http://www.units.it/etica/2006_1/ZECCHINATO01.htm
Fatto/Valore: fine di una
dicotomia?
Dipartimento
di Filosofia e Comunicazione
Abstract The paper focuses on H. Putnam’s The Fact/Value
Dichotomy. The author considers Putnam’s arguments and he shows them
seriously flawed in at least two ways: they are based on a wrong view on the
history of recent metaethics, and they ascribe supporters of the fact/value
dichotomy with assumptions they do not need. In the second part, the author outlines his view of
the fact/value dichotomy, arguing that this distinction can be neutral with
respect to different approaches to ethical knowledge and to the foundations of
ethics. |
I.
Il
titolo della presente relazione (interrogativo) mi è suggerito da quello
(affermativo) di un recente libro di Hilary Putnam; (1) ma la lieve diversità grammaticale suggerisce la presa di
distanza che ritengo di dover prendere dalle tesi di Putnam. Siccome egli è un
filosofo prestigioso, siccome le critiche da lui avanzate sono di un genere
abbastanza diffuso e siccome il tema è importante, vale la pena di fare i conti
con le argomentazioni contenute in questo suo libro (che arricchiscono anche se in maniera non decisiva quelle già presenti in Ragione, verità e
storia del 1981). (2)
Per
comodità di chi non abbia presente la problematica in argomento, ne richiamo
preliminarmente i termini.
Non
cognitivismo etico è la dottrina secondo cui la
funzione diretta e primaria delle proposizioni morali non è di comunicare
conoscenza; il cognitivismo etico,
ovviamente, sostiene invece che le proposizioni morali hanno una funzione
principalmente conoscitiva.
Il divisionismo
sostiene la distinzione fra enunciati con significato descrittivo ed enunciati
con significato prescrittivo: la funzione d’un enunciato prescrittivo (un
imperativo singolare, una norma, un giudizio di valore) è di guidare un comportamento
in modo diretto, quella d’un enunciato descrittivo è invece di dichiarare come
stanno le cose o, se è di guida a un comportamento, è di guida indiretta. (3) Questa distinzione vien chiamata Grande Divisione o legge di Hume, perché
fra i due tipi di enunciati pone una reciproca inderivabilità dal punto di
vista logico, talché sarebbe scorretta una conclusione prescrittiva (direttiva,
valutativa, pratica) che derivasse da sole premesse descrittive
(conoscitive, teoretiche, aletiche) e viceversa. Questa derivazione vien
tacciata dai divisionisti di “fallacia
naturalistica”. (4)
Il non cognitivismo solitamente viene associato e reso
sinonimo con il divisionismo e difeso e attaccato solidalmente con
quest’ultimo. Alcuni pensatori invece accettano il divisionismo e rifiutano il
non cognitivismo (per es. Kutschera, Pontara), (5) ma
siccome Putnam non fa questa divaricazione, non la farò nemmeno io in questa
sede.
Sempre per i ‘non addetti ai lavori’ ricordo di passata che
la cosiddetta tesi o legge di Hume si può considerare presente in un passo del
II libro del Trattato sulla natura umana
(III,I,I), ma in una forma breve, generica e quasi incidentale: Hume non ha
certo inteso farne un caposaldo della sua filosofia morale, come invece è avvenuto
in larga parte della filosofia del Novecento e soprattutto nel neoempirismo,
che di siffatta tesi è diventato il terreno d’elezione e l’ha impostata in
termini logici.
Un altro cenno preliminare: la legge di Hume nella sua
portata più ampia viene a negare le relazioni di derivabilità, di riducibilità
e di appartenenza delle proposizioni etiche rispetto alle proposizioni
conoscitive. Derivabilità: le proposizioni etiche non sono derivabili da sole
proposizioni conoscitive; riducibilità: le proposizioni etiche non sono riducibili a proposizioni
conoscitive; appartenenza: le proposizioni
etiche non sono proposizioni
conoscitive. (6) È sufficiente una breve
riflessione per capire che la negazione più spinta è la prima: infatti potrebbe
darsi che uno ammettesse la distinzione (e quindi una certa ‘divisione’) fra
enunciati etici ed enunciati conoscitivi, senza accettare che fra di essi si
dia un salto logico (
Un ultimo cenno preliminare: fra norme e giudizi di valore
sussistono notevoli differenze, ma per il problema in esame son più importanti
le comunanze, e cioè che le une e gli altri son connessi con l’azione. (7) È questo che giustifica, agli occhi dei
divisionisti, la collocazione delle une e degli altri nella stessa ‘scatola’
rispetto ai giudizi conoscitivi.
