Etica & Politica/ Ethics & Politics, 2006, 1

http://www.units.it/etica/2006_1/ZECCHINATO02.htm

 

 

 

Fatto/valore: fine di una dicotomia?

Risposte a Botti, Mordacci e Pollo

 

Paolo Zecchinato

Dipartimento di Filosofia e Comunicazione

Università di Cassino  

 

 

Anzitutto rivolgo un sincero grazie ai discussori per l’attenzione e per gli stimoli offerti a un ripensamento. Secondariamente confesso che mi conforta averli trovati abbastanza d’accordo (o poco in disaccordo) sulla sostanza della mia relazione. Provo quindi a rispondere alle loro domande, alle loro perplessità e alle loro critiche.

 

Per quanto riguarda Caterina Botti:

 

1. Non vedo un’alternativa fra quelle che Botti individua come due possibili interpretazioni della mia conclusione, in quanto esse son piuttosto due momenti di un’unica conclusione, e cioè che Putnam non aveva bisogno di combattere la Grande Divisione per difendere la trattabilità razionale dei giudizi morali, tant’è vero che ci sono fior di divisionisti che sono anche razionalisti in morale (razionalisti nel senso appena detto).

 

2. Ho sorvolato appositamente su alcuni temi del libro di Putnam (l’intreccio di etica ed economia, l’importanza dei valori epistemici nel fare scienza, la nozione di fatto e altri ancora), in quanto non li ritenevo pertinenti oppure non li ritenevo importanti nei confronti del problema che era al centro della mia relazione, ossia la sostenibilità o insostenibilità della Grande Divisione. Questo è pure il motivo per cui sono stato molto breve su quella che ho chiamato la parte costruttiva del libro di Putnam.

 

3. Può darsi che Putnam non sarebbe d’accordo con la dissociazione, che io difendo, dell’asseribilità garantita dall’inseparabilità tra fatti e valori. Dico «può darsi», giacché non mi pare che egli ne riaffermi il legame contro un eventuale oppositore: semplicemente le fa andare assieme, come se il loro andare assieme fosse ovvio. Mentre io nella relazione dissocio consapevolmente e motivatamente le due tesi, perché mi pare possibile e opportuno separarle, accettando l’una e rifiutando l’altra. Naturalmente resta aperta la possibilità di dimostrarmi che operando tale dissociazione l’ho capito male, ma a ciò occorrerebbero argomentazioni apposite.

 

3.1. Occorrerebbero argomentazioni apposite per farmi capire quale legame inscindibile vi sia - tale è il parere di Botti - fra l’asserire che le scoperte scientifiche non avvengono in un ambiente di pura e rarefatta razionalità (cosa che concederei a Putnam senza troppe difficoltà)  e l’indebolimento della Grande Divisione.

 

3.2. Occorrerebbero argomentazioni apposite altresì per sostenere che accogliere la nozione di asseribilità garantita, coniata da Dewey, comporti accettare tutta intera la teoria deweyana sui valori e sul rapporto tra fatti e valori, la quale invece - per quel poco che ne ho letto - mi pare altamente questionabile, o perlomeno elusiva del problema posto a tema nella mia relazione. Se quest’ultimo giudizio solleverà le rimostranze di qualche estimatore di Dewey, converrà ricordare, ad ogni buon conto, che si tratta di un punto marginale nella presente discussione. Quel che importa, piuttosto, è che ho accettato la nozione in discorso perché mi pareva felicemente espressiva di ciò che giudico cruciale nelle pagine di Putnam e nelle citazioni che egli fa di Dewey: vale a dire la dottrina secondo cui una tesi va accettata perché e finché regge alla critica, dottrina che vedo molto vicina alle epistemologie fallibilistiche e contestualistiche e molto condivisibile. Che cosa siffatta dottrina abbia a che fare con l’indebolimento (o, all’inverso, con il rafforzamento) della distinzione tra fatti e valori, proprio non vedo. Ma se per avventura mi si dimostrasse che ho sbagliato a intendere Putnam e Dewey su questo punto, non avrei esitazioni a disfarmi anche dell’asseribilità garantita.

