Etica & Politica / Ethics & Politics, 2005, 1

http://www.units.it/etica/2005_1/DONATELLI.htm

 

 

Alle origini del concetto di linguaggio morale

 

Piergiorgio Donatelli

 

Dipartimento di studi filosofici ed epistemologici

Università di Roma “La Sapienza”

 

 

Abstract

The paper suggests a re-reading of the origins of analytic ethics. A certain notion of moral language—which came to be established through the work of G.E. Moore and W.D. Ross—made it easy to undermine problems of normativity and motivation. But on the other hand recent debate on these problems shows a disappearance of the old notion of moral language. There is another line in analytic ethics explored, among others, by I. Murdoch, J. McDowell and C. Diamond which shows an interest both in the problems of the self (reasons and motivation) and in the language of morality.

 

 

1. Alle origini dell’etica analitica

 

C’è un grande interesse da qualche tempo per le origini della filosofia analitica, per una rivisitazione critica dei padri fondatori, per Frege e Wittgenstein in particolare. (1) Potremmo provare a fare qualcosa di analogo anche con l’etica analitica e cioè rivisitare le sue origini per farci un’immagine diversa di cosa essa sia o possa essere. In questo intervento vorrei fare qualche considerazione su un concetto piuttosto centrale nell’etica analitica, quello di linguaggio morale.

La possibilità di studiare il linguaggio morale con vari strumenti filosofici e di metterne in luce gli aspetti centrali ha caratterizzato quella che è stata chiamata metaetica analitica. In questo intervento mi limiterò a fare alcune considerazioni sulla metaetica e su come è nata l’idea che vi sia un linguaggio morale.

È interessante provare a scrivere una storia della nascita di questo concetto e del tipo di prospettiva in cui esso si inserisce. Forse ciò ci consente di rileggere gli esiti attuali di questa prospettiva filosofica, ma ci consente anche di pensare a una possibile storia alternativa dell’etica analitica: una storia in cui vi sia al centro un’altra nozione di linguaggio morale, e quindi se vogliamo altri eroi, o gli stessi eroi, però rivisitati, riletti in un altro modo. L’eroe della storia dell’etica analitica che è stata dominante è G.E. Moore, che non pensava affatto al linguaggio morale ma che ritengo sia all’origine di questa idea e della metaetica. L’eroe dell’altra storia è Wittgenstein, e qui dovremmo dire forse un altro Wittgenstein rispetto a quello che è stato posto al centro della svolta linguistica anche in etica, ad esempio da filosofi come R.M. Hare.

Proverò a dire molto sinteticamente qualche cosa per dare un’idea dei due concetti di linguaggio morale e quindi di due possibili stili con cui possiamo fare etica analitica.

 

 

2. Moore e l’eredità dell’idealismo

 

L’etica analitica si fa cominciare tradizionalmente con Moore e con il suo libro Principia Ethica (1903). (2) Perciò conviene andare a vedere come Moore fosse arrivato alla sua concezione dell’etica. Innanzitutto bisogna osservare che l’idea di linguaggio morale, la svolta linguistica in etica, se vogliamo esprimerci così, con Moore non è stata ancora compiuta. I Principia Ethica hanno invece un caratteristico aspetto metafisico e ontologico: Moore naturalmente osteggiava ogni appiattimento dell’etica sulla metafisica così come lo osteggiava nei confronti delle scienze naturali. Ma il modo in cui formulava questa idea era molto metafisico. Egli sosteneva che il concetto centrale dell’etica, quello della bontà, è semplice e indefinibile. È una proprietà sui generis, come egli si esprimeva. Perciò l’etica non è sullo stesso piano delle scienze o di altre discipline descrittive. E affermava questa tesi attraverso l’idea, divenuta celebre, che vi fosse una speciale fallacia che si sarebbe commessa qualora si fossero confuse le proprietà etiche (tutte riconducibili alla bontà) con le proprietà naturali (o con quelle metafisiche), che egli chiamava fallacia naturalistica. Ma come si vede questa tesi della fallacia naturalistica è affermata in modo che finisce comunque con l’attribuire alla bontà la caratteristica di essere una proprietà.

Prima di proseguire a dire ancora qualcosa di Moore, è interessante fare ancora un passo indietro solo per un momento. La concezione di Moore è il risultato di una motivazione filosofica che egli riprendeva dall’idealismo britannico radicalizzandola. (3) F.H. Bradley e T.H. Green, tra gli altri, avevano importato dalla filosofia tedesca una motivazione filosofica antipsicologistica. Contro gli empiristi, e J.S. Mill in particolare, essi sostenevano che la mente individuale non poteva fornire il punto di osservazione adeguato in filosofia. Non contava la psicologia individuale ma quella trascendentale. La mente individuale si rappresenta solo particolari e contingenze che sono astrazioni dal tutto. Per Green il tutto ha il carattere logico della Mente, non della mente individuale ma della mente che è sottesa alle relazioni che caratterizzano la realtà eterna e necessaria delle cose; per Bradley invece il tutto ha un aspetto ineffabile che rifugge le relazioni. In entrambi i casi il pensiero e il sentimento, in quanto propri della mente individuale, sono inadeguati a cogliere la natura metafisica della realtà.

