Etica & Politica / Ethics & Politics, 2003,

http://www.units.it/~dipfilo/etica_e_politica/2003_1/1_varia.htm

 

 

 

Morte, natura e tecnica (*)

 

Federico Ferrari

 

 

C’è un tempo per nascere e un tempo per morire… Questo passo dell’Ecclesiaste, che scandisce nella sua estrema nudità e semplicità il ritmo della vita e della morte e il susseguirsi inesorabile delle stagioni e delle generazioni, può ben rappresentare la modalità e la percezione che l’umanità occidentale ha avuto, e in parte ancora ha, della propria esistenza. La vita e la morte, da essa indissociabile, sono state viste e vissute come “cosa naturale”, ognuna con i propri tempi, i propri segni distintivi, le proprie paure e certezze. Per millenni la morte è restata immobile, la sua fisionomia ben scolpita nel volto del morente e di coloro che lo accompagnavano nel momento della fine. Solo piccole e quasi impercettibili metamorfosi venivano a modificare un’immagine per tutti riconoscibile e che portava con sé i propri rituali.

 

 

1. Breve excursus sulle mutazioni della morte

 

Philippe Ariès, in un libro divenuto ormai classico, traccia una breve storia della morte in Occidente, arrivando a individuare quattro grandi, anche se non sempre evidenti, fratture, che portarono a una trasformazione dell’atteggiamento dell’uomo davanti alla propria fine. In un primo tempo, durato a lungo, e ancora presente in alcune fasce sociali o in alcune zone geografiche, la morte è vista come addomesticata. Il suo luogo è l’intimità delle mura domestiche: si muore dove si è sempre vissuti. La morte non è fonte di particolari paure, non c’è traccia di terrore o disperazione davanti ad essa. Quando i suoi segni si palesano, l’uomo sa cosa l’attende. La più grande follia, ancora per molti secoli, consisterà proprio “nel non vedere che la morte si avvicina”.(1) I segni del suo approssimarsi sono naturali, non v’è alcuna indicazione soprannaturale o magica. Per questa concezione della morte, essa si dà come un “riconoscimento spontaneo”. Una sopravvivenza di tale atteggiamento può trovarsi nei Tre morti di Tolstoj, dove un vecchio giunto ormai alla fine, con tutta naturalezza, a domanda risponde: “La morte mi è arrivata, ecco cos’è”.(2) Giunto il tempo – c’è un tempo per vivere… – il morituro si preoccupa di far sì che tutti i rituali siano rispettati; si predispone alla morte, alla familiarità della morte. Essa è addomesticata, perché parte integrante della vita domestica. La morte è privata, riguarda principalmente i familiari, ma è anche pubblica. Chiunque può rendere visita al morente. Le case sono colme di amici, parenti e curiosi. I vicini, i compaesani, i viandanti: tutti sono coinvolti nella morte annunciata. In questa prospettiva, non solo il funerale e le ultime volontà avevano un loro ruolo nel morire, ma anche le ultime ore o gli ultimi giorni erano caratterizzati da una loro cerimonia specifica che andava rispettata. Era un destino comune che si realizzava. Nella cerimonia mortuaria, ognuno prendeva parte al grande ciclo dell’esistenza. Era l’esperienza della naturalità della vita. La fine era il momento in cui una hybris (una forza violenta), indipendente dal singolo, si impadroniva di lui. La comunità riconosceva i segni di questa hybris e ne partecipava: il moribondo ne era il simbolo, l’incarnazione visibile a tutti. La morte era quindi solo un momento, un istante in cui si passava da uno stato, di vivi, a un altro, di morti. Ma vivi e morti entravano in un disegno più ampio, dove ognuno era presente. I morti accompagnavano i vivi nel loro cammino verso l’unica Gerusalemme celeste. Colui che moriva era, grazie alla indissolubile unità fra vita e morte, già morto molto prima di morire e vivo anche dopo la morte. La morte dunque, per lungo tempo, non è stata un’esperienza solitaria, ma piuttosto una delle più importanti esperienze comunitarie.

Tra il XII e il XVII secolo, però, qualcosa muta. L’evento più eclatante è lo spostamento del Giudizio universale dalla fine dei tempi alla fine di ogni singola vita. Se in precedenza il Giudizio, con il quale si sarebbe deciso dell’entrata in Paradiso o della dannazione all’Inferno, era rinviato al tempo escatologico dell’Apocalisse, ora questo tribunale dell’anima si disloca alla fine di ogni vita. Ogni singolo è giudicato per le sue colpe. La morte diviene così, non più un destino collettivo (quello del popolo di Dio), ma l’ultimo capitolo di una biografia. Nasce una letteratura, con i suoi trattati, i suoi classici e le sue leggende. È l’avvento delle artes moriendi. Una coltre di entità sovrannaturali vengono al capezzale del morente. La Vergine e il buon Dio contendono a Satana e ai demoni l’anima del malato sul letto di morte. Ed egli assiste attonito e impaurito a questo spettacolo, poiché sa che questi illustri visitatori sono lì per giudicare, non solo la sua vita passata, ma il suo comportamento in quest’ora estrema.(3) La morte diventa una prova estrema, un’esperienza limite (usando un’espressione che diverrà centrale nel romanticismo e sarà ripresa ancora da Jaspers, ad esempio, nel suo concetto di Grenz-situationen, e che certo è presente in un capolavoro della letteratura moderna come La morte di Ivan Il’ič di Tolstoj) in cui il senso della propria vita e del proprio morire infine si svelano. L’ultimo istante viene a dare un senso definitivo alla propria biografia. Da qui la drammatizzazione della morte. Il morituro diviene il personaggio principale del proprio “dramma”. I familiari diventano comparse, buone per ricordare, per riappropriarsi del proprio passato. Gli altri sono lì per far sì che io possa prendere coscienza di me stesso. Il “sé”, infatti, nasce proprio attraverso questa nuova esperienza della morte, da questo essere “rigettati” nella propria interiorità, in un’interiorità che fino a quel momento era persa nel mondo costituito dai suoi riti sociali, ma che ora è lì in me, che sono solo davanti alla mia coscienza e ai suoi giudici. Gli altri non partecipano più della morte – quella morte che per millenni non era stata mia ma di tutti – ma guardano estranei, a loro volta rispecchiati dallo spettacolo di un morente. È la nascita del soggetto: la scoperta della morte di sé.

Leggendo con attenzione, si possono trovare pagine esemplari di una tale mutazione del rapporto con la morte nel Benjamin de Il dramma barocco tedesco. Il Trauerspiel è infatti la “rappresentazione luttuosa”, il luogo in cui la morte viene rappresentata secondo una nuova sensibilità. In esso il lutto, ciò che rompe e spezza, trova modo di esprimersi.(4) Ogni personaggio è diverso dagli altri, ha una propria personalità, non partecipa di un unico destino o vi partecipa sempre a partire dalla propria soggettività. Il Trauerspiel è infatti il trionfo della soggettività e della sua allegoria. La morte, per parafrasare quel che scrive Rosenzweig nella Stella della redenzione, permette di far risuonare una medesima nota, il sentimento del proprio Sé, anche se le ipseità non si incontrano, non partecipano più direttamente della morte universale e anonima.(5) Ma questo risuonare comune, nell’assenza e nel vuoto della morte, non può essere che allegorico, essendo l’allegoria “più tenacemente radicata là dove la caducità e l’eternità si scontrano direttamente”.(6) E dove, più che nella morte, finitezza e infinito si toccano? L’allegorizzazione della morte, la perdita del suo carattere simbolico, che si esprimerà per mezzo delle innumerevoli rappresentazioni macabre, i Trionfi della morte, l’iconografia di teschi e scheletri, il culto dei cadaveri, ecc., sarà comunque un estremo tentativo di resistere all’annichilimento. Se la morte, in questa nuova prospettiva,  è l’acquisizione e la subitanea perdita del sé, e di conseguenza la scomparsa di un destino collettivo segnato dalle leggi della natura, allora dobbiamo constatare che tramite l’allegoresi l’Occidente cerca di conservare ancora la possibilità della salvezza. La morte, ridotta a un’inerte cosalità, e dunque ad allegoria della vanità della vita e dell’onnipotenza della morte, è il segno rovesciato di una volontà di resurrezione. L’allegoria è l’ultimo baluardo per donare, sotto la sua apparente oscurità e insensatezza, un’estrema possibilità di senso. Benjamin scrive:

 

Sarebbe infatti come misconoscere l’allegorico voler separare quel patrimonio di immagini in cui ha luogo questo balzo nel regno della salvazione da quell’altro, cupo, che significa morte e inferno. Perché proprio nelle visioni dell’ebbrezza dell’annientamento, in cui tutto ciò che è terrestre precipita trasformandosi in un campo di macerie, si sviluppa non tanto l’ideale della profondità allegorica quanto il suo limite. Lo sconsolato groviglio delle raccolte di scheletri che si ritrova quale schema delle figurazioni allegoriche in migliaia di stampe e di descrizioni dell’epoca non è soltanto il simbolo della vanità di ogni esistenza umana. La caducità è in esse non soltanto significata, allegoricamente rappresentata, quanto, a sua volta significante, offerta come allegoria. Come l’allegoria della resurrezione. Alla fine, nelle raffigurazioni della morte del barocco, la concezione allegorica […] si ribalta. […] Il cultore dell’allegoresi si ridesta nel mondo di Dio.(7)

 

Il vuoto e la desolazione solitaria dell’allegoresi della morte si trasformano in pegno estremo di resurrezione. La morte è vinta, rientrando a far parte del disegno di Dio. Il soggetto sprofonda assieme alle sue paure, nate dall’insensata volontà di vivere soggettivamente ciò che non lo è (la morte), lasciando così spazio, ancora una volta, al destino e all’inesorabile corso della natura. L’allegoria mostra proprio questa follia: l’uomo non ha nessun arbitrio sulla morte, poiché questa è il suo limite insuperabile.

Con l’avvento del XVIII secolo, sconvolto da una parte dalla Rivoluzione e dai Lumi e dall’altra dal sorgere dell’ideologia romantica, la situazione muta ancora, ma non di molto. È la morte dell’altro a venire in primo piano: è il fiorire del culto dei morti e dei cimiteri, l’atmosfera neogotica, i temi erotico-macabri, morbosi e scabrosi. La morte come rottura, come irruzione dell’irrazionale, del crudele. Per averne un’idea si pensi a Sade, o al momento fatale come lo intendevano i romantici, o alla “pletora della morte” descritta da Georges Bataille nell’Erotismo. Si è di fronte, quasi, a un compiacimento della morte, a una sua estetizzazione. La morte come impossibile, come fascino del tremendo, così ben narrato nei romanzi delle sorelle Brönte. Il momento finale dell’esistenza rientra in un ciclo cosmico, in una lotta eterna tra forze sotterranee. In un certo qual modo, la morte è di nuovo sottratta al singolo, poiché il singolo si perde in essa, è penetrato da essa. Ma tutto ciò non porta a una nuova socializzazione della morte. I familiari che, come abbiamo visto, erano diventati semplice comparse nel grande dramma individuale del soggetto nascente e morituro, restano al margine ma in modo diverso. Essi non partecipano alla cerimonia del morire, come neppure guardano attoniti il moribondo che lotta per la propria anima, ma divengono i testimoni testamentari di colui che muore. Il moribondo diventa un personaggio secondario, la morte è la morte d’altri. Dunque, mentre fino al XVIII secolo la morte riguardava esclusivamente colui che vedeva ineluttabilmente il suo volto venirgli incontro, ora essa si diffonde in ogni dove mentre il morituro ne viene espropriato. Sono gli altri, i familiari, a divenire i protagonisti. Il moribondo è oggetto di attenzioni, in quanto è incapace di accudire se stesso. La sua condizione non è più quella di uomo, ma piuttosto di colui che non può più decidere di sé. Ad altri è demandata ogni decisione. Il morituro comincia a perdere la sua peculiarità di soggetto: essendo l’esperienza della morte la modalità più profonda di ek-stasi, di uscita fuori di sé. Egli diventa, piuttosto, un oggetto: oggetto di cure, ma anche oggetto della morte  che misteriosamente si impossessa di lui, mostrando il mistero delle forze della natura. Una tale visione della morte non trova riscontro tanto in una rinascita di antichi temi cristiani quanto nella visione romantica di un panteismo cosmico, di cui la morte sarebbe il culmine, e nell’opposta, ma anche complementare, visione positivista della natura, dove la morte diventa un oggetto di studio da sezionare e sviscerare nei suoi misteriosi meccanismi. Entrambi, romanticismo e positivismo, seppur in modo diverso, espropriano il soggetto della propria morte, per inserirla in un ciclo cosmico e naturale che sovrasta il singolo uomo. È l’“ineffabile natura” – secondo un’espressione di Novalis ma che potrebbe essere tanto di un romantico quanto di un positivista – ad impadronirsi della morte.(8)