 

3.3. Mi pare che neanche il rimando alle pagine in cui Putnam ricorda il ruolo delle emozioni e delle valutazioni nelle scoperte (a p. 115, per es., egli scrive che l’esperienza «giunge a noi accompagnata da alte urla piene di valori»), dimostri che l’ho inteso male. Queste pagine, ad avviso di Botti, affermano l’impossibilità di dissociare una scoperta dall’emozione/valutazione; e questa è una cosa che anch’io posso concedere per lo più, in sede psicologica. Non concedo invece che ciò dimostri l’inseparabilità fra enunciati prescrittivi ed enunciati descrittivi, giacché distinguo - con i neopositivisti e con Popper e con molti altri - fra contesto di scoperta e contesto di giustificazione. E non lo concede, per lo meno in quel punto, nemmeno Putnam, il quale infatti denuncia subito dopo, con Dewey!, l’errore di ritenere che il semplice essere ritenuto di valore, in quanto fatto d’esperienza, sia sufficiente a rendere qualcosa dotato di valore; a tanto occorre anche che l’attribuzione di valore sia corroborata dalla critica delle nostre valutazioni. Il che è appunto ciò che mi trova più d’accordo con Putnam.

 

3.4. Di sapore analogo è la p. 122, il cui centro di gravità non è, come sembra interpretare Botti, la possibilità di percepire le qualità di valore delle cose come tali, e non in due momenti separati (ossia percezione più ascrizione di valore). Piuttosto lì Putnam è interessato a sostenere, da una parte, che la percezione non è un ‘dato’ incorreggibile, in quanto è essa stessa sottoponibile a critica, dall’altra, che ci son molte percezioni di cui possiamo fidarci, ma non per una presunta assolutezza di esse, bensì perchè non ci sono (per ora) ragioni sufficienti per metterle in dubbio. Tesi che mi pare molto sensata e che però non dirime nulla sul rapporto tra fatti e valori.

 

4. Che il «vedere qualcosa come una buona ragione per l’azione» sia necessariamente, inscindibilmente descrittivo e valutativo, evidentemente non può trovarmi d’accordo: per quanto ho detto al precedente punto 3.3 e  per quanto ho detto nella relazione.

 

5. Al medesimo punto 3.3 rinvio per quanto obiettato da Botti nel finale del suo intervento.

 

6. Il quale finale mi offre il destro di chiarire che la situazione argomentativa in cui si situa la mia discussione su Putnam non è quella presentata da Botti in più di un punto del suo intervento: «mi pare che la tesi sostenuta da Zecchinato non sia compatibile con certe affermazioni che Putnam fa nel testo», ma piuttosto: Zecchinato non è d’accordo con quelle affermazioni di Putnam perché... La prima dizione fa pensare a un mio fraintendimento di Putnam; la seconda invece mette in chiaro che sono consapevolmente in disaccordo con certe sue affermazioni per motivi che egli non sembra aver tenuto presenti, ma che ritengo validi e che presumo anch’egli riterrebbe validi, se li avesse presenti.

 

7. In definitiva, riesco a comprendere perché Botti trovi persuasive le descrizioni putnamiane dei contesti in cui avviene la conoscenza e la valutazione, ma rimango del parere che descrivere convincentemente come avviene una presa di posizione valutativa non sia ancora esibire i criteri della sua validazione. Il come avviene riguarda la realtà psicologica e forse la realtà fisica (rispettivamente il mondo 2 e il mondo 1 di popperiana memoria); la giustificazione o validazione riguardano il campo dell’argomentazione (che fa parte del mondo 3, come lo chiamava Popper). La metaetica divisionista - come del resto tutta la metaetica analitica - si situa su quest’ultimo versante ed è su questo versante che essa attende ancora di essere scalzata.

 

Per quanto riguarda Roberto Mordacci:

 

a)  Apprezzo la dottrina e l’eleganza del suo intervento, il quale viene felicemente a integrare, grazie soprattutto ai pertinenti richiami storico-culturali, la mia relazione, scarna e concentrata sulla discussione teorica. Particolarmente azzeccata mi pare poi la caratterizzazione dei concetti morali spessi (thick), come quelli che implicano la necessaria compresenza dell’aspetto descrittivo e di quello valutativo, ma non la loro indistinguibilità di principio. Ciò premesso, passo a qualche punto del suo intervento, che mi pare meriti una replica o un chiarimento. Su tutto il resto sembra che siamo d’accordo.