Ora è importante osservare come il rifiuto successivo dell’idealismo, da parte di Moore e di Russell, ne condivideva in realtà la concezione antiempiristica e antipsicologistica. Ne costituiva anzi al contempo una radicalizzazione e un rovesciamento. Ne radicalizzava l’antipsicologismo vedendo in ogni atto mentale una forma di psicologia. La mente non poteva costituire più alcun luogo intermediario della conoscenza, quindi né in senso empirista ma neppure in un qualche senso trascendentale. La mente, come dirà Russell, è in contatto diretto con i suoi oggetti. Questa è l’ontologia che Moore presenta in The Nature of Judgment (1899): le proposizioni e i concetti sono oggetti e fatti con cui la mente è in contatto diretto senza alcuna intermediazione. Ma ciò costituiva anche un rovesciamento dell’idealismo: la realtà assoluta della mente è ora trasformata nella realtà assoluta del mondo. Ciò che va perduto nella trasformazione è l’idea della connessione logica tra i fatti di cui si occupava la mente degli idealisti. Infatti, il realismo di Russell e Moore tra la fine dell’Ottocento e il Novecento è atomistico. In questo modo, l’etica assume nei Principa Ethica il caratteristico aspetto ontologico. La bontà è irriducibile alle proprietà, ma è essa stessa una proprietà sui generis.

In questa luce possiamo comprendere perché nei Principia non si affacci mai il punto di vista del singolo soggetto morale, potremmo dire. Ad esempio, non appaiono mai veramente problemi di motivazione. Così come nella teoria del significato, la mente è in contatto diretto con gli oggetti, analogamente in etica il valore è visto come il tipo di proprietà che inerisce a certi stati di cose: il punto di vista del soggetto che è in relazione con quel valore non entra in considerazione in nessun modo. A questo proposito è interessante vedere come Moore giudica il valore dei motivi, della virtù ad esempio. Ogni motivo è visto come inerente a un certo valore intrinseco, cioè è uno stato di cose tra gli altri che in quanto tale ha un certo valore intrinseco, un certo grado bontà. Non c’è mai l’idea che vi sia qualcosa come il punto di vista dell’individuo virtuoso sulle cose. Il motivo è uno stato di cose accanto ad altri.

 

 

3. L’etica di Moore

 

Ora che cosa dice Moore dell’etica? Moore è un intuizionista. Vediamo come arriva a questa posizione. Come ho accennato prima, egli sostiene che vi è un concetto centrale, che è quello di bontà. È un concetto semplice e indefinibile. Ciò significa che non è sostituibile con un altro concetto ma designa una proprietà caratteristica. Tuttavia è una proprietà particolare perché non la possiamo riconoscere a sé stante, così come riconosciamo una macchia di colore rosso. Moore dice che una volta che contempliamo una serie di proprietà che ineriscono a un oggetto vediamo che quell’oggetto ha, oltre a quelle proprietà, anche quella della bontà. La bontà è una proprietà che dipende dalle altre proprietà, ma diversamente da esse non è pensabile da sola. Essa non è immaginabile come esistente da sola nel tempo. (4) ‘Buono’ perciò denota una proprietà non naturale: nei termini di Moore, la bontà è ma non esiste.

Questa caratteristica peculiare della bontà spiega l’intuizionismo. Moore afferma infatti che quando diciamo che qualcosa è buono, stiamo facendo un’affermazione sintetica: stiamo cioè sostenendo che quell’oggetto, che ha quelle tali proprietà, ha anche l’ulteriore proprietà della bontà. Tuttavia, la verità di questa affermazione non è analoga alla verità dell’affermazione secondo cui qualcosa è giallo, ad esempio. In quest’ultima affermazione, come Moore chiarisce in The Nature of Judgment (con l’esempio “Questa rosa è rossa”) (5) la verità consiste nel fatto che i componenti della proposizione, che sono oggetti, sono effettivamente presenti in quella combinazione tra gli esistenti. Nel caso delle proposizioni etiche la verità della proposizione è indimostrabile. Che la bontà sia la proprietà che appartiene a un oggetto la cui sostanza è data da quelle certe proprietà non è un fatto. Per la natura stessa della proprietà della bontà, la verità delle proposizioni etiche è indimostrabile. Moore chiarisce questo punto all’inizio del cap. V sulla condotta (§86). Che una proposizione sia intuitiva o autoevidente significa che essa è vera per se stessa («it is evident or true by itself alone», §86), come scrive certo in modo non molto chiaro: cioè la sua verità non è dimostrabile a partire da un’altra proposizione (con la quale asseriamo, ad esempio, che tale proprietà della bontà rientra in quella combinazione tra gli esistenti). Tuttavia, aggiunge Moore, proprio perché non vi è nessuna possibilità di dimostrazione, in questi casi l’unica ragione per accettare una tale proposizione è la mia intuizione che essa sia vera (§86).

Moore esprime questo punto con un linguaggio non chiaro ma forse emendabile. Egli scrive che la verità di una proposizione è dimostrabile con ragioni logiche. Queste tuttavia non sono le ragioni che ho per ritenerla vera. Le ragioni logiche di Moore, che potremmo chiamare ragioni costitutive, (6) sono la dimostrazione della verità. I principi della deduzione logica che trovano applicazione in un’implicazione sono ragioni logiche nel senso di Moore. Mentre le ragioni che abbiamo di trarre un’inferenza sono ragioni epistemologiche, cioè ragioni di credere alle conclusioni di un’inferenza. Ma osserviamo che nel ragionamento normalmente i due tipi di ragioni sono connessi. Le ragioni epistemologiche ci danno buone ragioni per ritenere che le cose stiano così e così, cioè come dicono le ragioni costitutive. Nel caso dell’inferenza, le ragioni epistemologiche che ho per trarre tale inferenza trovano fondamento anche nel fatto che vi è una certa implicazione che lega le proposizioni in cui credo.

Ora Moore sostiene che nel caso dell’etica è diverso. Abbiamo ragioni epistemologiche totalmente disgiunte da quelle costitutive, proprio perché non vi sono affatto ragioni costitutive. Ricordiamo che in genere si ritiene invece che le due ragioni siano connesse anche nel caso dell’etica. Cioè le ragioni che ho per credere che sia sbagliato fare una certa cosa sono anche le ragioni che rendono tale cosa sbagliata. Ma avere a disposizione il livello delle ragioni logiche significherebbe avere una teoria di cosa rende buona una circostanza o giusto un certo atto e Moore e gli intuizionisti vogliono negare proprio questo.

