Etica & Politica / Ethics & Politics, 2005, 1
http://www.units.it/etica/2005_1/DEMORI.htm
Teoria dell’errore e
‘stranezza’ ontologica: Mackie e l’attualità dell’antirealismo in etica
Dipartimento di Filosofia
e Comunicazione
Abstract
The paper critically examines the metaethical position of J.L. Mackie as regards its influences on the recent debate, starting from the so–called error theory, through his treatment of scepticism and queerness. The aim is to clarify how we can assume an antirealistic position in ethics, believing that there are no objective values and that ‘morality has to be invented’, and to evaluate the force of the arguments of Mackie, by focusing the attention on the important – and often neglected – influences on his thought of J. Locke, D. Hume and, particularly, E. Westermarck, with his epistemological and anthropological attitude to ethical enquiry. |
“È un fatto puro e
semplice che le azioni crudeli differiscano da quelle buone e dunque che
possiamo imparare, come di fatto facciamo, a distinguerle tra loro abbastanza
bene nella pratica e ad impiegare i termini “crudele” e “buono” con un
significato descrittivo sufficientemente chiaro; ma è, allo stesso modo, un
fatto puro e semplice che azioni, definite crudeli mediante tale senso
descrittivo, debbano essere condannate?”.
J.L. Mackie, Etica. Inventare il giusto e l’ingiusto,
p. 23.
1. Introduzione
È un
fatto ‘puro e semplice’ o è un fatto speciale, un fatto ‘morale’ oggettivo? Un
fatto che esprime valori reali – o reali
valori, come direbbe T. Nagel– (1) oppure nulla più che preferenze e stati
soggettivi?
La
disputa tra realisti e antirealisti –
mai realmente sopitasi – sembra essere tornata prepotentemente in auge negli
ultimi trent’anni, al punto da determinare un nuovo orientamento nelle
riflessioni metaetiche di ‘fine XX secolo’, un orientamento segnato non più
tanto dalle discussioni sulla vero–funzionalità dei giudizi morali quanto dalla
riflessione sullo statuto
epistemologico –o ontologico, come direbbe J. Mackie – dei valori morali. (2)
Si
delinea così un panorama variegato e complesso attorno alla questione dell’oggettività dei valori: la domanda circa
la natura ‘oggettiva’ dei valori morali tende a non essere più declinata
soltanto in merito alla delineazione del loro contenuto in termini di verità e
razionalità e della loro capacità descrittiva, bensì – nondimeno riprendendo e
ampliando aspetti importanti della precedente ‘fase semantica’ della
riflessione metaetica– in merito alla loro corrispondenza con gli accadimenti
del mondo e con la nostra percezione dei ‘fatti reali’.
In questo
articolato panorama, non a torto, è invalsa l’opinione che il rinnovato interesse
per la questione dell’oggettività dei valori morali sia da riferire, in modo
particolare, alla peculiare proposta teorica antirealista di J.L. Mackie, che
si condensa nella sua cosiddetta teoria dell’errore.
Il
soggettivismo di J. Mackie, in effetti, con il concentrare l’attenzione sulla
questione ‘ontologica’ dell’oggettività dei valori, con il denunciare la
falsità dei giudizi morali del senso comune e con l’affermare la
non–oggettività dei valori sulla base di un conclamato scetticismo meatetico ha
gettato, a partire dagli anni ’70 del XX secolo, una nuova luce sulla
discussione in merito all’oggettività dei valori, costringendo a rivedere posizioni
consolidate, ma soprattutto suggerendo uno spostamento – o perlomeno una
distinzione – dei piani d’indagine metaetica, dall’analisi semantica
all’analisi ontologico–fattuale. A
ragione, quindi, J. McDowell poteva affermare, in occasione della prematura
morte di Mackie, avvenuta nel 1981, che “Etica – il volume del 1977 – fu scritto per il ‘lettore generico’, ma ebbe un’influenza
straordinaria anche tra i filosofi di professione, in special modo per quanto
riguarda la sezione generale di apertura […] Questo lavoro ha fornito un
contributo essenziale per il rinnovamento delle discussioni sullo statuto
[…]del pensiero valutativo […] Suggerendo argomenti contro l’opinione che il
pensiero valutativo sia oggettivo, Mackie offrì la propria teoria come una possibilità,
che difficilmente era stata considerata ai tempi in cui scriveva; e
probabilmente l’effetto che più colpisce è stato quello di spingere le persone
non solo a prendere la teoria in seria considerazione, ma anche a difenderla
contro le possibili obiezioni”. (3)
Va
osservato che il nucleo teorico della proposta antirealista di Mackie risale
agli anni ’40 e che una sua prima esposizione è contenuta in un articolo del
1946, A refutation of morals;
tuttavia, egli giunge ad esporre in modo articolato e compiuto la propria teoria
dell’errore in campo morale solo nel 1977, nel suo volume Etica. È sulla scia di questo lavoro che, negli anni ‘80, da una
parte prendono forma posizioni antirealiste come quelle di S. Blackburn, G.
Harman o A. Gibbard, dall’altra vengono delineandosi o vengono rafforzate nuove
posizioni realiste – internaliste come quelle di D. Wiggins o J. McDowell – o esternaliste come quelle di D. Brink, P. Railton o R. Boyd– che si trovano
costrette a fare ‘i conti’ con la lezione di Mackie.
Se definiamo l’oggettività secondo un suo
significato debole –l’etica è il dominio della razionalità e/o della
ragionevolezza – e secondo un suo significato forte – in base al quale i
predicati morali fanno riferimento a proprietà reali delle cose – possiamo qualificare
con maggior precisione il contributo di Mackie – il cui principale obiettivo
polemico è l’oggettività nel suo significato forte – ai recenti sviluppi della
riflessione metaetica in merito alla disputa tra realismo e antirealismo. Nel
suo significato forte, infatti, l’oggettività, oltre a rappresentare qualcosa
di più dell’intersoggettività e a pretendere molto più dell’universalizzabilità
dei giudizi morali, è anche qualcosa che ci costringe a confrontarci con la forza
motivante dei valori morali, con quella che Mackie definisce ‘l’autorità’
dell’etica, e quindi ci costringe a confrontarci con la dimensione del dato
oggettivo, dei fatti reali, del mondo che è esterno agli stati mentali e alle
credenze soggettive.
Nelle
pagine che seguono mi propongo di riassumere le linee guida della peculiare posizione
antirealista di Mackie, avendo però cura di evidenziare, da una parte gli
influssi che agiscono su numerose sue affermazioni, dall’altra il contesto
problematico generato dalla sua riflessione, allo scopo di fare chiarezza su
alcuni punti ‘oscuri’ della sua teoria e di pervenire così a mostrare in modo
chiaro la natura del contributo offerto da Mackie ai recenti orientamenti della
riflessione metaetica.
2. Lo scetticismo
La
posizione antirealista di Mackie, a fronte dell’ampia discussione che ha generato,
viene però spesso mal compresa e mal interpretata. Questo principalmente per
due motivi: da una parte a causa dell’uso terminologico proposto dall’autore,
spesso non chiaro e suscettibile di fraintendimenti, dall’altra a causa della
natura solo apparentemente unitaria della sua riflessione, in realtà frutto di
numerose sovrapposizioni, approfondimenti e sviluppi che risentono del lavoro
complessivo del filosofo. Questo, tuttavia, è meno vero per la critica al
realismo che per la sua proposta di un’etica ‘da inventare’ su basi
sentimentalistiche e convenzionalistiche, anche se è solo da un esame
complessivo della proposta teorica di Mackie che emerge il significato corretto
della sua critica al realismo. (4)
Cercare
di porre in evidenza l’unitarietà e la continuità del lavoro filosofico di Mackie
significa, ad esempio, aver sin da subito consapevolezza di quanto il suo
lavoro in altri ambiti di indagine abbia influenzato la sua posizione in campo
etico. Questo vale per la sua ‘attitudine empirista’, vale per la sua
contestazione dell’esaustività dell’analisi linguistica, vale per la sua
affermazione circa la necessità di essere scettici in campo morale, vale infine
per la sua interpretazione del pensiero morale ordinario.
Mi
soffermo ora sugli ultimi due aspetti – riservandomi di tornare sui primi due
nei prossimi paragrafi –, vale a dire sul significato della sua posizione
scettica e sulla sua percezione del senso comune in campo morale.
Quando Mackie condensa la propria posizione
con la perentoria affermazione secondo cui “non ci sono valori oggettivi”, (5) suggerisce che il modo appropriato per
difendere una tale affermazione è quello di assumere una posizione scettica:
“Ciò che chiamo scetticismo morale […] afferma che non esistono entità o
relazioni di un certo tipo, valori o richieste oggettive”. (6)
È il
rifiuto di riconoscere l’esistenza di
valori morali oggettivi, che, a parere di Mackie, rende appropriata la
denominazione di scetticismo. L’impalcatura concettuale, in effetti, è
incisiva: il rifiuto di valori oggettivi, infatti, “dovrà essere ottenuto come
[…] una teoria secondo la quale, sebbene la maggior parte delle persone, nel formulare
i propri giudizi morali ritenga implicitamente, tra le altre cose, di riferirsi
a qualcosa di oggettivamente prescrittivo, queste pretese sono tutte false. È
questo che rende appropriata la denominazione di scetticismo morale”. (7)
Perché la
scelta del termine scetticismo per caratterizzare una posizione soggettivista
antirealistica? Per svariati motivi, che è bene comprendere per non cadere
nell’errore di accusare Mackie di incoerenza, come ha fatto per esempio S. Blackburn,
scrivendo che “vi è qualcosa di sospetto nel prendere in considerazione una
teoria dell’errore e, tuttavia, continuare ad agire e pensare moralmente”. (8)
Sicuramente,
in primo luogo, per la natura del
rifiuto circa l’oggettività dei valori: ciò che viene rifiutato infatti è l’esistenza di valori oggettivi – l’errore
infatti è ontologico – e per questo, ad avviso di Mackie, è necessario
ricercare un modo di caratterizzare la propria posizione che sia più radicale
ed incisivo di quello indicato dal termine soggettivismo o non–cognitivismo. E
su questo aspetto forte è l’influenza del suo empirismo e della sua propensione
scientifica verso l’indagine in campo etico. Ma su questo tornerò nei prossimi
paragrafi.
In
secondo luogo, come egli stesso sottolinea più volte, la scelta pare motivata
dall’intenzione di distinguere la propria posizione dal soggettivismo
genericamente inteso: ricordiamo infatti che quando Mackie elabora la propria
posizione scettica il quadro attorno a lui è segnato in gran parte dalle
discussioni semantico–linguistiche intorno all’emotivismo e al
non–cognitivismo. Così, per Mackie, si può essere soggettivisti senza essere
emotivisti, senza abbracciare una particolare teoria del significato dei
termini morali e, solo se soggettivismo equivale a non–oggettivismo – ossia al
rifiuto che i valori siano oggettivi – allora Mackie è d’accordo nel sostenere
che la denominazione di scetticismo può essere intesa come analoga a quella di soggettivismo.
