Etica & Politica / Ethics & Politics, 2004, 1

http://www.units.it/etica/2004_1/CAPORALI.htm

 

 

 

Spinoza e la tolleranza

 

Riccardo Caporali

 

Dipartimento di Filosofia

Università di Bologna

 

 

Abstract

 

Spinoza and toleration

 

The author claims: 1) in Spinoza a classical idea of toleration, if traceable, has a marginal role: no logic of concession, the one that (in Thomas’ conception) allows the prince to resign to the different cults just like one may resign to the human vices and sins; and no toleration as an intermediate claim, in view of a fuller acknowledgement of the individual rights (Locke, Voltaire); 2) in Spinoza there is a clear idea of an underlying “patience”, which lays under political power; a kind of “continuous low”, with variations that become decisive within the raising of the «imperium»: a most peculiar and original thesis that originates from the core of Spinoza’s political thought, and that reverses the traditional roles of “tolerant” and “tolerated”, of one and many, of governor and multitudo.

 

 

 

1. Non c’è ormai studio, nella sterminata letteratura critica sulla «tolleranza», che manchi di sottolineare il rilievo di questo concetto nel lessico politico moderno e, insieme, il suo significato ambiguo, fluttuante (1). Un’obliquità per altro non imputabile – come invece di solito si afferma – alla caratura “negativa” che questa nozione prevalentemente assume, a indicare un atteggiamento di superiore, paziente “sopportazione” nei confronti del “non-uguale”, del “diverso-inferiore”: il gesto paternalistico in virtù del quale si tollera un male minore per evitarne uno maggiore (l’esplodere del conflitto), secondo una strategia che in ambito teologico-politico medievale ha il suo sistematico teorizzatore in Tommaso («sapientis legislatoris est minores transgressiones permittere, ut maiores caveantur» (2)), e che trova poi la più potente applicazione secolarizzata nel progetto moderno di costruzione di un nuovo, specifico sistema di potere, quello razionale-statuale. L’ambiguità, la “transitività” del concetto di tolleranza risiede piuttosto nella sua natura “inconclusa”, tale da rinviare continuamente altrove. Dal versante di chi tollera, si sopporta il “sopportabile”, ciò che si valuta prima o poi riconducibile a omologazione: il peccatore che potrà redimersi, il diverso per il quale si prevede una futura trasformazione in eguale, il restio che diventerà docile. La soglia del “tollerabile” implica così, da questo lato, anche quella dell’“intollerabile”, dell’irrecuperabile (3): le logiche del potere politico moderno muovono da un atto originario e definitivo d’inclusione (fisica e legale, di “spazio” e di “norma”), nel quale è immediatamente implicito un gesto non meno originario e definitivo di esclusione, di estromissione (4). Ma anche dal versante di chi teorizza e rivendica tolleranza la posizione è parimenti equivoca: in modo più o meno consapevole, si chiede tolleranza guardando a una meta che, anche quando la si continua a chiamare così, in essa propriamente non si conclude. Ovvio, in questo caso, il riferimento a Locke e a Voltaire: sia nella Epistola sia nel Traité, la tolleranza come sopportazione-indulgenza viene configurandosi nei termini di un’opzione parziale, di una dislocazione intermedia, in vista di nuovi rapporti tra lo “Stato” e l’“individuo”, verso il pieno riconoscimento dei “diritti” e delle “libertà” (5).

Spinoza appare estraneo a queste dinamiche della tolleranza. Filippo Mignini titola emblematicamente un suo saggio del ’91 Spinoza: oltre l’idea di tolleranza? (6). Prevalentemente incentrato sul versante teoretico e morale del pensiero spinoziano, si tratta di un sondaggio innovativo, forse il più importante tra i non molti esplicitamente dedicati all’argomento (7). Anche sulla scorta delle indicazioni di Mignini, tenterò qui qualche breve riflessione, da una prospettiva più squisitamente politica. Per anticipare le ipotesi che intendo affacciare: 1. In Spinoza non c’è l’idea classica di tolleranza, o vi ha comunque un ruolo molto marginale: non la logica «postribolare» della concessione, quella per la quale Tommaso vede il principe rassegnarsi ai culti diversi allo stesso modo in cui si rassegna ai bordelli e ai vizi umani (8); non la tolleranza come obiettivo intermedio, come (transitoria) rivendicazione-richiesta; 2. In Spinoza è però presente l’idea di una “sopportazione”, di una “pazienza” che corre sotterranea, che sta sotto al potere politico; una sorta di “basso continuo”, le cui variazioni risultano decisive, determinanti per il mettersi in forma dell’«imperium»: un’idea peculiare e originale, tale da rimandare al cuore della filosofia politica spinoziana, e nella quale si realizza una sorta di Umwälzung, di rovesciamento-capovolgimento dei ruoli tradizionali del “tollerante” (dell’uno, del sovrano) e del “tollerato”(dei molti, dei governati).

 

2. In un passo del XVII capitolo del Trattato teologico-politico, Spinoza afferma che la Natura «sane nationes non creat, sed individua» (9). Una «nazione» non si distingue dalle altre secondo «natura» ma «legibus scilicet et moribus», per il tramite di leggi e costumi acquisiti nel corso del tempo, e solo in virtù dei quali potrà derivare «la particolarità di una propria indole, di una propria condizione e infine di propri pregiudizi». Sulla base dell’identità spinoziana della «natura» con «Dio» e la «sostanza», questa de-naturalizzazione dell’idea di nazione vale anche nei termini della de-divinizzazione e della de-sostanzializzazione, avendo di mira, in particolare, la presunta eccezionalità della «elezione» (vocatio) del popolo ebraico (10) – quella stessa elezione che, circolarmente, si presenta a sua volta come l’ostacolo maggiore alla rappresentazione naturale-sostanziale, e non più personale-antropomorfa, del “divino”.

Scartate, per così dire, le «nationes», restano gli «individua». A prima vista, una tale opzione sembrerebbe aprire la via al pieno inserimento di Spinoza nell’alveo di quella moderna «rivoluzione copernicana» dell’etica e della politica che ricorrenti e consolidate partizioni storiografiche vedono soppiantare l’universale in nome del particolare, il collettivo per l’individuale, il composito per il nucleare (11). Il concetto spinoziano di «individuum», in realtà, si configura in termini non poco diversi da questi, individualistico-liberali, prevalenti nel pensiero moderno. L’individuo di Spinoza è almeno, per usare un’icastica espressione nietzscheana (ma rpima bruniana), di-viduo: «id, quod in alio est, per quod etiam concipitur» (12). L’«individuo» è un «modo», una modificazione-espressione della sostanza. A sbarrare la strada a qualsiasi ritorno all’olismo dell’antico, quest’ultima viene poi a sua volta risolta nella sua stessa «potenza», nella sua incessante, inesausta attività di produzione dei «modi»: causa sui eo sensu causa rerum (13). Un facere affrancato dal chiuso ordito teleologico del «cosmo» classico-medievale, perché un agire «in libera necessitate»: autonecessitato, dettato dalla sua intrinseca necessità; iscritto, o meglio proprio identificato con l’essenza, «quod in se est, et per se concipitur» (14), della sostanza. Una potenza enigmatica, che tutta e sempre si condensa in quella diffusa e molteplice delle «res singulares», nei loro «conatus sese conservandi», senza mai tuttavia in essi veramente concludersi; senza mai definitivamente costringersi in nessuna determinatio di nessun «modo». Riconducendoli a espressione necessaria di Dio (della natura-sostanza), il dispositivo metafisico spinoziano rende così, insieme, l’imprescindibilità degli «individua» e la loro “relatività”, quella costitutiva “relazionalità” che li mette in movimento e li problematizza fin dalla loro stessa essenza (15).

Lontana dal configurarsi per procedimenti autodeduttivi, la nuclearità della «res singularis» resta strutturalmente aperta, sempre riconducibile a un «altro» che in primo luogo – nel crogiuolo effettivo delle ex-sistentiae – assume il volto di tutti gli altri «modi», specie di quelli ad essa identici per genus. Tradotta in antropologia, la metafisica di Spinoza conduce così a un uomo multiverso, costruito per identità stratificate, flessibili, modulari, irriducibili alla compatta rigidità del «soggetto» moderno, ovunque se ne raccolga la consistenza, nel «cogito» cartesiano o nella «proprietà» lockiana, nella sudditanza hobbesiana o nella doverosità razionale-trascendentale kantiana. La vera dimensione del dispiegamento individuale appare qui quella della «moltitudine», agli antipodi della «solitudine», il male peggiore, la condizione nella quale, in assenza degli altri, non si è, inevitabilmente, neanche se stessi: «solitudinis metus» (laddove «metus» va oltre la «paura» e meriterebbe proprio la traduzione in «terrore» (16)). Una prospettiva dinamica e senza confini, che sviluppa incessantemente potenza: tanta più potenza quanta più relazione. Una prospettiva che non lascia spazi significativi alle logiche della tolleranza.