Sono quelli qui sommariamente delineati, dunque, i primi tre grandi, seppur sfumati, mutamenti che hanno modificato il rapporto tra uomo e morte in Occidente. Eppure, pur riscontrando delle reali fratture storiche, occorre anche dire che in tutti questi atteggiamenti, certo diversi tra loro, si può rilevare almeno un elemento comune: la morte vi è sempre concepita come un evento naturale. Sia che riguardi la partecipazione a un destino collettivo, sia che divenga la drammatizzazione della formazione del soggetto, sia che si trasformi nella “rottura” che mostra le leggi nascoste e oscure del cosmo, la morte ha rappresentato l’inevitabile destino naturale dell’uomo. L’uomo, in quanto parte della natura, esperisce nella morte il senso stesso del proprio essere. L’essenza umana è mortale, proprio in quanto naturale. Ariès, scrive:

 

la socializzazione [in cui la morte era immersa] non separava l’uomo dalla natura, sulla quale egli non poteva influire, se non attraverso il miracolo [così presente nella cultura barocca]. La familiarità con la morte è una forma di accettazione dell’ordine naturale, accettazione insieme ingenua nella vita quotidiana, e dotta nelle speculazioni astrologiche.

L’uomo subiva, con la morte, una delle grandi leggi della specie e non pensava né a sottrarvisi, né ad esaltarla. L’accettava semplicemente, appena con quel tanto di solennità che bastava a contrassegnare l’importanza delle grandi tappe, che ogni vita doveva sempre superare.(9)

 

 

2. L’ultima trasformazione

 

Se quelle appena descritte sono state le grandi, anche se più o meno marcate, metamorfosi della morte, cosa accade con l’avvento del nostro secolo? Cosa si mostra in modo sempre più evidente? E cosa fa sì che si possa dire, a giudizio di tutti gli storici della morte, che nel nostro secolo l’atto di morire muta, e radicalmente? Per tentare una risposta, cerchiamo di osservare quello che ci circonda.

Lentamente la morte si sposta, si disloca. Non si muore più in casa, come per secoli era successo. La malattia aveva sempre avuto il proprio humus naturale nella famiglia, nella vita domestica che circondava il malato. Alla famiglia erano affidate la “dolcezza delle cure spontanee, testimonianza d’affetto, desiderio comune di guarigione, [e] tutto concorreva ad aiutare la natura che lotta contro il male e far giungere il male stesso alla verità”.(10) Ora, invece, la degenza di quella malattia che può portare alla morte, e in particolare l’atto del morire, la fase terminale, si spostano all’interno dell’ospedale, all’interno di quel “luogo artificiale” che è l’ambiente ospedaliero. Ma la grande mutazione consiste non tanto nell’assurgere dell’ospedale a luogo di cura della malattia mortale quanto nel configurarsi della struttura ospedaliera come luogo precipuo della morte e del morire: è lì che si va a morire. La morte è tenuta sotto controllo dal personale medico ospedaliero. Le cure di quest’ultimo diventano imprescindibili. Il medico, sempre più, decide, attraverso la somministrazione o la non somministrazione di determinati medicamenti, della vita o della morte del paziente. La morte viene a dipendere, in modo ormai evidente, da un sapere tecnico, quello della medicina. Come scrive Ariès, “la morte [nel ’900] è un fenomeno tecnico ottenuto con l’interruzione delle cure, cioè, in modo più o meno confessato, con una decisione del medico e dell’équipe ospedaliera […] la morte è stata scomposta, frazionata in una serie di piccole tappe di cui, in definitiva, non si sa quale sia la morte vera, quella in cui si è perduta la conoscenza, o quella in cui è venuto meno il respiro…”.(11) Anche a partire da queste parole, il passaggio è evidente: la morte entra nell’epoca della tecnica dispiegata in tutta la sua potenza.

Questo passaggio, però, è stato, come quasi sempre accade, graduale. Di primo acchito, si può farlo risalire almeno al secolo precedente. Foucault ne ha descritto suggestivamente le prime figure nel suo già citato libro sull’origine della medicina moderna dal titolo Nascita della clinica, dove lo studio della malattia e della morte passa gradualmente da una dimensione “naturale” ad un’altra “clinica” che disseziona, divide, analizza seguendo le nuove tecniche dell’anatomia patologica. Tutto il libro di Foucault non fa che mostrare quanto sia esatto parlare, come fa ad esempio Ariès, di un’estrema e inaudita metamorfosi della morte, anticipandola però di circa un secolo. Ma il vero valore dell’opera foucaultiana risiede nella doppia strategia con la quale affronta questo mutamento. Se infatti egli descrive con grande precisione l’avvento di un nuovo sapere tecnico, quello clinico, allo stesso tempo mostra come questo sapere nasca da una politicizzazione degli stessi concetti di vita e morte. La clinica nasce proprio come un problema di salute pubblica, come un modo per risolvere problemi sociali, ma anche come estrema regolamentazione della vita e della morte dei singoli cittadini. È l’avvento dell’era caratterizzata dalla figura di Bichat. Quel Bichat che “ha relativizzato il concetto di morte, togliendola a quell’assoluto in cui appariva come un evento insecabile, decisivo e irrecuperabile: l’ha volatilizzato e distribuito nella vita, sotto forma di morti in dettaglio, morti parziali e così lente a concludersi oltre la morte stessa”.(12) Morti che vengono dislocate negli ospedali o nelle abitazione, ma che sempre sono sottoposte allo sguardo clinico che sorveglia e decide sovranamente. Vita e morte, come scrive Agamben riferendosi a Foucault, “non sono propriamente concetti scientifici, ma concetti politici”.(13) È questo l’inizio di una biopoliticizzazione dell’esistenza, in cui medicina e politica entrano in uno spazio di indistinzione. Il sovrano e il medico assumono un ruolo intercambiabile, poiché “nella biopolitica moderna, sovrano è colui che decide sul valore o sul disvalore della vita in quanto tale”.(14)

Ma la morte – trasfigurata, dislocata e sottoposta alla decisione sovrana del medico – che sopravviene nell’era della biopolitica e che viene frammentata e rinviata, al punto di perdere il suo statuto di naturalità, può essere considerata solamente come un problema politico? Se la morte muta di statuto è solo perché, come dice Foucault, essa entra nella vita come un insuperabile modello prescritto dalla natura e dalla gestione politica della salute pubblica, o è anche perché può essere sempre più rinviata, posticipata, differita grazie alle nuove tecniche della medicina? E, ripetiamo, queste tecniche sono interamente esauribili in un discorso politico? La tecnica non è piuttosto qualcosa che travalica il politico, che lo scardina nel suo stesso fondamento? Si può davvero pensare che il problema della vita e della morte regolate “artificialmente” dalle nuove tecnologie possano essere governate da una nuova politica?  Se infatti è vero, come sottolinea mirabilmente Foucault, che la morte e la vita si costituiscono nella modernità come nuovi soggetti della nascente medicina anche grazie ad una loro politicizzazione (“il primo compito del medico è dunque politico”(15) ), è anche e soprattutto vero che la moderna medicina è il frutto di un inaudito sviluppo della sua tecnica e questa tecnica non deriva totalmente dal nuovo spazio politico. Come egli stesso scrive, nella nuova medicina, “la vita, la malattia e la morte costituiscono una trinità tecnica e concettuale”.(16) È dunque riduttivo pensare che il problema della vita e della morte, e il problema dell’eutanasia, che a noi qui interessa, possano risolversi in una sfera politica, di lotta per il potere. Così quando Foucault e, più di recente, Agamben parlano di biopolitica, intendendo con questo termine il nuovo spazio in cui ci troviamo e nel quale il nostro corpo biologico e il nostro corpo politico divengono indiscernibili, centrano sicuramente una dimensione del problema che resta fondamentale, ma mancano di interrogare adeguatamente il problema della tecnica, cioè tralasciano la questione di come l’epoca della tecnica modifichi l’intero campo dell’esistenza. Essi puntano l’attenzione su una giusta dimensione politica del problema, sul fatto, cioè, che l’eutanasia debba essere il luogo di uno scontro politico e che esso non debba restare nelle mani dei tecnocrati, quasi che fosse solo la scienza a dover decidere sulla vita e sulla morte, ma allo stesso tempo lasciano cadere o trascurano il fatto, centrale, che la tecnica non è un insieme di tecniche semplicemente regolabili da una decisione politica, non è solamente uno strumento nelle mani di qualcuno, ma piuttosto una disposizione o esposizione generale dell’uomo, una configurazione del mondo. In questo senso, si dovrebbe forse mostrare come sia più facile che la tecnica modifichi la politica che non il contrario. Se le cose stanno così, può allora essere utile vedere come il grande mutamento della morte, che appare con un’evidenza accecante nel nostro secolo, sia, in realtà, già in cammino da lungo tempo.

Martin Heidegger ha l’indubbio merito di aver portato l’attenzione della riflessione filosofica su questa svolta, su questo mutamento, su questo nuovo “invio”, usando le sue parole, della questione dell’essere. Ed è proprio ad Heidegger che dobbiamo una descrizione esemplare del problema che ci sta qui a cuore e che può riassumersi in queste domande: come muta la morte nell’epoca della tecnica? E cosa ne è del soggetto che ad essa è sottoposto? E infine, come può oggi l’uomo rapportarsi alla propria morte e al proprio morire? Vale allora la pena riportare per esteso una pagina di Heidegger che chiarifica notevolmente la posta in gioco di quest’ultima metamorfosi della morte e il senso delle domande da noi formulate.

 

L’άρχή del risanamento del medico odierno è dunque dovuta alla τέχνη. Sennonché, resta qui da osservare che il fatto di non morire, nel senso di un prolungamento della vita, non è necessariamente un risanamento; il fatto che oggi gli uomini vivano più a lungo non prova che siano più sani; si potrebbe piuttosto desumere il contrario. Ma anche posto che il medico di oggi non ritardi solo di qualche tempo la morte, ma diventi sano, allora anche qui l’arte medica non ha fatto che sostenere e guidare meglio la φΰσις. La τέχνη può soltanto venire incontro alla φΰσις, può favorire più o meno il risanamento, ma, come τέχνη, non potrà mai sostituirsi alla φΰσις e diventare, al suo posto, l’άρχή della salute come tale. Ciò potrebbe avvenire solo se la vita come tale divenisse un artefatto producibile «tecnicamente» ; ma se ciò avvenisse, in quello stesso momento non ci sarebbe più salute, né nascita e morte. Talvolta sembra che l’umanità corra all’impazzata verso questa meta: che l’uomo produca tecnicamente se stesso. Se ciò riuscirà, l’uomo avrà fatto saltare in aria se stesso, cioè la sua essenza come soggettività, e l’avrà fatta saltare in quell’aria dove l’assoluta assenza di senso vale come unico “senso”, e dove il mantenimento di questo valore appare come il “dominio” umano sul globo terrestre.(17)

 

Appare immediatamente percepibile che Heidegger pone qui il problema della trasformazione dell’esistenza messa in atto dalla tecnica. Tema quest’ultimo che diverrà, come noto, centrale nella riflessione dello stesso Heidegger a partire dalla svolta che egli impresse al suo pensiero con l’inizio degli anni ‘40.(18) È dunque a quel contesto che si dovrà rivolgere l’attenzione per comprendere in profondità il significato del dire heideggeriano. Ma, in chiave preliminare, occorrerà anche chiarificare che cosa significhino le parole greche che Heidegger utilizza nella sua argomentazione. Che significa infatti phýsis? E téchne? Qual è il rapporto sussistente tra phýsis e téchne, in particolar modo di fronte al problema della morte? Perché Heidegger ha bisogno di risalire a tali parole? E queste parole della Grecia classica, quindi risalenti ad una tradizione ormai finita da migliaia di anni, sono ancora operanti nel nostro modo di confrontarci con la vita e con la morte, o hanno a loro volta subito una metamorfosi?