Del resto, come scriveva in quegli anni R.M. Hare, riferendosi ai filosofi
morali del proprio tempo – anche se i suoi intenti polemici erano differenti da
quelli di Mackie –: “Ben pochi chiariscono in che senso parlino di ‘oggettivo’
e ‘soggettivo’ ”; (9) “penso che in realtà i termini oggettivo e
soggettivo abbiano introdotto nient’altro che confusione in filosofia morale”.
(10)
Non pare
dunque difficile individuare, sotteso alle considerazioni dell’autore, un intento
polemico nei confronti, da una parte, dell’indagine analitica – su questo tornerò
– dall’altra, dell’idea che al rifiuto di riconoscere l’oggettività dei valori
debba seguire necessariamente l’assunzione di una posizione emotivistica – ed
egli era tutt’altro che un emotivista riguardo al significato dei valori
morali, piuttosto era un sentimentalista, secondo l’insegnamento del suo grande
maestro D. Hume e di E. Westermarck. Ed è proprio al pensiero di Hume che
Mackie si ispira nello scegliere di adottare il termine scetticismo: si tratta
infatti di qualcosa di molto simile allo scetticismo moderato di Hume, da
intendersi come cauto e diffidente metodo
d’indagine e non come sospensione dell’assenso in nome del dubbio iperbolico.
Cosicché,
non vi è nulla di strano, per Mackie, nell’essere scettici nei confronti del
modo in cui il senso comune concepisce i valori morali e, purtuttavia,
continuare a difendere le proprie convinzioni etiche. E, a maggior ragione, in
virtù del fatto che il suo scetticismo, come egli stesso sottolinea, è di
secondo livello – o metaetico – e non
di primo livello (col che indicherebbe l’atteggiamento di chi non prende sul serio
il discorso morale tout court), e i
due livelli sono affatto distinti e indipendenti, cosicché, “si può essere
scettici morali di secondo livello senza essere scettici morali di primo livello,
o anche il contrario”. (11)
In terzo
luogo, la scelta pare motivata dal fatto che allo scetticismo è direttamente ‘ancorata’
la proposta di una teoria dell’errore: lo scetticismo morale, infatti, è sì il
rifiuto dell’esistenza di valori morali oggettivi, ma, poiché i giudizi morali
ordinari includono, in maniera essenziale, una pretesa di oggettività, lo
scetticismo “deve prendere la forma di una teoria dell’errore, ammettendo che
la credenza in valori oggettivi sia insita nel linguaggio e nel pensiero morale
comune, ma ritenendo che tale radicata convinzione sia falsa”. (12) È dunque la convinzione di Mackie che il cuore del suo
antirealismo siano la negazione – che esistano valori oggettivi – e
l’individuazione dell’errore ontologico
– di credere che esistano
valori oggettivi – a rendere ‘appropriata la denominazione di scetticismo’. In
questa prospettiva di negazione e di errore, solo un atteggiamento scettico
sembra in grado di stabilire in maniera significativa la ‘distanza’ non solo
con il modo di pensare comune, ma anche con una larga parte della più autorevole
tradizione filosofica, da Platone a Kant: il termine soggettivismo, da solo,
non basta a qualificare l’atteggiamento negativo di Mackie nei confronti della
tradizione filosofica e nei confronti del pensiero comune.
E così,
sia in riferimento agli intenti provocatori della teoria dell’errore nei
confronti dell’interpretazione del senso comune e della tradizione filosofica,
sia in riferimento agli intenti polemici riguardo al contesto in cui si colloca
la riflessione di Mackie, non pare né priva di significato né peregrina la
scelta terminologica dell’autore, anzi pare più che riuscita nei suoi intenti
‘propagandistici’.
Certo
che, chiarite le motivazioni circa la scelta di denominare la propria posizione
scetticismo morale, difficilmente si rimane soddisfatti, non appena ci si
soffermi sul passaggio immediatamente seguente, ossia sulla scelta di accusare
l’uomo comune e una larga parte della tradizione filosofica di essere vittima
di un errore persistente. Perché qualificare la propria teoria non–oggettivista
– o antirealista – come una teoria dell’errore?
3. Una teoria dell’errore
Scrive al
proposito l’amico e collega R. M. Hare: “[Mackie] prima afferma che i giudizi
morali sono tutti falsi e poi ci spiega come decidere quali giudizi morali dovremmo
accettare”. (13)
Da dove
proviene l’ipotesi di una teoria dell’errore? In un suo recente e brillante articolo
dal titolo Errori dell’ontologia, L.
Fonnesu ha posto a confronto la teoria dell’errore di Mackie – elaborata come
abbiamo visto a partire dagli anni ’40 – con uno scritto assai poco noto, Is there an Absolute Good?, del 1922, di
B. Russell, in cui pare delineata una posizione molto simile a quella di
Mackie. Si legge infatti, per mano di Russell, che “sembra non esserci dubbio
che i nostri giudizi etici pretendano oggettività; ma questa pretesa […] li
rende tutti falsi”. (14) Fonnesu sottolinea come sembri esservi sotteso alle posizioni
di entrambi gli autori un medesimo atteggiamento ontologico ed epistemologico
nei confronti dello statuto dei valori morali, a partire dalla critica di Moore
al soggettivismo. Così si esprime Russell: “Moore ha ragione, penso, nel
sostenere che quando noi diciamo che una cosa è buona non intendiamo soltanto che abbiamo verso di essa un
certo sentimento, di piacere, di approvazione o cos’altro”. E così si esprime
Mackie: “Certamente è stata una stravaganza per Moore dire che ‘buono’ è il
nome per una qualità non–naturale, ma non sarebbe […] sbagliato sostenere che
nei contesti morali buono è impiegato come
se fosse il nome per una supposta qualità non–naturale”. (15)
Il comune
riferimento a Moore permette di riconoscere con chiarezza che il tipo di falsità
– e quindi di errore – che i due autori hanno in mente è il medesimo e in che senso
l’errore sia per entrambi ontologico, direttamente collegato alla negazione che
i valori morali esistano, in maniera
oggettiva e reale. Se così è, allora le medesime considerazioni possono essere
fatte a proposito del modo in cui viene interpretato il pensiero morale
ordinario: in base alla ‘pretesa di oggettività’ la teoria sia di Russell che
di Mackie riguardo il modo in cui funziona il pensiero ordinario è da definirsi
oggettivista – o meglio realista –; mentre è solo la denuncia dell’errore che
rende la loro teoria non–oggettivista
– o meglio antirealista –. Questa precisazione è importante e può evitare
fraintendimenti, circa il rapporto con la produzione successiva per quanto
riguarda Russell e circa la coerenza interna del disegno teorico – riguardo ad
esempio l’accusa di naturalismo fisicalista o scientista (tornerò su questo) –
per quanto riguarda Mackie. (16)
Certo, il
rinvenimento, nel pensiero morale di Russell risalente agli anni ’20, di un indirizzo
teorico simile a quello che in Mackie è destinato a divenire, a partire dagli
anni ’40, una teoria dell’errore getta una luce inconsueta ed interessante sul
tentativo di ricostruire il percorso storico–teoretico che ha portato Mackie
alla formulazione della sua prospettiva metaetica. Quel che è interessante,
infatti, è che il riferimento a Russelll si trova in questo modo a dover essere
sovrapposto al riferimento, di grande importanza, a E. Westermarck e al suo
lavoro sull’origine e lo sviluppo delle idee morali e sul relativismo etico.
Cronologicamente,
il lavoro – monumentale e a torto noto assai più agli antropologi che ai
filosofi – di Westermarck sull’origine e lo sviluppo delle idee morali – The origin and developments of the moral
ideas – risale al 1906: in esso, nei capitoli di apertura, troviamo già
delineata una prospettiva teoria centrata sull’origine ‘emozionale’ delle idee
morali, in cui ha un ruolo decisivo il riconoscimento di una pretesa di oggettività
e di un processo di oggettivazione ad opera del pensiero morale ordinario e di
una parte importante della tradizione filosofica; prospettiva teorica che con
maggior ampiezza verrà esposta nel lavoro sul relativismo in etica, del 1932, Ethical relativity.
In forma
embrionale, dunque, nel lavoro del 1906 sono già contenuti i punti salienti di
una teoria dell’errore, basata sul riconoscimento della nostra “tendenza
ad oggettivare i giudizi morali”, (17) tendenza ‘dovuta almeno in parte all’autorità che erroneamente il pensiero
ordinario, e con esso il pensiero filosofico che di questo si fa interprete,
ascrive alle regole morali’. (18)
Se,
quindi, ci limitiamo al dato cronologico, la fonte primaria della teoria
dell’errore di Mackie sembra risalire ai primi del ‘900; ma potremmo azzardarci
ad ipotizzare anche per Russell un qualche collegamento con il lavoro di
Westermarck.
Successivamente,
nel lavoro del 1932 di Westermarck, oltre a rinvenire passi in cui compare
senza dubbio l’impalcatura concettuale che sottende la teoria dell’errore di
Mackie, troviamo, esplicito, un riferimento proprio a Russell, per corroborare
la necessità di essere scettici in
etica circa l’opinione, da parte del pensiero morale ordinario, che i principi
morali siano oggettivamente auto–evidenti: “La presunta auto–evidenza è solo
una questione di opinione; e in alcuni casi si sarebbe tentati di citare
l’affermazione di Mr. Bertrand Russell che ‘se l’auto–evidenza viene assunta a
fondamento della credenza, questo implica che il dubbio si è insinuato in essa,
e che le nostre proposizioni auto–evidenti non hanno nel complesso resistito
all’assalto dello scetticismo’ ”. “E
– prosegue– nessuna delle varie teorie [morali] è stata in grado di provare che
i giudizi morali possiedono validità oggettiva […] che i principi morali
esprimano qualcosa di più delle opinioni di coloro che ad essi si affidano”. (19)
Cosa può
significare questo, nell’ottica di una ricostruzione del percorso che ha dato
luogo all’ipotesi metaetica di una teoria dell’errore, tanto in Mackie quanto
in Russell, o anche in Robinson – pur nella differenza dei suoi esiti
emotivistici –? (20) Per dare una risposta sarebbe necessario un accurato lavoro
storiografico – il quale esula dai miei intenti in questo scritto – . Quel che
è interessante, tuttavia, pur a questo stadio di incompletezza di informazioni
e nell’impossibilità di formulare ipotesi storiografiche accertabili, è che un
medesimo sfondo teoretico, vale a dire il confronto con l’intuizionismo ‘alla
Moore’, la critica alle forme ingenue di soggettivismo, un orientamento
epistemologico realistico, nell’interpretazione del pensiero morale ordinario e
della tradizione filosofica, e anti–realistico nel riconoscimento di un
meccanismo di oggettivazione di elementi soggettivi sulla base della pretesa di
autorità attribuita alle regole morali, accomuna le riflessioni di Westermarck,
di Russell – almeno dei primi anni ’20
– e di Mackie, il tutto a rendere l’ipotesi di una teoria dell’errore
interessante e attraente non solo come dato storiografico, ma anche come
‘sfida’ per la riflessione metaetica più recente.