Vediamo quindi che motivazioni filosofiche legate all’ontologia portano Moore a introdurre questa particolare epistemologia intuizionistica. Per motivi legati alla indefinibilità e non naturalità di buono, Moore ritiene che tutto ciò che possiamo dire in etica ha questo carattere. Deve partire da convinzioni in cui si afferma che una certa cosa è buona. Su queste convinzioni applichiamo i vari metodi analitici che derivano dalla natura ontologica della bontà: la fallacia naturalistica in primo luogo, che ci chiarisce che quella copula non è definitoria ma indica un’affermazione sintetica. Quindi vi sono i due metodi dell’isolamento assoluto e delle unità organiche e i metodi della logica delle credenze in generale, ad esempio il principio di non contraddizione. Per questa via arriviamo nel VI capitolo a elencare quali sono i beni principali: cioè le cose che hanno maggiore bontà. Vorrei osservare che in questo modo Moore poteva registrare una convergenza con H. Sidgwick, che egualmente trattava l’etica come l’applicazione di metodi razionali alle convinzioni morali. (A sua volta questo stile ricorda naturalmente l’idea di equilibrio riflessivo introdotta da J. Rawls).

Una parola su questo tipo di intuizionismo. Le intuizioni qui non hanno niente a che spartire con facoltà speciali, come poteva essere nel Settecento. Ma vi è una differenza anche con l’intuizionismo ottocentesco che faceva dipendere dalla costituzione della mente le verità intuite come vere a priori. Attraverso la critica allo psicologismo e a ogni forma di idealismo Moore in realtà preparava la strada per abbandonare la mente del tutto e abbracciare invece i discorsi morali.

 

 

4. Ross

 

Ora se prendiamo Ross, egli sembra riprendere interamente questo quadro. Ross riprende da Moore la tesi che il predicato etico centrale (per Ross è giusto) è indefinibile ed è risultante: è un attributo che un atto ha perché possiede altri attributi, (7) ma non è un attributo che possiamo immaginare come sussistente da solo. Quindi la giustezza è oggetto volta per volta di apprensione, di modo che la verità che un certo atto è giusto è autoevidente in modo non inferenziale, come diceva Moore, cioè non ha bisogno di nessuna evidenza al di fuori di se stessa.

Vorrei osservare che Moore era più preciso nello stabilire il passaggio: sosteneva che l’intuizione doveva bastare poiché non vi era dimostrazione possibile, mentre Ross oscilla. Scrive, a distanza di una pagina, prima che una proposizione etica è evidente senza che vi sia bisogno di prove; (8) poi, sia che non è possibile portare prove sia che non ve ne è bisogno. (9) Da ciò si vede come Ross sembri tralasciare la fondazione ontologica dell’intuizionismo e concentrarsi sui risultati, che sono l’idea che l’etica non abbia un carattere generale (cioè non vi sono principi primi da cui si traggono per inferenza la varietà di giudizi morali) ma un carattere particolare. Ross afferma che così come nella scienza l’appello ultimo è ai dati di senso, poiché in etica non abbiamo un analogo accesso ai fatti che concernono il giusto e la bontà, l’unica via è il nostro pensiero sulla giustezza e sulla bontà. Perciò, «le convinzioni morali delle persone riflessive e bene educate sono i dati dell’etica […]». (10) Ross peraltro lo dice esplicitamente: il modo in cui egli desidera stabilire quali sono i doveri, e cioè attraverso la riflessione sulle convinzioni morali, è lo stesso che Moore ha applicato per stabilire la lista dei beni. (11)

Nelle Foundations of Ethics il punto di partenza è proprio questo: la tesi («the time-honoured method of ethics») che Ross ritrova forse con eccessiva generosità in molti autori, da Platone ad Aristotele a Kant, secondo cui dobbiamo cominciare dal corpo di credenze e convinzioni morali che abbiamo ereditato, o, come si esprime anche: «dalle opinioni che si sono cristallizzate nel linguaggio ordinario e nei modi ordinari di pensare». (12) Con Ross siamo arrivati infatti alla svolta linguistica: all’idea che lo studio dell’etica abbia come oggetto le convinzioni morali delle persone che si sono depositate nel linguaggio. Moore aveva fatto un’operazione simile quando aveva parlato delle intuizioni come ciò che sappiamo dell’etica senza averne ragione al di fuori della convinzione stessa. Con Ross, caduto l’impianto ontologico che sosteneva i Principia di Moore, rimane solo la tesi che i dati dell’etica sono le convinzioni depositate nel linguaggio morale.

 

 

5. Ross sulla normatività

 

Arrivati in questo modo all’idea di linguaggio morale è interessante vedere che cosa è rimasto fuori o meglio in ombra da questa idea dell’etica. Vorrei dire qualcosa su due aspetti: l’idea di motivazione e quella di normatività. Una parola su questi due concetti: entrambi hanno a che fare con il carattere direttivo dell’etica: il fatto che l’etica è una disciplina pratica. La motivazione spiega come riusciamo ad agire in base a convinzioni morali; la normatività spiega come tali convinzioni offrano ragioni per agire.