II.
Veniamo
allora al libro di Putnam. Esso vuol battere in breccia la dicotomia tra fatti
e valori, largamente affermatasi nella filosofia analitica a partire già dal neopositivismo,
come quella che relegherebbe i valori e l’etica nella pattumiera del
soggettivismo e dell’irrazionalità e riconoscerebbe come trattabili oggettivamente e razionalmente soltanto i
fatti e la scienza.
La
pars destruens del suo discorso
poggia anzitutto sulla negazione della dicotomia fra proposizioni analitiche e
proposizioni sintetiche e di quella tra fatti e valori, le due dicotomie
essendo a suo parere solidali: la dissoluzione di siffatte dicotomie
scalzerebbe le basi epistemologiche della cosiddetta legge di Hume. La pars construens si richiama in sostanza
alla nozione deweyana di ‘asseribilità garantita’, ossia alla tenuta
argomentativa di una teoria di qualsivoglia genere nei confronti delle critiche
ad essa rivolte; vale a dire che, finché una teoria scientifica, morale o di
altro tipo regge alla critica, essa è oggettiva quanto basta, senza bisogno di
poggiare su un terreno, in realtà inesistente, di fatti incontrovertibili e
puri (si vuol dire puri da teorie e a
fortiori puri da valutazioni).
Gli
argomenti di Putnam riescono davvero a mandare in soffitta
III.
Tra
quelli che ritengo luoghi comuni e
generici, i due più importanti sono l’identificazione estensionale della
razionalità con la conoscenza (è possibile fornire ragioni pro o contro i
giudizi etici solo se si abbraccia il cognitivismo etico) e l’equiparazione del
non cognitivismo con il relativismo/ soggettivismo.
Quanto al primo (che non viene mai affermato direttamente,
ma solo obliquamente, per es. a p. 50, 69, 77, 80, 200) occorre invece
sottolineare che:
1)
la razionalità è più ampia della conoscenza e a fortiori più ampia della dimostrabilità. Se mi è permesso
ripetere quel che ho già scritto altrove, non nego che la nozione di
dimostrazione sia stata sviluppata in riferimento alle proposizioni
conoscitive, cioè predicabili di verità o falsità. Il punto è se essa pertenga
unicamente ad esse, al che mi pare si debba rispondere con un no. È vero che,
per esaminare se un ragionamento sia logicamente corretto o scorretto, valido o
invalido, si usano le tavole di verità per le proposizioni che lo compongono;
ma l’espressione “tavole di verità” è un mero portato storico, tant’è vero che
si usa anche nella logica degli imperativi, a cui si riconosce unanimemente non
potersi applicare la dizione verifalsi. Quel che importa, quando si ragiona, è
la validità (o, più sfumatamente, la correttezza) del ragionamento, ed essa
presuppone semplicemente l’accettabilità
degli enunciati in giuoco, non la loro aleticità (= il loro essere veri o
falsi). Quando si riconosca che gli enunciati morali possono dirsi accettabili
e non accettabili, quali che siano poi i criteri per dirli tali, si ha tutto
quanto serve per riconoscere che essi possono disporsi in argomentazioni, e
magari anche in dimostrazioni, pienamente razionali;
2) perfino se si contestasse ciò, si dovrebbe
comunque prendere atto che la maggior parte dei non cognitivisti, per lo meno a
partire dalla seconda metà del Novecento, ammette tranquillamente il
trattamento razionale (dimostrativo o altro) del discorso morale; quindi lascia
di stucco che Putnam qualifichi come “ardito” il tentativo di conciliare il non
cognitivismo con l’idea per cui è possibile fornire ragioni pro e contro i
giudizi etici (v. p. 77).
Quanto
al secondo luogo comune generico, ovvero l’equiparazione del non cognitivismo
con il relativismo/ soggettivismo (cfr. per es. pp. 47), si può concedere senza
difficoltà che nella sua storia il divisionismo si è accompagnato a una
posizione relativistica e soggettivistica per
lo più (non sempre) e in riferimento ai fondamenti della morale (meno facilmente
in riferimento ai giudizi morali ‘derivati’).
Occorre
rimarcare, però, se posso ancora
riprendere quanto ho espresso altrove
che:
a. associazione storica non significa
indissociabilità di principio. Che
b. proprio perché, come ho sostenuto prima, la conoscenza
non esaurisce la ragione, un non cognitivista può ben riconoscere dei vincoli
razionali nel discorso morale senza rinnegare il proprio non cognitivismo;
c.
IV.