Ma
vediamo meglio, attraverso il riferimento a Westermarck, in cosa consiste la
pretesa di oggettività e il meccanismo di oggettivazione che essa genera, nel
determinare la credenza ontologica e
fattuale nell’esistenza dei valori morali.
Scrive
Westermarck: “Le persone non sono disposte ad ammettere che le loro convinzioni
morali siano solamente una questione di opinione”; e così – prosegue – “l’idea
diffusa tra il senso comune che i giudizi morali possiedano validità oggettiva
è ritenuta in sé stessa come una prova del loro possedere realmente una tale
validità”. (21)
Per
pretesa di oggettività, dunque, si intende la volontà, manifestata in primis dal senso comune, che i
giudizi etici siano riconoscibili come qualcosa di esterno e oggettivo –
indipendente dai nostri stati soggettivi – e dotato di un’autorità categoricamente
imperativa – che sia intrinsecamente motivante per l’azione.
Una tale
pretesa di oggettività sembra essere la motivazione principale alla base di una
sorta di meccanismo di oggettivazione di quelli che sono solo stati soggettivi,
che in Mackie prende il nome di proiettivismo, a partire dal suggerimento
humeano secondo cui la mente tende “ad espandersi sugli oggetti esterni” (22) e che ha trovato un seguito – pur
attraverso diverse critiche – nel dibattito contemporaneo, ad esempio
attraverso il soggettivismo proiettivistico di S. Blackburn. Il problema infatti,
per Blackburn, “non è costituito dalla fonte soggettiva del valore in sé, bensì
dall’inabilità delle persone a confrontarsi con essa e dalla loro conseguente
necessità di un’immagine nella quale i valori si imprimono su di un testimone
puramente passivo e ricettivo, che non ha alcuna responsabilità in materia”. (23) E, per Mackie, l’origine del meccanismo
di proiezione è da rinvenire, oltre che nella fallacia patetica, nella natura sociale della morale, nel suo essere
considerata come un’istituzione che è fonte di autorità prescrittiva e
oggettiva per gli individui ad essa aderenti. È il proiettivismo dunque, assieme
alla pretesa di oggettività, che permette di definire l’errore come ontologico,
trattandosi proprio di un’illusione continua nell’attribuire alle azioni
proprietà oggettive esistenti in rerum
natura come ‘parte degli arredi del mondo’ – secondo la nota espressione di
Mackie – .
In questo
modo, il proiettivismo – suggerito, oltre che da Hume, anche da Westermarck
attraverso l’idea che “l’oggettività come viene affermata potrebbe ben essere
un’illusione generale” –, (24) per Mackie gioca un ruolo essenziale
nella sua analisi del pensiero morale ordinario: esso infatti sembra essere
l’unica spiegazione che “concilia contemporaneamente (i) il fatto che i giudizi
morali sono ordinariamente considerati […] come capaci di essere solamente veri
o falsi […] (ii) l’opinione per cui questi giudizi sono considerati come una
guida intrinseca per l’azione e non solo in funzione dei desideri e delle
inclinazioni di chi percepisce […] (iii) la tesi, in favore della quale ha
argomentato vigorosamente Hume, che il fatto essenziale della questione […] è
che gli individui hanno vari sentimenti, o piuttosto che vi è un sistema
interpersonale di sentimenti”. (25)
In
sostanza, la pretesa di oggettività, la quale spiega il carattere autoritativo
dell’etica – e alla cui base vi è il meccanismo di oggettivazione
‘proiettivistico’ – è all’origine dell’intera costruzione che sottostà alla
teoria dell’errore e allo scetticismo morale. Ciò che è importante tuttavia,
per Mackie, è che “la pretesa di oggettività, per quanto radicata nel nostro
linguaggio e nel nostro pensiero, non è auto–giustificativa. Può e deve essere
messa in discussione”. (26) E lo deve essere ponendo
in discussione non solo il pensiero ordinario, bensì anche la tradizione filosofica,
dalle forme platoniche, all’imperativo categorico kantiano, all’intuizionismo.
È lo stesso Westermarck a suggerire questo a Mackie: “L’idea comune che i
giudizi morali possiedano validità oggettiva […] è condivisa dai giudizi dei
filosofi ed è all’origine delle loro argomentazioni razionali in favore
dell’oggettività dei valori morali”. (27)
Prendiamo,
ad esempio, la nozione di imperativo categorico. Scrive Mackie: “Kant medesimo
ritiene che i giudizi morali siano imperativi categorici [...] e si può plausibilmente
sostenere [...] che molti giudizi morali contengano un elemento categoricamente
imperativo. Kant medesimo inoltre [...] ritiene che l’imperativo categorico non
sia solo categorico, ma anche oggettivo”.
(28)
Detto
questo, Mackie connette direttamente la negazione dell’esistenza di valori oggettivi
con il rifiuto della nozione di imperativo categorico: “La mia tesi che non vi
siano valori oggettivi è, in modo specifico, la negazione che un qualsiasi
elemento categoricamente imperativo sia valido oggettivamente. Il tipo di
valori oggettivi che sto negando sarebbe ‘guida per l’azione’ assolutamente,
non semplicemente [...] in relazione ai desideri e alle inclinazioni
dell’agente morale”. (29)
Per
Mackie, la nozione di imperativo categorico è un esempio illuminante di come il
pensiero filosofico tenda a dimenticare il legame che esiste tra le richieste,
o le esigenze soggettive, e le valutazioni che da esse conseguono e quindi, per
così dire, ad ipostatizzare in senso
realistico e cognitivistico i valori espressi dai giudizi morali. (30) I giudizi morali, cioè, sarebbero in realtà costituiti da
imperativi ipotetici – nella cui formulazione è fondamentale il riferimento ai
desideri e alle richieste individuali – dai quali, però, per via dell’errore
ontologico, verrebbe eliminata la clausola condizionale, dando luogo ad una
sorta di inversione nel rapporto tra le richieste morali e i giudizi corrispondenti.
“Noi – infatti– acquisiamo la nozione di qualcosa di oggettivamente buono, o
dotato di valore intrinseco, mediante il rovesciamento della direzione di dipendenza,
rendendo il desiderio dipendente dalla bontà invece di rendere la bontà
dipendente dal desiderio”. (31)
Come aveva scritto Westermarck: “L’esperienza soggettiva viene oggettivata nel
linguaggio come una qualità attribuita ad un oggetto”. (32)
È ancor
più chiaro, in questo senso, perché Mackie definisca l’errore come ontologico.
Egli, tuttavia, lo definisce anche come fattuale,
con espressione che anch’essa ha suscitato numerose perplessità. Cosa
significa?
In
realtà, le due definizioni non sono tra loro differenti nella sostanza, solamente
pongono l’accento su due aspetti complementari della medesima faccenda.
L’errore, infatti, è fattuale in quanto deriva dal fatto che le proprietà morali che attribuiamo alle azioni non esistono, in quanto, dunque, segue da
una visione dell’indagine in campo etico che scaturisce dal riferimento alla
dimensione dei fatti naturali e non alla natura del linguaggio morale. È qui
che entra in gioco, oltre all’atteggiamento antropologico e scientifico verso
l’indagine morale proprio di Westermarck, l’eredità dell’empirismo di Hume –
soprattutto in relazione alle riflessioni sul tema della causalità, raccolte in
un volume pubblicato nel 1974, The cement
of the universe. A study of causation –, (33) a
delineare in Mackie un’attitudine peculiare verso il lavoro filosofico in
generale e verso l’indagine metaetica in particolare.
È certo
che egli aveva una propensione empirista e scientifica verso la ricerca filosofica
e, in effetti, questo si riflette in maniera significativa nella sua riflessione
morale. Scrive J. McDowell: “Mackie aveva una grande ammirazione per la scienza
e possedeva ciò che potremmo definire un ‘atteggiamento scientifico’ nei
confronti della filosofia. […] Riteneva che con la ragione e la pazienza gli
aspetti corretti e scorretti dei vari argomenti […] potessero essere chiariti”.
(34)
Questa
sua propensione empirista, ma – e questo è importante – al contempo razionalista,
secondo l’empirismo moderato di J. Locke, grande classico ispiratore, accanto a
D. Hume, dello stile filosofico esibito dall’autore, porta Mackie a ritenere
che anche l’etica possa essere indagata con metodo empirico, rinvenendo ciò che
conta ‘dal lato dei fatti’ e non dal lato della mera indagine linguistica.
Per
questo egli si ritrova a sostenere che “la filosofia, per poter essere efficace
deve essere analitica; ma l’analisi concettuale non esaurisce tutto il pensiero
filosofico. Qualsiasi genuino progresso nei problemi filosofici richiede un
argomentare che prenda in considerazione le possibilità alternative […], che
ponga attenzione al significato delle parole che vengono impiegate e che
rifletta criticamente sulle sue procedure. Ma lo scopo è quello di fare
progressi in questioni sostanziali, di applicare i nostri concetti alla realtà
o di considerare come essi siano applicabili, non meramente di analizzare o
chiarificare quei concetti per sé stessi”. (35)
La
polemica con l’indirizzo semantico e linguistico della riflessione metaetica accompagna
l’intera produzione filosofica di Mackie. Ne abbiamo testimonianza già negli anni
’50, in occasione del suo insediamento all’Università di Otago: “Ciò che è
primario – scrive nel ’55 – non è mai
l’attività linguistica, ma la realtà delle cose che rende possibile questa
attività”. (36) L’intento di Mackie qui è molto chiaro:
stabilire la distinzione tra differenti metodi
– o percorsi – di indagine metaetica e affermare la superiorità di
un’indagine ontologica, o fattuale, che
guardi ai fatti e alla realtà delle cose, e non al significato dei termini o
alla sintassi del discorso morale.
L’errore
quindi è fattuale proprio perché è rivelato da un’indagine di tipo fattuale, inerente
i fatti in gioco – la realtà delle cose –, e non di tipo concettuale. Non vi è
difficoltà quindi nel sostenere la sovrapponibilità del termine ontologico con
il termine fattuale, entrambi impiegati da Mackie – pur con alcune differenze –
per sottolineare la distinzione della propria posizione dall’orientamento linguistico–concettuale
dell’indagine metaetica.