 

 

3. Phýsis e téchne

 

Phýsis e téchne sono forse i due concetti cardine dell’intera filosofia occidentale. La loro importanza e la loro presenza in quasi tutti i grandi testi della tradizione filosofica, al posto di facilitare una definizione univoca, rendono spesso difficile la comprensione del loro significato preciso. È importante cercare di chiarire, seppur parzialmente, cosa essi mettano in gioco quando vengono citati da Heidegger nel passo appena citato. Tentiamo quindi un primo approccio rivolgendoci – attraverso una lunga ma credo essenziale digressione – da una parte, ai testi medico-filosofici più importanti dell’Antichità, raccolti nel Corpus Hippocraticum, e dell’altra, alla definizione di phýsis data da Aristotele.

Il Corpus, tra i primi documenti di quella che potremmo definire la pratica medica, riveste una grande importanza per comprendere l’attuale posizione della medicina in rapporto all’eutanasia. Il Giuramento ippocratico è, infatti, ancora oggi spesso citato come l’impedimento principale all’accettazione della pratica dell’eutanasia da parte del corpo medico. Vedremo più avanti cosa dica esattamente il giuramento, ma per comprenderne la logica occorrerà prima affrontare e cercare di sviscerare la struttura concettuale su cui esso si fonda. Varrà quindi la pena soffermarsi, seppur lacunosamente, sull’intero Corpus, al fine di capire come tecnica e natura, medicina e morte, abbiano impostato inizialmente il loro rapporto.

Composto tra gli ultimi anni del V e l’inizio del VI secolo a.C., il Corpus riunisce una grande quantità di scritti (circa 70), di solito attribuiti ad Ippocrate (ma, in realtà, ormai da molto tempo, è stata messa in causa una paternità unica).(19) La tradizione che porta alla stesura di questo immenso e prezioso documento viene da molto lontano. Vi si può reperire un’enorme quantità di conoscenze e di pratiche oracolari delle scuole egiziane e babilonesi. Tipica, per esempio, è l’importanza attribuita all’atto e alla modalità del proferire la diagnosi, probabilmente inizialmente legati a una concezione ancora religiosa della professione medica. Nel Corpus, però, l’elemento sacro tende a scomparire, lasciando comunque intatta l’imperatività del “dire”, del phanai. Il medico, pur utilizzando nel descrivere la sintomatologia una formula al condizionale, è obbligato a esprimere in modo definitivo il suo verdetto, quasi si trattasse ancora di una formula rituale. Il medico deve saper dire quando la malattia è curabile e quando non lo è. Il suo scopo è giungere a distinguere ciò che può concernere la téchne e ciò che l’oltrepassa. Il medico, a partire dai testi del Corpus, incomincia, a differenza di qual che succedeva nella tradizione egiziana, a comprendere il proprio operare come una tecnica e non più “semplicemente” come un rituale mitico-religioso. La medicina cerca di definire i propri confini, di delimitare il campo della sua ricerca, creando un proprio sapere autonomo. Un sapere certo particolare. La medicina greca, infatti, non è ancora fondata su un sapere certo. La categoria del “probabile” è fortemente presente: un grado più o meno elevato di incertezza accompagna il medico greco.(20) Incertezza che, non nasce dal margine di errore che accompagna ogni operare, ma probabilmente deriva da una concezione, non più statica, ma evolutiva della malattia. La temporalità entra a far parte della concezione medica. E a questa irruzione del tempo come categoria costitutiva della pratica medica (e quindi non solo come accidente esterno), va aggiunta una tendenza alla casistica con le sue tipiche formule: “la maggior parte” (toisi pleistoisi), “alcuni” (enioisi), “talvolta” (eniote), ecc. Ma, in ogni caso, quel che risulta essere davvero innovativo è il modo in cui il medico, in ultima istanza, deve dire e spiegarsi sulla malattia a partire solamente dalle proprie conoscenze (è frequente l’uso del verbo ginōskō, «capire»/«conoscere»). Il malato deve aver fiducia nella parola del medico, che non parla più in nome del dio, ma a partire dall’autorità conferitagli dalla sua pratica. Se un tempo la malattia era stata una questione tra il malato, gli dèi e una figura sacerdotale, adesso, pur restando una relazione triadica, subisce una modificazione radicale dei termini in gioco: “l’arte ha tre momenti, la malattia e il malato e il medico”.(21) La malattia, in un certo senso, si umanizza, e con essa anche la figura del medico. All’inizio del trattato Perì physón, il rapporto tra malato e medico è così descritto: “il medico vede cose terribili, ha a che fare con cose orribili, e, quando gli altri soffrono, prova egli stesso della tristezza”.

Il Corpus, dunque, pur provenendo da una tradizione antica se ne sbarazza, creando una cesura definitiva e inaugurando una nuova epoca: l’epoca dell’uomo (e delle sue tecniche) come misura di tutte le cose. L’esempio più eclatante è il modo con cui ogni dimensione sacra viene scartata nella diagnosi dell’epilessia, considerata da sempre il “male sacro”. Nel Perì ierès nousou l’autore è perentorio: non si deve investigare nessuna epifania del dio, si tratta solo di cercare una próphasis (una causa razionale) e un tekmérion (un indice o prova), cioè, un seméion, un sintomo. La medicina diviene così una semiotica, alla ricerca di segni e di spiegazioni, ben al di là della dimensione sacra. Ma la vera grande innovazione che si scorge nel Corpus, come già accennato, è la consapevolezza da parte dei suoi autori di inaugurare la dimensione tecnica della medicina. Si è in presenza di un nuovo modello epistemologico, che spazza via le vecchie pratiche per instaurare la téchne iatrikè.

Gli stessi testi che compongono il Corpus venivano definiti technai: sorta di libri o manuali che univano la dottrina alle regole pratiche. Il loro pubblico era composto da un insieme di persone ben ristretto: l’esperto (empéiros) e il professionista (technitès). I profani (apéiros, dèmotès, idiotès) erano esclusi. La péira, l’esperienza, contenuta nei technai formava la téchne medica, che traeva la propria forza solo da se stessa. La medicina diveniva una domanda sul perché (dia tì), sulle cause.(22) Essa non era solo un’esperienza, ma una tecnica. Aristotele nella Metafisica, scriverà: “gli uomini di esperienza sanno bene che una cosa è, ma non sanno il perché; gli uomini d’arte conoscono il perché e la causa”.(23) Incomincia dunque a delinearsi la specificità tecnica della medicina e, di conseguenza, incominciamo ad intravedere cosa potesse significare quel téchne utilizzato da Heidegger in rapporto alla medicina greca e al destino epocale che da essa ha avuto origine.

È questa, quella dei medici ippocratici, infatti, una téchne che si definisce in opposizione, da una parte, alla tyche (al caso), e dall’altra, alla semplice esperienza. Téchne è, dunque, quel sapere e quel saper-fare che ha un metodo e conosce i limiti di questo metodo. Una téchne ha il suo punto di forza nel saper stabilire delle distinzioni, delle norme, delle regole per i technitès. Essa è quindi una metodologia, un discorso metodologico, ma allo stesso tempo è anche una deontologia, un discorso sui doveri e i limiti del proprio operare. Il buon medico, quello che praticherà seguendo l’orthotes, sarà proprio quello che saprà restare entro i limiti stabiliti dai technai.(24)

In questo modo, con la definizione di un nuovo campo epistemologico e deontologico la medicina viene a scontrarsi con la filosofia, che in quello stesso periodo stava formando il proprio apparato concettuale in opposizione, appunto, alle varie tecniche, quali la medicina, la sofistica, ecc. Nell’Antica medicina un tale scontro è mostrato in modo esemplare. Il dissidio verte apparentemente sulla fisiologia del corpo umano, ma in realtà la vera posta in gioco è lo scontro tra due differenti concezioni del sapere: da una parte la téchne (medica), dall’altra il sapere filosofico. E il vero punto della discordia tra questi due sistemi di sapere è la nozione di phýsis. Arriviamo così ad un primo approccio all’intricato nodo tra phýsis e téchne annunciato da Heidegger.

L’autore del testo ippocratico prende come suo principale bersaglio polemico Empedocle, famoso filosofo della sua epoca. Dato che Empedocle era allora noto anche come medico, si potrebbe dire che la polemica non sia solo tra filosofia e medicina, ma sia anche una polemica interna alla stessa medicina (polemica che dimostrerebbe l’ampiezza del dominio della medicina agli albori della civiltà occidentale).(25) Ma a noi, qui, non interessa ricostruire il contesto della società greca del tempo e stabilire quindi con esattezza quanto la polemica fosse interna o esterna, vogliamo solo cercare di capire cosa nell’insegnamento unitario (tanto medico che filosofico) di Empedocle fosse inaccettabile. Leggendo l’Antica medicina si percepisce che il vero scontro è, appunto, sulla concezione della phýsis. Se, infatti, per Empedocle la phýsis è un principio unico ed eterno (diviso tra i quattro rhizōmata – fuoco, acqua, aria e terra – uniti e disgiunti da Philía e Neikos), per gli ippocratici la phýsis è frammentata in una molteplicità composita di umori, per ognuno dei quali è richiesto un differente medicamento. “Alla nozione generale di natura umana (phýsis, al singolare), che concerne il sapere filosofico, si sostituiscono le diverse categorie della natura umana (phýseis, al plurale) ottenute con l’osservazione ragionata.”(26) Siamo in presenza di una dispersione della phýsis in una molteplicità di elementi.

L’autore della Antica medicina, attraverso questa polemica sulla phýsis, cerca di far capire al technitès che la téchne medica deve fondarsi su categorie differenti rispetto a quelle della filosofia del passato. In ogni caso, essa non può sviluppare il proprio sapere su un unico principio comune tanto alla filosofia quanto alla medicina. Il sapere di quest’ultima è diverso da quello della prima. La sola conoscenza possibile per il medico ippocratico dovrà essere, ad esempio, fondata sull’áisthesis del corpo. Una tale áisthesis, in un secondo momento, dovrà trovare un giusto logos. Ma questo logos non potrà essere quello di Empedocle, ma piuttosto quello di una “logica adeguata” all’áisthesis, tale da poter garantire una orthotes, un’“esattezza”, rispetto alla molteplicità degli umori e ai loro equilibri da ottenere mediante le cure e le medicine. Se la phýsis deve restare il centro della nuova tecnica medica, allora essa deve essere legata indissolubilmente al problema stesso della tecnica. “La nozione di phýsis rappresenta il momento di maggior oggettivazione  del metodo, e la sua funzione risiede nella sua capacità di esprimere, ogni volta, ciò che nella situazione deve esser dato come obiettivo”.(27) Ci troveremmo dunque di fronte a un rivoluzionamento della nozione di phýsis. Nella phýsis ippocratica non ci sarebbe apparentemente nessun senso finalista, nessun interesse per una phýsis “in sé”, per una sostanza o un’unica causa originaria. Per Ippocrate, sembra che la phýsis divenga un complemento della téchne iatrikè. La phýsis sarebbe il luogo dell’operare della tecnica. Ma in realtà, a ben guardare, la phýsis, benché dispersa in una pluralità di umori e di cause, è ancora decisamente al centro dell’operare medico. Nel De Arte si può leggerlo esplicitamente:

 

Quando la natura non si disvela spontaneamente, l’arte ha trovato dei mezzi di costrizione tali che la natura è forzata, pur senza danno, a rivelarsi; e quando si è rivelata fa chiaro, a chi conosce i metodi dell’arte, che cosa si debba fare.(28)

 

La natura, a partire dal Corpus, incomincia a diventare una funzione della tecnica, un qualcosa a cui la tecnica può sottrarre i suoi segreti; a cui la tecnica può rimediare, supplire. La tecnica diviene il supplemento o il supplente della natura, essa interviene là dove la natura manca, dove essa fallisce: la malattia è proprio uno di questi casi. Siamo in presenza, agli albori della tecnica medica, di uno straordinario capovolgimento del rapporto tra natura e tecnica, che vengono ad essere considerate come indissociabilmente legate tra loro. La natura non scompare, essa è ancora ben presente, è anzi il fulcro dell’operare medico, ma subisce un duro colpo. Non è più un principio unico, un arché; è frammentata, dispersa in una pluralità di ékaston, di cose. Ad ogni cosa risponde una certa tecnica; per ogni cosa c’è una determinata e specifica risposta. Non si dà un unico sapere per la natura. Essa ha una molteplicità di segreti da svelare. Compito delle varie tecniche far sì, senza usare la violenza, che essa li sveli.