Innanzitutto sulla normatività: sull’idea cioè che le convinzioni offrono ragioni. La mia idea è che Ross non si occupi affatto della questione. Vediamo perché. Come abbiamo visto, Ross eredita il quadro dei problemi filosofici dell’etica da Moore. Ora Moore aveva in un certo senso cancellato il problema della normatività dall’agenda. Il problema, in senso lato, di come dovremmo essere (bontà) o di cosa dovremmo fare (giusto), concepito come un problema in cui vi è una relazione vincolante tra la considerazione morale e l’individuo, era scomparso assieme a tutto ciò che atteneva alla natura della mente. Il punto è naturalmente molto complesso. Moore nella Prefazione ai Principia parla della bontà come ciò che «ought to exist for its own sake» e cerca quindi di catturare un senso di dovere sconnesso da qualsiasi relazione con qualcuno che sia oggetto di tale dovere. In effetti alcuni critici come Frankena, (13) e più recentemente Darwall, (14) hanno insistito che Moore avrebbe bisogno di una nozione normativa e che questa è incompatibile con l’idea che la bontà sia una proprietà. Ma allora potremmo leggere Moore in modo più adeguato se pensiamo che egli voglia semplicemente disfarsi dell’idea di normatività. Ciò che rimane, tuttavia, è la conoscenza morale: cioè le ragioni per ritenere che qualcosa è buono. Queste ragioni epistemologiche sono normative. Ma non lo sono come le ragioni logiche, cioè le ragioni per cui troviamo buono un certo stato di cose. Cioè, sono ragioni che pertengono al buon ragionamento su quei dati che sono le convinzioni (principio di non contraddizione ecc.) ma non riguardano le ragioni per cui troviamo che «qualcosa vada fatto», che «questa azione è giusta».

Credo che Ross erediti questa idea della morale. Per Ross c’è un problema di conoscenza morale che è, nei termini di Moore, conoscenza delle ragioni per ritenere qualcosa giusto, ma non c’è un problema di normatività, e cioè di come l’idea del giusto eserciti su di noi una peculiare forza vincolante. In un certo senso è molto strano sostenere questo punto, considerato che Ross parla di doveri, e di ciò che è vincolante per gli individui. Ma in realtà l’apprensione dei doveri è risolta da Ross, come sappiamo, nell’accettare come autoevidente, indipendentemente da prove, che un certo atto vada compiuto: l’apprensione dei doveri si risolve cioè in una modalità di accettazione di una opinione morale, in cui non si chiedono ragioni ma si dichiara semplicemente di credere in quella opinione. Quando Ross parla dei doveri parla in realtà di convinzioni morali concepite come opinioni che ritroviamo nel discorso morale.

In realtà Ross rende ancora più esplicito un passaggio che era già presente in Moore, e cioè che se le qualità morali sono sui generis e non rientrano in proposizioni sintetiche di cui possiamo fornire una prova, il punto di partenza in etica non è al livello delle proprietà morali ma delle convinzioni. L’irriducibilità del concetto di giusto è un motivo per cominciare da ciò che le persone trovano autoevidente. Questi sono i dati su cui lavora l’etica.

 

 

6. Ross sulla motivazione

 

Affrontiamo ora la questione della motivazione. Anche qui possiamo dire che Moore cancella la questione con la sua critica a ogni possibile traccia di psicologia in etica. In effetti Moore non discute direttamente della motivazione. Lo fa Ross. Ross ha una tesi sulla motivazione che mostra però come egli ritenga che quello della motivazione non sia un suo problema. Scrive ad esempio nelle Foundations che è comune vedere che qualcuno crede che un certo atto sia un suo dovere e tuttavia non è disposto a farlo (p. 226): ciò dipende dal fatto che non è sufficientemente forte in lui il desiderio di fare il proprio dovere. Sostiene cioè che una cosa è la credenza che qualcosa rientri tra i nostri doveri e un'altra è il desiderio di fare il proprio dovere. Tra l’altro Ross interpreta chiaramente tale desiderio come de dicto e non de re: (15) è un desiderio di fare il proprio dovere e non il desiderio di compiere questa azione nella sua capacità di esemplificare il proprio dovere. Chiamiamo questa una tesi esternalista: la motivazione ha cioè una connessione esterna, contingente, con le convinzioni morali. (In The Right and the Good Ross è forse più ellittico, ma scrive chiaramente che dipende dalla natura umana – cioè da questo fatto contingente – se il pensiero di un atto doveroso è in grado di sollevare il desiderio di fare il proprio dovere più raramente di quanto non faccia il pensiero di un atto piacevole (pp. 157-158)).

 

 

7. Hume e Kant

 

Ho cercato di suggerire come per l’intuizionismo dell’inizio del secolo scorso scompaiono le questioni legate alla normatività e alla motivazione. Ma teniamo presente che normatività e motivazione sono i due modi, legati a due tradizioni diverse se vogliamo, l’una a Hume e l’altra a Kant (se vogliamo semplificare in questo modo certamente inadeguato), attraverso le quali nell’etica moderna si era mostrato che i verdetti della morale sono legati all’io, al punto di vista personale. Hume pensava che i verdetti morali fossero legati all’io in quanto frutto, in parte naturale in parte artificiale, delle sue passioni e motivazioni; Kant riteneva che la connessione riguardasse solo la ragione che caratterizza gli esseri umani e che il legame fosse quello normativo: così che i verdetti della morale si impongono su di noi con l’autorevolezza della ragioni, cioè ragioni che riconosciamo come autorevoli e che non ci sono imposte dall’esterno come lo sarebbero invece delle mere inclinazioni.

L’intuizionismo e l’idea di partire in etica non dai soggetti ma dalle convinzioni sembra dimenticare questa connessione, o meglio sembra lasciarla in secondo piano. Non era un loro problema, potremmo dire.