Emblematico,
su questo punto, il confronto e l’opposizione con R.M. Hare, il quale ha
sostenuto che “è l’incoerenza concettuale, non la falsità, lo sbaglio insito
nell’affermare l’esistenza di prescrizioni oggettive autorevoli”. (37) Hare, infatti, pur condividendo il rifiuto di credere
nell’oggettività dei valori, ha sostenuto che lo stesso Mackie, quando denuncia
l’errore fattuale, e non solo il pensiero ordinario, è in errore, in quanto
vittima anch’egli della fallacia descrittiva. Lo sbaglio fondamentale di
Mackie, cioè, sarebbe quello di aver analizzato il pensiero ordinario in termini
esclusivamente descrittivi, sostenendo che il linguaggio morale comune si basa
sulla corrispondenza tra parole e proprietà morali: "Poiché egli – scrive
Hare – ha sostenuto quella che a me sembra una errata concezione descrittivista
delle caratteristiche logiche dei termini morali nel linguaggio ordinario, è
poi costretto ad affermare che le persone comuni, ogniqualvolta impiegano
questi vocaboli, sono in errore (il che non è plausibile); e non è così in
grado di trasformare la sua efficace spiegazione di come pensiamo moralmente in
una convincente elucidazione della razionalità morale”. (38)
Sarebbe quindi l’indagine sul significato e
l'impiego dei termini morali a chiarire la natura soggettiva dell’etica e non
una tesi fattuale, costretta ad ammettere l'esistenza in rerum natura di ipotetiche proprietà oggettive e a spiegare l'errore
oggettivistico come conseguenza di un'illusione persistente nell'attribuire
alle azioni proprietà che non esistono. Hare conclude così affermando che, se
Mackie ”non avesse scambiato erroneamente una confusione concettuale per un errore
fattuale, avrebbe potuto procedere a spiegare, più chiaramente di quanto ha
fatto, come rendere corretto il nostro modo di pensare in morale". (39)
Per Hare
infatti, l’uomo comune è in grado di impiegare correttamente i termini morali
senza porsi alcuna domanda circa il loro impiego. Di conseguenza,
"rispetto alla teoria di Mackie, la mia ha il vantaggio di non accusare
l'uomo comune di essere sistematicamente in errore riguardo a fatti che, in
base alla teoria, egli dovrebbe scoprire facilmente [...] La mia teoria
interpreta tale errore come concettuale [...] commesso soltanto da quei pochi
individui che si pongono domande filosofiche [...] Mackie deve invece supporre
che, in campo morale, siamo tutti vittime di una persistente illusione ottica".
(40)
È vero
che l’uomo comune non ha necessità di porsi domande circa l’impiego dei termini
morali, ma la mancanza di consapevolezza filosofica da parte dell’uomo comune
non sembra comportare l’implausibilità dell’analisi di Mackie. Lo stesso Hare,
del resto, ha affermato che “se tutto il nostro pensiero si svolgesse al
livello intuitivo, potremmo non sentire mai il bisogno di mettere in
discussione la spiegazione [descrittivista] del significato dei termini morali
e dell’epistemologia morale”. (41)
Qui Hare
rende più sottile la differenza tra sé stesso e Mackie, poiché anche Mackie
ritiene che per l’uomo comune non sia opportuno divenire consapevole
dell’errore ontologico – dato che questo sovvertirebbe i sistemi morali
esistenti e inficerebbe il valore autoritativo dell’etica. La differenza
fondamentale, invece, sta nel valore attribuito all’indagine
linguistico–concettuale: per Hare l’indagine è risolutiva – e quindi l’errore
oggettivistico è di natura descrittiva – , per Mackie, coerentemente con la sua
propensione empirista, è solo preliminare – e l’errore oggettivistico è di tipo
ontologico–fattuale –.
La
propensione empirista di Mackie si esprime, oltre che nella sua concezione ‘fattuale’
dell’indagine metaetica, anche nell’opinione che esista solo un tipo di fatti
oggettivi, i fatti naturali – per questo si è parlato a proposito della sua
teoria come di una forma di naturalismo fisicalista –, e che l’unico ambito
d’indagine in cui valga la credenza in proprietà oggettive realmente esistenti
sia quello delle scienze naturali.
Questa
posizione ‘riduzionista’ ha suscitato numerose perplessità, in parte dovute al
mancato riferimento al quadro d’insieme entro cui si colloca l’empirismo – o il
naturalismo – di Mackie. Scrive ad esempio J. Spoerl: “Se l’empirismo di Mackie
non permette di ammettere la conoscenza di valori oggettivi, questa è in sé
stessa una ragione decisiva per rifiutare la sua epistemologia empiristica. E
questo perché l’inchiesta di tipo fattuale è essa stessa guidata da un numero
considerevole di valori oggettivi”. (42)
Qui
Spoerl sembra sottovalutare la differenza che sussiste tra valori epistemici e
valori etici. Nondimeno, la sua critica si situa sulla linea di quelle
obiezioni – spesso mosse a Mackie – circa la sua presunta incapacità di
riconoscere altre concezioni dell’oggettività in etica che non siano quella del
realismo metafisico. Per chiarire con precisione questa questione, dobbiamo
porre attenzione al peculiare punto di vista da cui si pone Mackie nel
delineare la propria posizione antirealista. Esso emerge con chiarezza, ad
esempio, nella sua discussione della Legge di Hume.
Mackie si
è occupato della Legge di Hume in particolare a proposito del tentativo di J.
Searle – avanzato nel suo noto articolo How
to derive ‘ought’ from ‘is’ – di derivare un dovere da un essere a partire
dal riconoscimento di peculiari fatti, i cosiddetti fatti istituzionali, i
quali, riferendosi a pratiche linguistiche con caratteristiche peculiari (come
quella del promettere) e applicando le regole costitutive delle istituzioni che
tale pratiche linguistiche creano, permetterebbero il passaggio da giudizi di
fatto a giudizi prescrittivi. Una promessa, in tal senso, è un atto linguistico
performativo che sembra funzionare solo ‘all’interno dell’istituzione’ del
promettere, istituzione costituita dai singoli atti linguistici del promettere
e dalle regole contemplate dalla pratica del promettere.
Il punto
decisivo delle critiche che Mackie ha rivolto all’argomentazione di Searle riguarda
la nozione di istituzione e l’importanza di distinguere due sensi in cui si
possono considerare i fatti istituzionali: per Mackie, infatti, possiamo
descrivere un’istituzione così come appare dall’esterno,
oppure possiamo esprimerci dall’interno
di essa. E così scrive: “Quando parlo di qualcuno che aderisce all’istituzione,
non intendo solamente che costui approvi l’istituzione in questione o che
ritenga che essa sia benefica, ma piuttosto qualcuno che pensa e parla dall’interno dell’istituzione [...] Non è
solo un atto performativo che crea l’obbligazione e neppure l’esistenza, come
un fatto di natura sociologica, della pratica corrispondente. Qualcuno che
riconosce entrambi questi elementi ha ancora la possibilità di scegliere se
mantenersi al di fuori dell’istituzione o se porsi all’interno di essa e solo
se egli compie questo passo ulteriore di collocarsi all’interno
dell’istituzione sarà vincolato da [...] qualche obbligazione”. (43)
Per
Mackie sembra essere questo il nocciolo delle difficoltà suscitate
dall’argomentazione di Searle: la derivazione da lui proposta sembra poter
funzionare solo se preliminarmente si è aderito all’istituzione che è in gioco,
adesione che dipende da una decisione
sostanziale da parte del singolo individuo. E così – scrive Mackie –,
“l’impiego di forme linguistiche [come il promettere] non è una questione
neutrale, come lo è l’impiego di gran parte del linguaggio ordinario: usare la
parola promettere [...] con il suo pieno significato ‘dall’interno
dell’istituzione’ comporta l’aver preliminarmente approvato l’istituzione in un
modo sostanziale, cioè l’aver adottato certi distintivi modelli di
comportamento e l’averne rifiutato certi altri”. (44)
Searle ha
protestato contro questa obiezione ritenendola legata ad un ‘atteggiamento
antropologico’, vale a dire ad un inutile spostamento dal piano dell’indagine
linguistica al piano dello studio dei comportamenti; (45) tuttavia, con questa considerazione, in realtà ha posto in
evidenza proprio il punto essenziale del peculiare punto di vista da cui si
pone Mackie. La nozione di decisione pratica, sostanziale, infatti, viene a
costituire un elemento essenziale ed irriducibilmente soggettivo nella configurazione del ragionamento morale, secondo un
punto di vista antropologico che, ispirato a Mackie da Westermarck, guida
l’intero percorso critico di Mackie e ne costituisce il quadro d’insieme, della
sua peculiare forma di soggettivismo così come del suo atteggiamento
empiristico e antirealistico.
A
proposito del suo empirismo, ad ogni modo, si è sostenuto anche che un tale modo
di indagare la morale in realtà sia adatto solo al mondo delle ‘qualità
primarie’. Per J. McDowell, ad esempio, l’errore di Mackie nel denunciare la
falsità del realismo è proprio quello di aver analizzato le proprietà morali
con il modello di analisi delle qualità primarie, mentre il modello corretto
sarebbe quello delle qualità secondarie, intese come disposizioni degli oggetti
a suscitare in noi determinate reazioni. (46)
La
questione del rapporto tra valori morali e qualità secondarie è articolato e complesso:
è presente in diversi modi all’interno del dibattito metaetico più recente e
costringe ad un confronto con Hume, ma anche con Locke, il cui pensiero è di
riferimento per la distinzione moderna tra qualità primarie e qualità
secondarie. Solo che, ad esempio, mentre per Locke – e per Mackie – le qualità secondarie sono creazioni della
mente, per McDowell sono reali ed esistenti ed è tramite l’analogia percettiva
tra valori e qualità secondarie – tramite una forma quindi di realismo internalista
– che viene riaffermata l’oggettività dei valori.
In
Mackie, l’analogia percettiva – suggerita da Hume nel noto passo in cui afferma
che“il vizio e la virtù possono essere paragonati ai suoni, ai colori, al
caldo, al freddo che, secondo la filosofia moderna, non sono qualità degli
oggetti, ma percezioni della mente” – (47) è
funzionale all’intento di corroborare la fecondità della spiegazione
proiettivistica, all’origine della pretesa di oggettività circa i valori. Se ci
addentriamo tra le argomentazioni contenute nel suo brillante volume del 1976
dedicato a Locke – Problems from Locke –
rinveniamo l’impiego di una teoria dell’errore e di un meccanismo di
oggettivazione anche per interpretare il pensiero di Locke circa le qualità
secondarie, poiché, a parere di Mackie, la teoria di Locke si afferma contro la
tendenza del pensiero comune ad interpretare le qualità secondarie alla stregua
delle qualità primarie: “"Locke offre la propria distinzione come una correzione, non come una analisi dei nostri concetti ordinari
[Infatti, secondo Locke, noi siamo] pronti ad immaginare che [le idee delle
qualità secondarie] siano somiglianti a qualcosa di realmente esistente negli
oggetti". (48)
Ed è
nella forma di una correzione, che il modello della teoria dell'errore può confermare
la propria legittimità interpretativa sulla natura della distinzione tra le
qualità primarie e le qualità secondarie. Così si esprime Mackie:
"Complessivamente ritengo che egli abbia ragione. Sebbene non possiamo
considerare le qualità secondarie esattamente nello stesso modo di quelle
primarie, tuttavia, la nostra opinione ordinaria dominante attribuisce ad esse
il medesimo statuto e se, in definitiva, il modo in cui Locke stabilisce la
distinzione deve essere difeso, lo deve essere in opposizione alle nostre assunzioni quotidiane". (49)
Il
rifiuto di riconoscere autonomia ontologica alle qualità secondarie, dunque, è
sostenuto attraverso le medesime modalità con le quali viene negata l'esistenza
di proprietà morali oggettive, sulla base del rinvenimento di un errore
costante di distorsione ad opera del pensiero ordinario; errore per il quale
entrambi, valori morali e qualità secondarie, divengono ‘parte della struttura
del mondo’.