 

3. «E in verità, se tutto il segreto e tutto l’interesse del regime monarchico sta nell’ingannare gli uomini e nell’adombrare col nome specioso di religione il timore che serve a frenarli, così da indurli a combattere per la propria schiavitù come se combattessero per la propria salvezza e da far loro credere che, non solo non sia sconveniente, ma che sia il massimo degli onori il sacrificare il proprio sangue e la propria vita per la gloria di un sol uomo, nulla invece si può pensare né si può tentare in una libera repubblica che sia di ciò più assurdo; poiché ripugna assolutamente alla comune libertà il soffocare coi pregiudizi o il costringere comunque la libera opinione individuale» (17). Dal versante politico, l’antropologia spinoziana del modo e della relazione non produce tolleranza ma un’inclusione tendenzialmente illimitata e continuamente riposizionata, una sorta di circolazione mai conclusa, mai trattenuta e ingabbiata oltre la soglia di una definitiva e decisiva esclusione: anche se per vie opposte e con risultati completamente diversi, tali da annichilire-comprimere la potenza o esaltarla-accumularla; per totale assorbimento o per consapevole moltiplicazione.

 

3.1. «Per questo motivo, dunque, i re che una volta usurpavano il trono, per garantirsi l’incolumità cercavano di persuadere i popoli di aver derivato la propria stirpe dagli Dèi immortali […] Altri invece hanno potuto più facilmente diffondere la convinzione che la maestà è sacra, che fa in terra le veci di Dio, e che non è costituita dal suffragio e dal consenso degli uomini, ma è conservata e difesa da un atto singolare della provvidenza e dell’aiuto di Dio» (18). Legittimata da una fittizia differenza di natura, fatta «discendere» o «unta», chiamata-prescelta da divinità non meno fittizie (proprio perché costruite a immagine e somiglianza del «rex»), la monarchia è l’unico «regimen» capace di realizzare un totale condizionamento dei corpi e delle menti (19). All’origine della «superstitio», e carburante dell’integrazione che accetta gli attributi straordinari dei «reges» fino alla loro adorazione «tanquam Deos», è il timor, il metus: «La paura, dunque, è la causa che origina, mantiene e favorisce la superstizione»; «nulla riesce più della superstizione a dominare le masse [multitudinem (20). Il timore non solo è una «passione», qualcosa che accade in noi ma della quale noi stessi siamo solo una «causa parziale» (21), e quindi già in quanto tale riduttiva di potentia. «Cupiditas» tutta circoscritta all’interno del «male», desiderio cosciente di «evitare con un male minore un male maggiore» (22), il timore è tra le passioni più annichilenti, quelle che più indeboliscono la vis, che più frenano l’espansione e l’accumulazione del conatus. Quando effettivamente si realizza, la solidità della monarchia nasce dalla quieta assuefazione, dall’«inerzia» dei sudditi, guidati «come pecore per imparare soltanto a servire» (23). La tradizionale e proverbiale stabilità di questa forma dell’imperium è, in realtà, «schiavitù» e «barbarie» (24). Non vera «pace», «virtù» che al contrario nasce dal positivo di una forza (la «forza dell’animo»), ma solo «belli privatio», una mera «mancanza», una nuda «assenza»: se tale veramente fosse la pace, «nihil hominibus pace miserius» (25). Sotto il regime monarchico, l’irrinunciabile dimensione «in alio» dei «modi» (degli «individua») rinsecchisce nella spaventata reductio ad unum del «compiacimento» del re, fino a quella mansueta e venerante identificazione-sottomissione alla sua «gloria» che rende pronti al sacrificio e alla morte. Assimilazione, uniformazione, silenzio: «solitudo», ben più che «civitas» (26). E tuttavia uniformazione sempre e solo tendenzialmente assolutizzante, sempre e solo in qualche modo totalizzante: tale che unicamente «aliqua ratione posset concipi» (27). Il vincolo «in alio» costituisce ma non risolve, non conclude l’essenza del modo. Nessun “sé” può veramente annientarsi “in altro”. Finché semplicemente “esiste”, finché semplicemente persiste “in vita”, è implicito nel modo un residuo di “renitenza”, un margine di “resistenza”. Ne deriva, nel caso particolare di una monarchia declinante, quell’immobilità ribollente, quel circolo vizioso assuefazione-timore che precipita la multitudo da un tiranno a un altro: abituato alla passività, annichilito dall’autorità regia e da essa solo tenuto a freno, il populus «minorem contemnet, & ludibrio habebit»; e perciò, ove riesca a togliere di mezzo un monarca, dovrà «eleggerne un altro al suo posto, il quale a sua volta sarà, non spontaneamente, ma necessarimente tiranno»; se infatti costui vorrà essere veramente re, e non in balia dell’arbitrio dei più, dovrà «vendicare la morte del suo predecessore e dare a sua volta un esempio, affinché il popolo non ardisca di commettere ancora un tale misfatto» (28). Tra l’uniformità e il conflitto, nessun ambito realmente frequentabile, nessuno spazio veramente percorribile, per la tolleranza.

 

3.2. Al polo opposto (e positivo), la democrazia: la «multitudo integra», «libera», «communis»; un aggregato dei «modi» che, non diversamente da qualsiasi altro, ha sommo diritto su tutto ciò che effettivamente riesce a mantenere in suo potere (jus, «hoc est, ipsam naturae potentiam» (29)), ma la cui capacità produttiva risulta assolutamente e straordinariamente amplificata dalla sua natura, «omnino absoluta», di «coetus universus hominum», dal fatto che tutti gli «individua» che la compongono, di essa rimangono – secondo le celebri formulazioni di TTP, XVI – egualmente partecipi: «Nessuno trasferisce ad altri il proprio naturale diritto in modo così definitivo da non essere poi più consultato; ma lo deferisce alla parte maggiore dell’intera società, di cui egli è membro»; «in modo che ciascuno serva a se stesso e nessuno sia tenuto a servire il suo eguale […]»; «e per questo motivo tutti continuano ad essere uguali come erano nel precedente stato di natura». Anche questa forma dell’imperium è innervata da una logica d’inclusione illimitata, e non di tolleranza; e però un’inclusione che, a differenza e agli antipodi della monarchia (ma anche delle istanze monistiche di quella volonté générale roussoviana, che pure da essa riprenderà palesemente più di un’eco), si realizza nella pratica e nella moltiplicazione della relazione: aperta, mobile, interattiva, continuamente espandibile.

Emblematico il caso dei culti religiosi, proprio là dove più facilmente potrebbe configurarsi una certa contiguità con le procedure del tollerare. Spinoza, a prima vista, sembra far valere due istanze opposte, se non proprio contraddittorie. Da una parte, «coloro che detengono il potere politico» sono gli unici «interpretes» e «vindices» non solo del diritto civile, ma anche di quello religioso. «Dio non può essere concepito come un principe o come un legislatore» (30): affrancata dall’antropomorfismo e dal finalismo, la Sostanza (Dio, la natura) non esercita nessun potere personale, non impone alcun «regno» agli uomini, di là dalle pure leggi biologico-naturali cui essi sottostanno, al pari di qualsiasi altro essere vivente. Nessun potere, prima dell’imperium. E nessuno, pertanto, avrà «il diritto e il potere, se non per autorizzazione o concessione [ex eorum authoritate, vel concessu]» della summa potestas, «di esercitare il sacro ministero, di eleggerne i ministri, di determinare e stabilire i fondamenti della Chiesa e la sua dottrina, di giudicare intorno ai costumi e alle opere di pietà, di scomunicare o di ammettere qualcuno nella comunità ecclesiastica, e infine nemmeno di provvedere ai poveri» (31). Da un’altra parte: «nessuno può trasferire ad altri il diritto della religione, ossia del culto di Dio» (32); la religionis ratio non è «di competenza di alcun diritto pubblico né di alcuna pubblica autorità», sicché «la vera conoscenza e amore di Dio non possono sottostare ad alcuna imposizione di stato» (33). A costringerla dentro schemi e linguaggi non suoi, la posizione di Spinoza sullo ius circa sacra sembrerebbe raccogliersi nella tensione a un improbabile accostamento, a un impraticabile avvicinamento di due primati in realtà opposti e irriducibili, quello ontologico della sovranità hobbesiana e quello naturale-giuridico dell’individuo di Locke (34). Dietro evidenti assonanze di linguaggi e concetti, la filosofia politica dell’essenza-potenza prende in realtà strade sue, diverse e originali.