Argomentazioni più specifiche son
quelle che vado adesso a discutere: talune appaiono caratteristicamente
putnamiane, (sub 13), talaltre sono più comuni (sub 45).
1. Non si può tracciare una netta anzi, una “esasperata” ovvero “metafisica” (sic; v. pp.15, 18, 24, 34) linea di demarcazione fra proposizioni
analitiche e proposizioni sintetiche, le quali secondo il neopositivismo
esaurivano la classe delle proposizioni significanti.
2. Non sussiste una separazione
“metafisica” (presumibilmente l’aggettivo è sinonimo di ‘assoluta’) tra fatto e
valore (per es. p. 18; cfr. pp. 24, 40, 4647, 69).
1+2 = Ma la concezione di ‘fatto’ la
quale starebbe alla base tanto della dicotomia tra analitico e sintetico quanto
di quella tra fatto e valore è “una
nozione ristretta, nella quale i fatti sono qualcosa che corrisponde a
impressioni di senso” (p. 33), e siccome questa concezione si è rivelata
insostenibile, entrambe le dicotomie si sono sgonfiate.
3. La legge di Hume presuppone una
semantica “pittorialista” ovvero raffigurativista, secondo la quale un concetto
può rappresentare un fatto solo
somigliando ad esso (p. 19).
4.
2+4= Una volta compreso e ammesso
l’intreccio di fatti e valori, il non cognitivismo va a picco (p. 49).
5. La legge di Hume non può pretendere
il rango di una tesi logica vera e propria (pp. 18-19)
Con
tutto ciò Putnam non nega che in certi contesti sia utile tracciare una distinzione
fra giudizi etici e giudizi di altri tipi, tra fatto e valore (anzi, pure fra
gli stessi valori); quel che gli preme affermare è che non esiste una dicotomia
assoluta (“metafisica”), e gli preme perché ne va della possibilità di
discutere razionalmente in etica.
V.
Confesso di trovare stranamente sfocati gli argomenti
esposti sopra.
Da quando mi sono occupato della legge di Hume ed è ormai qualche decennio non mi ero mai accorto che per sostenerla
occorresse assumere la dicotomia fra proposizioni analitiche e proposizioni
sintetiche, e meno ancora che occorresse ritenerla esaustiva della classe delle
proposizioni significanti; né che occorresse far propria una semantica
raffigurativista; e di tutto ciò non mi capacito neppure adesso.
Può darsi che Putnam abbia ragione quando scrive che al
fisicalismo neopositivistico aderiscono tuttora molti filosofi analitici
angloamericani (p. 30): gli do credito di conoscere l’ambiente filosofico
angloamericano meglio di me; ma ritenere che, per sostenere
Anche la presunta assolutezza della separazione tra fatto e
valore è negli autori del secondo Novecento
per lo meno in quelli a mia conoscenza molto meno esasperata di quanto pretenda
Putnam e per nulla “metafisica”. Un sostenitore deciso della legge di Hume come
Felix Oppenheim, per es., già alcuni decenni fa riconosceva che,
ordinariamente, per giustificare una conclusione etica occorrono sia premesse
etiche sia premesse conoscitive e si riconosceva relativista unicamente per le
premesse etiche prime, non derivabili da ulteriori premesse. (9) Per non parlare di autori che
In sostanza, mi spiace dirlo, i bersagli polemici, presi di
mira dagli argomenti in discorso per confutare la legge di Hume, mi paiono
vecchiotti e poco appropriati. Quel che manca è la discussione delle
teorizzazioni del divisionismo più avvertite e un po’ più vicine nel tempo.
VI.
Più
aggiornato suona l’argomento polemico sub
5, ma neanch’esso mi pare risolutivo. Infatti si può riconoscere che la legge
di Hume non è un teorema logico-formale e però continuare a ritenerla valida.
Come scrive Bruno Celano nella migliore messa a punto della discussione in
argomento che io conosca, “Grande Divisione e legge di Hume non sono né tesi
logiche in senso stretto, né tesi metalogiche in senso stretto” (op. cit.,
p. 171). Anzi,
né
Grande Divisione e legge di Hume né le tesi ad esse contrapposte sono tesi che
è possibile in senso stretto dimostrare
(presentare come teoremi di un calcolo). L’eventuale eterogeneità di discorso
prescrittivo e descrittivo (...) e la conseguente impossibilità di derivare
logicamente conclusioni prescrittive da premesse descrittive possono solo
venire mostrate (...) Si può, se lo
si desidera, sostenere che si tratta di tesi ‘logiche’ (di tesi attinenti alla
‘logica’ del discorso pratico), ma solo a condizione di intendere l’indagine
‘logica’ in senso lato, come una ricognizione, di carattere ricostruttivo e
terapeutico, dell’uso linguistico ordinario e dei nessi ‘concettuali’ in esso
rinvenibili” (ivi, p. 14; corsivo nel testo). “L’argomentazione in favore o
contro legge di Hume e Grande Divisione ha una base ermeneutica, o fenomenologica,
ineliminabile, per quanto possa poi
venire articolata in forma dimostrativa” (ivi, p. 150).