Questa “frattura epistemologica” si perpetuerà nell’intera storia dell’Occidente, costituendo il perno stesso dello Occidente. Ancora in Francis Bacon, nel De dignitate et argumenti scientiarum, II, 2, possiamo trovare espresso il medesimo concetto: “la natura irritata e tormentata dall’arte si consegna in modo più chiaro che quando si confida liberamente”. E nel XVIII secolo, quando la medicina moderna sta per vedere la luce, i termini sono rimasti pressoché identici: “Osservare i malati, aiutare la natura senza far violenza e attendere, confessando modestamente che mancano ancora non poche cognizioni”.(29) La natura è una sorta di “contenitore” in cui la tecnica opera, più o meno violentemente, per ottenere ciò che la prima si rifiuta di dare. Ma cos’è esattamente la natura? Un’immanenza originaria? Un che di indipendente ed eterno? Una semplice funzione della tecnica? E perché Heidegger insiste sulla phýsis e non utilizza il termine natura? A cosa e a chi pensa quando scrive la parola phýsis, opponendola alla téchne? A quale tradizione medica? Il modo ippocratico di descrivere la phýsis può bastarci per comprendere il senso della frase di Heidegger? E se la lettura del Corpus non è sufficiente, a chi dobbiamo rivolgerci per capire fino in fondo la posta in gioco del dire di Heidegger?

Heidegger, in effetti, quando parla di phýsis non si riferisce alla phýsis ippocratica ma a quella aristotelica. Per lui la phýsis è una “causa originaria” nel senso di una Ur-sache, di un “elemento primordiale che costituisce la cosalità (Sachheit) di una cosa”.(30) Physis è un venire alla presenza di ciò che è già là, in ogni phýsei onta (in ogni “ente naturale”). La phýsis è, dunque, ousia: un venire alla presenza che procede da sé verso di sé. La vita dell’uomo è esattamente un movimento da sé verso di sé. In questo, l’uomo, in quanto ente naturale, si differenzia dagli artefatti tecnici. Aristotele scrive, “un uomo nasce da un uomo, ma non una lettiera da una lettiera”.(31) Mentre gli oggetti della tecnica (le lettiere) sono prodotti per un fine a loro esterno, gli enti naturali (gli uomini) hanno il proprio fine in sé. La vita di un uomo, in questo senso, è un “ritornare in sé per s-chiudersi da sé” (das In-sich-zurück-, Aus-sich-Aufgehen).(32) In ciò consiste la differenza tra téchne e phýsis: la prima “produce” artefatti, la seconda fa “crescere”. La téchne iatrikè, in questa suddivisione, si pone su un limite. Il suo produrre mira infatti a uno stato conforme alla phýsis, alla salute. Essa è dunque in cammino verso un qualcosa che non è in essa (la salute) – non è dunque phýsis, poiché la phýsis ha il proprio fine (telos) in sé – ma questo qualcosa, a cui la téchne iatrikè tende, è in realtà ancora phýsis, la naturalità della salute. Aristotele in Fisica, 193 b 12-14 scrive: “la medicina è chiamata cammino, ma non verso l’arte medica, bensì verso la salute; infatti, la medicina parte sì necessariamente dall’arte medica, ma non è diretta verso di essa (quale sua fine)”. La paradossalità della medicina consiste nel fatto, ripetiamolo ancora una volta, che mentre per definizione il prodotto tecnico non è un essere naturale (la lettiera), poiché non ha la propria causa finale in sé (riposta, assieme alla causa efficiente, nel produttore), nel caso della medicina il “prodotto”, la salute, è esattamente dell’ordine della phýsis. Il medico che pratica le tecnica medica opera in vista della salute, di uno stato naturale. Il “prodotto” è quindi esterno alla tecnica, come per tutte le tecniche, ma è dell’ordine della phýsis.

Riteniamo di tutto questo discorso un punto fondamentale: la phýsis, secondo il modo di vedere aristotelico-heideggeriano, risulta dunque essere uno “stato naturale”.(33) La phýsis, ad avviso di Heidegger, che in questo testo è categorico, non può essere pensata a partire dalla téchne.

 

Il reiterato tentativo di chiarire l’essenza della phýsis mediante la corrispondenza con la téchne naufraga proprio ora in ogni direzione pensabile. Ciò significa che dobbiamo concepire l’essenza della phýsis partendo unicamente da essa stessa […].(34)

 

La phýsis è ciò che si mostra da sé, un modo di venire alla presenza che “non ha bisogno di prove”.(35) Per Heidegger, in fondo, ed arriviamo ad affrontare la lettera della sua citazione iniziale, il “risanamento del medico odierno”, dovuto alla téchne, rischia di essere una “corsa all’impazzata” verso la follia, perché il suo operare non è più orientato verso la phýsis, verso la salute come stato naturale, dove l’unità di vita e morte è kata phýsin, secondo natura. In ultima istanza, la concezione della phýsis di Heidegger è totalmente aristotelica, così come anche il rapporto tra phýsis e téchne sembra, anche alla luce della frase al centro del nostro interesse, potersi riassumere in questa frase di Aristotele: “alcune cose che la natura è incapace di effettuare l’arte le compie; altre invece le imita” (Fisica, 199 a 16-17). La téchne greca non “produce tecnicamente” l’uomo e la sua salute, ma imita, assecondandola, la phýsis. È solo quando la téchne rispetta il ciclo della natura che essa fa quel che deve fare, è efficace. La téchne mima il gesto della natura, lo riproduce, artificialmente, ma il modello è e resta la natura. In ogni caso, la téchne è seconda rispetto alla phýsis e il suo compito consiste nel “forzare” la natura per quel che è possibile, al fine di rimetterla sulla retta via. Heidegger – è evidente ed è paradossale se si pensa al suo cammino di pensiero – considera la salute come un dato trans-temporale regolato dal movimento della phýsis. Regolato, cioè, da una phýsis che, nonostante tutto, nonostante cioè l’enorme sforzo che Heidegger ha compiuto per sottrarla ad una sua enticizzazione, ricade in una specie di immanenza originaria. In questo senso, e veniamo così ad una prima conclusione, la phýsis heideggeriana, nel suo rapporto alla téchne, non è poi così lontana da quella ippocratica: per entrambe la téchne è un supplemento della natura, e la natura è il luogo dell’operare strumentale della tecnica. La lotta tra medicina e filosofia è dunque, in realtà, solo apparente. Entrambe continuano a poggiare su un medesimo fondamento: la phýsis. Se per Heidegger, l’accento è posto più sulla phýsis, per gli ippocratici si sposta sulla téchne, ma per entrambi la phýsis è un dato indubitabile. Essa resta ciò per cui possono essere creati infiniti supplementi, ma che permane nel suo venire attraverso il tempo. È a partire da qui, da questo presupposto, che Heidegger potrà scrivere, come abbiamo avuto già modo di vedere, che “la téchne può soltanto venire incontro alla phýsis, può favorirne più o meno il risanamento, ma, come téchne, non potrà mai sostituirsi alla phýsis e diventare al suo posto, l’arché della salute come tale”. Frase che come ben vediamo è, per l’essenziale, identica a quella che si trova nel capitolo 12 del De Arte e, in definitiva, in tutta la tradizione occidentale o metafisica, secondo la terminologia dello stesso Heidegger (e, come possiamo già intuire, su cui si fonda anche il Giuramento). Ed è davvero quasi incomprensibile come egli abbia potuto scrivere una simile frase e al contempo parlare delle tecnica come di un nuovo “invio dell’essere”, ponendo così le basi di un ripensamento radicale della tecnica, non più considerata come un semplice strumento, ma come, appunto, invio o configurazione del e di mondo. Egli scriverà con forza, “la tecnica non è un semplice mezzo”.(36) Essa è anzi un modo in cui l’essere si disvela nel nostro tempo. Ma per Heidegger, in realtà, l’essere si svela in quanto phýsis. Essere e phýsis sono sinonimi, poiché, come egli ci spiega, lo scandirsi, nel ritmo della vita e della morte, e lo svelarsi, nella molteplicità degli enti, della phýsis è la verità dell’essere. Ed è “verità dell’essere in quanto crescita e produzione (poiésis)”.(37) Da cui deriva che la téchne, in quanto poiésis,(38) è sì una modalità di svelamento dell’essere, ma in quanto essa è sottomessa alla phýsis. La téchne greca è dunque una modalità di svelamento (di verità) della phýsis (dell’essere). La téchne iatrikè svela dunque (dice la verità) dell’uomo greco, scandisce il ritmo della sua esistenza in relazione alla salute naturale che lo sovrasta. Essa è un “aiuto” all’essere-in-cammino verso di sé della phýsis. La phýsis è infatti “όδός φύσεως είς φύσιν”,(39) che porta il vivente alla vita per poi condurlo alla morte. Ma se la phýsis, in ultima istanza, è “l’essere e l’essenza dell’ente”,(40) come è possibile che a un nuovo “invio dell’essere”, chiamato tecnica, corrisponda un’impossibilità della tecnica a sostituirsi alla phýsis? La risposta negativa adombrata da Heidegger, sembra poggiare sulla dimenticanza del fatto che l’uomo è technitès per phýsei. La supplementazione della phýsis per mezzo della téchne, non deriva infatti dal carattere strumentale della tecnica, ma è ben più radicalmente inscritta nella stessa phýsis.(41) In questo senso, Heidegger dovrebbe dire che lo sprofondamento del fondamento, l’inabissarsi della phýsis nell’epoca della tecnica, è inscritto nell’invio generale dell’essere. Qui, però, per comprendere meglio cosa egli intenda e cosa sia in gioco nella riflessione heideggeriana della tecnica, in modo tale da poter anche arrivare meglio preparati a cogliere i paradossi del Giuramento ippocratico, occorrerà rivolgere la nostra attenzione a cosa Heidegger pensasse esattamente della téchne nella sua differenza specifica dalla tecnica contemporanea.

 

 

4. La questione della tecnica

 

Riassumiamo e definiamo dunque meglio gli elementi in gioco, e cerchiamo di proseguire oltre arrivando così, infine, alla vera e propria problematica dell’eutanasia.