Intanto, il culto del quale le summae potestates si faranno garanti e propagatrici non sarà una confessione particolare, una peculiare e positiva professione di fede contro altre, altrettanto peculiari e positive. Chi detiene l’imperium è titolare e depositario dell’unica religio veramente catholica, la cui estrazione dall’esegesi biblica si configura come l’obiettivo di tutta la pars teologica del TTP: quella fides universalis (e quanto deisticamente rationalis!) da Spinoza ricondotta all’unico, semplicissimo fundamentum dell’esistenza di un «ente supremo, che ama la giustizia e la carità e al quale tutti, per essere salvi, debbono obbedire, e che tutti debbono adorare con il culto della giustizia e della carità verso il prossimo» (35). Per via d’obbedienza all’immaginazione profetica di un Dio ancora personale, che ordina e premia e condanna, il vero intentum, il vero scopo della Scrittura è quello di ricondurre al vincolo sociale (iustita & charitas) la maggior parte degli uomini, incapaci di attingere (e di vivere consapevolmente) quella metafisica della sostanza e del modo che proprio nell’imperium democraticum trova la sua massima, umana espressione. «Quae omnia evidentissime ostendunt, religionem reipublicae utilitati accomodatam semper fuisse» (36). La religione è prima di tutto moralità civile: come sempre, fino alla svolta del cristianesimo. Il dovere della giustizia e della carità assume una precisa configurazione solo nella norma positiva dettata dalla pubblica autorità: «Poiché, infatti, il comandamento divino ci obbliga ad esercitare verso tutti, nessuno escluso, il dovere della pietà e a non recar danno a nessuno, ne segue che a nessuno è lecito recare aiuto a uno con danno di un altro e molto meno con danno di tutto lo Stato; e che nessuno, perciò, può esercitare la pietà verso il prossimo secondo il comandamento divino, se non adegua la pietà e la religione all’utilità pubblica» (37). La dinamica dell’amore per il prossimo mostra in tutta evidenza, nella storia ebraica, questa nervatura politica della religio. Al tempo della riconquistata libertà e della costruzione dello Stato d’Israele, il comandamento dell’amor viene indirizzato esclusivamente al «socium» (col limite significativo di denunciare al giudice chi abbia trasgredito la legge e addirittura di uccidere chi sia stato condannato a morte), accompagnandosi all’odio per il nemico, volto a confermare e rafforzare, per negazione e contrapposizione, la nuova, acquisita indipendenza; in seguito all’avvento della cattività babilonese, Geremia comanda agli ebrei di «provvedere anche alla incolumità del paese nel quale erano stati condotti schiavi»; e Gesù Cristo, poi, prevedendo che sarebbero andati dispersi per il mondo, «insegnò loro di esercitare la pietà indistintamente verso tutti» (38). «Ecclesia simul cum imperio incepit» (39): vale per il popolo d’Israele e vale ovunque, nella classicità. Le dispute sui rapporti fra politica e religione nascono solo col cristianesimo, che ai suoi inizi fu divulgato «non dai re, ma da uomini privati», così da crescere parallelo e sostanzialmente contrapposto all’imperium, fino all’assurda, devastante pretesa di soppiantarlo nell’esercizio della sua stessa autorità (40).

La complessità del dispositivo teorico spinoziano sembrerebbe semplificarsi, per questo verso, lungo una strada analoga a quella di Hobbes, il cui «Common-Wealth», insieme «Ecclesiasticall and Civill», mira alla spoliticizzazione del problema religioso rivendicando al sovrano la prerogativa dell’interpretazione della Scrittura; una prerogativa risolta poi, a sua volta, nell’ammissione dell’unico, generalissimo e semplicissimo principio per il quale «Gesù è il Cristo», cosicché «tutto ciò che è necessario alla salvazione è contenuto in due virtù, la fede in Cristo e l’obbedienza alle leggi» (41). Sia pure con la differenza di una più ampia generalità, di una maggiore ecumenicità («giustizia e carità» versus «proclamare il Cristo» (42)), l’impianto argomentativo parrebbe in sostanza il medesimo. E invece è proprio a partire di qui, da questo superficiale terreno di comunanza, che le due vie si divaricano, fino a segnare i confini che molto nettamente separano la metafisica politica della potenza dalla neutralizzazione rappresentativa operata col Leviatano. «La professione verbale non è che un atto esteriore e quindi niente di più di un qualsiasi altro gesto con cui manifestiamo la nostra obbedienza; in ciò un cristiano, che mantiene salda in cuor suo la fede in Cristo, gode della stessa libertà che il profeta Eliseo concesse a Nàaman il Siriano» (43): il sovrano di Hobbes pretende conformità esterna al culto ufficiale e sopporta-tollera il segreto silenzioso dei cuori – posto che «la fede è un dono di Dio», tale da non poter essere né data né tolta dall’uomo «con promesse di ricompensa o minacce di tortura» (44). L’antropologia filosofica del «modo» e della «relazione» non può accogliere una soluzione come questa, perché affatto estranea ai suoi presupposti, primo fra tutti quella rigida codificazione, quella netta separazione di pubblico e privato, di collettivo e individuale, sulla quale esclusivamente tale soluzione può edificarsi e praticarsi. Laddove lo ius si misura esclusivamente in potentia, tra il pubblico e il privato, tra il politico e il civile nessun muro potrà mai davvero erigersi, nessun recinto mai davvero segnarsi in modo tale da risultare effettivamente (e quindi giuridicamente) invalicabile. Rapporto mobile di forze-potenze, nella versione massimamente duttile e accumulativa della respublica libera il potere politico spinoziano riposiziona e ridistribuisce continuamente se stesso (45). Da una parte, allora, la summa potestas decide dei «facta», delle conseguenze civili degli atti compiuti in società, in virtù di un’autorità che implica insieme forza coattiva e spontaneo consenso, quel comune senso morale della necessità-inevitabilità del vivere, appunto, in società, nel quale sostanzialmente s’identifica lo spirito repubblicano, per così dire, della «catholica fides». Da un’altra parte, proprio la esplicita natura “relativa”, proprio la struttura aperta e malleabile dell’imperium democraticum (al quale si “conferisce-trasferisce”, continuando tuttavia a “farne parte”), fa sì che questa peculiare forma del potere non solo non reprima o comunque mal sopporti il “particolare”, ma necessariamente lo accolga e l’ammetta come una sua stessa dimensione costitutiva. I culti non «cattolici» non sono, allora, il frutto di una paziente e più o meno implicita «concessione» dell’imperium, ma l’esercizio di un «diritto-potenza»: realtà dotate di una «vis» capace di ottenere riconoscimento nell’ambito di quella «giustizia e carità», nell’ambito di quella comune «cittadinanza» che ne prevede (ne contiene) l’esplicazione e che, di converso, queste stesse realtà contribuiscono a mantenere sulla soglia di una permanente elasticità, di una mai definitivamente preclusa riplasmabilità. In polemica con le ambizioni monarchiche degli orangisti e le rivendicazioni egemonico-confessionali calviniste, Spinoza innalza apologeticamente la (storicamente limitata) libertà neerlandese all’altezza del modello teorico suo proprio: «Poiché dunque è toccato a noi questo raro privilegio, di vivere in una Repubblica in cui è consentita a ognuno piena libertà di giudizio e la facoltà di onorare Dio secondo il proprio criterio, e dove nulla è stimato più caro e prezioso della libertà, ho ritenuto di non far cosa ingrata o inutile dimostrando che questa libertà non soltanto è compatibile con la religione e con la pace dello Stato, ma anzi non può essere soppressa senza pregiudizio della stessa religione e della stessa pace dello Stato: la dimostrazione di questo principio costituisce il principale intento del presente trattato» (46).