L’intera
discussione sulle qualità secondarie si colloca quindi in modo coerente nel
solco dell’antirealismo di Mackie ed è in questo contesto che deve essere
valutato. Ma preferisco ora tornare alla questione del naturalismo, che mi
offre l’opportunità per chiarire nelle sue linee essenziali il valore della sua
critica al realismo morale e la sua concezione dell’oggettività.
Come ho
accennato, per via del suo empirismo circa l’interpretazione del pensiero morale
ordinario – come per via della sua riduzione dei valori morali alle qualità
primarie – si è spesso ritenuto che la posizione di Mackie coincida con una
forma di naturalismo ‘scientista’ o ‘fisicalista’ – introducendo così nella
discussione un termine – naturalismo – il cui principale merito è quello di
suscitare ambiguità e fraintendimenti. Se, infatti, si debba parlare di
naturalismo a proposito della teoria morale di Mackie, è di un naturalismo di
tipo metodologico e non di un naturalismo sostanziale o scientista, un
naturalismo cauto e moderato, che eredita da Hume e da Westermarck una visione
della morale come un fenomeno naturale al pari degli altri fenomeni naturali
che qualificano la natura e l’esperienza umana, da studiare secondo il metodo
delle scienze empiriche e riconducendolo alle sue basi psicologiche e
biologiche. (50)
Quel che
manca per comprendere il senso del naturalismo di Mackie – e quindi il valore
della sua critica al realismo – è la distinzione tra due livelli d’indagine, distinzione
che percorre tutta la riflessione morale di Mackie e a cui ho già accennato a
proposito del rapporto tra il pensiero di Mackie e il pensiero di Russell: un
conto è ciò che viene affermato come descrizione
del modo in cui funziona il pensiero morale ordinario, un conto è ciò che viene
proposto come interpretazione
personale del fenomeno morale.
È la
struttura medesima dello scetticismo e della teoria dell’errore ad imporre questa
distinzione, cosicché ‘l’accusa’ di naturalismo fisicalista può valere solo per
la sua descrizione del pensiero morale, non per la sua proposta metaetica di
una moralità ‘da inventare’, a partire dai dati antropologici e su basi
biologiche e psicologiche.
Certo è
che, se partiamo da un’indagine di tipo ontologico–fattuale e prendiamo inizio
dai dati antropologici e psicologici inerenti alla natura umana, l’intero percorso
verso la formulazione di un concetto di oggettività che risulti adeguato alla
comprensione che tramite un tale metodo si ha del pensiero ordinario e della
tradizione filosofica in campo morale ne risulta condizionato.
5. Oggettivismo e realismo
Se
seguiamo Hume e Westermarck – e così anche Mackie – nel ritenere che i dati psicologici
alla base del nostro pensiero e del nostro comportamento morale siano costituiti
esclusivamente dalle nostre emozioni di approvazione e disapprovazione, ma
nondimeno riconosciamo che il ‘motore’ essenziale che sottostà alla ‘costruzione’
di un’immagine della morale come di un’istituzione in grado di orientare
l’azione ed influenzare le motivazioni psicologiche in maniera intrinseca sia
da attribuire alla necessità umana di credere in qualcosa di esterno al volere
individuale, dotato di forza imperativa e di autorità intrinseca, comprendiamo
perché alla teoria dell’errore sia sottesa quella determinata concezione
dell’oggettività che tanto ha fatto discutere.
Il processo di oggettivazione ci porta
infatti a credere nell’esistenza
autonoma ed esterna alla nostra mente di peculiari fatti e proprietà morali, ci
porta ad attribuire – in base ‘alla propensione della mente ad espandersi sugli
oggetti esterni’ – agli accadimenti proprietà intrinseche dotate di un preciso
significato morale. Alla credenza ontologica si accompagnano una precisa
epistemologia morale e una precisa teoria della motivazione.
Cosicché
l’esistere per i valori morali diviene in questa prospettiva qualcosa di molto
simile a ciò che esistere significa per i fatti reali. Il processo di
oggettivazione ci porta cioè direttamente ad una concezione dell’oggettività in
etica che coincide con il realismo, secondo, ad esempio, la definizione che ne
ha dato D. Brink: “Il realismo morale sostiene che vi sono fatti morali e
proposizioni morali vere la cui esistenza e natura sono indipendenti dalle
nostre credenze circa ciò che è giusto e sbagliato. La tesi metafisica del
realismo morale suggerisce la tesi semantica, secondo la quale i giudizi e i
termini morali si riferiscono tipicamente a fatti morali e a proprietà, e la
tesi epistemologica, secondo la quale abbiamo una certa conoscenza
morale”. (51)
Che
Mackie abbia in mente questo quando parla di oggettività dei valori è evidente:
l’obiettivo polemico è sia il realismo ingenuo o pre–filosofico del senso
comune sia il realismo filosofico, per il quale la realtà dei valori è prima di
tutto una questione gnoseologica. In questa forma, in effetti, il realismo
sembra avere molti punti in comune con una posizione oggettivista in senso
forte: esso rappresenta, in sostanza, l’idea che le questioni morali siano
suscettibili di una risposta corretta, che le risposte corrette siano stabilite
in base a fatti morali oggettivi, che i fatti morali siano determinati dalle
circostanze reali e che, riflettendo moralmente, possiamo scoprire cosa sono
questi fatti morali.
Mackie
chiarisce la propria nozione di oggettività facendo riferimento anche alla tradizione
filosofica, chiamando in causa, come si è visto, le forme platoniche, la
nozione di imperativo categorico o le proprietà non–naturali di Moore, come
pure gli orientamenti analitici facenti capo al naturalismo – la dottrina che
equipara i fatti morali ai fatti naturali –
e al non–cognitivismo.
In questo
senso, l’autore dichiara esplicitamente che l’oggettivismo che egli ha in mente
non coincide affatto con il descrittivismo. Il riferimento al pensiero di Hare
sembra qui di nuovo evidente: per Hare, infatti, le principali forme di
oggettivismo, vale a dire l’intuizionismo e il naturalismo, sono solo varianti
del descrittivismo. Per Mackie, invece, il descrittivismo rappresenta una tesi
sul significato dei termini e dei giudizi morali, mentre l’oggettivismo
riguarda l’esistenza concreta, fattuale dei valori. Pertanto – scrive Mackie
–, “qualsiasi analisi del significato
dei termini morali che ometta di fare riferimento alla pretesa di
prescrittività intrinseca e oggettiva risulta incompleta; e questo è vero di
qualsiasi analisi non–cognitivista, di qualsiasi analisi naturalista e di
qualsiasi combinazione delle due”. (52)
Entrambe le prospettive, in sostanza, sia quella naturalistica, sia quella
non–cognitivistica, trascurano l’evidente autorità dell’etica, l’una escludendo
il valore imperativo e categorico, l’altra escludendo la pretesa di validità
oggettiva. (53)
Se
seguiamo Mackie e il suo percorso teorico dunque, ci ritroviamo ad avere ben
chiaro che cosa può significare la falsità del realismo in etica. Per chi si
ritiene antirealista in etica, può apparire convincente l’ipotesi di Mackie che
il pensiero ordinario, e il pensiero filosofico che di esso si fa interprete,
quando parla di valori morali e della loro autorità abbia in mente qualcosa di
non molto dissimile dalle proprietà non–naturali di Moore. È questo che rende
del tutto attuale e, a tratti convincente, la nota argomentazione di Mackie
sulla stranezza – the argument from queerness –.
6. Relativismo, sopravvenienza e stranezza
Per
dichiarata intenzione dell’autore, l’argomentazione della stranezza è preceduta
da un’altra argomentazione, con una grande tradizione filosofica, ritenuta
efficace nel ‘preparare il terreno’ ai passaggi successivi. Si tratta
dell’argomentazione della relatività, che, se pur presente in maniera cospicua
nel dibattito filosofico, nella forma in cui viene formulata da Mackie proviene
soprattutto dal lavoro di Westermarck del 1932 sul relativismo etico.
Nell’argomentazione della relatività, infatti, Mackie, come
Westermarck, non si ferma al dato antropologico del disaccordo culturale, ma si
impegna a dare ragione del relativismo sul piano metaetico: è il contenuto di
verità dei giudizi morali e la giustificabilità delle teorie etiche ad essere
relativo e non le convinzioni del singolo agente morale.
Il punto
decisivo dell’argomentazione, in linea con le riflessioni di Westermarck, riguarda
il modo in cui i vari gruppi sociali
reagiscono ai disaccordi e alle differenze culturali, vale a dire attraverso lo
sviluppo e il consolidamento di differenti modelli
di vita. Per Mackie, cioè il disaccordo sulle questioni morali sembra essere
solamente il riflesso dei vari ‘modi di vivere’ che i diversi gruppi sociali
sviluppano e consolidano, a partire da un differente modello di adesione
all’insieme dei costumi e dei comportamenti morali.
La connessione
causale tra i due quadri descrittivi, quello che riconosce differenti reazioni
comportamentali in una medesima situazione, e quello che evidenzia l’assenso a
vari modelli interpretativi, funziona nella direzione opposta a quella che
comunemente viene riconosciuta: non è il fatto che vi siano diversi modi di
percepire un’unica verità, uguale per tutti, bensì l’esistenza di diverse verità, l’adesione a diversi
modi di interpretare la realtà e, quindi, a tipi di vita che col tempo si sono
diversificati, a comportare giudizi discordanti e modi differenti di affrontare
le medesime questioni. “Le persone – ad esempio – approvano la monogamia perché
partecipano ad un tipo di vita monogamo, piuttosto che partecipare a un tipo di
vita monogamo perché approvano la monogamia”. (54)
Ritornano qui – in maniera simile – le
considerazioni di Mackie circa l’inversione nell’ordine di dipendenza riguardo
l’eliminazione della clausola condizionale negli imperativi categorici.