Abbiamo cercato di mostrare quanto Heidegger possa avere un ruolo fondamentale per comprendere ciò che è in gioco nella pratica dell’eutanasia. La centralità del suo pensiero in una tale problematica risiede nel fatto che egli è il primo pensatore a porre radicalmente la questione della tecnica. Egli sostiene, da una parte, che “l’essenza della tecnica […] è l’essere stesso”, e che dunque il problema della tecnica non è risolvibile semplicemente come un problema di miglior regolazione da parte dell’uomo degli inconvenienti che la tecnica provoca; d’altro canto, Heidegger ritiene però che la tecnica sia un “derivato secondo” rispetto alla natura. Dunque, se da una parte egli sostiene che solo arrivando a pensare il problema della tecnica noi potremo comprendere quale sia oggi l’essenza dell’uomo, il senso della sua esistenza,(42) dall’altra egli scrive che “il reiterato tentativo di chiarire l’essenza della phýsis mediante la corrispondenza con la téchne naufraga proprio ora in ogni direzione pensabile, [e] ciò significa che dobbiamo concepire l’essenza della phýsis partendo unicamente da essa stessa”.(43) In questa oscillazione, si gioca tutta la differenza che Heidegger pone fra la téchne greca e la tecnica moderna. Se infatti, la téchne greca, come abbiamo visto, poteva ancora essere, agli occhi del pensatore tedesco, una modalità di svelamento rispettosa del carattere evenemenziale della phýsis, cioè del suo darsi secondo un ritmo “naturale”, oggi la tecnica diventa un puro progetto calcolante, cibernetico, basato sulla volontà di padroneggiare anche l’incalcolabile (ad esempio, la morte). Nell’epoca della tecnica ci troviamo dunque ancora di fronte, sì, a una forma di disvelamento ma questa volta connotata “dal voler disporre della natura, dal rendere utilizzabile, dal poter calcolare anticipatamente, dal predeterminare come il corso della natura [c.m.] debba procedere affinché io possa stare sicuro nel rapporto con esso”.(44) È il famoso Gestell (imposizione)(45) heideggeriano. La tecnica moderna per Heidegger è dunque Gestell, sistema calcolante e appropriante, dell’uomo moderno. Imposizione, quindi, di un destino (Geschick) e di un estremo pericolo (Gefahr). Ma qual è questo pericolo? Esattamente quello che avevamo incontrato nella lunga citazione di Heidegger che ci ha obbligati a questo esteso détour: il pericolo di un’umanità che ha la propria ragion d’essere nel suo carattere tecnico, nella sua tecnicità, tecnicità che diviene essenziale nella stessa definizione di natura. Quando la tecnica diventa il nuovo invio (Schicken) dell’essere, il nuovo modo in cui l’uomo si rapporta e si interroga sulla propria essenza, allora la questione della tecnica diviene il luogo di una ridefinizione globale del senso stesso delle parole che scandiscono i processi e i momenti dell’esistenza: vita e morte comprese. Se la tecnica moderna è ciò in cui ne va dell’essenza del Dasein, dell’esserci, di quell’ente nella cui esistenza ne va della sua essenza (l’uomo), se essa in-forma il Dasein, se è il luogo della sua fatticità e del suo essere-gettato, allora pensare radicalmente la tecnica, non più come un semplice strumento nelle mani consapevoli dell’uomo, ma come un nuovo invio dell’essere, significa ripensare radicalmente anche il modo in cui la tecnica , ridefinendola completamente, l’essenza dell’uomo. In questo senso il pensiero heideggeriano della tecnica va coniugato e interpolato con la sua analisi della condizione finita dell’uomo, cioè con l’analitica esistenziale svolta in Essere e Tempo. Se, infatti, l’impianto di fondo resta un imprescindibile punto di partenza per affrontare il problema della morte, si deve però ripensare cosa diventi l’essere-per-la-morte, quando la morte non può più essere considerata un “dato naturale”. Anche la morte, infatti, muta all’interno del Gestell della tecnica, poiché quest’ultima mostra un inedito senso della finitezza, del carattere finito dell’essere umano, del suo continuo precipitare in una temporalità in cui ne va del suo essere. In questo senso, occorre sottolineare come il Gestell – che, distanziandosi da Heidegger, bisognerebbe intendere come l’insieme delle tecniche, come il rinvio che le lega l’una con l’altra, e non come la tecnica – ben lungi dal creare, rovesciandola in un’assenza temporale priva di senso, una dissoluzione della storia, della temporalità teleologica della storia, orientata ad un fine e a una fine (la morte), espone il Dasein a una temporalità che potremmo definire puntuale o evenemenziale. Il senso non scompare, ma piuttosto è disseminato nella puntualità di ogni evento. La tecnica fa sì che l’esperienza del senso, del suo senso e del senso del Dasein, sia ogni volta rimessa in gioco nell’operare contingente che la invoca. Non c’è un Senso della tecnica perché esso è tutto concentrato nel punto. La tecnica rimette a(l) punto la questione del senso, la fa implodere in un punto ogni volta singolare e circoscritto (benché ogni punto sussista solo in una relazione di punti, in una condizione che Heidegger ha giustamente definito di Mitsein). Con la tecnica si passa da un senso generale e generico ad un senso puntuale, che sappia rispondere puntualmente alla singolarità di una richiesta, mettendo, al contempo, in gioco il senso dell’intera tecnica. Non a caso la tecnica, e ancor più la tecnica medica, fin dai suoi albori ippocratici, come abbiamo avuto modo di vedere, opera per casi, opera sulla singolarità di un patire.(46) Il nuovo senso della finitezza che appare con l’imporsi della tecnica contemporanea è forse, dunque, al di là dei molti stereotipi, un nuovo senso del senso in quanto finitezza, un nuovo senso della temporalità del Dasein così ben analizzata da Heidegger negli anni ‘20.

 

 

5. L’essere-per-la-morte

 

L’analisi dell’esistenza compiuta da Heidegger in Sein und Zeit mira a delineare la struttura di ciò che egli ha voluto definire come Dasein (parola comune, in tedesco, per nominare l’esistenza, ma nel quale bisogna sentir risuonare il Da-, il qui o ci – la puntualità – e il sein, l’essere; nome, dunque, che viene normalmente e a ragione tradotto come «esserci»). Il Dasein è il qui in cui l’essere, l’essere o l’essenza dell’uomo, può svelarsi. Ma proprio in quanto Dasein esso si distanzia dell’uomo, quale è comunemente inteso dall’umanismo. Il Dasein è altro rispetto a un soggetto in sé definito che si opporrebbe a un’esteriorità (il mondo).(47) Esso è infondato e proiettato fuori di sé: la sua esistenza è un’ek-sistenza, cioè, secondo l’etimologia, un stare fuori di sé, un essere-nel-mondo, una possibilità. L’esserci è, quindi, tanto “un poter-essere o […] un essere-possibile”,(48) una possibilità aperta, quanto il luogo di un’esposizione al mondo, una continua relazione all’altro, e, in particolar modo, a quell’alterità radicale e a quell’impossibilità che è la morte. L’esserci vive, infatti, nell’anticipazione della propria fine. Una fine che resta però inappopriabile. Benché, infatti, l’intera esistenza sia strutturata sulla continua anticipazione della fine, sul suo essere senza fine differita, essa resta sempre ciò di cui non ci si può appropriare. La mia morte è dunque impossibile da raggiungere: non posso determinarne il momento o calcolarne il giorno. La morte, la mia morte, è ciò di cui non posso fare esperienza o, per dirla con una formula lapidaria di Wittgenstein, “la morte non è evento della vita. La morte non si vive”.(49) La morte è la soglia intangibile della vita. La mia vita, dunque, è l’essere-per-la-mia-fine come ciò che è fuori di me, non a portata di mano. La vita è questa proiezione deferente verso una possibilità impossibile da afferrare. Ed è per questo che la morte è la possibilità più propria ma anche l’impossibile dell’esistenza.

Heidegger può così dire che il Dasein ek-siste, esiste fuori di sé. Il Dasein è, infatti, sempre proiettato fuori-di-sé, in un sé che coincide con l’atto stesso di proiettarsi. Il sé del Dasein non è un che di dato, un’interiorità da preservare, ma è esattamente l’anticipazione (la proiezione) verso la possibilità più propria, cioè verso la propria inappropriabile morte. In questo senso, l’identità del Dasein è sempre differita nell’anticipazione. Per dirla con Derrida,(50) l’identità del Dasein è sempre (nel)la sua différance, nel suo continuo differirsi nell’impossibile istante della propria morte (dove la morte è proprio ciò che impedisce all’esserci di chiudersi su di “sé”).

L’uomo sarebbe, dunque, per essenza l’essere finito, il mortale, colui che non può che morire: homo muribundum est. In questo senso, Heidegger definisce come possibilità più propria dell’uomo il suo essere-per-la-morte, il suo Sein zum Tode, che sarebbe forse meglio tradurre come “essere in relazione alla morte”. L’uomo, nel suo essere gettato nel tempo, è già da sempre in relazione alla morte: dapprima alla morte altrui, al “decesso”, e poi alla propria morte. Ma “morire, per il Dasein, non significa raggiungere il punto terminale del proprio essere, quanto essere vicino alla fine in ogni momento del proprio essere”.(51) L’essere-per-la-morte è quindi una modalità esistenziale che il Dasein assume su di sé. Il Dasein, infatti, – il cui essere, come detto, è sempre un aver-ad-essere – assumendo, tramite una “decisione” che lo sottrae alla chiacchiera e ai cliché del Si impersonale dell’improprietà inautentica della quotidianità, la propria morte come possibilità estrema e più propria, si apre ad una comprensione radicale della propria essenza alla luce della possibilità sempre aperta dell’evento della morte. Questo gesto di assunzione della propria morte deve però essere ogni volta affidato alla singolarità di un’esistenza. “Il proprio morire, ogni Dasein deve necessariamente ogni volta assumerlo da se stesso. La morte, nella misura in cui essa ‘è’, è ogni volta la mia”.(52) L’analitica dell’esistenza heideggeriana ci conduce, quindi, a questa radicale singolarizzazione della morte: ogni morte è unica, assolutamente unica e inappropriabile. Il rapporto alla morte, alla propria morte, non può essere delegato. Anzi, l’esser-per-la-morte è proprio quell’esercizio (cura) che consente all’uomo di esporsi direttamente alla (im)propria morte, sottraendosi all’impersonalità del “Si”. Questo significa che non si dà morte in generale.

Se questa affermazione è corretta, allora parrebbe che Heidegger negli anni successivi a Sein und Zeit vada contro se stesso, quando intende, come abbiamo visto, la morte come un qualcosa di naturale. Egli, al posto di rivolgersi verso una presunta originarietà ontologica della morte secondo phýsis, avrebbe dovuto continuare a pensare radicalmente la morte come un puro evento, e mai come un dato naturale, come invece, forse suo malgrado, fece. In quanto evento, infatti, essa è sì singolare, come ogni evento, ma è anche inserita in un più ampio destino comune, in quel destino comune che ai nostri giorni prende il nome di epoca della tecnica. L’evento della morte è dunque oggi, l’evento di una morte tecnica, di una morte sottomessa all’imposizione (Gestell) della tecnica, in cui la phýsis scompare. È inutile negarlo, richiamandosi all’umanità della morte nei tempi che furono e alla disumanità della morte tecnica. Questa, infatti, non può essere una questione morale, impostata secondo termini metafisici oggi vacillanti, come quell’“umanità” a cui ci si richiama. Quel che è da pensare, invece, è come la tecnica – che è certo “disumana”, perché mostra l’essere senza fondamento dell’uomo – cerchi di appropriarsi dell’inappropriabile, e come noi tutti siamo esposti a questa appropriazione disappropriante. Ma si faccia attenzione, non si tratta di pensare come l’uomo si appropri della propria morte, ma come la tecnica – quella tecnica, ormai spero sia chiaro, che non è uno strumento nelle mani dell’uomo, ma una inedita dimensione ontologica – esponga l’uomo a un’inedita dimensione della morte. L’uomo non è più, come poteva esserlo ancora per Sofocle, “il signore delle tecniche”,(53) egli è piuttosto abbandonato alla tecnica, esposto alle sue prassi. La morte, quindi, per l’uomo è e continua ad essere, anche nell’epoca della tecnica, l’inappropriabile.