VII.
Sul
piano fenomenologico si muove appunto la tentata confutazione sub 4, la
più seria a mio avviso, che consente di richiamare quella che ritengo la più
importante e decisiva precisazione fornita da Celano nel suo citato studio: la
più importante e decisiva, perché mette in chiaro una cosa che è stata
trascurata non solo da quasi tutti gli avversari, ma spesso anche dai
divisionisti.
L’obiezione,
come ho detto, è seria; tuttavia, con buona pace di Putnam e di I. Murdoch e J. McDowell che egli cita,
nemmeno i concetti etici “spessi” costituiscono un’obiezione vincente contro la
legge di Hume, giacché il punto non è se nell’uso linguistico corrente si diano
effettivamente termini descrittivo-valutativi – di fatto si danno, bensì se non
sia possibile comunque isolare l’aspetto descrittivo del loro significato,
ossia fare uso del termine in modo da sospendere o cambiare di segno la presa
di posizione normativa o valutativa che il suo uso corrente comporta. Il
problema è insomma se si diano termini che sono inseparabilmente
descrittivi e prescrittivi, nei quali la descrizione porti con sé una
valutazione alla quale non ci si può sottrarre. E il divisionismo nega che tale
inseparabilità si dia. (10)
Perfino
quand’anche sembrasse ragionevole essere scettici, come lo è McDowell, “sul
fatto che la manovra di scomposizione (...) possa essere sempre portata a termine”, (11) una
siffatta ammissione verrebbe a riguardare non più una gran parte del linguaggio
morale, ma solo una parte residuale di esso, a motivo della quale sembra poco
ragionevole gettare via un attrezzo teorico come
Detto
più in generale con le parole di Celano,
la
tesi divisionistica non si identifica con la tesi che la distinzione fra
descrizione e prescrizione (...) sia un dato del discorso pratico ordinario,
che essa sia già tracciata nel linguaggio normativo-valutativo e attenda solo
di essere portata alla luce; non si identifica, in particolare, con la tesi che
ciascun termine o ciascuna espressione del linguaggio tramandato ricada di
fatto in una delle due classi, mutuamente esclusive, del ‘descrittivo’ o del
‘prescrittivo’. La tesi divisionista afferma invece che la distinzione fra
descrizione e prescrizione è una distinzione che può essere tracciata, che distinguere fra descrizione e
prescrizione è un intervento
critico-riflessivo possibile sull’intreccio di fatti e valori del quale è
intessuto il linguaggio normativo-valutativo della comunità (op. cit.,
p. 279; corsivo nel testo).
Ancora
con Celano:
Grande
Divisione e legge di Hume non implicano che la distinzione descrittivo/
prescrittivo (...) sia sempre e ovunque presente e osservabile, ma che essa può
sempre e comunque venire tracciata e rispettata, e che spesso la si dovrebbe, a fini di chiarezza
concettuale e pratica, tracciare e rispettare”. Per questa ragione, Grande
Divisione e legge di Hume non si possono ritenere confutate in base alla
semplice costatazione che talvolta o
spesso la distinzione non viene compiuta o rispettata. “Dal punto di vista di
chi intende sostenere Grande Divisione e legge di Hume, l’essenziale non è che
una qualsiasi affermazione data sia ‘in se stessa’ univocamente interpretabile
o in senso prescrittivo o in senso descrittivo, ma che sia sempre possibile
indurre il parlante, interrogandolo in merito, a precisare in quale dei due
sensi egli intende ciò che ha affermato (o eventualmente in entrambi i sensi);
è sufficiente che il parlante riconosca sensata la domanda (riconosca cioè la rilevanza
dell’alternativa) affinché la distinzione appaia significativa, indipendente da
che cosa il parlante possa avere ‘realmente’ inteso con la sua precedente affermazione.
(op. cit., p. 47; corsivo nel testo ).