Per
Mackie, di conseguenza, è il riconoscimento dei vari modelli di vita a rendere
plausibile ed efficace l’argomento della relatività: “L’argomentazione della
relatività ha valore semplicemente perché le effettive variazioni dei codici
morali trovano una spiegazione più convincente attraverso l’ipotesi che esse
riflettano certi modi di vivere piuttosto che attraverso l’ipotesi che esse
esprimano percezioni di valori oggettivi,
per la maggior parte gravemente inadeguate e distorte”. (55)
Così enunciata,
l’argomentazione della relatività suggerisce un’obiezione assai nota, che lo
stesso Mackie non ha mancato di riconoscere: l’obiezione secondo la quale
l’oggettività dei valori non si afferma al livello delle singole e specifiche
regole morali, ma si costituisce attraverso alcuni principi basilari di natura
estremamente generale, i quali dovrebbero essere riconosciuti, almeno
implicitamente, nell’ambito di qualsiasi conformazione sociale.
L’autore,
tuttavia, risponde che “questi [principi] sono molto lontani dal costituire
l’insieme di ciò che viene attualmente affermato come essenziale nel pensiero
morale ordinario. Molto di questo è rappresentato piuttosto da ciò che Hare
chiama ‘ideali’ o, con espressione meno felice, ‘fanatismo’”. (56) Per ideali, Mackie intende qui semplicemente tutto ciò a cui
le persone comuni fanno riferimento, in modo immediato, nella loro esistenza
quotidiana.
Se questo
è il senso dell’affermazione di Mackie, l’obiezione dell’oggettivista verrebbe,
per così dire, evitata, in quanto il
fenomeno della variabilità dei codici morali, negato al livello dei principi
generali, può essere riaffermato nell’ambito dei sentimenti immediati degli
agenti morali. Per poter sostenere la validità dei principi generali, infatti,
l'oggettivista morale è costretto ad affermare che "è solo in questi
principi che il carattere morale oggettivo viene attribuito immediatamente al
suo specifico sostrato descrittivo: gli altri giudizi morali sono validi
oggettivamente, ma solo in modo derivato e contingente". (57) Se però riconosciamo che il cuore delle considerazioni morali
risiede negli ideali, l'oggettività (ammesso che venga provata) dei principi
generali non interessa e l'argomento della relatività continua a valere proprio
nell'ambito di tali ideali.
Negli ultimi passaggi, dunque, Mackie
sembra aver riconosciuto una certa legittimità all’obiezione dell’oggettivista,
limitandosi ad escludere da essa l’ambito etico degli ideali, senza con questo
impegnarsi a neutralizzare le critica da un punto di vista complessivo.
L’argomentazione della relatività, cioè, non sembra assolvere in maniera conclusiva
al proprio compito di difendere la soggettività dei valori, dato che in
definitiva ammette, per lo meno come plausibile, l’appello all’esistenza di
principi oggettivi e universali.
Consapevole
di questo, Mackie dichiara di impiegare tale argomentazione solo in funzione
preparatoria e introduttiva alla seconda, decisiva argomentazione a difesa
della propria interpretazione antirealistica, quella della stranezza.
Si tratta
di un’argomentazione che ha avuto molta risonanza nell’ambito degli sviluppi
contemporanei della riflessione metaetica, a motivo principalmente del riferimento
al tema della sopravvenienza e al fatto che essa ‘colpisce’ il realismo morale
sia negli aspetti metafisici, che nella tesi epistemologica e psicologica. Come
scrive B. Williams, se l’oggettivismo è costruito come una forma di realismo,
allora “Mackie ha ragione a scoprire l’errore”. (58)
Il tema
della sopravvenienza – circa la natura
del legame tra le qualità naturali e le caratteristiche morali di un
determinato fatto – costituisce un problema di cui anche Moore – sicuramente
uno dei principali obiettivi polemici dell’argomentazione di Mackie – si era
mostrato consapevole. Un tema che ha poi avuto una particolare rilevanza nel
dibattito più recente ed è stato elaborato in termini tecnici da S. Blackburn –
in Moral realism e altri scritti –,
il quale definisce la sopravvenienza come quel concetto che sta ad indicare che
determinati fenomeni di ordine inferiore provocano l’esistenza di altri
fenomeni di ordine superiore e così commenta: “La sopravvenienza – così definita
– diviene, per il realista, un fatto logico opaco e isolato, per il quale
nessuna spiegazione può essere offerta”.
(59)
Il valore
dell’argomentazione di Mackie emerge se seguiamo nel dettaglio i vari passaggi.
Infatti, anche se non lo dichiara esplicitamente, egli formula due versioni di
questa argomentazione, una relativa alle proprietà morali ed una relativa alle
loro relazioni con il mondo.
La prima
versione dell’argomentazione è focalizzata sulla stranezza che sembrano suscitare
i valori oggettivi e la facoltà mentale preposta al loro riconoscimento: “Se esistessero
valori oggettivi, essi dovrebbero consistere di entità, qualità o relazioni di
un tipo molto strano, completamente differente da qualsiasi altra cosa
nell’universo. Contemporaneamente, se noi fossimo consapevoli di essi, ciò
dovrebbe accadere mediante qualche facoltà speciale, o percezione morale o
intuizione, completamente differente dal nostro modo di concepire qualsiasi
altra cosa”. (60)
Le
qualità morali oggettive sono strane in
quanto dovrebbero esistere in un modo completamente differente da quello in cui
esistono le cose; questo poiché dovrebbe trattarsi non di fatti naturali, ma di
fatti morali, di cui però sarebbero sconosciute la natura e le modalità di
intervento e di comunicazione con la realtà circostante. Dal punto di vista
metafisico è l’esistenza dei valori
oggettivi ad essere strana, mentre, dal punto di vista epistemologico, strano è
il modo in cui veniamo a conoscenza
dell’esistenza di queste proprietà.
Questa
prima versione dell’argomentazione della stranezza trova una precisa corrispondenza
nella nozione metafisica di qualità non–naturali di Moore e nella peculiarità
epistemologica che gli intuizionisti hanno attribuito alla loro supposta
facoltà di intuizione morale. Per questo, Mackie ritiene che l’intuizionismo
sia l’unica teoria oggettivistica coerente con i propri presupposti e che anche
il senso comune, come si è visto, debba in qualche modo adottare una qualche
forma di intuizionismo per dare ragione della propria convinzione circa
l’oggettività dei valori: “La tesi centrale dell’intuizionismo è tale per cui
qualsiasi teoria oggettivistica riguardo ai valori è alla fine costretta ad
ammetterla [...] Quando ci chiediamo [...] come possiamo essere consapevoli della
autorità prescrittiva o della verità di queste premesse etiche distintive [...]
nessuno dei nostri modi ordinari di descrivere la percezione sensoriale, o
l’introspezione [...] o l’inferenza o l’analisi concettuale, [...] ci potrà
dare una risposta soddisfacente; uno ‘speciale tipo di intuizione’ è una risposta difettosa, ma è la risposta
alla quale l’oggettivista ben consapevole è costretto a ricorrere”. (61)
Ad avviso
di Mackie, però, l’oggettivista, a questo punto, sostenendo che un'impostazione
teorica di tipo non–oggettivo non è in grado di dare alcuna giustificazione
della conoscenza, non solo in campo morale, potrebbe così concludere: "Se
la conoscenza, che Price definisce come la facoltà in noi di distinguere la
verità, è anche la fonte di nuove idee semplici di così tanti tipi, non può
essere anche il potere di percepire immediatamente ciò che è bene e ciò che è
male, le quali sono caratteristiche reali delle azioni?". (62)
Mackie
ritiene che questa possa essere un'obiezione di un certo rilievo per la propria
argomentazione. La sua risposta deriva, in modo chiaro, da quella propensione
epistemologica e scientifica che abbiamo visto contraddistinguere
complessivamente il suo metodo di indagine. Egli si appella infatti ad una
spiegazione di tipo empirico:
"La sola risposta adeguata sarebbe quella di mostrare come, su basi
empiriche, noi possiamo elaborare una spiegazione delle idee, opinioni e
conoscenze che abbiamo di tutte queste questioni [...] Posso solo confermare la
mia opinione che spiegazioni soddisfacenti della maggior parte di questi
problemi possono essere fornite in termini empirici".
(63)
E,
facendo riferimento all’empirismo, decide di dimostrare il valore della propria
argomentazione appellandosi proprio all’autorità del pensiero di Hume. Secondo
Mackie, infatti, il pensiero di Hume sembra legittimare addirittura la necessità dell'argomentazione della
stranezza: "La necessità di un’argomentazione di questo tipo può essere ricavata
dalla riflessione intorno all'argomentazione di Hume secondo la quale ‘la ragione’
– nella quale egli include qualsiasi tipo di conoscenza così come qualsiasi
tipo di ragionamento – non può mai essere un movente determinante per il volere".
(64)
Mackie
suppone, a questo punto, che l'oggettivista intervenga nella questione obiettando
che “Hume ha argomentato ingiustamente a partire dalla mancanza di potere determinante
[...] nei comuni oggetti di conoscenza e nei ragionamenti ordinari” e sostenendo
“che i valori differiscono dagli oggetti naturali proprio per il loro potere,
quando viene conosciuto, di influenzare direttamente il volere". (65)
Per
rispondere a questa replica, a parere di Mackie, bisognerebbe ricorrere precisamente
all’argomentazione della stranezza: "Hume potrebbe e avrebbe bisogno di replicare
che questa obiezione implica la supposizione di valori–entità o
valori–caratteristiche di ordine abbastanza differente da qualsiasi altra cosa
di cui siamo a conoscenza [...] Vale a dire, egli dovrebbe integrare il proprio
esplicito argomento con ciò che io ho definito l'argomentazione della
stranezza". (66)
Ma c’è
una seconda versione dell’argomentazione della stranezza, che affronta la questione
da un punto di vista complementare al precedente: se, infatti, strana e
peculiare è la consistenza ontologica dei supposti valori oggettivi, strana
deve essere anche la loro partecipazione agli accadimenti del mondo circostante
e peculiare deve essere il loro modo di intervenire nella composizione del
carattere prescrittivo dei sistemi etici. E qui entra in gioco la nozione di
sopravvenienza: Mackie si chiede infatti “qual è la connessione tra il fatto
naturale che un’azione è un atto di crudeltà deliberata [...] e il fatto morale
che essa è sbagliata? Non può essere un’implicazione, una necessità logica o
semantica. E non è neppure semplicemente che le due caratteristiche si
presentino congiuntamente. Lo sbaglio deve avere un carattere in qualche modo
‘consequenziale’ o ‘sopravveniente’; l’azione è sbagliata perché è un atto di
crudeltà deliberata. Ma che cosa si intende, nel mondo, con questo ‘perché’? E come venire a conoscenza della relazione
che questa parola denota, se essa trascende il semplice fatto che azioni del genere
vanno incontro alla condanna sociale e anche alla nostra condanna personale,
forse in quanto abbiamo assorbito determinati atteggiamenti dal nostro ambiente
sociale?”. (67)
Dal punto
di vista metafisico, la relazione tra le qualità naturali e le caratteristiche
morali di un determinato fatto dovrebbe avere una sorta di carattere consequenziale o sopravveniente, ma tale carattere non sembra trovare una
giustificazione plausibile, dato che non si comprende in che modo le proprietà
morali potrebbero aggiungersi alle
proprietà naturali allo scopo di configurare un unico fatto omogeneo e conoscibile.