 

 

8. Il non cognitivismo: Hare

 

Ora, più rapidamente e solo per accenni, vorrei suggerire che questo risultato non riguarda solo l’intuizionismo ma è un’acquisizione della metaetica analitica che nasceva in quegli anni. Ritroviamo una situazione simile a quella descritta anche in una grande figura che ha dominato la metaetica per vari decenni, ma nel campo opposto all’intuizionismo, Hare. Hare è un non cognitivista (un non descrittivista come egli precisa). Sviluppava alcune idee che avevano avuto gli emotivisti e l’emotivismo neopositivista quando affermava che il linguaggio è morale – come scriveva A.J. Ayer – quando sono presenti simboli particolari che hanno l’effetto di incitare gli altri a sentire certe emozioni o a perseguire un certo corso di azione. Perciò, diversamente dagli intuizionisti, non riteneva che nel linguaggio morale si depositassero convinzioni morali che sono a loro modo affermazioni sintetiche, come avevano sostenuto Moore e Ross. Nel linguaggio morale vi sono invece simboli particolari, non cognitvi, che non descrivono niente ma hanno una forza imperativa: sono dei comandi.

Hare, tuttavia, vuole dare conto in modo compiuto del fatto che vi è riflessione, come avevano fatto gli intuizionisti, che vi è argomentazione. Perciò egli costruisce qualcosa come una logica delle norme – un’idea che in quegli anni era percorsa anche da altri autori. Egli sostiene in sostanza che l’elemento etico è una specie di operatore logico estraneo agli enunciati. Se lo teniamo distinto, gli enunciati si comportano per il resto come qualsiasi enunciato. Cioè c’è una logica degli enunciati morali. Ora quello che mi interessa mettere in luce è come Hare rende conto dell’aspetto direttivo dell’etica. Egli lo introduce sotto il concetto di prescrittività. La componente prescrittiva opera su quella meramente descrittiva, prescrivendo ciò che è affermato nella descrizione per la situazione in oggetto e per tutte quelle simili. La prescrittività collabora infatti con un’altra caratteristica formale del linguaggio morale che è quella della universalizzabilità (un’idea che Hare riprendeva naturalmente da Kant). (16) Ora è interessante che Hare costruisca la prescrittività come una caratteristica formale degli enunciati morali. Essa, cioè, non ha alcuna relazione con gli esseri umani, potremmo dire in modo enfatico, se non quella indiretta che lega gli esseri umani alla logica. Se non vogliamo contraddirci, ciascuno di noi deve tenere a ragionare bene secondo le caratteristiche formali del linguaggio. Abbiamo qui un’immagine molto diversa da quella degli intuizionisti, ma è simile in questo. Condivide con essa l’idea che lo studio del fenomeno della morale consista nell’esaminare il linguaggio morale come se fosse un oggetto indipendente dal fatto di essere l’espressione della vita interiore, personale, degli individui. Cioè vorrei mettere in luce questa fatto rimarchevole. Hare – che riprende da Ayer e dagli emotivisti l’idea che l’etica si caratterizza per il suo aspetto non cognitivo e cioè legato all’espressione di emozioni, che in un certo senso è una possibile continuazione della tradizione di Hume – riesce a slegare questo aspetto dagli individui, dalla psicologia morale degli individui, e ne fa una caratteristica formale del linguaggio.

 

 

9. La metaetica attuale: Korsgaard e Dancy

 

Proprio alla luce di questa possibile storia delle origini dell’etica analitica possiamo leggere gli sviluppi più recenti della metaetica analitica. Non mi soffermerò in alcun modo su di essi ma ne vorrei solo dare una descrizione dall’esterno. Possiamo caratterizzare gli sviluppi successivi della metaetica, dopo gli anni Cinquanta e Sessanta, in particolare con gli anni Ottanta – in effetti un ritorno alla metaetica dopo una fase di calo di interesse – proprio come una concentrazione sui due problemi che ho segnalato come assenti nella prima fase della metaetica – o meglio come estranei ai loro problemi – quello della motivazione e della normatività.

Potremmo dire perciò che questa idea del linguaggio morale spiega il ritorno di interesse verso le questioni di motivazione e della normatività: di come funzionano le ragioni morali. Spiega cioè questo interesse verso una famiglia di temi che erano stati negletti nella metaetica classica.

Vorrei fare solo qualche rapido commento prima di passare a illustrare un’idea diversa di etica analitica. Provo a individuare due nuclei importanti nel nuovo dibattito in metaetica: uno neo-kantiano e l’altro neo-intuizionista.

Quello neo-kantiano è importante. In effetti larga parte del nuovo dibattito sul carattere motivante e normativo dell’etica ha avuto origine all’interno di una rivisitazione della filosofia di Kant, con autori come Korsgaard (17) e Darwall, (18) ma sulla scia della riflessione kantiana anche nella teoria normativa, sulla scia molto lunga e complessa del lavoro di Rawls. Ora si potrebbe pensare che la ripresa di Kant abbia messo in discussione precisamente gli assunti che erano a fondamento dell’idea di linguaggio morale, e cioè l’esclusione dell’idea di normatività. Se dovessimo discutere con attenzione la questione bisognerebbe sicuramente rendere giustizia a questa idea. Christine Korsgaard vuole recuperare Kant come la giusta prosecuzione di Hume e dell’idea di collegare l’etica all’identità degli individui.

Il neo-intuizionismo. Dancy riprende l’intuizionismo di Ross e lo amplifica. (19) Ross riteneva che vi fossero intuizioni di principi, anche se prima facie, cioè di raccomandazioni universali su come agire. Dancy amplifica questa idea e la rende ancora più particolaristica. Ci sono intuizioni particolari che non si estendono universalmente (esse dipendono infatti dal contesto in un modo che non le consente di valere come le stesse raccomandazioni in contesti diversi). Ma Dancy riformula il linguaggio di Ross con quello delle ragioni: le intuizioni di Ross, che erano poi le convinzioni morali depositate nel linguaggio, sono ragioni per agire, percepite di volta in volta. Quindi anche Dancy, sebbene sviluppi l’intuizionismo, ha una teoria formulata in termini di ragioni, che è in grado da dare una risposta diretta anche al problema della motivazione.

