Fatto/valore:
fine di una dicotomia?
Risposte
a Botti, Mordacci e Pollo
Anzitutto rivolgo un sincero grazie ai discussori per l’attenzione
e per gli stimoli offerti a un ripensamento. Secondariamente confesso che mi
conforta averli trovati abbastanza d’accordo (o poco in disaccordo) sulla
sostanza della mia relazione. Provo quindi a rispondere alle loro domande, alle
loro perplessità e alle loro critiche.
Per quanto riguarda Caterina Botti:
1. Non vedo un’alternativa fra quelle che Botti individua come due
possibili interpretazioni della mia conclusione, in quanto esse son piuttosto
due momenti di un’unica conclusione, e cioè che Putnam non aveva bisogno di
combattere
2. Ho sorvolato appositamente su alcuni temi del libro di Putnam
(l’intreccio di etica ed economia, l’importanza dei valori epistemici nel fare
scienza, la nozione di fatto e altri ancora), in quanto non li ritenevo
pertinenti oppure non li ritenevo importanti nei confronti del problema che era
al centro della mia relazione, ossia la sostenibilità o insostenibilità della
Grande Divisione. Questo è pure il motivo per cui sono stato molto breve su
quella che ho chiamato la parte costruttiva del libro di Putnam.
3. Può darsi che Putnam non sarebbe d’accordo con la
dissociazione, che io difendo, dell’asseribilità garantita dall’inseparabilità
tra fatti e valori. Dico «può darsi», giacché non mi pare che egli ne riaffermi
il legame contro un eventuale oppositore: semplicemente le fa andare assieme,
come se il loro andare assieme fosse ovvio. Mentre io nella relazione dissocio
consapevolmente e motivatamente le due tesi, perché mi pare possibile e
opportuno separarle, accettando l’una e rifiutando l’altra. Naturalmente resta
aperta la possibilità di dimostrarmi che operando tale dissociazione l’ho
capito male, ma a ciò occorrerebbero argomentazioni apposite.
3.1. Occorrerebbero argomentazioni apposite per farmi capire quale
legame inscindibile vi sia - tale è il parere di Botti - fra l’asserire che le
scoperte scientifiche non avvengono in un ambiente di pura e rarefatta
razionalità (cosa che concederei a Putnam senza troppe difficoltà) e l’indebolimento della Grande Divisione.
3.2. Occorrerebbero argomentazioni apposite altresì per sostenere
che accogliere la nozione di asseribilità garantita, coniata da Dewey, comporti
accettare tutta intera la teoria deweyana sui valori e sul rapporto tra fatti e
valori, la quale invece - per quel poco che ne ho letto - mi pare altamente
questionabile, o perlomeno elusiva del problema posto a tema nella mia
relazione. Se quest’ultimo giudizio solleverà le rimostranze di qualche
estimatore di Dewey, converrà ricordare, ad ogni buon conto, che si tratta di
un punto marginale nella presente discussione. Quel che importa, piuttosto, è
che ho accettato la nozione in discorso perché mi pareva felicemente espressiva
di ciò che giudico cruciale nelle pagine di Putnam e nelle citazioni che egli
fa di Dewey: vale a dire la dottrina secondo cui una tesi va accettata perché e
finché regge alla critica, dottrina che vedo molto vicina alle epistemologie
fallibilistiche e contestualistiche e molto condivisibile. Che cosa siffatta
dottrina abbia a che fare con l’indebolimento (o, all’inverso, con il
rafforzamento) della distinzione tra fatti e valori, proprio non vedo. Ma se
per avventura mi si dimostrasse che ho sbagliato a intendere Putnam e Dewey su
questo punto, non avrei esitazioni a disfarmi anche dell’asseribilità
garantita.
3.3. Mi pare che neanche il rimando alle pagine in cui Putnam
ricorda il ruolo delle emozioni e delle valutazioni nelle scoperte (a p. 115,
per es., egli scrive che l’esperienza «giunge a noi accompagnata da alte urla
piene di valori»), dimostri che l’ho inteso male. Queste pagine, ad avviso di
Botti, affermano l’impossibilità di dissociare una scoperta
dall’emozione/valutazione; e questa è una cosa che anch’io posso concedere per
lo più, in sede psicologica. Non concedo invece che ciò dimostri
l’inseparabilità fra enunciati prescrittivi ed enunciati descrittivi,
giacché distinguo - con i neopositivisti e con Popper e con molti altri - fra
contesto di scoperta e contesto di giustificazione. E non lo concede, per lo
meno in quel punto, nemmeno Putnam, il quale infatti denuncia subito dopo, con
Dewey!, l’errore di ritenere che il semplice essere ritenuto di valore,
in quanto fatto d’esperienza, sia sufficiente a rendere qualcosa dotato
di valore; a tanto occorre anche che l’attribuzione di valore sia corroborata
dalla critica delle nostre valutazioni. Il che è appunto ciò che mi trova più
d’accordo con Putnam.
3.4. Di sapore analogo è la p. 122, il cui centro di gravità non
è, come sembra interpretare Botti, la possibilità di percepire le qualità di
valore delle cose come tali, e non in due momenti separati (ossia percezione
più ascrizione di valore). Piuttosto lì Putnam è interessato a sostenere, da una
parte, che la percezione non è un ‘dato’ incorreggibile, in quanto è essa
stessa sottoponibile a critica, dall’altra, che ci son molte percezioni di cui
possiamo fidarci, ma non per una presunta assolutezza di esse, bensì perchè non
ci sono (per ora) ragioni sufficienti per metterle in dubbio. Tesi che mi pare
molto sensata e che però non dirime nulla sul rapporto tra fatti e valori.