Da una parte, noi ci troviamo a passare dall’inappropriabile della morte “naturale”, all’improprietà della tecnica; dall’altra, la stessa tecnica non si appropria della mia morte, poiché la mia morte resta ancora l’inappropriabile per me. L’eutanasia, dunque, in quanto una delle possibili dimensioni tecniche della morte, non risolve il nodo della morte. Essa non è il tentativo da parte del singolo di appropriarsi della propria morte. Il singolo è e resta esposto alla morte come evento non prevedibile. La morte accade, come è sempre accaduta, ma essa accade, eviene, oggi, nella sua dimensione tecnica. Essa viene ad inserirsi in un complicato quadro tecnologico, in cui vita e morte, sono regolate secondo criteri tecnici, che possono lenire o aumentare la quantità di dolore. L’eutanasia, in fondo, non va a toccare il momento della morte, ma piuttosto, come avremo modo di vedere, la soglia del dolore: diviene una forma estrema di regolazione del dolore. Se il problema dell’eutanasia viene così impostato esso si trasforma essenzialmente nel problema di una tecnica che possa porre fine al dolore, ed in quest’ottica esso viene immediatamente a decadere qualora la scienza riesca a trovare nuove terapie capaci di sedare la sofferenza dei singoli morenti. In questo senso, occorrerà ben distinguere l’eutanasia dal suicidio e dalle varie forme di “accompagnamento del morente”. L’eutanasia, infatti, contrariamente a quanto il suo nome enuncia, la “buona morte”, non è un rapporto del singolo alla propria morte e tanto meno un buon rapporto alla propria morte.(54) Si deve piuttosto dire che essa non è esattamente un rapporto, ma un rapporto-senza-rapporto alla propria morte. Rapporto, dunque, fondato su un intervento tecnico che pone fine alla vita, senza per questo voler essere forma di possesso del venire della morte. Non sono mai io, infatti, a scegliere la morte, non sono io darmi la morte, non c’è mai una mia maîtrise della morte, poiché la morte non è dominabile dal soggetto, e, soprattutto, la morte non è un qualcosa che possa essere “donato”. La morte, a rigor di termini, non solo non può essere “donata”, ma non può nemmeno essere scelta, poiché è dell’ordine dell’ineluttabile. Con l’eutanasia, allora, casomai, si è in presenza di un abbandono ad altro, a quella stessa tecnica che tiene in vita. Più che di una presa nelle proprie mani della morte, si tratta di un lasciar la presa, di un abbandonarsi, non più alla natura (poiché essa non è più il nostro orizzonte di senso), ma alla tecnica. Sarebbe quindi forse opportuno sostituire al termine eutanasia (buona morte) quello di distanasia (non-morte) che conserverebbe la traccia di una morte che non nasce da una volontà di dominio, ma, appunto, da un lasciar la presa, da un rapporto-senza-rapporto alla morte.

È qui che appare con più evidenza il paradosso o l’aporia in cui si viene a trovare la questione dell’eutanasia nell’epoca della tecnica. Se infatti è vero che la tecnica tende ad appropriarsi della morte, a prevederne i termini, a deciderne l’istante, è anche vero che il soggetto che muore, il morente, non è in alcuno modo “padrone” della sua morte. La morte resta per lui un evento esterno. Egli si lascia andare, lascia vacante il suo “luogo” di soggetto. Nell’eutanasia, effettivamente, come scrive Heidegger, l’uomo fa saltare in aria se stesso, cioè mette in questione “la sua essenza come soggettività”. Come vedremo, l’eutanasia interviene proprio quando il soggetto definitivamente svanisce nel dolore, in un dolore che non può più nemmeno esser definito suo. Il morente, allora, ben lontano dal voler prendere in mano il proprio destino, si abbandona ad un terzo. Ma questo terzo non è il medico, ma la tecnica medica che può far sopravvenire la morte. È dunque sbagliato derivare da questa dissoluzione della soggettività umana l’idea di un “’dominio’ umano sul globo terrestre”. L’uomo non domina per nulla la propria morte. Il medico non dà la morte, perché la morte non può essere donata. La morte, infatti, è dell’ordine della venuta, viene a noi. Anche nell’eutanasia la morte sopravviene, passa sopra al soggetto che muore. Giunge, come sempre, in un modo che lo oltrepassa, secondo le modalità, però, di una tecnica che sorregge fin dalla nascita la sua vita. La tecnica, in questo senso, pone fine all’uomo, lo finisce esponendolo alla sua finitezza. Nell’eutanasia viene meno la figura dell’uomo come essere naturale, come ente regolato dalle eterne leggi della natura. Con l’avvento della tecnica non solo si pone fine all’uomo, ma si porta a compimento anche, ma in realtà è la stessa cosa, il primato dei fini della natura. L’uomo, non più immerso in una natura che indica il senso della sua esistenza, la sua causa finale, viene ad essere esposto al senso della sua finitezza e alla finitezza come orizzonte di senso della sua vita, cioè ad un senso finito come senso del finito.(55) L’uomo è dunque, oggi, confrontato a una fine che accade secondo le modalità della tecnica, secondo una indecidibile decisione che ancora una volta lo riguarda senza appartenergli. Ancora una volta bisogna dire che la tecnica non dà la morte, non può darla e non dà un senso alla fine. Essa può solo esporre ogni singolo uomo, nella sofferenza estrema della sua fine, al fatto che quella fine non ha un senso finale (o naturale), ma solo un molteplicità di sensi possibili. Tra questi sensi quello di una morte che può sopraggiungere, giungere a noi in un dato momento. Cosa questa morte significhi è davvero difficile pensare. Certo è che essa è ormai giunta a noi. Inutile richiamarsi a un Senso della morte che essa dissolverebbe per aprire solamente ad un baratro senza fine, fonte di orrori infiniti e di non senso. La tecnica, infatti, è certamente questa distruzione di ogni Senso finale, ma essa non è il puro non senso. Ed è dunque ancora una volta erroneo dire, come fa sempre Heidegger nella frase da cui abbiamo preso le mosse, che nella produzione tecnica dell’uomo “l’assoluta assenza di senso vale come unico ‘senso’”. È sbagliato perché significa concepire la tecnica come un’assenza di senso. Il che può essere vero solo se si aggiunge che il senso così inteso è in realtà il Senso della storia e dell’esistenza. Ma il senso è oggi, proprio a partire dalla tecnica, disperso nella finitezza di ogni prassi. Non si dà più un Senso finale e, dunque, nemmeno un Senso della fine né dell’inizio, della morte e della nascita, ma l’assenza di senso della tecnica fa segno verso l’apertura della questione del senso come circoscritta all’interno dei confini della tecnica. Il senso è completamente abbandonato al fare della tecnica, al suo configurare mondi possibili ed inediti. L’apparente non senso della tecnica ha a che fare con una disseminazione di senso in ogni dove, e maggior ragione nella questione della fine. La tecnica è ormai completamente entrata a far parte della questione della fine. Se si dà una fine per l’uomo oggi, essa è tecnica (come d’altronde il suo inizio, la sua nascita). Ritenere che tale questione sia ancora infinitamente aperta è tutt’altra cosa dal non pensarla e stigmatizzarla. La tecnica, infatti, non è né buona né cattiva: è un’apertura che va abitata e pensata fino in fondo. Pensarla non significa certo – e ritorniamo così infine al Giuramento ippocratico (56)  rivolgersi ad una deontologia fondata più di duemila anni orsono. Il problema aperto dalla de-ontologia, dalla profonda mutazione ontologica dell’esistenza messa in atto dalla tecnica, non può essere risolto tramite una deontologia. Gli sforzi di una parte della classe medica e di alcune associazioni di bioetica, da questo punto di vista, sebbene spesso animati da ottimi propositi, cadono nel vuoto. La tecnica, che manda in rovina le antiche verità, come avrebbe detto Nietzsche, non è un strumento da governare e regolare tramite l’etica, le buone intenzioni. Il che, ovviamente, non significa che si debba solamente sottomettersi alla tecnica o abbandonarsi ad un amoralismo senza scrupoli. Naturalmente è tutt’altro quel che dobbiamo fare. Dobbiamo cercare di pensare cosa tutto ciò liberi; come questa situazione di smarrimento ci imponga una responsabilità maggiore di quella di qualsivoglia sistema etico, una responsabilità sprovvista di ogni segno di riferimento; una responsabilità che si pone sul limite tra la necessità della tecnica e la libertà che essa ci dà. Cosa che certo non avviene nel momento in cui ci si limita a ripetere, giurandolo, “non darò a nessuno del veleno neppure se richiestone, né mai proporrò un tale consiglio”, quando è del tutto chiaro, anche in base a quel che abbiamo visto più sopra, che ciò che sottende una simile affermazione è la concezione greca di phýsis, pur nella particolare sfumatura che essa assume per gli ippocratici. Comportarsi in questo modo significa, ancora una volta, ergere a paradigma fondamentale dell’esistenza il grande ciclo della vita e della morte, il movimento da sé a sé di ogni phýsei onta, dove tutto quello che accade è in qualche modo già accaduto. Si assume come già dato e come ovvio il movimento naturale dalla nascita alla morte di tutti gli esseri naturali. Heidegger, in questa stessa direzione, potrà scrivere: “Col venire alla vita, ogni vivente incomincia già anche a morire e viceversa: il morire è ancora un vivere, perché solo il vivente può morire; anzi, il morire può essere l’‘atto’ supremo del vivere”.(57) È la più classica delle concezioni della phýsis a sorreggere queste parole di Heidegger: la stessa che da Aristotele e gli ippocratici arriva fino ai nostri giorni.

Abbracciando il Giuramento si fa, dunque, propria tutta una retorica della vita e della morte che percorre fin dalla sua nascita l’intera storia della filosofia e, ormai dobbiamo dirlo, della medicina.(58) Una retorica che è anche una metafisica. Metafisica che porta alla paradossale posizione della medicina. Essa, che ha inaugurato la dimensione tecnica della salute, la téchne iatrikè, è costretta a rivolgersi indietro ad una concezione della phýsis ormai superata per sua stessa mano. La medicina ha in sé questa ambivalenza, perché non è mai riuscita a liberarsi veramente della filosofia. Ha conservato in sé quella phýsis di cui aveva cercato di liberarsi, per rendere autonoma la sua téchne. Il suo Giuramento ne testimonia ancora ampiamente: la naturalità del morire non può essere nemmeno discussa, va giurata, quando in realtà, nella sua prassi, la medicina quotidianamente avvicina e allontana la morte, snatura la natura, la dissolve nella sua tecnica. L’opinione medica più diffusa oggi, che con così gran forza si oppone all’eutanasia, credo dovrebbe a lungo riflettere sul paradosso su cui si fonda la sua scelta. Dovrebbe cercare di capire da dove provengono quelle parole su cui essa giura; capire cosa ha significato la phýsis che essi si impegnano a rispettare, capire come la loro stessa tecnica ponga in dubbio l’esistenza di quella phýsis e pensare, infine, come tutta la nostra vita debba essere ripensata dall’inizio alla fine nell’epoca della tecnica dispiegata in tutta la sua potenza.