Dal punto
di vista epistemologico, Mackie evidenzia l’impossibilità di rinvenire una facoltà
speciale che possa rendere conto della nostra conoscenza del tipo di relazioni
che i valori oggettivi sembrano instaurare con il mondo: “Non è neppure sufficiente
postulare una facoltà, la quale ‘veda’ lo sbaglio: deve essere ipotizzato qualcosa
che possa cogliere ad un tempo le caratteristiche naturali che costituiscono la
crudeltà, lo sbaglio, e il misterioso legame consequenziale tra i due. In
alternativa, l’intuizione richiesta potrebbe essere la percezione per la quale
lo sbaglio sarebbe una qualità di ordine superiore appartenente a determinate
proprietà naturali; ma in cosa consiste questo appartenere di proprietà ad
altre proprietà, e come potremmo riconoscerlo?”. (68)
L’oggettivista
è costretto a supporre la necessità non solo di una facoltà che percepisca le
qualità morali, ma anche di qualcosa di ulteriore che possa cogliere contemporaneamente
le caratteristiche naturali, le qualità morali e il misterioso legame di tipo
consequenziale instaurato tra le due. Oppure è costretto a spiegare il modo in
cui una proprietà può appartenere ad un’altra proprietà e questa, a sua volta,
ad un’altra e così di seguito.
Data
l’evidente inadeguatezza di questo procedimento, per cui verremmo a moltiplicare
senza risultato conclusivo la serie delle entità necessarie per giustificare
l’impiego di valori oggettivi, sembra legittimo rifiutare definitivamente
l’esistenza di queste misteriose entità.
Per
rendere conclusiva la propria argomentazione, Mackie ha impiegato qui un elemento
ulteriore, non presente nella prima versione, vale a dire un punto di vista
critico simile al ‘rasoio di Occam’, secondo il quale deve essere condannato
l’errore di ‘moltiplicare le entità opportune oltre necessità’. (69) Il ruolo che tale criterio svolge all’interno
dell’argomentazione dell’autore è quello di un criterio metodologico – non
normativo – di indagine, qualificabile nella forma di un ‘principio filosofico
di economia postulatoria’, come lo definisce in Problems form Locke a proposito della constatazione dell’inutilità
delle qualità secondarie come ipotesi esplicative per il mondo fisico: (70) la sua efficacia dipende dalla
possibilità di discriminare tra postulazioni legittime e illegittime, dalla
capacità quindi di riconoscere in quale misura proprietà, relazioni o entità
possono o no essere indispensabili per un determinato quadro esplicativo. Un
criterio di economia guida
l’applicazione di questo principio: solo se il loro impiego risulta indispensabile,
solo se la richiesta è legittimata da necessità, possiamo procedere a postulare
queste proprietà, entità o relazioni per dare ragione, attraverso un procedimento
di spiegazione, di determinati fenomeni, situazioni o quadri teorici.
L’appello
al principio filosofico di economia postulatoria, all’interno
dell’argomentazione della stranezza, serve precisamente per negare la necessità
di postulare una peculiare facoltà di percezione morale, o certe relazioni,
come quella di sopravvenienza, per giustificare l’esistenza di valori
oggettivi, e, in definitiva, serve per negare la necessità di postulare i
valori oggettivi medesimi.
Anche
l’argomento della stranezza ha suscitato diverse perplessità, strettamente legate
ai presupposti che hanno guidato Mackie nell’identificazione della nozione di
oggettività.
J. Spoerl, ad esempio, ha messo in discussione la
validità dell’intera argomentazione della stranezza a partire dal ruolo che in
essa gioca il principio di economia postulatoria. Secondo Spoerl, infatti, tale
principio, invitandoci ad evitare l'errore di moltiplicare le entità oltre
necessità, assume una dimensione normativa, in quanto ci consiglia riguardo a
ciò che dovremmo fare e non riguardo a ciò che accade. Attraverso questo
principio verrebbe quindi espresso un 'valore', approssimativamente quello
della ragionevolezza conoscitiva, il quale "è, a sua volta, un aspetto di
un valore ulteriore, il valore della 'conoscenza'. La ragionevolezza teoretica
è un valore perché senza di esso la capacità degli individui di raggiungere la
conoscenza verrebbe seriamente compromessa". (71) L'argomentazione di Mackie risulterebbe, in tal modo, in
contrasto con la propria conclusione e, basandosi su di un principio che in
realtà è di carattere normativo, risulterebbe incoerente da un punto di vista 'performativo'. L'argomentazione si
baserebbe cioè su di una assunzione, il rasoio di Occam, che può essere vera
solo se la sua conclusione, la negazione dei valori oggettivi, risulta falsa.
La critica di Spoerl, vittima – come ho già
osservato – dell’aver trascurato la differenza tra valori epistemici e valori
etici, pone tuttavia in luce un punto importante, emerso più volte in queste
pagine, in relazione al fatto che la concezione dell’oggettività difesa da
Mackie sembrerebbe escludere dal mondo dell’etica il richiamo alla
ragionevolezza e alla razionalità come criteri di oggettività deboli, ma per
questo ritenuti più fecondi, nel comprendere l’articolazione interna del mondo
dei valori.
È difficile sostenere che Mackie non affidasse un
ruolo importante alla razionalità in etica: basti guardare alle sue
considerazioni circa il ruolo della razionalità strategica nel definire il
gioco morale che sottostà alle regole di cooperazione e allo sviluppo dei
sistemi convenzionali, così come basta essere coscienti dell’interesse – come
più volte ho osservato – antropologico della sua indagine sul pensiero morale.
In questa indagine, tuttavia, condizionato dal suo
empirismo e dalla sua propensione epistemologica nella ricerca filosofica,
quando guarda al pensiero morale, Mackie ha in mente il pregiudizio sulla
razionalità di Hume, secondo il quale “la ragione è la scoperta della verità o
della falsità. La verità e la falsità consistono in un accordo o in un disaccordo
o con le reali relazioni delle idee, o con l’esistenza e i dati di fatto reali.
Perciò qualsiasi cosa non sia suscettibile di questo accordo o disaccordo non
può essere né vera né falsa, e non può mai essere oggetto della nostra
ragione”, (72) e per questo non crede vi sia altra forma
di oggettività in etica se non quella da lui identificata come erronea.
H.
Putnam, invece, ha accusato Mackie di essere ‘cieco’ riguardo ai concetti etici
spessi, di cui ‘crudele’ è un buon esempio. Scrive Putnam: “Mackie rimane semplicemente
cieco nei confronti del problema. Per lui ‘crudele’ […] è soltanto una parola
che descrive un ‘fatto naturale’ ”. (73)
A parere
di Putnam, cioè, Mackie – poiché ritiene che l’idea di proprietà di valore
debba essere errata a causa della stranezza – insisterebbe semplicemente sul
fatto che i concetti etici spessi sono meri concetti fattuali e per nulla etici
o normativi. (74) E così conclude: “Caratteristico di
descrizioni ‘negative’ come ‘crudele’ […] è che per fare uso di esse con un qualche discernimento bisogna essere in
grado di identificarsi immaginativamente con un punto di vista valutativo”. (75)
Questo,
però, sembra proprio ciò che ha sostenuto Mackie a proposito della necessità di
parlare ‘dall’interno dell’istituzione’, assumendo come rilevante, nell’analisi
di pratiche come il promettere o di concetti spessi come ‘crudele’, il punto di
vista antropologico dal quale ci collochiamo: per poter far uso di concetti
come crudele dobbiamo preliminarmente aver aderito, mediante una decisione
sostanziale, all’istituzione morale, dobbiamo cioè “aver adottato certi
distintivi modelli di comportamento e l’averne rifiutato certi altri”. (76)
Dal suo peculiare punto di vista e nel
quadro complessivo della sua impostazione antirealista, Mackie, pertanto, può
giustamente concludere: "Lo scetticismo morale, [...] il rifiuto di valori
oggettivi, [...] ha bisogno di solidi argomenti contro il 'senso comune'. Le
considerazioni che sostengono lo scetticismo morale sono: primo, la relatività o variabilità di alcuni importanti punti di
riferimento a proposito del modo in cui pensiamo in morale e la loro apparente
dipendenza dagli attuali modi di vivere; secondo,
la peculiarità metafisica degli ipotetici valori oggettivi in quanto dovrebbero
essere intrinsecamente prescrittivi e direttivi per l'azione; terzo la difficoltà di spiegare in che
modo questi valori potrebbero essere sopravvenienti o consequenziali riguardo
alle proprietà naturali; quarto la
corrispondente difficoltà epistemologica di dare ragione della nostra
conoscenza di questi valori–entità o proprietà, e di spiegare il loro legame
con le caratteristiche naturali nei confronti delle quali dovrebbero essere
consequenziali; quinto la possibilità
di spiegare, nei termini di vari e differenti modelli di oggettivazione, di cui
rimangono tracce nel linguaggio e nei concetti morali, in che modo, anche se i
valori oggettivi non esistessero, gli agenti morali dovrebbero non solo
supporre la loro esistenza, ma altresì persistere fermamente in questa
opinione" (77)
7. “La moralità non è da scoprire, ma da inventare”:
un’eredità influente per gli sviluppi
più recenti della metaetica
L’ultima
considerazione offre lo spunto per chiarire il senso complessivo della proposta
antirealista di Mackie e per valutare i suoi influssi sugli sviluppi più
recenti della riflessione metaetica. Mackie, infatti, lascia in eredità l’onere
della prova circa l’inadeguatezza della sua analisi del pensiero morale,
poiché, come i tasselli di un puzzle
che si incastrano alla perfezione, ci ha fornito un’argomentazione a due
livelli – alla Hare – in cui trovano collocazione sia il realismo che
l’antirealismo. Il realismo etico – di primo livello –, pur esaminato nella sua
falsità, viene affermato come del tutto plausibile, in relazione a come siamo
fatti noi umani, e del tutto utile nel mantenere saldi ed efficienti i nostri
sistemi morali, al punto che ‘anche se i valori oggettivi non esistessero, gli
agenti morali dovrebbero non solo supporre la loro esistenza, ma altresì persistere
fermamente in questa opinione’. L’antirealismo – di secondo livello – spiega il
perché del realismo di primo livello: attraverso il proiettivismo e la pretesa
di oggettività, l’intero gioco morale viene ricondotto alle emozioni
retributive di Westermarck e alla
tendenza humeana della mente ‘ad espandersi sugli oggetti esterni’, a
determinare un quadro in cui “la moralità non è da scoprire, ma da inventare”,
poichè “dobbiamo decidere quali prospettive etiche adottare, quali posizioni
morali assumere“ (78) e in cui tuttavia,
eliminando la clausola condizionale dagli imperativi morali, ci affidiamo interamente
alla categoricità e all’autorità dell’etica.