In
questo senso, Grande Divisione e legge di Hume sono tesi che stabiliscono la
possibilità di una particolare forma di terapia linguistica, o argomentativa;
non si tratta di tesi descrittive dell’uso linguistico corrente (né [...] di
direttive di costruzione di linguaggi artificiali o semi-artificiali) ma di
tesi che, delineando possibilità alternative di interpretazione, prevengono o
dissipano le incertezze e i fraintendimenti che (talvolta) seguono dal
disconoscimento della possibilità di tracciare una distinzione (ivi, p.
48).
VIII.
Son
del tutto d’accordo con la pars
construens del libro di Putnam pur trovandomi in disaccordo sulla sua pars destruens. Mi limito ad osservare
che sorprendentemente non viene riconosciuta la vicinanza, se non
proprio l’identità, con il fallibilismo popperiano. La polemica con Popper
accennata in queste pagine tocca aspetti marginali del pensiero popperiano: per
lo meno marginali rispetto all’argomento principale, quello della razionalità
del discorso morale. Similmente la polemica con Hare più insistita rispetto a quella con
Popper trascura un aspetto fondamentale,
ossia che anche Hare ritiene trattabili razionalmente i giudizi morali. Gli è
che, come non di rado succede nelle discussioni tra filosofi, l’autore tende a
rimarcare i punti di dissenso a scapito d’una visione complessiva e attenta al
nocciolo dei problemi in discussione.
Ma
che fallibilismo e criticabilità abbiano spazio tanto nel campo scientifico quanto
nel campo morale/ valutativo, che anzi la capacità di resistere alle critiche
sia il motivo più importante per parlare di oggettività d’un’asserzione, questo
mi pare attraente e condivisibile.
Però
ciò non interferisce, come ho argomentato, col dibattito sulla tenuta della
Grande Divisione. Le questioni se una conclusione valutativa possa fare a meno
di premesse valutative e se si diano enunciati inscindibilmente valutativi e
descrittivi, sono indipendenti dalla questione se un dato giudizio valutativo
(particolare o universale) sia sostenibile: per essere tale, esso come scrive Putnam “ha bisogno solo di ciò di cui ha sempre
necessitato il discorso etico (...): buona volontà, intelligenza e rispetto per
ciò che può essere visto come una ragione per l’azione (...) rimanendo dentro
il punto di vista dell’etica” (p. 107).
Note
(1) H.
Putman, Fatto/valore. Fine di una dicotomia e altri saggi, (2002), tr.
it., Fazio Editore, Roma 2004.
(2) Cfr.
H. Putnam, Ragione, verità e storia, (1981), tr. it., Il Saggiatore,
Milano 1985, soprattutto capp. VI e IX.
(3) U. Scarpelli, voce Semantica
giuridica in Novissimo Digesto Italiano, vol. XVI, UTET, Torino 19691,
19822, pp. 978999 (da cui si cita); anche sotto il titolo di Semantica,
morale, diritto, Giappichelli, Torino 1969.
(4) È però
una fallacia che andava ben oltre il campo del naturalismo già per colui che
coniò l’espressione (G. E. Moore).
(5) F.
von Kutschera, Fondamenti dell’etica, tr. it., Angeli, Milano 1991,
capp. 25; G. Pontara, Filosofia pratica, Il Saggiatore, Milano 1988,
capp. IIII
(6) Utilizzo
qui qualche risultato delle magistrali analisi compiute da Gaetano Carcaterra
nel suo Il problema della fallacia naturalistica. La derivazione del dover
essere dall’essere, Giuffrè, Milano 1969.
(7) Un’esposizione
precisa delle differenze si può reperire in B. Celano, Dialettica della
giustificazione pratica. Saggio sulla Legge di Hume, Giappichelli, Torino
1994 (pp. 9799): un libro straordinario per l’ampiezza, l’accuratezza e
l’equilibrio con cui vengono presentate e discusse tesi e controtesi, dal quale
pertanto attingerò molto. Chi voglia seriamente fare i conti con la legge di
Hume non dovrebbe prescindere dalla sua lettura.
(8) Concetti
valutativi “sottili” sarebbero invece invece ‘buono’, ‘cattivo’ ecc
(9) Cfr. F. Oppenheim, Moral Principles in Political
Philosophy, 1968, tr. it. Etica e filosofia
politica, Il Mulino, Bologna 1971.
(10) Per
fare un esempio: ‘crudele’ ha ordinariamente una connotazione valutativa
negativa; tuttavia è possibile dire sensatamente una frase come la seguente,
dove la connotazione negativa è neutralizzata: “Quel che sto per dirti è
probabilmente crudele, ma la verità è a volte crudele”.
(11) Citato
con approvazione da Putnam a p. 44 (corsivo mio).