 

b) Io non ho nulla di personale contro Putnam, però mi pare che il titolo del suo libro suoni davvero e intenda suonare come il pretenzioso proclama di una confutazione definitiva. Malgrado questa puntualizzazione, devo dire che in linea generale apprezzo l’atteggiamento irenico di Mordacci verso il nostro Autore, perché è un memento di come dovremmo atteggiarci in prima battuta sia quando facciamo storiografia sia quando discutiamo.

 

c) Non mi raccapezzo quando Mordacci scrive che un’interpretazione moderata della Grande Divisione - come quella che nella relazione difendo, sfruttando le intelligenti precisazioni di Bruno Celano - sarebbe compatibile «con varie forme di cognitivismo e segnatamente di naturalismo»: o egli è incappato in un lapsus e voleva dire in realtà «oggettivismo», oppure alle spalle di quell’espressione sta una teoria che concilia, sorprendentemente, Grande Divisione e cognitivismo e che però non viene minimamente esplicitata. Detto di passata, se essa venisse esplicitata e risultasse  plausibile, io avrei seri problemi di identità: divisionista convinto qual sono (e moderato, mi informa Mordacci, benché io abbia cercato semplicemente di essere rigoroso), mi ero rappresentato finora come eventualmente tollerante verso il cognitivismo, magari anche cortese, se occorreva, ma “compatibile” no, non lo ritenevo possibile.

 

d) Perplessità di poco minori mi suscita ciò che subito dopo aggiunge il mio discussant, ossia che nella sua versione moderata la Grande Divisione non sembra essere decisiva per la questione del fondamento della morale e che però essa porta con forza a riconoscere per il discorso morale un fondamento di validità diverso dalla scienza e dalla metafisica. Ma queste due affermazioni non si escludono mutuamente? Oppure il contenuto della seconda sembra una quisquilia in riferimento al problema del fondamento della morale?

 

e) Per me va de plano che, quando Celano parlava di una «base ermeneutica, o fenomenologica» come indispensabile per argomentare in favore o contro legge di Hume e Grande Divisione, si riferiva alla fenomenologia degli usi linguistici, alla fenomenologia come nome comune, non alla fenomenologia di indirizzo husserliano e scheleriano. In ogni caso è nella prima accezione che io intendo impiegarla.

 

Per quanto riguarda Simone Pollo:

 

A. In linea generale il programma di lavoro offerto da Pollo mi pare attraente, però non mi riconosco competente a rispondere ai primi tre interrogativi che egli avanza. A mio avviso essi andrebbero posti a etologi, biologi, neurofisiologi.

Aggiungerei solamente che la metaetica divisionistica non vieta di cercare legami neurologici, psicologici, sociali, evoluzionistici fra mondo dei fatti e mondo dei valori, né vuole rimuovere legami di tal genere. Essa si limita ad intervenire ove si intendano giustificare conclusioni morali in base a sole premesse fatali: tutto qua. La Grande Divisione è uno strumento secondo me tuttora valido e prezioso, ma di portata molto limitata in rapporto all’area sconfinata delle indagini possibili sulla morale.

 

B. Quanto appena detto si applica anche all’interrogativo finale (se l’ho capito bene): può darsi che le nostre credenze di valore siano fatti biologici, in grazia dei quali noi uomini ci illudiamo di essere parecchio lontani dal mondo dei fatti o che fanno credere a noi uomini di essere parecchio lontani dal mondo dei fatti (la dizione di Pollo non è univoca). Ma, una volta che esse vengano esposte in un discorso e inserite in un’argomentazione, non son più «semplici fatti biologici»: voglio dire che allora possono anche essere oggetto di uno studio che ha di mira i significati e le argomentazioni; ed è in tale ottica che esse vengono studiate dalla metaetica analitica. Senza che ciò proibisca di studiarle in altre prospettive, senza che ciò venga proibito da altre prospettive di studio.

 

Questo è ciò che mi sentirei di rispondere. Essere discussi con l’attenzione che hanno dimostrato i miei discussori è un onore e rispondere alle loro sollecitazioni mi ha appassionato. Spero che l’asciuttezza delle mie repliche non appaia come scortesia: io volevo solamente essere breve e incisivo per non annoiare i lettori (discussants compresi).