Quindi, entrambe queste linee nella metaetica attuale sono formulate in termini che coinvolgono i temi della motivazione e della normatività. Ma quello che appare è che è scomparso il linguaggio morale. Sono teorie del ragionamento morale, su come ragionare bene in etica, ma non sono teorie direttamente del linguaggio morale. Questa non è una perdita da poco. In effetti ciò che aveva caratterizzato l’etica analitica era l’idea che ci fosse qualcosa di importante nel fatto che la vita morale degli individui fosse anche un certo tipo di vita linguistica. In modo simmetrico a quello che abbiamo detto a proposito di intuizionisti e non cognitivisti circa normatività e motivazione, potremmo dire che il tema del linguaggio morale è ora in secondo piano, non è più un loro problema.

 

 

10. Un’altra tradizione nell’etica analitica: Murdoch e McDowell

 

Forse non è un bene che alcune linee centrali della metaetica analitica abbiano perso di vista l’importanza del linguaggio morale. Al contempo ho provato anche a mettere in luce i limiti, filosoficamente interessanti, dell’idea di linguaggio morale che si insinua nella riflessione agli inizi del Novecento.

Ora in conclusione vorrei accennare a una possibile storia diversa. Una storia in cui potremmo tenere al centro l’idea di linguaggio morale: un’idea diversa però, capace di rispondere alle esigenze del punto di vista del soggetto morale, motivazionale e normativo. Ho presente alcuni autori che in vario modo hanno mostrato di sviluppare questa linea: I. Murdoch, J. McDowell, C. Diamond. Iris Murdoch, che è poi diventata una scrittrice famosa, lavorava a Oxford negli anni Cinquanta e aveva come colleghe Elizabeth Anscombe e Philippa Foot. Erano tutte molto intente a criticare Hare e la sua idea di etica. Ci sono dei motivi che le accomunano (ad esempio uno spirito molto antikantiano; e in Anscombe e più tardi in Foot un grande amore per Aristotele), ma Murdoch in particolare aveva in mente questa idea.

Murdoch teneva all’idea di linguaggio morale, all’idea che la nostra vita morale è intessuta di concetti con cui viviamo, ma voleva anche mettere in luce la connessione dei concetti con le persone. Come scrive in The Sovereignty of Good, i concetti morali non si muovono nel mondo impersonale della scienza ma in quello personale creato dal tipo di attenzione che rivolgiamo alle cose. (20) Perciò era interessata al tipo di trasformazione a cui il soggetto sottopone i concetti: all’uso personale che ne fa.

Ora, con un linguaggio diverso, è un’idea simile quella che esprime McDowell, quando in Virtue and Reason (1979) (21) mette in luce il fatto che i concetti morali (ma la sua è un’analisi che riguarda l’intero regno della concettualità) sono l’espressione della propria vita interiore. In particolare egli ha di mira sia le strategie non cognitiviste sia quelle intuizioniste (descrittiviste). E sostiene che la vita con un concetto morale, cioè vivere alla luce di un concetto morale (il coraggio, la giustizia, la gentilezza), non è una questione né meramente descrittiva né meramente psicologica. Ma nel rifiutare entrambe le strategie, McDowell rifiuta anche un’immagine del linguaggio morale. Egli sostiene, come faceva Murdoch, che i concetti non si muovono nello spazio impersonale della scienza, ma neppure in quello di una psicologia che impone dall’esterno alle descrizioni delle situazioni un’impronta emotiva o imperativa, come pensava Hare. In questo modo McDowell suggerisce di pensare la vita con i concetti morali come qualcosa che non è meramente linguistico: non segue semplicemente regole deduttive. Ma è il risultato di una dimensione interiore, di uno sviluppo personale che McDowell identifica nella nozione di virtù. Si intrecciamo qui vari temi, tra cui la rivisitazione del concetto di virtù (che McDowell deriva dalla sua lettura di Aristotele). Ma voglio mettere in luce questa idea. Così come Murdoch, anche McDowell è interessato a criticare l’idea che i concetti morali abbiano come una vita propria, indipendentemente dal fatto di essere l’espressione della vita interiore degli individui. Egli cioè critica un’idea di linguaggio morale che tratti i concetti morali o come meri dati, un sapere positivo disponibile indipendentemente dalla vita interiore degli individui, come lo era in Ross, o come simboli emotivi o imperativi, in cui egualmente la vita interiore si appiattisce sul tipo di forza che si accompagna a un certo enunciato.

In realtà McDowell rilegge Aristotele per affermare questa tesi: la nostra padronanza di un linguaggio morale, cioè di un’articolazione concettuale delle nostre vite morali, è il risultato di un certo tipo di educazione personale, dell’avere fatta propria una certa sensibilità.

 

 

11. Diamond.

 

Le posizioni di Cora Diamond si situano in questo quadro e sviluppano con dettaglio questa linea di pensiero. Con Diamond arriviamo in effetti a intravedere un’idea di linguaggio morale che è molto lontana da quella che avevamo visto nascere con Moore e Ross, ma che segna anche una distanza da alcune linee centrali nella metaetica attuale. Diversamente da queste ultime, che si affidano allo studio della natura delle ragioni morali, della razionalità, Diamond sostiene che delucidare la morale comporta una riflessione sui concetti che abbiamo: cioè bisogna stare a quel livello, a quel tipo di articolazione dell’etica. E i concetti sono la varietà di modi che abbiamo di esprimere i nostri interessi morali: non solo i concetti sottili come bene e male, giusto e sbagliato e così via. (Anzi Diamond insiste che il linguaggio diventa morale a seconda dell’uso che ne facciamo: così nelle mani di un romanziere quella che potrebbe essere altrimenti una descrizione moralmente neutrale di una situazione è invece l’espressione di una visione morale.)