 

 

6. La morte nell’epoca della tecnica

 

Il tema della natura come la nostra civiltà occidentale l’ha concepito per secoli è dunque ormai alla propria fine. La natura, quest’entità considerata nel pensiero comune, così come in larghe fasce del mondo tecnico-scientifico, come qualcosa a metà tra un dio secolarizzato, un’immanenza originaria e un organismo fonte di ogni bene, sta in realtà scomparendo per opera della tecnica, di quella tecnica che mostra che non c’è natura. Ma allora la domanda che si impone è: in un “mondo snaturato”, come già scriveva Leopardi – e intendo con questa espressione un mondo che a causa della scienza e della tecnica ha perso la natura, la phýsis che scandisce il ritmo della vita e della morte – come può la pratica medica rivolgersi al morire umano, senza rifugiarsi in una deontologia anacronistica? La risposta a questa domanda costituisce il nodo che noi tutti dobbiamo sciogliere, se vogliamo confrontarci seriamente con il problema dell’eutanasia oggi. Benché sembri difficile dare una risposta definitiva, almeno una cosa pare certa: la tecnica non può più essere una semplice imitazione suppletiva della natura, secondo la definizione classica di Aristotele, ripresa, sotto diverse spoglie, da tutto l’Occidente. Le biotecnologie, le zootecniche, le tecniche alimentari di sfruttamento della terra, dei mari e dello spazio, tutto quello che ci circonda è infatti sempre in-formato da una qualche tecnologia. Il nostro stesso corpo è soggetto a una continua manutenzione e ricreazione artificiale. I tessuti e gli organi saranno ben presto “fabbricabili”, attraverso la “coltivazione” di cellule di embrioni. E queste notizie avveniristiche, così eclatanti ai nostri occhi, sono solamente la manifestazione di un fenomeno che, in modo più discreto, ci tocca già quotidianamente. Il secolo appena concluso è un secolo in cui le tecniche mediche hanno completamente stravolto il ciclo naturale della vita, in cui la stessa espressione “ciclo naturale della vita” è diventata anacronistica. Non suscita in noi più nessun effetto pensare che i medicinali ci salvino ogni anno da morte certa: quanti di noi sarebbero già morti, e da molto, se la medicina non fosse intervenuta? La tecnica – e quello appena citato non è che un esempio tra infiniti altri – ha già alterato radicalmente la natura, la nostra e quella che ci circonda. Ciò che oggi accade, e che fa sì che un nuovo scenario si apra davanti a noi, è un evento completamente inedito: la natura sta scomparendo definitivamente, per lasciare la scena alla produzione tecnica della vita, o per dir meglio, la natura si sta dimostrando essere un effetto della tecnica. Tutto ciò, questa messa a nudo del rapporto natura/tecnica, non può che implicare un diverso modo di pensare i punti nodali che hanno caratterizzato l’esistenza dell’umanità fino ad oggi. Se il concetto di vita cambia, anche quello di morte deve mutare. L’eutanasia, in quest’ottica, non è più un’arbitraria decisione umana che sconvolge l’ordine naturale, ma una risposta a un problema nato da un mutamento epocale che coinvolge e sconvolge il nostro mondo. È una possibile risposta, e non una riattivazione o rivisitazione di altri modelli appartenenti a tradizioni del passato, come il suicidio o l’accompagnamento del morente (avremo modo di ritornarci più avanti). Pensare fino in fondo l’eutanasia, allora, vuol dire pensare questo inedito legame tra tecnica, dolore e morte. E ciò non ha nulla a che vedere con un discorso sul valore o non valore della vita, su una gerarchia delle esistenze o su un cinico discorso sul costo sociale del mantenimento in vita di soggetti non più produttivi o utili per la società. Non si può quindi applicare al problema dell’eutanasia un’ottica che non le appartiene. Va detto chiaramente e con forza: il problema dell’eutanasia non può essere comparato, per esempio, alla visione futuristica di un “suicidio etico” atto a risolvere il problema del sovraffollamento sulla terra.(59) L’eutanasia non serve a liberare la società di un peso, perché, in ultima istanza, il suo unico referente è il singolo nel suo libero rapporto, da una parte, al proprio dolore e, dall’altra, alla possibilità della produzione tecnica della sua morte. Compiere una simile sovrapposizione di temi significa da un lato essere intellettualmente disonesti e dall’altro, dimostrarsi incapaci di pensare la situazione in cui ci troviamo, non in un futuro lontano, ma già adesso a dover vivere. In questo senso, il monito di Heidegger suona più che mai attuale: “Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca”.(60) Ed è davvero inquietante ascoltare i discorsi che per lo più si oppongono all’eutanasia. Il richiamo è quasi sempre alla tradizione, alla naturalità della morte, a lasciarle fare il proprio corso, a lasciare tempo al tempo. È ancora e sempre lo stupendo ma ormai inattuale adagio dell’Ecclesiaste: c’è un tempo per nascere e un tempo per morire. Ma se queste parole hanno avuto un senso per secoli, oggi non l’hanno più. Così, ostinarsi a ripeterle, vedendo in esse una panacea ai nuovi problemi che ci troviamo a dover affrontare denota una cieca volontà di non intervento. In tutti i discorsi che si richiamano a una simile tradizione, nelle sue infinite varianti, il tema più o meno ricorrente ed evidente è quello classico del non far violenza alla natura, che unisce i Greci e la tradizione biblica. È la tracotanza dell’uomo nei confronti della natura e di Dio ad essere condannata. Eppure, di fronte a tutti questi discorsi del non intervento risuona ancora nella sua limpidezza la critica di David Hume che, a coloro che sostenevano il divieto per l’uomo di intervenire sul corso della vita, opponeva una semplice obiezione: “se disporre della vita umana fosse una prerogativa peculiare dell’onnipotente, al punto che per gli uomini disporre della propria vita fosse un’usurpazione dei suoi diritti, sarebbe egualmente [c.m.] criminoso salvare o preservare la vita”.(61) L’argomentazione di Hume è importante perché mostra l’inconsistenza logica di quella posizione che ritiene di dover lasciare la morte nelle mani di Dio, posizione ben formulata da Tommaso d’Aquino nella Somma teologica: “A Dio soltanto appartiene il giudizio di vita e di morte, secondo le parole della Scrittura: ‘Sono io a far morire e a far vivere’”.(62) Mi pare davvero che l’obiezione di Hume alla formula dell’aquinate sia irrefutabile: se Dio è il Signore della vita e della morte, a lui dovrebbero esser lasciate tanto l’una quanto l’altra. Il religioso, per essere coerente, dovrebbe rifiutare qualsiasi forma d’intervento sulla propria vita. Non assumere quindi nessun tipo di farmaco, poiché la sua assunzione potrebbe scongiurare una morte che forse il Signore gli sta inviando. Ma oltre che per la sua limpidezza, questa critica è pregnante in quanto facilmente estensibile a discorsi che non si professano religiosi in senso stretto. Se proviamo infatti a sostituire al nome di Dio quello di Natura vediamo che la forza dell’osservazione di Hume resta inalterata.(63) Se infatti, attraverso le tecnologie di cui disponiamo, continuamente modifichiamo il corso della vita e ancor più profondamente arriviamo oggi a produrre la vita, rendendo anacronistico lo stesso concetto di nascita naturale della vita, perché, per quale ragione, quelle stesse tecnologie non potrebbero essere usate per produrre la morte, quando la vita diviene insopportabile? Vita e morte non possono essere lasciate nelle mani di Dio più di quanto non possano essere abbandonate alla Natura, poiché esse sono per noi immerse nel mondo della tecnica che continuamente le produce, le modifica e le in-forma.

Hume permette dunque di comprendere quanto siano prive di razionalità molte delle posizioni religiose che comunemente vengono opposte all’eutanasia. Esse sono dogmatiche, fondate su dogmi morali indiscutibili, di fronte ai quali è inutile qualsiasi argomentazione. Ma quand’anche si replicasse che il problema non può esaurirsi in una “dimostrazione d’inconsistenza logica”, sostenendo quindi che l’argomentazione di Hume non coglie nel segno, poiché si rivolge solo al lato razionale dell’esistenza, credo che sorgerebbe un’altra serie di più che consistenti obiezioni. Obiezioni che possono riassumersi in queste domande formulate in un documento dell’Unione delle Chiese valdesi e metodiste:

 

Ma significa veramente sostituirsi a Dio accogliere la domanda di un malato grave che intende porre termine alla sua vita? Si sottrae a Dio una parte della sua signoria sul mondo e sulla vita accogliendo la richiesta di un malato grave di poter morire? O si mette in questione il potere acquisito della medicina moderna di mantenere in vita un corpo che produce dolore senza più poter accedere a un senso della vita? E ancora, dietro a questa onnipotenza della medicina non si nasconde una difficoltà ad affrontare la propria morte? […] Che cosa impedisce di leggere anche questa domanda [la domanda del paziente che chiede di morire] come un segno della spiritualità viva e cosciente, radicata nel Dio della vita e nelle sue promesse? Con quale autorità spirituale posso io contrastare la libertà e responsabilità di un altro di decidere il tempo della sua morte quando il vivere è un’umiliazione quotidiana senza speranza? […] Da quale parte sta il Dio della vita e della promessa? Dalla parte del non-senso del dolore acuto di un malato inguaribile o dalla parte del suo umano desiderio di morire? (64)

 

È questa una posizione che si pone, in un’ottica altamente religiosa, all’ascolto della voce del sofferente. Non entrerò, però, nel merito della discussione accesa o pacata tra le diverse posizioni religiose. Non lo farò perché credo che in fondo essa non colga l’essenziale della questione, cioè la questione della tecnica nel suo rapportarsi alla morte e al dolore. E d’altronde la religione ha sempre avuto difficoltà ad occuparsi della tecnica e della sua attualità fondamentalmente per due ragioni: la religione è sempre anacronistica, contro il tempo, poiché rivolgendosi all’Assoluto si pone fuori dal tempo, rivolgendo lo sguardo a ciò che resta immutabile nei secoli dei secoli, impedendosi così una comprensione autentica dell’attualità; di conseguenza, essa non riesce a pensare la tecnica se non come un monolite ad essa contrapposta, mentre quest’ultima, ben lungi dall’essere un unico e indivisibile apparato, si presenta come la più radicale esperienza della finitezza, di tutto ciò che è finito, frammentato. A ben guardare, infatti, non esiste la tecnica, ma una pluralità di tecniche che quotidianamente si incontrano, collaborano, si scontrano fin nel più minuscolo dei dominî. Si pensi a quante tecniche, ad esempio, entrano in gioco in una terapia medica: tecniche biologiche, chimiche, nucleari, ingenieristiche, statistiche, farmaceutiche…

Se è dunque vero che oggi la tecnica diventa la Um-welt in cui l’uomo abita, se è vero che essa diventa l’unico orizzonte di senso o di non-senso, è anche vero, però, che la tecnica, in quanto declinata sempre al plurale, non si presenta come una riduzione ad un unico Senso, ma piuttosto come un senso disseminato in una inesauribile molteplicità. Le tecniche, in un certo senso, dissolvono, decostruiscono dal suo interno, quel carattere totalitario che Adorno e Horkheimer avevano potuto riscontrare nell’Illuminismo, come anche ogni pensiero assoluto.(65) Le tecniche, usando una formula un po’ schematica, sono la messa in crisi o la decostruzione dell’ideale totalizzante e totalitario della scienza ottocentesca, come ultima propaggine metafisica. Dunque pensare la tecnica in quanto rete di tecniche significa da un lato fare esperienza della fine del sogno metafisico-teologico e scientista circa il senso totale dell’essere o del mondo e dall’altro esporsi alla finitezza del senso, al di là di ogni visione assoluta.

Quel che comunque non si può fare a meno di notare e di apprezzare nel discorso della Chiesa valdese è l’attenzione che esso presta al problema del dolore e al non-senso che esso è. Una vera disamina e presa in carico della questione del dolore del singolo, benché non sufficiente se non correlata ad un pensiero della tecnica, è, infatti, il solo modo per avvicinarsi con forza ai problemi che l’eutanasia solleva. Pensare l’eutanasia e capirne le ragioni e il senso non significa richiamarsi, in modo ortodosso, a prescrizioni morali o religiose nate in altri tempi e adatte ad altre situazioni, ma pensare l’esperienza del dolore, le sue metamorfosi, e se necessario le sue aporie, senza rifugiarsi in un consolatorio superamento dialettico. L’eutanasia, fenomeno tra i più estremi della tecnica contemporanea, è, in un’ultima istanza, intimamente legata alla questione del dolore.