4. Che il «vedere qualcosa come una buona ragione per l’azione»
sia necessariamente, inscindibilmente descrittivo e valutativo, evidentemente
non può trovarmi d’accordo: per quanto ho detto al precedente punto 3.3 e per quanto ho detto nella relazione.
5. Al medesimo punto 3.3 rinvio per quanto obiettato da Botti nel
finale del suo intervento.
6. Il quale finale mi offre il destro di chiarire che la
situazione argomentativa in cui si situa la mia discussione su Putnam non è
quella presentata da Botti in più di un punto del suo intervento: «mi pare che
la tesi sostenuta da Zecchinato non sia compatibile con certe affermazioni che
Putnam fa nel testo», ma piuttosto: Zecchinato non è d’accordo con quelle
affermazioni di Putnam perché... La prima dizione fa pensare a un mio
fraintendimento di Putnam; la seconda invece mette in chiaro che sono
consapevolmente in disaccordo con certe sue affermazioni per motivi che egli
non sembra aver tenuto presenti, ma che ritengo validi e che presumo anch’egli
riterrebbe validi, se li avesse presenti.
Per quanto riguarda Roberto Mordacci:
a) Apprezzo la dottrina e
l’eleganza del suo intervento, il quale viene felicemente a integrare, grazie
soprattutto ai pertinenti richiami storico-culturali, la mia relazione, scarna
e concentrata sulla discussione teorica. Particolarmente azzeccata mi pare poi
la caratterizzazione dei concetti morali spessi (thick), come quelli che
implicano la necessaria compresenza dell’aspetto descrittivo e di quello
valutativo, ma non la loro indistinguibilità di principio. Ciò premesso, passo
a qualche punto del suo intervento, che mi pare meriti una replica o un chiarimento.
Su tutto il resto sembra che siamo d’accordo.
b) Io non ho nulla di personale contro Putnam, però mi pare che il
titolo del suo libro suoni davvero e intenda suonare come il pretenzioso
proclama di una confutazione definitiva. Malgrado questa puntualizzazione, devo
dire che in linea generale apprezzo l’atteggiamento irenico di Mordacci verso
il nostro Autore, perché è un memento di come dovremmo atteggiarci in
prima battuta sia quando facciamo storiografia sia quando discutiamo.
c) Non mi raccapezzo quando Mordacci scrive che un’interpretazione moderata della Grande Divisione - come quella che nella relazione difendo, sfruttando le intelligenti precisazioni di Bruno Celano - sarebbe compatibile «con varie forme di cognitivismo e segnatamente di naturalismo»: o egli è incappato in un lapsus e voleva dire in realtà «oggettivismo», oppure alle spalle di quell’espressione sta una teoria che concilia, sorprendentemente, Grande Divisione e cognitivismo e che però non viene minimamente esplicitata. Detto di passata, se essa venisse esplicitata e risultasse plausibile, io avrei seri problemi di identità: divisionista convinto qual sono (e moderato, mi informa Mordacci, benché io abbia cercato semplicemente di essere rigoroso), mi ero rappresentato finora come eventualmente tollerante verso il cognitivismo, magari anche cortese, se occorreva, ma “compatibile” no, non lo ritenevo possibile.
d) Perplessità di poco minori mi suscita ciò che subito dopo
aggiunge il mio discussant, ossia che nella sua versione moderata
e) Per me va de plano che, quando Celano parlava di una
«base ermeneutica, o fenomenologica» come indispensabile per argomentare in
favore o contro legge di Hume e Grande Divisione, si riferiva alla
fenomenologia degli usi linguistici, alla fenomenologia come nome comune, non
alla fenomenologia di indirizzo husserliano e scheleriano. In ogni caso è nella
prima accezione che io intendo impiegarla.
Per quanto riguarda Simone Pollo:
A. In linea generale il programma di lavoro offerto da Pollo mi
pare attraente, però non mi riconosco competente a rispondere ai primi tre
interrogativi che egli avanza. A mio avviso essi andrebbero posti a etologi,
biologi, neurofisiologi.
Aggiungerei solamente che la metaetica divisionistica non vieta di
cercare legami neurologici, psicologici, sociali, evoluzionistici fra mondo dei
fatti e mondo dei valori, né vuole rimuovere legami di tal genere. Essa si
limita ad intervenire ove si intendano giustificare conclusioni morali
in base a sole premesse fatali: tutto qua.
B. Quanto appena detto si applica anche all’interrogativo finale
(se l’ho capito bene): può darsi che le nostre credenze di valore siano
fatti biologici, in grazia dei quali noi uomini ci illudiamo di essere parecchio
lontani dal mondo dei fatti o che fanno credere a noi uomini di essere
parecchio lontani dal mondo dei fatti (la dizione di Pollo non è univoca). Ma,
una volta che esse vengano esposte in un discorso e inserite in
un’argomentazione, non son più «semplici fatti biologici»: voglio dire che
allora possono anche essere oggetto di uno studio che ha di mira i
significati e le argomentazioni; ed è in tale ottica che esse vengono studiate
dalla metaetica analitica. Senza che ciò proibisca di studiarle in altre prospettive,
senza che ciò venga proibito da altre prospettive di studio.
Questo è ciò che mi sentirei di rispondere. Essere discussi con
l’attenzione che hanno dimostrato i miei discussori è un onore e rispondere
alle loro sollecitazioni mi ha appassionato. Spero che l’asciuttezza delle mie
repliche non appaia come scortesia: io volevo solamente essere breve e incisivo
per non annoiare i lettori (discussants compresi).