Diamond condivide con McDowell l’idea che il padroneggiare concetti è qualcosa che entra nella vita intima delle persona. Diamond sostiene che il cambiamento morale ha a che fare con il guadagnare per sé una certa prospettiva concettuale. Nei suoi scritti sugli animali mostra come la possibilità di fare entrare gli animali in vario modo nel perimetro delle nostre considerazioni morali è collegato con il guadagnare per noi un certo modo di vedere gli animali, come anch’essi compagni di una vita, ad esempio, con la possibilità di estendere anche a loro certi modi di vedere la nostra vita. Si tratta cioè di riuscire a vederli attraverso certi concetti. (22) Così, in tutt’altro contesto, quando esamina il Cantico di Natale di Dickens, il risveglio emotivo e morale di Scrooge è visto da Diamond come il riuscire a vedere ancora le cose attraverso il concetto di fanciullezza, il guadagnare per sé questo concetto e tutto ciò che gli si connette. Il risveglio di Scrooge dal suo freddo e cupo egoismo è letto da Diamond come una riconquista di una certa prospettiva concettuale. (23) Ho fatto solo due esempi, tra molti.

Ora ciò che è interessante per i nostri scopi è vedere l’analisi che Diamond offre di questo possesso di una prospettiva concettuale in etica. In un modo per certi versi simile a McDowell ma per altri diverso, lei è interessata a mettere insieme il possesso di concetti con l’idea del possesso di una certa sensibilità individuale. Ma lo fa diversamente: infatti è interessata in parte a rivendicare una certa immagine kantiana della normatività. Sostiene che il modo in cui i concetti sono legati alla nostra vita va pensato sul modello di come Kant pensava che noi arriviamo a riconoscere di essere esseri razionali, cioè suscettibili di questa cosa che è la razionalità, del suo particolare carattere, della sua dignità. Così il concetto di fanciullezza o il concetto di essere umano o quello di animale, e così via sono legati alle nostre vite nel senso che ciò che significa vedere qualcosa attraverso quei concetti si impone a noi con una forza normativa. Faccio un esempio. Quando Diamond esamina il concetto di essere umano, mostra cosa conta come l’avere questo concetto e quindi vedere esseri umani e interagire con esseri umani. Lei sostiene che avere questo concetto comporta una varietà di atteggiamenti, di sensi di ciò che è appropriato, e così via. Ad esempio il concetto di essere umano è collegato con un certo modo di vedere i cadaveri: non come spazzatura da buttare via ma come qualcosa di molto speciale. Ora ciò non significa che non vi sia qualcosa come disonorare un cadavere o una varietà di cose terribili che possiamo fare con i cadaveri. Ma possiamo riconoscere appunto il disonorare il cadavere, ad esempio in guerra con i corpi morti dei nemici, cioè possiamo riconoscere questa azione come quel tipo di azione terribile proprio perché il cadavere è quel tipo di cosa per noi. Diamond sostiene quindi che avere questo atteggiamento verso i cadaveri fa parte del nostro avere il concetto di essere umano. È questo collegamento («fa parte del concetto di essere umano trattare un cadavere in questo modo») che è normativo in modo analogo a come Kant parlava di normatività: cioè non è qualcosa che descriviamo dall’esterno, come se facessimo sociologia, ma è la delucidazione delle condizioni di possibilità (se vogliamo usare questo linguaggio) del concetto di essere umano.

Ma come possiamo già intuire questa normatività dell’etica non è solo estesa a una varietà indefinita di concetti ma ha anche un carattere speciale. Ciò che fa parte di un concetto – ciò che guadagniamo con una forza che si impone a noi secondo l’immagine della normatività – è infatti una varietà di cose, che potremmo definire approssimativamente come un atteggiamento complessivo verso la situazione e cioè una certa disposizione, una certa sensibilità. Ho fatto l’esempio del senso che un cadavere non è solo spazzatura ma una persona morta, questo senso di ciò che quel corpo morto è. Ora avere il concetto di essere umano significa avere questo tipo di sensibilità.

Ancora una considerazione: ciò che fa parte di un concetto non è solo l’esito di una certa storia dei concetti, qualcosa che condividiamo in quanto siamo parte di una certa cultura. Ma è anche qualcosa che possiamo modificare con la nostra riflessione e cioè con la trasformazione della nostra sensibilità. Così i lavori animalisti di Diamond, ad esempio, sono tentativi di modificare il nostro concetto di animale, tentativi di mostrare come esso si colleghi a concetti in cui vediamo una dimensione che richiama il rispetto e l’attenzione morale. (Questa era l’idea di Murdoch: della trasformazione personale dei concetti).

Con Diamond abbiamo quindi questa immagine: la vita morale è vista attraverso il linguaggio morale, il tipo di concetti che abbiamo. Ma il possesso di concetti è analizzato come l’avere una certa disposizione personale, è analizzato nei termini di un certo modo di vedere, di una certa sensibilità. Questa è un’immagine molto diversa del linguaggio morale rispetto a quella che abbiamo visto in autori così diversi come Ross e Hare. È un’immagine che collega il linguaggio all’individuo: a una dimensione di sensibilità personale: qualcosa che avevamo visto assente invece in quegli autori.