«Finis ergo reipublicae revera libertas est» (47). L’obiettivo è una «libertà» non circoscritta negli schemi liberali del diritto (naturale-individuale) a una sfera d’autonomia e d’indipendenza dal potere politico. Da questo versante c’è semmai in Spinoza, come s’è visto, la constatazione dell’impossibilità di sciogliere la nuclearità del «modo» nell’insieme delle relazioni che pure necessariamente lo costituiscono: è impossibile che l’animum di ciascuno «soggiaccia assolutamente all’altrui diritto», poiché nessuno «può, né può essere costretto a trasferire ad altri il proprio naturale diritto, e cioè la propria facoltà di ragionare liberamente e di esprimere il proprio giudizio intorno a qualunque cosa»; tutto questo, infatti, rientra nell’ambito dello jus individuale, «al quale nessuno, anche se lo voglia, può rinunciare» (48). Solo virtualmente (saltem) ipotizzabile nell’imperium monarchicum, il totale condizionamento delle «teste» e dei «palati» risulterà affatto inconcepibile in quello democratico, «dove tutti, o la maggioranza del popolo, detengono il potere» (49). Il modo-uomo non può vivere senza pensare. Per quanto comprimibile e influenzabile, la sua facoltà di cogitare resterà pur sempre un ostacolo, anche solo minimo, alla possibilità di comprimere e d’influenzare. La «iudicandi, & sentiendi libertas» è «uniuscuiusque ius» in quanto dato di fatto: non diverso dal conatus; identico al persistere nell’esistenza del modo.

Costringere uomini che la pensano in maniera diversa ad esprimersi «nihil tamen nisi ex praescripto summarum potestarum», è un tentativo destinato a sicuro fallimento: «nemmeno i più accorti (peritissimi), infatti, per non dire del volgo (plebs), sanno tacere» (50). La «respublica» richiede il rispetto «esterno» delle leggi, la conformità alle norme comuni, dal versante delle sole «azioni», insieme imponendola con la forza coattiva e assecondandola con l’alimentazione della moralità civica. Laddove, come solo avviene in democrazia, la «cosa» sia veramente «pubblica», tale cioè nel senso di un’inclusione spinozianamente «assoluta» (retta da una dinamica delle “forze” che renda impossibile eccezioni, parziali o totali esautorazioni), la libertà di pensiero e di culto non può tuttavia concepirsi nei limiti del particolare, garantito o concesso (sopportato) dall’universale: «Così, per esempio, se qualcuno dimostra che una legge è contraria alla sana ragione e quindi ritiene che debba essere abrogata, e insieme sottopone questo suo parere al giudizio della somma potestà (alla quale soltanto spetta di promulgare e abrogare le leggi), e intanto nulla fa contro il disposto della legge stessa, egli è benemerito dello Stato, né più né meno di ogni altro ottimo cittadino» (51). Questo «ragionare e obbedire» guarda preventivamente ben più lontano dell’orizzonte chiuso nel quale si iscrive l’analogo motto federiciano-kantiano, rigidamente tenuto sotto tutela da un dispotismo che, sperandosi illuminato, ci si può solo auspicare come evolvibile nella direzione di quel che in seguito s’incomincerà a chiamare «Stato di diritto». La republica libera di Spinoza è semmai – per attenersi a tale terminologia, ovviamente non sua – «Stato democratico di diritto». Tesaurizzandola nell’unità della civitas, l’autentica democrazia trasforma in “valore” l’inevitabile molteplicità, l’insuperabile diversità che sempre attraversa gli umani aggregati. Si tratta di una soluzione costitutivamente “precaria”, strutturalmente instabile, tanto che nessun imperium è mai stato «meno duraturo di quelli popolari, ossia democratici», e in nessun altro si sono «prodotte tante sedizioni» (52). E tuttavia si tratta anche della soluzione più capace di accumulare «potentia», perché la più consona al carattere insieme nucleare e relazionale (individuale e sociale, razionale e passionale, collaborativa e conflittuale) degli uomini-modi: «se è vero che mentre i Romani deliberano Sagunto perisce, per contro, mentre pochi decidono tenendo conto solo delle proprie passioni, perisce la libertà e il bene comune; le facoltà intel­lettuali del­l’uomo sono infatti troppo deboli per poter penetrare d’un colpo ogni cosa; ma consultandosi, ascoltando, e discutendo, esse si affinano, e, a furia di tentare tutte le soluzioni, trovano alla fine quelle volute, che tutti ap­provano, e alle quali prima nessuno avrebbe pensato» (53). La democrazia accoglie al tempo stesso la necessità della mediazione (l’opportunità della “istituzione”: della norma, della regola, dello “Stato”) e il suo fondamento immediato, pur sempre riconducibile alla mobilità delle forze, alla dinamicità delle forme, alla liquidità dello “stare” e dell’“istituire” (54). Sul filo lungo il quale sempre si sommano o si confondono il rischio e l’opportunità, la respublica libera muove da una logica perennemente inconclusa di “relazione” e “riconoscimento”. Una logica affatto lontana da quella rigida e ossificata della mera sopportazione.

 

3.3. Forse solo l’imperium aristocraticum – forma (facies) estranea alla struttura deuteragonistica, polemicamente bipolare del TTP, e della quale Spinoza si occupa esclusivamente nel TP – opera per procedimenti e meccanismi in parte avvicinabili alla logica della tolleranza. A partire dal suo principio fondativo, riconducibile alla netta separazione dei patricii dalla plebs, in virtù di una «imperii constitutio» per la quale il potere politico «soli Optimates ut suum vendicant, conservantque» (55). La solidità di questa variante dell’imperium si basa tutta sulla salda tenuta di tale distinzione, che viene pertanto chiamata ad esprimere la “superiorità” degli ottimati in ogni momento della vita associata, dall’esercizio del governo agli aspetti più esteriori e banali dei costumi quotidiani: «i patrizi devono presentarsi vestiti in un modo particolare, con un abito che li faccia riconoscere; vanno salutati con un titolo particolare, e i plebei devono cedere loro il passo» (56). A evitare il pericolo che «in sectas dividantur», sarà soprattutto necessario che i patricii seguano la «catholica» e «sumplicissima religio» (la stessa tratteggiata nel TTP), della quale saranno gli unici ministri e sacerdoti, nei grandi e centrali edifici ad essa appositamente riservati. Agli «addicti» di altri culti dovranno invece permettersi solo chiese periferiche, di piccole dimensioni e «in luoghi abbastanza distanti gli uni dagli altri»: prescrizioni vicine, com’è evidente, allo spirito tradizionale della tolleranza – e marcate, tra l’altro, da ulteriori restrizioni di non poco conto, prima fra tutte la proibizione dei «magni conventus», dei grandi assembramenti (57). E tuttavia: «Ad religionem quae spectant, satis prolixe ostendimus in Tract. Theologico-Politico». Il principio di fondo, in ogni caso, resta esplicitamente quello del TTP: la concretizzazione, la specificazione in forme plurali e positive della fede universale non è una concessione (mal) sopportata, bensì un’articolazione essenziale della respublica; non un’elargizione, un’eccezione parziale e contingente, ma una regola, da coniugare/limitare sull’unico metro delle sue possibili conseguenze civili. Esclusi dallo jus pubblico, i plebei sono titolari di quello privato, secondo una strutturazione della civitas che esclude sopportazioni e prevede, appunto, diritti, a cominciare da quello prezioso e imprescindibile della «dicendi libertas» (58) .

