press,
1998, pp. 363-73.
(12) B. Williams, Internal and External Reasons,
cit., p. 109; trad. it. cit., p. 142.
(13) È indicativo che Frankena chiami in causa
a proprio sostegno un pensatore razionalista come Samuel Clarke, il quale
sostiene che “l’obbligazione più
fondamentale di tutte […] è l’eterna Ragione delle cose”, e che “l’uso
ambiguo di questa parola [obbligazione], come termine tecnico, è stato
causa di perplessità e di confusione in questo ambito” – dove la confusione,
ovviamente, è quella degli internalisti. Si
veda W.J. Krankena, Obligation and Motivation, cit., p. 57.
(14) D. Parfit, Reasons and Motivations, “The Aristotelian Society”.
Supplementary Volume, 71 (1997), pp. 99-130. Parfit ribadisce e specifica le
sue tesi in Rationality and Reasons,
in Explaining Practical Philosophy. From
Action to Values, a cura di D. Egonsson, J. Josefsson, B. Petersson, T.
Rønnow-Rasmussen, Aldershot, Hampshire, Ashgate, 2001, pp. 17-39.
(15) D. Parfit, Reasons and
Motivation, cit., p. 125.
(16) Un partito, quello esternalista, molto
frequentato, al quale partecipano posizioni spesso discordanti tra loro: varie
forme d’intuizionismo, di realismo e di platonismo, ma anche interpretazioni
della filosofia kantiana. Per uno sguardo d’insieme, si veda P. Donatelli, La
teoria morale analitica: un bilancio degli ultimi venticinque anni, in Etica
analitica. Analisi, teorie, applicazioni, a cura di P. Donatelli e
E. Lecaldano, Milano, LED, 1996, pp. 9-136.
(17) T.
Nagel, The Possibility of Altruism, Princeton, Princeton University
Press, 1970, trad. it. La possibilità dell’altruismo,
Bologna, Il Mulino, 1994; C. M. Korsgaard, The Sources of Normativity,
Cambridge, Cambridge University Press, 1996.
(18) Già Falk interpretava Kant come un
internalista. Per lui, infatti, “l’esistenza stessa di un dovere è inseparabile
dall’esistenza di un motivo, e chiunque abbia un dovere sarebbe in grado di
compierlo, semplicemente a partire da questa spiegazione e qualsiasi sia il
costo che dovrà pagare, se solo provasse”. W.D. Falk, “Ought” and Motivation, cit., p. 29;
si veda anche p. 35.
(19) C. M. Korsgaard, Skepticism About Practical Reason,
“Journal of Philosophy”, 83 (1986), pp. 5-25. Ristampato in Creating the
Kingdom of Ends. Cambridge & New York: Cambridge University Press,
1996, pp. 311-34.
(20)
Un’obiezione che viene mossa anche da B. Hooker, Williams’ Argument against External Reasons, “Analysis”, 47 (1987),
pp. 42-44.
(21) Quella di “altruismo”, per esempio, è
stata una nozione molto discussa in termini di ragioni esterne ed interne. Come
esempio paradigmatico della posizione esternalista al riguardo, si veda T.
Nagel, The Possibility of Altruism, cit.; trad. it. cit.. Per la
posizione internalista, si pensi invece a un altro scritto di Williams, Egoism
and Altruism, in B. Williams, Problems of the Self. Philosophical Papers 1956-1972, Cambridge, Cambridge University Press, 1973, pp.
250-65; trad. it. Egoismo e Altruismo, in Problemi
dell’io, Milano, Il saggiatore, 1990, pp. 302-22.
(22) J.
McDowell, Might There Be External Reasons?, in World, Mind, and
Ethics: Essays on the Ethical Philosophy of Bernard Williams, ed. by
J.E.J. Altham and Ross Harrison, Cambridge & New York: Cambridge University
Press, 1995, pp. 68-85. Ristampato in Mind, Value, and Reality,
Cambridge (Mass.) – London, Harvard University Press, 1998, pp. 95-111.
(23) Detto di passaggio, McDowell non è il
primo ad affrontare il problema della relazione tra obbligazione e motivazione
da una prospettiva aristotelica. Prima di lui, lo aveva già fatto Wilfrid
Sellars – che, non a caso, è uno dei punti di riferimento della filosofia di
McDowell. Si veda W. Sellars, Obligation
and Motivation, “Philosophical Studies”, 2 (1951), pp. 21-25.
(24) In questo senso, Jonathan Dancy parla
della posizione di McDowell come di una forma di “cognitivismo internalista”.
Per Dancy, la forma di cognitivismo internalista più famosa è quella di Kant –
la quale tuttavia, come si è visto, si differenzia da quella di McDowell per il
ruolo che viene riconosciuto alla razionalità. Si veda J. Dancy, Moral Reasons, Oxford –
Cambridge (Mass.), Blackwell, 1993, pp. 7-9.
(25) Si veda al riguardo quanto Williams
sostiene in Persons, Character and Morality, in Moral Luck, cit.,
pp. 1-19; trad. it. Persone, carattere e moralità, in Sorte morale,
cit., pp. 9-31.
(26) B.
Williams, Replies, cit., pp. 189-91 e Some Further Notes on Internal
and External Reasons, cit., p. 94.
(27) B. Williams, Internal Reasons and the Obscuritiy
of Blame, cit., pp. 40-44.
(28) B.
Williams, Replies, cit., p. 216. Al
proposito, Williams si rifà esplicitamente a una prospettiva nietzscheana, che
egli chiama in causa nuovamente sia in Internal Reasons and the Obscurity of
Blame, cit., sia in Nietzsche’s Minimalist Moral Psychology, in Making
Sense of Humanity, cit., pp. 65-76. Infine, la filosofia di Nietzsche sta
perennemente sullo sfondo dell’intera ultima opera di Williams, Truth and
Truthfulness. An Essay
in Genealogy, Princeton, Princeton
University Press, 2002, trad. it. Genealogia della verità. Storia e
virtù del dire il vero, Roma, Fazi, 2005.