 

 

12. Conclusione. Un’altra origine: Wittgenstein

 

Diamond e agli altri autori (tra gli altri che avrei potuto citare vi è Stanley Cavell, ad esempio) mostrano quello che appare come un nuovo interesse verso il linguaggio morale, che non trascura il collegamento con il punto di vista del soggetto morale. È un interesse diverso rispetto alle origini di questa idea; ma anche lontano da linee centrali nella metaetica contemporanea che hanno semplicemente abbandonato l’esame dell’articolazione concettuale della morale per dedicarsi allo studio dell’idea di razionalità etica.

Questi autori che ho citato riprendono tutti in realtà, tra le varie influenze, la lezione di Wittgenstein (o meglio una certa lezione di Wittgenstein). Murdoch, McDowell e Diamond vogliono continuare una certa idea di Wittgenstein: l’idea cioè, come potremmo dire, che il linguaggio è un organismo vivo. Wittgenstein aveva un’immagine che potremmo chiamare romantica, in mancanza di altri termini, del linguaggio. Cioè Wittgenstein sostiene che i concetti sono tenuti in piedi dal fatto che gli esseri umani fanno, notano, provano certe cose. Sono tenuti in piedi da questa complessa rete. Ma allora l’analisi del linguaggio è l’analisi di questa complessa rete e non di qualche entità retta da regole e, come dire, invulnerabile rispetto a questa complessa massa di cose che gli esseri umani fanno e sentono. Nelle Ricerche, ma la mia idea (che è quella di Diamond) è che ciò sia vero anche per il Tractatus, egli mostra come il linguaggio sia l’espressione della vita delle persone – contro diverse altre immagini: ad esempio quella metafisica, che il linguaggio sia qualcosa là fuori, già completo senza il contribuito individuale, o quella sensistica o convenzionalistica, secondo la quale esso non è altro che un insieme di segni che aspetta il contribuito degli esseri umani per essere rimesso in vita (il linguaggio come strumento).

Ora naturalmente non posso in alcun modo sviluppare queste suggestioni, ma vorrei suggerire questa cosa in conclusione. Moore è un punto di partenza dell’etica analitica. Ora siamo in grado di vedere bene che non è l’unico. Wittgenstein è un altro punto di partenza. Ci sono quindi due idee di linguaggio morale. La seconda è stata a lungo negletta. Ma ora possiamo cominciare a riconoscerne la fertilità e l’interesse.

 

 

Note

 

(1) Tra la letteratura già molto vasta segnalo From Frege to Wittgenstein. Perspectives on Early Analytic Philosophy, a cura di H. Reck, Oxford University Press, Oxford 2002.

(2) G.E. Moore, Principia Ethica, Cambridge University Press, Cambridge 1903, ed. rivista 1993; trad. it. Principia Ethica, Bompiani, Milano 1964.

(3) È una storia raccontata ad esempio in E. Lecaldano, Introduzione a Moore, Laterza, Roma-Bari 1972, e in P. Hylton, Russell, Idealism and the Emergence of Analytic Philosophy, Clarendon Press, Oxford 1990.

(4) G.E. Moore, Principia Ethica, cit., §26.

(5) G.E. Moore, The Nature of Judgment, in «Mind», VIII (1899), pp. 176-193: cfr. p. 179.

(6) Per questa distinzione v. ad es. J. Dancy, The Particularist’s Progress, in Moral Particularism, a cura di B. Hooker - M. Little, Clarendon Press, Oxford 2000, p. 134.

(7) W.D. Ross, Foundations of Ethics, Clarendon Press, Oxford 1939, p. 168.

(8) W.D. Ross, The Right and the Good, Clarendon Press, Oxford 1930, p. 29; trad. it. Il giusto e il bene, Bompiani, Milano 2004.

(9) Ibid., p. 30.

(10) Ibid., p. 41; trad. it., p. 51.

(11) Ibid., p. 23.

(12) W.D. Ross, Foundations of Ethics, cit., p. 3.

(13) W.K. Frankena, Obligation and Value in the Ethics of G.E. Moore, in The Philosophy of G.E. Moore (1942), a cura di P.A. Schilpp, Open Court, La Salle, Ill. 1968, pp. 91-110.

(14) S.L. Darwall, Moore, Normativity, and Intrinsic Value, in «Ethics» CXIII (2003), pp. 468-489.

(15) Secondo la distinzione di M. Smith, The Moral Problem, Blackwell, Oxford 1994, p. 75.

(16) R.M. Hare, Freedom and Reason, Clarendon Press, London 1963; trad. it. Libertà e ragione, Il Saggiatore, Milano 1971; Universal Prescriptivism, in A Companion to Ethics, a cura di P. Singer, Blackwell, Oxford 1991, pp. 451-463; trad. it. Il prescrittivismo universale, in Etica analitica. Analisi, teorie, applicazioni, a cura di P. Donatelli - E. Lecaldano, LED, Milano 1996, pp. 331-349.

(17) C.M. Korsgaard, The Sources of Normativity, Cambridge University Press, Cambridge 1996.

(18) S.L. Darwall, Impartial Reason, Cornell University Press, Ithaca 1983.

(19) J. Dancy, Practical Reality, Oxford University Press, Oxford 2000; Ethics Without Principles, Clarendon Press, Oxford 2004.

(20) Routledge, London 1970, p. 28 (la citazione proviene dal saggio The Idea of Perfection, originariamente una lezione tenuta nel 1962).

(21) Incluso ora nella sua raccolta di saggi Mind, Value and Reality, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1998, pp. 50-73.

(22) C. Diamond, The Realistic Spirit. Wittgenstein, Philosophy, and the Mind, MIT Press, Cambridge, Mass. 1991, capp. 13, 14.

(23) C. Diamond, The Importance of Being Human, in Human Beings, a cura di D. Cockburn, Cambridge University Press, Cambridge 1991, pp. 35-62.