Non basta. A correggere e mitigare, all’altezza dell’imperium aristocratico, l’impressione di un ricorso spinoziano alla declinazione tradizionale della tolleranza, vale, fin dall’inizio, il nucleo essenziale della procedura sulla quale quello stesso imperium si costituisce: «Lo stato aristocratico, abbiamo detto, è quello che è governato non da uno solo, ma da alcuni selezionati entro il popolo [ex multitudine selecti] […] Dico espressamente, governato da alcuni selezionati. Questa è infatti la differenza principale tra questo stato e il democratico: nello stato aristocratico la facoltà di governare dipende dalla sola elezione, mentre nel democratico dipende da un certo qual diritto innato, o acquisito per fortuna» (59). Anima del miglior funzionamento dell’aristocrazia (del suo più efficace “dover essere”, giusto il taglio da “scienza politica” che caratterizza l’ultima fatica spinoziana) è la cooptazione, volta a determinare quel ricambio del personale di governo, quella “circolazione delle élites” che, quando davvero si realizzasse per meriti e capacità, renderebbe eterno e assoluto il potere dei “migliori” – in qualche modo ridimensionando, al tempo stesso, il senso e la portata della differenza e delle gerarchie tra i due ordini. Non appena si consideri la «praxin, seu communem hominum conditionem», si scopre però che nella realtà le cose procedono diversamente: «Per i patrizi infatti i migliori saranno sempre i ricchi, o i loro più stretti congiunti, o gli amici. Certamente se i patrizi fossero così fatti da eleggere i colleghi patrizi con l’animo sgombro da affetti e sotto il solo impulso dello zelo per la pubblica salvaguardia, nessuno stato reggerebbe al confronto con l’aristocratico. Ma l’esperienza ha mostrato a più e più riprese che le cose stanno ben diversamente, specialmente nelle oligarchie, dove l’arbitrio dei patrizi, in mancanza di concorrenti, è sciolto da qualsiasi vincolo legale» (60). Se la costituzione formale-razionale (spinozianamente formale-razionale) dell’aristocrazia esclude tolleranze, la sua versione materiale, la sua pratica effettuale non può invece evitare d’introdurle e frequentarle, anche se – è una cruciale peculiarità spinoziana – dal versante non dei pochi, dei governanti, ma dei molti, dei governati: saranno infatti pur sempre i comandati a sopportare il peso maggiore di un allentamento della «iustitia», a subire le conseguenze negative di una deroga ai princìpi della publica salus compiuta, da coloro che comandano, «ex affectu», sotto la spinta delle passioni: «i patrizi allontanano di proposito i migliori dal consiglio, e si cercano dei colleghi consiglieri che pendano dalle loro labbra, così che in uno stato del genere la situazione è assai più miserabile che nell’altro [= nel democratico], tanto più che l’elezione dei patrizi dipende dal libero e assoluto arbitrio di alcuni, sciolto da ogni legge» (61). La separazione sulla quale si regge il potere dei migliori finisce per comprimersi in quella pazienza degli esclusi che tiene perennemente lo stato aristocratico sulla soglia di una condizione esplosiva. E che idealmente introduce ai livelli più profondi dello spinoziano, politico tollerare.

 

4. La parola «tolerantia» compare negli scritti di Spinoza una sola volta (62), riferita non a chi detiene il potere, ma allo spirito libero che paga sul patibolo la libera professione delle proprie idee: «Che cosa è più pernicioso, dico, che il considerare come nemici e il mandare a morte questi uomini, non perché siano scellerati o delinquenti, ma soltanto perché sono di spirito liberale, e trasformare così il palco di morte, terrore dei malfattori, in una tribuna nobilissima, sulla quale si offre, a onta e a vergogna della sovrana maestà, un saggio sublime di tolleranza e di virtù?» (63). In quest’unica ricorrenza, il termine corrisponde palesemente al significato originario: prima e più che la concessione o la rivendicazione (l’indulgenza o la richiesta), «tolleranza» indica qui la “pazienza” verso qualcosa di nocivo; ma una pazienza, una sopportazione, che riguarda non il governante (il sovrano, la summa potestas), bensì i governati (i “soggetti”, i subalterni). Al di là del merito contingente e del contesto nel quale si pone, questo isolato ricorso del lemma raccoglie, paradigmaticamente, gli ingredienti essenziali della peculiare declinazione concettuale che la tolleranza – ben oltre l’esplicita presenza letterale – assume in Spinoza.

In termini hobbesiani, una qualsiasi forma di “sopportazione dei (da parte dei) governati” appare concettualmente improponibile. Venuta meno ogni gerarchia di natura, dettata dalle regole del kosmos, dalle armoniche proporzioni di un universo ordinato; ritrattosi dalla storia del mondo un Dio capace di imporre ruoli e mansioni; una volta che gli uomini non appaiano diversi per legge di natura o per volontà dei cieli, l’eguaglianza che ne consegue assume in Hobbes una configurazione meramente negativa-annientativa. Lo «stato di natura», la «natural condition of mankind» (64) non è qualcosa di preciso, di caratterizzabile, di entificabile, ma un coacervo informe di tensioni annichilenti, di pulsioni (di «passioni») distruttive e autodistruttive. Un “nulla”, sul quale si erge l’ordine assolutamente artificiale e contronaturale del Leviatano, il Dio mortale. Ordine bifronte, non appena se ne tengano ferme tutte le complesse implicanze: immediato e contingente, frutto di “eccezione” e “decisione”, alla sua origine; mediato e razionale (“pattuito”) a regime, nel suo standard normale-ottimale di funzionamento (65). L’esito è la struttura binomiale della modernità politica. Da una parte, lo Stato: “formale”, perché produttore di “forma” nel vuoto dell’informale, nel caos della natura; e perché esso stesso forma (artificio) assoluta, irreversibile, irresistibile, ontologicamente preliminare e prioritaria a ogni altra determinazione dell’essere civile. Da un’altra parte, l’individuo: ancora monadico e possessivo, aggressivo-competitivo, ma già addomesticato, già messo in moto come «soggetto» (come civis); posto in essere, in quanto «rappresentato», dal «rappresentante», da quel sovrano la cui unica “fondazione” si raccoglie in questa sua stessa “funzione” del rappresentare (del formare e assicurare) i rappresentati. L’individuo e lo Stato stanno e cadono insieme, senza alcuna possibilità di residui o di reciproche resistenze – che non siano scorie meramente esterne, attardate permanenze nei congegni della macchina moderna.

Spinoza, come s’è brevemente indicato, anticipa sul piano metafisico questo automatismo: una mossa teorica che apre all’insopprimibile positività della natura come «potenza» (66). La loro irresolubile reciprocità, la loro indeclinabile identità-diversità con la «substantia» alimenta l’universale concatenatio dei «modi», li costituisce per relazione (in sein alio), rendendo inattaccabile il pieno dei conatus, il continuum delle forze. Pur restando estranea all’armonia teo-teleologica dell’antico, la «natura» esclude da sé, in questo modo, anche l’abisso, il buco nero hobbesiano del vuoto. Ne deriva, infatti, un’articolazione anti-individualistica, per così dire, di quella individualità che, quando rimanga chiusa in se stessa, finisce inevitabilmente per rivestirsi di un’essenza unilateralmente scandita: negativa-passionale in Hobbes (tendenzialmente pre-destinata all’annientamento del conflitto, fino a quando non si realizzi l’atto teologico-politico che dal nulla crea l’ordine), positiva e razionale in Locke, aperta a una composizione collaborativa resa possibile da una visione ancora creazionista e antropocentrica, tale da reggere e alimentare l’essenza proprietaria, il «diritto naturale» di ciascuno (67). In Spinoza, la “doppiezza” del modo (espressione, non si dimentichi, liberamente necessaria della sostanza: tale quindi da non potersi dare come “singolo” senza “l’altro”, senza la natura, gli altri modi) ne salva la priorità, evitando di anticiparne il conatus (lo sforzo-potenza alla permanenza in vita) con una nuova, più o meno nascosta variabile essenzialistica. La connexio ontologica che innerva le «res singulares» può così inglobare la concordia e il conflitto senza assolutizzazioni estremizzanti. La natura relativa dei modi implica la societas ma esclude ogni sua unilineare configurazione. Mai la pura negatività della passione, se non altro perché l’essere resta pur sempre un agere, e anche la paura un’espressione – per quanto la più esposta, la più debole – della «potentia». Ma nemmeno la sola ratio, l’azzeramento di ogni opposizione, nel vincolo costitutivo con l’altro risuonando sempre, più o meno forte, l’eco di un qualche patire. A stretto contatto con le sue scansioni più squisitamente filosofico-politiche, nell’ultimo trattato spinoziano è la nozione di «multitudo» a raccogliere questa dimensione di antropologica interattività (68).

Aggregato di uomini, la cui natura di modificazioni della sostanza li rende unici e intersecati (“assoluti” e “relativi”, irripetibili e interdipendenti), la «multitudo» realizza con l’imperium un rapporto a triplice caratura concettuale. Globale espressione degli incroci tra i conatus, essa contiene, in primo luogo, anche il potere: sia nel senso che anche il diritto-potenza della potestas non si distingue – per «natura», per origine-essenza – da qualsiasi altro diritto-potenza, l’ordine politico dovendo sussumersi, non diversamente da tutti i modi, nello sforzo-tensione alla permanenza, alla perseveranza di sé nell’esistenza; sia, e soprattutto, perché è pur sempre la moltitudine a costituire il potere: «jus civitatis communi multitudinis potentia definitur» (69). Quanto alla sua essenza, la forza-potere dello Stato (il suo «diritto») non è altro che la forza-potenza della multitudo: dell’intera, della «communis multitudo». La «multitudinis potentia» non definisce una sola forma dell’imperium: «jus, quod multitudinis potentia definitur, imperium appellari solet» (70). Ogni specie di diritto comune-statuale rimanda, direttamente o indirettamente, alla moltitudine: a una maggiore o minore potenza (a una forza o a una debolezza, a un’espansione o a una restrizione) della moltitudine. Coerentemente all’antropologia filosofica spinoziana, prima e alla base di tutte le particolari configurazioni dell’ordine politico opera questo principio, questo fattore di democrazia costituente. Incrocio del comandare e dell’obbedire, la politica è per sua stessa natura “relativa”. Per gli uomini-modi, qualsiasi tipo di convivenza ordinata richiederà necessariamente un qualche livello (più o meno esteso, esplicito, spontaneo, coatto) di generale consenso, di universale convergenza.