 

 

Note

 

(*) Questo testo fa parte di uno scritto più ampio e ancora inedito dal titolo “Eutanasia. Decostruzione della ‘buona morte’”. Non vengono qui pubblicate la seconda parte, dedicata al problema del dolore, e la terza, consacrata allo studio di casi esemplari e alla definizione di un glossario di base. back

(1) M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1976, p. 30. back

(2) L. Tolstoj, Tre morti, in Racconti, Einaudi, Torino 1953. back

(3) Cfr. A. Tenenti, La Vie et la Mort à travers l’art du XV siècle, Colin, Paris 1952. back

(4) La parola lutto deriva dal latino luctu, participio passato di lugere “essere in lutto, portare il lutto” e poi, genericamente, “piangere”. La parola latina deriva a sua volta da una radice indeuropea col senso fondamentale di “rompere, spezzare”, alludente alle violenti manifestazioni rituali di lutto. Va anche segnalata l’appartenenza del latino luctus alla radice indoeuropea leug da cui deriva indirettamente il greco λυπη che significa dolore, tanto fisico quanto morale. Sul nesso tra dolore e lutto si veda S. Natoli, L’esperienza del dolore, Feltrinelli, Milano, 1986, pp. 28-35. back

(5) Si legga tutto il terzo libro della prima parte dal titolo “L’uomo e il suo sé o meta-etica”, in F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Marietti, Genova 1992, pp. 65-89. back

(06) W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, tr. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1980, p. 239. back

(7) W. Benjamin, Il dramma barocco…, cit., p. 249. back

(8) Si veda, ad esempio, Novalis, Polline, a cura di L.V. Arena, SE, Milano 1989. La morte, per i romantici in generale, è riconciliazione (Versöhnung): “Si diventa degni dell’essenza suprema soltanto tramite la morte” (in Novalis, Schriften, a cura di P. Kluckhohn e R. Samuel, Stuttgart 1960-75, II, p. 395). back

(9) Ph. Ariès, Storia della morte in Occidente, Rizzoli (Bur saggi), Milano 1998, p. 34-35. back

(10) M. Foucault, Nascita della clinica, Einaudi, Torino 1969, p. 31. back

(11) Ph. Ariès, Storia della morte…, cit., p. 70. back

(12) M. Foucault, Nascita della clinica, cit., p. 166. back

(13) G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, p. 183. back

(14) G. Agamben, Homo sacer, cit., p. 158. Vale forse la pena di aggiungere, per comprendere la centralità di questa tesi rispetto al problema da noi affrontato, che Agamben, in questo suo importante libro (tra i più importanti apparsi negli ultimi anni), ritiene di individuare proprio in un “benintenzionato pamphlet in favore dell’eutanasia”, il Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens (L’autorizzazione dell’annientamento della vita degna di essere vissuta) di K. Binding e A. Hoche, la prima articolazione giuridica della “struttura biopolitica fondamentale della modernità” (p. 151). back

(15) M. Foucault, Nascita della clinica, cit., p. 48. back

(16) Ibidem, p. 166. back

(17) M. Heidegger, Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 211. back

(18) Per una ricostruzione generale della Kehre heideggeriana si veda l’ampio saggio di M. Ferraris, Cronistoria di una svolta, in M. Heidegger, La svolta, il Melangolo, Genova 1990. back

(19) Cfr. L. Edelstein, Peri aerwn   und die Sammlung der hippokratischen Schriften, «Problemata», n. 4, Berlin 1931. back

(20) Cfr. V. Di Benedetto, Tendenza e probabilità nell’antica medicina greca, in “Critica storica”, n. 5, 1966. back

(21) Ippocrate, Epidemia, in Opere, a cura di M. Vegetti, UTET, Torino 1965, p. 304. back

(22) Cfr., ad esempio, De Arte, cap. 6, in Opere, cit. back

(23) Aristotele, Metafisica, I, I, 981 a 28-30. back

(24)  “Laddove il corretto (orthón) e il non corretto hanno ciascuno una esatta definizione, come potrebbe non esservi un’arte? Perché proprio questo io definisco l’assenza di un’arte, il non esserci né il corretto né il non corretto: ma un agire nel quale entrambi siano presenti, non esce più dall’ambito dell’arte”, De Arte, cap. 5. back

(25) Cfr. anche M. Vegetti, La medicina in Platone, Il Cardo, Venezia 1995 e Suicide and Euthanasia. Historical and Contemporary Themes, a cura di B.A. Brody, Kluwer, Dordrecht 1989. back

(26) Cfr. J. Jouanna, Hippocrate, Fayard, Paris 1992, III, cap. 4, p. 237. back

(27) M. Vegetti, Ippocrate e la scuola medica di Cos, in in L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti, Milano 1971, vol. I, p. 147; si veda anche M. Vegetti, Introduzione, in Opere di Ippocrate, Utet, Torino 1976. back

(28) De Arte, cap. 12. back

(29) Il Moscati di De l’emploi des systèmes dans la médecine pratique citato da M. Foucault, in Nascita della clinica, cit., p. 31. back

(30) M. Heidegger, Segnavia, cit., p. 200. back

(31) Aristotele, Fisica, 193 b 8-9. back

(32) M. Heidegger, Segnavia, cit., p. 243. back

(33) Ibidem, p. 246. back

(34) Ibidem, p. 246. back

(35) Ibidem, p. 217. back

(36) M. Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, p. 9. back

(37) B. Stiegler, La technique et le temps. La faute d’Epiméthée, Galilée, Paris 1994, p. 23. back

(38) La tecnica è, infatti, una “pro-duzione” (Her-vor-bringen), parola con cui Heidegger traduce il greco poiésis. Cfr. “La questione della tecnica”, in Saggi e discorsi, cit. back

(39) M. Heidegger, Segnavia, p. 246. back

(40) M. Heidegger, Segnavia, p. 254. back

(41) Sul rapproto tra phýsis e téchne  per i Greci si veda anche E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982. back

(42) Cfr., ad esempio, M. Heidegger, La svolta, cit. back

(43) M. Heidegger, Segnavia, cit., p. 246. back

(44) M. Heidegger, Seminari di Zollikon, Guida, Napoli 1991, p. 51. back

(45) Cfr. M. Heidegger, “La questione della tecnica”, in Saggi e discorsi, cit., pp. 14-18. back

(46) Cfr. il capitolo 3: “Esempi: la singolarità del dolore”. back

(47) Aggiungo solo di sfuggita alcune considerazioni sul cosiddetto antiumanismo di Heiddeger, poiché mi sembra che ancora molto si fraintenda a tal proposito. L’antiumanismo, poi ripreso da tanta filosofia contemporanea da Foucault a Derrida, non è coinciso con la tentazione di detronizzare l’uomo per sostitutirvi un’altro soggetto più degno, ma piuttosto con il difficile tentativo di pensare un uomo senza fondamento, cioè un uomo che fosse capace di pensare se stesso come una possibilità aperta: in ogni singola esistenza tutta l’umanità è rimessa in gioco. Se si vuole, e per tagliar corto, ciò significa che l’umanità dell’uomo non è data e non è un dato, ma è interamente da ricercare e ripensare ogni volta di nuovo. Cfr. AA.VV., Les fins de l’homme, Galilée, Paris 1981. back

(48) F. Dastur, La mort, Hatier, Paris 1994, p. 52. back

(49) L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino 1968, proposizione 6.4311. back

(50) Sulla différance derridiana si veda J. Derrida, Margini, Einaudi, Torino 1997; ma si veda anche B. Stiegler, La technique et le temps 1 e 2, Galilée, Paris 1994 e 1996. back

(51) E. Lévinas, La mort et le temps, Ed. de l’Herne (Poche), Paris 1991, p. 48. back

(52) M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1963, p. 240. back

(53) Sofocle, Antigone, vv. 332-333. back

(54) A questo rischio, ma sia detto solo di passaggio, probabilmente si espone anche l’analitica esistenziale heideggeriana. Derrida, a questo proposito, scrive: “[…] una tanato-etica è necessariamente una eutanato-etica generale, una filosofia dell’eutanasia e del morire bene in generale (ars de bene moriendi). Bisogna morire bene. Di fatto, se non di diritto, l’analitica esistenziale della morte, allo stesso modo delle antropo-tanatologie che abbiamo appena ricordato, non ha niente da dire su questo argomento, che non è il suo – così almeno sostiene, ma non è certo che Heidegger non ci proponga in fondo un discorso sul rapporto migliore, e cioè il più proprio e il più autentico, con il morire: dunque, de bene moriendi”, in J. Derrida, Aporie, Bompiani, Milano 1999, p. 53. back

(55) Si veda di J.-L. Nancy, Il senso del mondo, Lanfranchi, Milano 1997. back

(56) Lo riproduciamo integralmente: “Giuro su Apollo medico e su Asclepio e su Igea e su Panacea e su tutti gli dèi e tutte le dee, chiamandoli a testimoni, di tener fede secondo le mie forze e il mio giudizio a questo giuramento e a questo scritto. Riterrò chi mi ha insegnato quest’arte pari ai miei stessi genitori, e metterò i miei beni in comune con lui, e quando ne abbia bisogno lo ripagherò del mio debito e i suoi discendenti considererò alla stregua dei miei fratelli, e insegnerò loro quest’arte, se desiderano apprenderla, senza compensi né impegni scritti; trasmetterò gli insegnamenti scritti e verbali e ogni altra parte del sapere ai figli del mio maestro e agli allievi che hanno sottoscritto il patto e giurato secondo l’uso medicale, ma a nessun’altro. Mi varrò del regime per aiutare i malati secondo le mie forze e il mio giudizio, ma mi asterrò dal recar danno e ingiustizia. Non darò a nessuno alcun farmaco mortale neppur se richiestone, né mai proporrò un tale consiglio: ugualmente non darò alle donne pessari per provocare l’aborto. Preserverò pura e santa la mia vita e la mia arte. Non opererò neppure chi soffre di mal della pietra, ma lascerò il posto ad uomini esperti di questa pratica. In quante case entrerò, andrò per aiutare i malati, astenendomi dal recare volontariamente ingiustizia e danno, e specialmente da ogni atto di libidine sui corpi di donne e uomini, liberi e schiavi. E quanto vedrò e udirò esercitando la mia professione, e anche al di fuori di essa nei miei rapporti con gli uomini, se mai non debba essere divulgato attorno, lo tacerò ritenendolo alla stregua di un sacro segreto. Se dunque terrò fede a questo giuramento e non vi verrò meno, mi sia dato godere il meglio della vita e dell’arte, tenuto da tutti e per sempre in onore. Se invece sarò trasgressore e spergiuro, mi incolga il contrario di ciò”, Ippocrate, Giuramento, in Opere, cit., pp. 393-394. back

(57) M. Heidegger, Segnavia, cit., p. 252. back

(58) Va comunque detto che in larghe fasce della classe medica dell’antichità, almeno fino al V secolo d.C., la proibizione di assistere il malato terminale che richiedeva la somministrazione di veleni non fu rispettata. Cfr. P. Carrick, Medical Ethics in Antiquity. Philosophical Perspectives on Abortion and Euthanasia, Reidel Publishing Company, Boston/Lancaster 1985. back

(59) È il tema di fondo di un racconto dello scrittore K. Vonnegut, dove si ipotizza la creazione di Saloni federali per il suicidio etico costituiti per far fronte alla sovrappopolazione del pianeta. Lo scenario è così descritto: “E fu così che il Governo Mondiale organizzò un attacco a tenaglia contro la sovrappopolazione. Un braccio consisteva nell’incoraggiare il suicidio etico, vale a dire andare al più vicino Salone del Suicidio e chiedere a una Hostess di ucciderti in modo indolore mentre te ne stavi sdraiato su un lettino. L’altro braccio era il controllo obbligatorio delle nascite” (K. Vonnegut, Benvenuta nella gabbia delle scimmie, SE, Milano 1991, p. 121). back

(60) M. Heidegger, L’abbandono, il Melangolo, Genova 1983, p. 36. In questa prospettiva, un poderoso tentativo di ripensamento della questione della tecnica è quello svolto da U. Galimberti in Psiche e téchne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999. back

(61) D. Hume, Sul suicidio, in Opere filosofiche, vol. 3, Laterza, Bari-Roma 1987, p. 589. back

(62) Tommaso d’Aquino, Somma teologica, Ed. Studio Domenicano, Milano 1987, II-II, q. 64, art. 5. back

(63) E sarebbe interessante vedere quanto nel discorso contemporaneo anti eutanasia le posizioni “verdi” e quelle religiose siano profondamente vicine: Deus sive Natura. back

(64) Bioetica, aborto, eutanasia, a cura del Gruppo di lavoro dei problemi etici posti dalla scienza, Claudiana, Torino 1998, pp. 89-90. back

(65) M. Horkheimer e Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966. back