Chissà,
forse il merito della teoria di Mackie è quello di insinuare nella mente del
realista il dubbio ‘ontologico’ che si debba andare oltre il primo livello. Se
concordiamo con Hare, ‘il grande contributo di J.L. Mackie all’etica è stato
quello di mostrare chiaramente l’assurdità del realismo’. Sicuramente, il
merito della sua teoria è quello di
invitare a riflettere criticamente sulla natura polivoca dell’indagine metaetica.
Note
(1) Cfr. T. Nagel, The
view from nowhere, pp. 139–144. Per i
riferimenti bibliografici completi dei testi citati in questa nota e nelle
successive rimando alla Bibliografia
finale.
(2) Si parla
al proposito di una nuova fase della riflessione metaetica, che, dopo essersi a
lungo concentrata sulle questioni semantico–linguistiche, pare tornare ad interessarsi
alla spinosa questione dell’oggettività dei valori morali, in cui converge il
confronto tra le posizioni realiste – internaliste o esternaliste – e antirealiste – soggettiviste e/o
non–cognitiviste–.
(3) J. McDowell, J.L.
Mackie 1917–1981, p. 8.
(4) Mi si permetta, per
questo, di rimandare a B. de Mori, Inventare
il giusto e l’ingiusto. Saggio sull’etica di J.L. Mackie.
(5) J. Mackie, Ethics,
p. 15.
(6) Ivi, p. 17.
(7) Ivi, p. 35.
(8) S. Blackburn, Errors
and the phenomenology of value, p. 2.
(9) R.M.
Hare, Il pensiero morale, p. 257.
(10) Hare, Nothing
matters, p. 40.
(11) Mackie, Ethics,
p. 18.
(12) Ivi, p. 35.
(13) Hare, Onthology
in ethics, p. 53.
(14) B. Russell, Is
there an absolute good?. Trattandosi di uno
scritto molto breve, aderisco al suggerimento di L. Fonnesu di omettere il
riferimento ai numeri di pagina.
(15) Ethics, pp. 31–32.
(16) Che Russell, per esempio
non sviluppi, nella produzione successiva, la prospettiva ‘realista’ basata
sull’errore ontologico non significa che egli la abbandoni perché non coerente
con la sua impostazione non–cognitivista. Egli stesso, del resto, scrive di
essere insoddisfatto, nel suo Reply to
criticisms. È lo stesso Mackie a citarlo, a proposito del fatto che
l’analisi concettuale relativa al linguaggio ordinario sembra rivelare chiaramente
una pretesa di oggettività: “Le proposizioni etiche – scrive B. Russell –
dovrebbero venire espresse nel modo condizionale, non indicativo […] Certamente
sembra esservi qualcosa di più […] Posso solo dire che, mentre le mie opinioni
sull’etica non mi soddisfano, quelle delle altre persone mi soddisfano ancora
meno” (B. Russell, Reply to criticisms
in P.A. Schilpp (ed. by), The philosophy
of Bertrand Russell).
(17) E. Westermarck, Ethical relativity, p. 8.
(18) Cfr., Ivi, p. 14.
(19) Ivi, p.
44. La citazione di B. Russell è da B. Russell, The analysis of mind, p. 263.
(20) Cfr. R. Robinson, The emotive theory of ethics.
(21) E. Westermarck, Ethical relativity, p. 46.
(22) D. Hume, Trattato sulla natura umana, I iii 14.
(23) S. Blackburn, Spreading
the world, p. 198.
(24) Westermarck, Ethical
relativity, p. 47. Il tema dell’illusione viene ripreso, quasi alla
lettera, da Mackie: “I nostri giudizi morali ordinari – scrive in Hume’s moral theory – in parte ascrivono
alle azioni e ai caratteri qualità e relazioni che esse indubbiamente
possiedono, le caratteristiche 'naturali’ [...] Ma i nostri giudizi vanno oltre
queste descrizioni naturali e sostengono che, come fatto di verità oggettiva,
certe cose devono o non devono essere fatte, che vi sono requisiti oggettivi in
favore o contro la possibilità di determinate azioni [...] Qui ciò che viene
ascritto è costituito da caratteristiche illusorie, e l'illusione è generata in un modo complicato attraverso l'azione
reciproca dei nostri sentimenti nelle situazioni sociali nelle quali l'illusione,
una volta stabilita e regolarmente impiegata nella comunicazione interpersonale
e nella condivisione delle opinioni, può giocare una parte importante e forse utile"
(Hume’s moral theory, p. 144).
(25) Hume’s moral theory, p. 72.
(26) Etichs, p. 41.
(27) Westermarck, Ethical relativity, p. 46.
(28) Ethics, pp.
29–30; corsivo mio.
(29) Ivi, p. 29.
(30) Mackie, dunque, non sembra aver frainteso, come a
volte è stato sostenuto, il pensiero kantiano: per lui, il punto focale della
nozione di imperativo categorico è che esso esprime una ragione per l’azione
incondizionata, indipendente da qualsiasi desiderio o richiesta soggettiva. È
questa forma di oggettività che Mackie rifiuta di accettare. Più che
un’interpretazione errata vi è una sorta di imprecisione terminologica, dato
che sembra accomunare sotto la denominazione di oggettivismo interpretazioni
differenti della realtà morale, trascurando – o non accettando, forse –, in
primo luogo, la differenza tra l’oggettivismo in senso debole, l’idea che sia
possibile una spiegazione razionale dell’etica, e il realismo, l’idea che i
valori morali in qualche modo esistano. Sembra quasi che Mackie oscilli tra la
convinzione che la teoria dell’errore sia rivolta contro ogni forma di
oggettività e la consapevolezza che il suo principale bersaglio polemico è il
realismo. Una maggior precisione terminologica, una più chiara distinzione tra
le posizioni considerate avrebbero forse permesso all’Autore di essere più
incisivo nella propria critica, ma, nondimeno, essa mostra il proprio valore
anche contro le forme più sofisticate di realismo morale.
(31) Ethics, p. 43.
(32) Westermarck,
Ethical relativity, p. 144.
(33) Così scrive,
nell’introduzione al volume sulla questione della causalità: “Come la intendo,
questa è una questione ontologica,
una questione riguardo a come il mondo procede […] Le questioni concernenti
l’analisi dei concetti o dei significati sono distinte dalle questioni relative
a ciò che è e a ciò che accade” (The
cement of the universe, p. 1).
(34) J. McDowell, J.L. Mackie 1917–1981, p. 8.
(35) Mackie, Truth,
probability and paradox, p. VII.
(36) Mackie, Contemporary linguistic philosophy, p.
20.
(37) R.M. Hare, Il
pensiero morale, p. 121.
(38) Hare, Onthology
in ethics, p. 47.
(39) Ibidem.
(40) Hare, Il pensiero morale, p. 119.
(41) Ivi, p. 108.
(42) J. Spoerl, Queerness and the objectivity of values. A
response to Mackie, p. 114.
(43) Hume’s
moral theory, p. 159.
(44) Ethics, p. 72.
Riguardo la dicotomia fatti–valori, Mackie quindi, dopo aver formulato le
debite precisazioni, dichiara di accettare la possibilità che, in giochi
linguistici del tipo di quello del promettere, vi sia derivazione di un
‘dovere’ da un ‘essere’: “da un insieme di giudizi descrittivi, puramente
fattuali, che non includono termini valutativi, è possibile derivare [...] giudizi prescrittivi di tipo morale. Si
deve ammettere che lo possiamo fare solo parlando dall’interno
dell’istituzione, ma questo può benissimo essere parte del linguaggio
ordinario. Queste derivazioni possono essere linguisticamente ortodosse: le
forme di ragionamento legate alle principali istituzioni morali sono state
incorporate nel linguaggio ordinario e nell’impiegare in modo normale parti di
tale linguaggio accettiamo implicitamente certe regole pratiche di
comportamento” (Ethics, p. 72).
Mackie sembra in sostanza difendere una versione moderata della Legge di Hume,
versione per cui è richiesto che il passaggio da un ‘dovere’ ad un ‘essere’
venga spiegato e non introdotto surrettiziamente, ma non che, in seguito
all’analisi, non possa in certi casi venire riconosciuto. (Cfr. Hume’s
moral theory, p. 62).
(45) J. Searle, How
to derive ‘ought’ from ‘is’, p. 109.
(46) Cfr. J. McDowell, Values
and secondary qualities.
(47) D. Hume, Trattato
sulla natura umana, p. 496.
(48) J. Locke, Saggio
sull’intelligenza umana, II viii 25.
(49) Problems
from Locke, p. 16; corsivo mio.
(50) Si veda tutta la proposta
avanzata da Mackie in relazione all’invenzione di una morale su basi
biologiche, sentimentalistiche e convenzionalistiche. Mi si permetta di
rimandare a B. de Mori, Inventare il
giusto e l’ingiusto, cap. IV e Id., Cosa
può fare la biologia per l’etica? La risposta di J.L. Mackie.
(51) D.O. Brink, Il realismo morale esternalista, p. 234.
(52) Etichs, p.
41.
(53) Queste osservazioni sono importanti anche per
ribadire in che senso la posizione di Mackie non sia riducibile al non–cognitivismo
e, in generale, all’indagine analitica.
(54) Ethics, p. 36.
(55) Ivi, p.37.
(56) Ibidem.
(57) Ibidem.
(58) B. Williams, Ethics
and the fabric of the world, p. 208.
(59) S. Blackburn, Moral
realism, p. III.
(60) Ethics, p. 38.
(61) Ivi, p.39.
(62) Ibidem.
(63) Ibidem
(corsivo mio).
(64) Ivi,
p.40.
(65) Ibidem.
(66) Ivi,
pp.40–41.
(67) Ibidem;
corsivo mio.
(68) Ethics, p.
41.
(69) Un altro elemento di tangenza con lo scritto di
Russell del 1922: in esso Russell scrive, a proposito del disaccordo in campo
morale, particolarmente evidente riguardo ai predicati ‘buono’ e ‘cattivo’:
“Dato che si può rendere conto dei fatti senza i predicati “buono” e “cattivo”,
il rasoio di Occam richiede che dovremmo astenerci dall’accettarli” (Russell, Is there an absolute good?). Tesi
provocatoria, quella di Russell, che però si colloca sulla linea delle
riflessioni di Westermarck circa la necessità di ricondurre il disaccordo in
campo morale alle emozioni retributive di approvazione e disapprovazione, e di
Mackie nell’individuare nel rasoio di Occam un criterio metodologico, di
‘economia ontologica’, da applicare per smascherare l’inutilità di postulare
l’esistenza di valori oggettivi.
(70) Cfr. Problems from Locke, pp. 19–20.
(71) J. Spoerl, Queerness And The Objectivity Of Value, p. 112.
(72) D. Hume, Trattato
sulla natura umana, III, 1.
(73) H Putnam, Fatto/valore.
Fine di una dicotomia, p. 45.
(74) Ivi, pp. 41–45.
(75) Ivi, p. 45.
(76) Ethics, p. 72.
(77) Ivi, p.
49.
(78) Ivi, p. 106.
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