La potestas si fa sempre anticipare dalla multitudinis potentia, che la de-finisce e la limita. E tuttavia – è il secondo pilastro sul quale si regge l’architettura filosofico-politica del TP – quella stessa potenza verrà pur sempre dispiegata, verrà pur sempre orientata e accertata dalla potestas: «il diritto dello Stato, ossia del potere sovrano, non è altro se non lo stesso diritto di natura, determinato dalla potenza non di un singolo, ma del popolo (multitudo), come guidato da una sola mente» (71). Posto che l’ontologia della causa-potenza implica insieme l’assolutezza e la relatività delle «res singulares», la nozione di «multitudo» raccoglie, all’altezza del TP, lo “spazio comune” delle umane determinazioni, il luogo d’intersezione degli uomini-modi. Imprescindibile per le res – e tuttavia «modo», non sostanza, non causa sui – questo ambito globale di relazioni assume costanza e garanzia solo in quanto dal “potenziale” mobile e relativo, nel quale esso consiste, emerge continuamente una forza in atto, una vis dispiegata che ne consente comunque l’effettivo operari, l’autentica positività, il facere produttivo (72). Identico a ogni altra res nel suo “principio” (nella sua natura di «modo»), l’imperium se ne distingue quanto alla sua “funzione”: «fabrica» affatto speciale, ars di relazioni tra uomini, il potere esiste per se stesso (in se) nell’unico e identico momento in cui regge (governa, assicura, alimenta) la potenza dei modi (in alio). Lo jus della «summa potestas» procede dalla «multitudinis potentia»; ma la «multitudinis potentia» si diffonde a sua volta a partire dall’unità, dalla direzione accomunante della «summa potestas»: una veluti mente. La moltitudine si configura come il luogo di costituzione del politico, che per parte sua si presenta come l’ambito di determinazione e di espansione della moltitudine. Proprio questa reciprocità – che in qualche maniera traduce in politica il vincolo metafisico della «sostanza» con le «res singulares» – alimenta quell’eccedenza nella quale si raccoglie il terzo movimento del rapporto, e il senso essenziale dello spinoziano “tollerare”.

«L’urgenza della questione indusse ad escogitare molti rimedi, ma non si giunse mai a impedire che i cittadini rappresentassero per il loro governo una minaccia più grave degli stessi nemici, e che i governanti non temessero più quelli che questi» (73). Il pericolo maggiore per la civitas proviene sempre dai cives e dalla loro “pazienza”, l’arsenale più esplosivo per lo Stato: «haec potestas non sola agentis potentia; sed etiam ipsius patientis aptitudine definiri debet» (74). La “sopportazione” della multitudo rappresenta insieme la condizione d’esistenza e il pericolo mortale dell’imperium. La potestas nasce dalla potentia e la codifica: la fissa in jus (in legge positiva); ne riduce a “costituzione” il sempre instabile “costituirsi”; nello stesso tempo e sotto le stesse condizioni, la reprime e la diffonde, la limita e la espande. Così ordinandosi nell’imperium, la moltitudine (per ciò stesso) costitutivamente lo eccede, lo supera e lo attenta. La pluralità, la mobilità, la versatilità della potenza sopporta l’unità, la fissità, la stabilità di quel potere che essa stessa produce ma nei confronti del quale non può non esprimere una carica eversiva permanente. Rispetto alla “rimozione” formalistica hobbesiana (l’istantaneità dell’unione e della sottomissione, l’assoluta contemporaneità dell’accordo di “ciascuno con ciascun altro” e del “cedere a un terzo”), Spinoza mette a tema questa dimensione collettiva e connettiva dell’ordine politico, comunque in azione, anche là dove appare più contratta, ridotta al mero “patire”, al tollerare “paziente” (più o meno “impaziente”). Capovolta, rispetto alle logiche prevalenti e vincenti della modernità, «tolerantia» vale in questo caso per l’altra faccia del potere, per il reciproco del comando, a tenerne salda la natura relativa, quella meno guardabile perché la più incerta – ma pur sempre cruciale e decisiva – dell’imperium e dell’umana potenza.

Substrato di ogni convivenza, il facere costituente della multitudo regge a diversi gradi la codificazione dell’imperium, la concretizzazione positiva della forma politica. Ed è proprio il livello maggiore o minore di tolleranza a decidere la “qualità”, l’identità della facies. Nella monarchia (in versione TTP) la sopportazione è massima, tale da implicare il massimo annichilimento di sé – restando tuttavia fermo che mai l’alienazione risulterà tale da far «cessare di essere uomo»: anche l’aptitudo patientis è forza, energia, reattività potenziale (dotata di «potentia»). Al polo opposto, più vicina alla naturale connessione (al principio vitale dell’ordine politico), la democrazia riduce al minimo la sopportazione, ricondotta all’accettazione di un’imposizione che si contribuisce a costruire, nella quale ci si identifica e per difendere la quale si veglia in armi («sono un retto repubblicano»). E comunque si tratterà pur sempre, anche in questo caso, di un’imposizione e di un limite.

Eloquenti, in proposito, al di là delle stesse intenzioni di chi le esprime, le poche e interrotte considerazioni che il TP riserva all’imperium democraticum, nei primi quattro e unici paragrafi dell’XI capitolo – reliqua, notoriamente, desiderantur, per la sopravvenuta morte dell’autore. Spinoza procede a individuare i soggetti che occorre escludere senza indugio dalle prerogative della cittadinanza. Oltre ai minori, ai figli naturali e adottivi, questa sorte tocca anche alle donne, ai servi, ai lavoratori dipendenti, in quanto non titolari di diritto, non «sui juris», ma sottoposti all’altrui «potestas», alla tutela dei mariti e dei padroni. Delle foeminae, in particolare, si ipotizza una imbecillitas tanto rapidamente universalizzata ex natura (sulla base di una inferiorità di potenza senz’altro precipitata nell’irrimediabilità) quanto in realtà sostenuta ex solo instituto, a partire dai dati grezzi e immediati dell’esperienza: «In nessun posto è infatti mai accaduto che uomini e donne governassero insieme, ma in tutti i luoghi della terra in cui si trovano uomini e donne vediamo che gli uomini governano e le donne sono governate» (75). Le mulieres (e i lavoratori dipendenti, per i quali manca qui un’esplicita trattazione (76)) finiscono così per reggere il peso di un’esautorazione ricavata sul filo di argomenti meramente convenzionali, gli stessi da Spinoza più volte giudicati inessenziali e non dirimenti, rispetto ai «principia». Pur continuamente rivedibile, variabile, ricollocabile, anche tra la filosofia politica della democrazia e la sua più contigua versione positiva, anche tra la potenza costituente e la sua species più direttamente costituita, resta, in definitiva, uno spazio di sopportazione, un fondo di “pazienza”. Un fondo eversivo. Perché tollerante.

 

 

Note.

(1) Cfr. L. Lanzillo, Tolleranza, Bologna, il Mulino, 2001, in particolare le pagine introduttive. Per le considerazioni molto sintetiche che qui si propongono, non è necessario moltiplicare i richiami bibliografici al tema generale della tolleranza. Vanno comunque almeno ricordati: H. Kamen, The Rise of Toleration, London, Weidenfeld & Nicolson,1967, trad. it. Nascita della tolleranza, Milano, Il Saggiatore, 1967; J. Lecler, Histoire de la tolérance au siècle de la Réforme, Aubier, Paris 1955, trad. it. Storia della tolleranza nel secolo della Riforma, Brescia, Morcelliana, 1967 (2 voll.); F. Ruffini, La libertà religiosa. Storia dell’idea, Milano, Feltrinelli, 1991; M. Walzer, On Toleration, New Haven and London, Yale University Press, 1997, trad. it. Sulla tolleranza, Roma-Bari, Laterza, 1998. Per una visione asimmetrica del problema cfr. inoltre I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa, Milano, Bompiani (1979) 2000.

(2) Summa Theologiae, I, II, qu. 101, art. 3. E cfr. II, II. qu. 10. art. 11: «[…] in regimine humano illi qui praesunt recte aliqua mala tolerant, ne aliqua bona impediantur […]».

(3) Cfr. M. Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, Milano, Adelphi, 1994, pp. 141-149.

(4) Cfr. C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Bologna, il Mulino, 2001.

(5) Cfr. S. Visentin, Introduzione a S. Castellione, La persecuzione degli eretici, Torino, La Rosa, 1997, pp. VII-LXII.

(6) In M. Sina (a cura di), La tolleranza religiosa. Indagini storiche e riflessioni filosofiche, Milano, Vita e Pensiero, 1991, pp. 163-197. E cfr. M. Beltràn, Tolleranza e libertà di coscienza nell’opera di Spinoza. A proposito di un’ipotesi di Filippo Mignini, nonché la Nota in risposta dello stesso Mignini, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», LXXXVI, 1994, n. 4, rispettivamente pp. 738-746 e 747-749.

(7) Cfr., a titolo puramente esemplificativo, C. Gallicet Calvetti, I presupposti teoretici della tolleranza in Spinoza, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica» LVII,1965, pp. 420-447 e 623-649 (comprese le indicazioni bibliografiche ivi contenute, relativamente agli anni precedenti), nonché, tra gli studi più recenti, J.-M. Vienne, La tolérance, de Spinoza à Locke, in «Études littéraires», XXXII, 2000, pp.125-132, M. A. Rosenthal, Tolerance as a Virtue in Spinoza's Ethics, in «Journal of the History of Philosophy», XIL, 2001, n. 4, pp. 535-557, A. Vinale, Il perdono dell’eterodossia: linee critiche della tolleranza in Shakespeare e Spinoza, in V. Dini (a cura di), Tolleranza e libertà, Milano, Elèuthera, 2001, pp. 87-113.

(8) Condotta a forma sistematica da Tommaso, la concezione postribolare della tolleranza viene inaugurata da Agostino, nel De ordine: cfr. L. Lanzillo, Tolleranza, cit., p. 21.

(9) B. Spinoza, Tractatus theologico-politicus (d’ora in poi TTP) in Spinoza Opera, im Auftrag der Heidel­berger Akademie der Wissenschaften, hrsg. Von C.Gebhardt, Hei­delberg (1924),1972, vol. III, cap. III, p. 203. D’ora in poi le citazioni da questa edizione verranno abbreviate con la lettera G e un numero romano indicante il capitolo; per la traduzione italiana ho utilizzato la versione a cura di Antonio Droetto ed Emilia Giancotti Boscherini, Torino, Einaudi, 1972.

(10) TTP, I, (G, p. 24).

(11) Cfr., ad esempio, N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino, Einaudi,1997/3, pp. IX-XII e 115sgg.

(12) B. Spinoza, Ethica ordine geometrico demonstrata, in Spinoza Opera, cit., vol. II, libro I, Definizione V, (G, p. 45). I riferimenti a questa edizione saranno d’ora in poi abbreviati con Ethica e un numero romano indicante il libro. Le citazioni in italiano sono tratte dall’edizione a cura di E. Giancotti, Roma, Editori Riuniti,1988.

(13) Cfr. Ethica, I, lo Scolio della Proposizione XXV: «&, ut verbo dicam, eo sensu, quo Deus dicitur causa sui, etiam omnium rerum causa dicendus est […]. Per un’analisi più precisa di questi aspetti cfr. R. Caporali, La fabbrica dell’imperium. Saggio su Spinoza, Napoli, Liguori, 2000, in particolare il primo capitolo, pp. 21-50.

[1] Ethica, I, Definizione III, (G, p. 45).

(14) Ethica, I, Definizione III, (G, p. 45).

(15) Sull’impossibilità di ricondurre la filosofia politica di Spinoza all’alternativa «individualismo vs olismo» cfr. il fondamentale E. Balibar, Spinoza: from Individuality to Transindividuality (1997), trad. it in Id., Spinoza. Il transindividuale, Milano, Ghibli, 2002, pp. 103-147. Più in generale, tengono ferma la priorità ma, insieme, la complessità della nozione spinoziana di «individuo» A. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, (1969) Paris, Maspéro, 1988, E. Giancotti Boscherini, Individuo e stato nelle prime teorizzazioni dello stato moderno. Hobbes e Spinoza a confronto, in A. Burgio, G. M. Cazzaniga, D. Losurdo (a cura di), Massa, Folla, Individuo, Urbino, Quattroventi, 1992, P. Cristofolini, Spinoza per tutti, Milano, Feltrinelli, 1993, pp. 29sgg., nonché L’individu chez Marx et Spinoza, in G. M. Cazzaniga e Y. Ch. Zarka (a cura di), L’individu dans la pensée moderne XVIe-XVIIe siècle / L’individuo nel pensiero moderno Secoli XVI-XVII, Pisa, ETS, 1995, II, pp. 699-706. Da un versante più squisitamente storico-teoretico, sull’articolazione insieme «essenzialistica» e «dinamica» del conatus spinoziano, cfr. anche A. Sportelli, Potenza e desiderio nella filosofia di Spinoza, Napoli, ESI, 1995, pp. 141-158.

(16) Cfr. B. Spinoza, Tractatus politicus, testo originale e traduzione italiana a cura di P. Cristofolini, cap. VI, § 1 (d’ora in poi: TP, il numero romano indicante il capitolo e quello arabo il paragrafo). E cfr. P. Cristofolini, La paura della solitudine, in Id., Spinoza edonista, Pisa, ETS, 2002, pp. 17-23, nonché D. Bostrenghi, Baruch Spinoza e la cosa a noi simile, in «Il cannocchiale. Rivista di studi filosofici», 2003, n. 2, pp. 3-12.

(17) TTP, Prefazione, pp. 3-4 (G, p. 7).

(18) TTP, XVII, p. 417 (G, p. 205).

(19) Il riferimento è qui alla monarchia del TTP, bersaglio polemico e contingente, dettato dalla posizione “repubblicana” di Spinoza nei conflitti socio-politici e religiosi dell’Olanda del ‘600, non anche a quello strano ircocervo che è l’imperium monarchicum del TP, una sorta di monarchia costituzionale a sovranità popolare. Per un utile inquadramento storico cfr. S. Visentin, La libertà necessaria. Teoria e pratica della democrazia in Spinoza, Pisa, ETS, 2001, pp. 211-260, cui rinvio anche per le numerose indicazioni bibliografiche.

(20) TTP, Prefazione, pp. 2 e 3 (G, pp. 5 e 6; Spinoza trae il secondo asserto da Curzio Rufo, Hist. Alex., IV, 10).

(21) Ethica, III, Definizione II.

(22) Ethica, III, Definizione degli affetti, XXXIX, p. 226 (G, p. 202).

(23) TP, V, 4.

(24) Classico, in proposito, il rimando al Turcarum imperium, o Turcarum tyrannis: cfr. TP, VI, 4 e VII, 23, nonché TTP, Prefazione (G, p. 7).

(25) TP, VI, 4.

(26) Cfr. TP, V, 4 e VI, 4.

(27) TTP, XX (G, p. 239, sott. mia).

(28) TTP, XVIII, p. 454 (G, p. 226). La Roma classica e la recente restaurazione degli Stuart in Inghilterra, gli esempi storici qui addotti. Echi da Machiavelli, Discorsi, I, 16 e III, 3. Per una ricognizione della «presenza implicita» del segretario fiorentino nei testi di Spinoza, cfr. V. Morfino, Il tempo e l’occasione. L’incontro Machiavelli Spinoza, Milano, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, 2002, pp. 65-131.

(29) TP, II, 4.

(30) TTP, XIX, p. 465 (G 217). Sulla critica spinoziana all’accostamento “Dio-re” (un accostamento così consueto nella storia del pensiero politico), cfr. R. Caporali, Potenza di Dio / potenza dei re. A proposito di un’eversiva dissimmetria spinoziana, tra metafisica e politica, in AA.VV., La morale: tra antico e moderno, in «Preprint», n. 22, 2002, pp. 69-86.

(31) TTP, XX, p. 469 (G, p. 221).

(32) TP, VII, 26. L’argomento, nel contesto specifico, è la monarchia del TP, ma esplicito segue poi il richiamo agli ultimi due capitoli del TTP: «Ma è superfluo ripetere qui cose di cui abbiamo ampiamente parlato nei due ultimi capitoli del Trattato teologico-politico».

(33) Cfr., rispettivamente, TTP, VII, p. 207 (G, p. 85) e TP, III,10.

(34) È questo uno degli scogli sui quali finisce per urtare ogni tentativo di lettura in senso tout court liberale della filosofia politica spinoziana: cfr., per tutti, S. Hampshire, Spinoza. New York, Penguin Books, 1951 (più volte ristampato).

(35) TTP, XIV, p. 349 (G, p. 177); e cfr. anche cap. VII (G, p. 102).

(36) TTP, XIX (G, p. 233).

(37) TTP, XIX, p. 466 (G, pp. 232-33).

(38) TTP, XIX, p. 467 (G, p. 233).

(39) TTP, XIX (G, p. 237).

(40) Cfr. TTP, la parte finale del cap. XIX.

(41) T. Hobbes, Leviathan, trad. it. a cura di A. Pacchi, Roma-Bari, Laterza, 1989, cap. 43°, p. 474.

(42) Ivi, cap. 42°, p. 404.

(43) Ivi, cap. 42°, p. 405.

(44) Ibidem.

(45) Indicazioni utili in E. Giancotti, Studi su Hobbes e Spinoza, a cura di D. Bostrenghi e C. Santinelli, Napoli, Bibliopolis, 1995, in particolare alle pp. 181-210 (La teoria dell’assolutismo in Hobbes e Spinoza). In generale, per un primo confronto tra i due autori, cfr. i saggi raccolti in D. Bostrenghi (a cura di), Hobbes e Spinoza. Scienza e politica, Napoli, Bibliopolis, 1992, nonché quelli contenuti nel III volume di «Studia Spinozana», 1987, avente appunto «Spinoza and Hobbes» come «Central Theme» (pp. 23-350).

(46) TTP, Prefazione, p. 4 (G, p. 7).

(47) TTP, XX (G, p. 241).

(48) TTP, XX, p. 480 (G, p. 239).

(49) TTP, XX, p. 481 (G, p. 240).

(50) TTP, XX, p. 482 (G, p. 240).

(51) TTP, XX, p. 483 (G, p. 241).

(52) TP, VI, 4.

(53) TP, IX,14.

(54) Sui rapporti tra forme di governo e generi spinoziani della conoscenza nel TTP e nel TP cfr. P. Cristofolini, «Esse sui juris» e scienza politica, in Id., La scienza intuitiva di Spinoza (1985), Napoli, Morano, 1987, pp. 121-141.

(55) TP, VIII, 5.

(56) TP, VIII, 47.

(57) TP, VIII, 46.

(58) TP, VIII, 46.

(59) TP, VIII, 1.

(60) TP, XI, 2.

(61) TP, XI, 2.

(62) Trovo questa indicazione in F. Mignini, Spinoza: oltre l’idea di tolleranza, cit., p. 165, confermata per altro dai lessici e dagli spogli informatici spinoziani: E. Giancotti, Lexicon Spinozanum, La Haye, M. Nijhoff, 1970; M. Guéret - A. Robinet - P. Tombeur, Ethica, concordances, index, listes de fréquences, tables comparatives, Louvain-la-Neuve, CETEDOC,1977; P. F. Moreau – R. Bouveresse, Spinoza. Traité politique. Texte latin, traduct. franç., Index informatique, Paris, Èditions Réplique, 1979; G. E. Canone - G. Totaro, Il Tractatus de intellectus emendatione di Spinoza. Index locorum, "Lexicon Philosophicum", V,1991, pp. 21-127; G. Totaro - M. Veneziani, Indici e concordanze del Tractatus Theologico-politicus, "Lexicon Philosophicum", VI,1993, pp. 51-204. Ho anche consultato la versione informatizzata dell’Opera Omnia di Spinoza, a cura di R. Bombacigno e M. Natali, Milano, Biblia, 1988.

(63) TTP, XX, p. 487 (G, p. 245).

(64) Cfr. T. Hobbes, Leviathan, cap. XIII, e De Cive, trad. it. a cura di T. Magri, Roma, Editori Riuniti, 1979, pp. 79-88.

(65) Cfr. C. Galli, Ordine e contigenza. Linee di lettura del “Leviatano”, in AA.VV., Percorsi della libertà. Scritti in onore di Nicola Mattetucci, Bologna, il Mulino, 1996, pp. 81-106.

(66) Nell’ottica del problema-tolleranza, riprendo qui sinteticamente alcune considerazioni già svolte, in modo più preciso e analitico, nel mio La fabbrica dell’imperium, cit., in particolare alle pp. 51-94.

(67) Cfr. J. Locke, Two Treatises of Government, II, trad. it. Due Trattati sul governo. Secondo Trattato, a cura di L. Pareyson, Torino, Utet, 1948, pp. 254sgg. Sull’«individualismo possessivo» quale cifra essenziale del pensiero politico moderno ovvio il rinvio a C.B. Macpherson, The political Theory of Possessive Individualisme: Hobbes to Locke, trad. it. Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese. L’individualismo possessivo da Hobbes a Locke, Milano, ISEDI, 1982.

(68) Dopo le accurate ricognizioni “filologiche” di G. Saccaro Battisti (Spinoza, l’utopia e le masse: un’analisi dei concetti di “plebs”, “multitudo”, “vulgus”, in «Rivista di storia della filosofia», XXXIX, 1984, nn. 1 e 3, pp. 61-90 e 453-474), una nuova attenzione teorica alla nozione spinoziana di multitudo si deve in particolare ad A. Negri (L’anomalia selvaggia. Saggio su potere e potenza in B. Spinoza [1981] e Spinoza sovversivo. Variazioni (in)attuali [1992], in Id., Spinoza, Roma, DeriveApprodi, 1998), E. Balibar, Spinoza et la politique [1985], trad. it. Spinoza e la politica, Roma. Manifestolibri, 1996, e Spinoza: la crainte des masses [1985], trad. it. La paura delle masse, in Id., Spinoza. Il transindividuale, cit., pp. 13-40), A. Tosel, Spinoza ou le crepuscule de la servitude, Paris, Aubier, 1984. Sulla scia di questi primi sondaggi si sono poi moltiplicati variazioni e approfondimenti: cfr., tra gli altri: L. Bove, La stratégie du conatus. Affirmation et résistance chez Spinoza, (1996), trad. it. La strategia del conatus. Affermazione e resistenza in Spinoza, Milano, Ghibli, 2002, pp. 259-321; S. Visentin, La libertà necessaria, cit., in particolare pp. 261-327; F. Del Lucchese, Democrazia, multitudo e terzo genere di conoscenza, in F. Del Lucchese – V. Morfino (a cura di), Sulla scienza intuitiva di Spinoza. Ontologia, politica, estetica, Milano, Ghibli, 2003, pp. 95-127; F. Zourabichvili, Spinoza, le «vulgus» et la psycologie sociale, in «Studia Spinozana», VIII, 1992, pp. 151-169.

(69) TP, III, 9.

(70) TP, II, 17

(71) TP, III, 2 (corsivo mio).

(72) Sia pure da un diverso angolo prospettico, considerazioni simili in F. Bonicalzi, L’impensato della politica, Napoli, Guida, 1999, pp. 114 sgg. In verticale contrapposizione alla lettura di A. Negri (per il quale la multitudo si presenta come pura e prioritaria istanza eversiva, «dionisiaca», all’imperium), M. Terpstra capovolge altrettanto unilinearmente il senso del rapporto, interpretandolo nella sola direzione del primato del potere politico: cfr. What does Spinoza mean by “potentia multitudinis”?, in E. Balibar, H. Seidel, M. Walther (a cura di), Freiheit und Notwendigkeit. Etische und politische Aspekte bei Spinoza und in der Geschichte des (Anti-) Spinozismus, Würzburg, Königshausen & Neumann GmbH, 1994, pp. 85-98.

(73) TTP, XVII, p. 415 (G, pp. 203-4).

(74) TP, IV, 4. Sul “doppio” timore, “della” e “per la” multitudo, cfr. E. Balibar, Spinoza, l’anti-Orwell. La crainte des masses, in «Temps Modernes», 1985, n. 470, pp. 353-398 (è una versione più ampia del già cit. e quasi omonimo La crainte des masses).

(75) TP, XI, 4.

(76) Ma cfr. TP, VIII, 14. E si veda A. Matheron, Femmes et serviteurs dans la démocratie spinoziste, in Id., Anthropologie et politique au XVIIe siècle, Paris, Vrin 1986, pp. 189-208.