Etica & Politica/ Ethics & Politics, 2006, 1

http://www.units.it/etica/2006_1/VILLA.htm

 

 

 

La teoria dell’interpretazione giuridica fra formalismo e antiformalismo

 

Vittorio Villa

Università di Palermo

Dipartimento di studi su politica, diritto e società “Gaetano Mosca”

 

 

Abstract

 

The research of a middle course between interpretative legal formalism and interpretative legal scepticism is one of the main characteristics of the contemporary debate on legal interpretation. The difficulty of finding this space in the midst is due a) to the lack of a proper reflection on the link between theory of interpretation and theory of meaning and b) to the unaware acceptance of an unsuited theory of meaning. Either formalism or scepticism (or, better, anti-formalism) presuppose a static conception of meaning: meaning is found (according to formalism) or created (following scepticism) at one go. To be considered a valid alternative to these two extremes, an intermediate theory of legal interpretation should propose a dynamic approach to meaning. In this paper it will be presented an intermediate theory of legal interpretation grounded on a dynamic theory of meaning.

 

 

1. Alcune osservazioni introduttive

 

Lo scopo di questo saggio è quello di presentare un breve abbozzo di una teoria “pragmaticamente orientata” dell’interpretazione giuridica, teoria che ho cercato di sviluppare, perlomeno nelle sue linee generali, in questi ultimi anni. (1) Prima, però, di entrare nel merito della trattazione mi sembra importante fare alcune considerazioni sulla peculiare rilevanza che viene oggi assunta da questo tema di ricerca all’interno delle teorie giuridiche contemporanee.

Nelle teorie del diritto tradizionali l’interpretazione viene tutto sommato considerata come un “argomento di settore”, sia pure importante. (2) Oggi, invece, alcune fra le opere più significative di teoria del diritto sono declinate come teorie dell’interpretazione. (3) Mi sembra opportuno indicare alcune delle ragioni che giustificano il diverso ruolo giocato da queste teorie.

Una prima ragione, di carattere teorico-generale, è legata alla diffusione, sia nell’area ermeneutica (4) che nell’area analitica (5) (che rappresenta il punto di riferimento filosofico di questo scritto), di una concezione che può essere opportunamente etichettata come “teoria del diritto come pratica sociale”. Secondo questa teoria, nella versione che ne dà Hart, si può affermare che le regole sociali (la categoria più generale che ingloba le regole giuridiche) esistono in senso proprio se e solo se vengono riconosciute come tali, e dunque accettate, dai membri di una comunità di rule followers; e una delle condizioni necessarie dell’accettazione è rappresentata dall’interpretazione del loro contenuto. (6) Da questo punto di vista, insomma, l’interpretazione delle regole rappresenta un elemento costitutivo della loro stessa esistenza come fenomeni normativi.

Una seconda ragione è legata al diverso ruolo che viene riconosciuto all’interpretazione giudiziale negli odierni stati di diritto costituzionali. È opinione largamente diffusa(7) che l’interpretazione giudiziale (ma sotto certi profili anche l’interpretazione dottrinale) intervenga direttamente nella fase dell’accertamento della validità delle norme legislative, e proprio per il fatto che tale accertamento non riguarda più soltanto l’esame del loro pedigree formale, ma anche il giudizio sulla conformità o meno del loro contenuto rispetto a quello dei principi costituzionali.

In linea più generale, si può notare come oggi torni prepotentemente alla ribalta, con argomenti più solidi che in passato, la tesi secondo cui l’interpretazione giudiziale (e per qualche aspetto l’interpretazione dottrinale) costituisce una vera e propria fonte di diritto, e non solo per quanto detto sopra a proposito dell’accertamento della validità delle norme, ma anche per il suo continuo lavoro di concretizzazione e di specificazione dei messaggi normativi del legislatore, svolto a contatto con i casi concreti. Tale lavoro si carica peraltro oggi, in un sistema giuridico come il nostro, di nuovi e importanti compiti interpretativi, perché mette costantemente a contatto giudici e giuristi, sul versante “interno”, con principi costituzionali che tendono sempre più ad essere direttamente applicati nelle controversie; (8) e, sul versante “esterno”, con norme sovra-nazionali delle quali si tratta di accertare le credenziali ai fini del loro ingresso nel sistema. (9)

In questo saggio, guardando in modo esclusivo al profilo del rapporto fra interpretazione e significato, mi preoccuperò in primo luogo di render conto delle principali teorie dell’interpretazione giuridica che oggi si contendono il campo; dopo averle esaminate criticamente, cercherò poi di presentare una concezione diversa, basata, appunto, su di una teoria del significato alternativa a quella sostenuta dalle concezioni precedenti; questo mi consentirà, contestualmente, di dare un senso teorico più preciso alla tesi della creatività dell’interpretazione giudiziale, ma anche di prendere in considerazione il ruolo altrettanto creativo dell’interpretazione dottrinale, in una prospettiva che non riconosce alcuna differenza di tipo qualitativo fra i due tipi di attività. Nel fare tutto ciò dedicherò una particolare attenzione alla importante connessione che senza dubbio esiste fra questo modo peculiare di impostare il rapporto fra significato e interpretazione giuridica e alcune recenti concezioni semantiche di ispirazione analitica che condividono una concezione pragmaticamente orientata del linguaggio e della comunicazione.

 

 

2.  La relazione interna fra interpretazione e significato

 

Non è possibile, nello spazio di questo breve saggio, fornire tutte quelle definizioni orientative, sull’interpretazione in generale e sull’interpretazione giuridica in particolare, che sarebbero necessarie per avere a disposizione una mappa in grado di guidarci nel nostro tragitto in questo territorio piuttosto accidentato. (10) Mi limito qui a precisare che il mio scritto assume come oggetto esclusivo di indagine quella che può essere considerata, quantomeno nei sistemi di diritto codificato, l’istanza paradigmatica di interpretazione giuridica, e cioè l’interpretazione della legge.

Dal punto di vista della teoria del diritto analitica, l’interpretazione della legge può essere definita come un’attività, eminentemente linguistica, che attribuisce significato a tutti quei documenti che sono potenzialmente in grado di esprimere norme legislative. (11) Questi documenti sono a loro volta costituiti da singoli enunciati (le disposizioni giuridiche), che rappresentano normalmente le unità minime della comunicazione linguistica (nel diritto come in tutti gli altri campi).

È l’interpretazione giuridica, per il fatto di attribuire significato alla disposizione, a determinare il passaggio da quest’ultima alla norma vera e propria. In questo senso le norme giuridiche non rappresentano altro che significati di disposizioni legislative (o, meglio, riformulazioni di disposizioni cui è stato dato un significato compiuto).(12)

Nonostante la restrizione derivante dal fatto di aver assunto l’interpretazione della legge come oggetto esclusivo di studio, il campo di indagine continua pur tuttavia ad essere troppo vasto per poter essere esaminato tutto in una volta, a maggior ragione nello spazio di questo saggio. Più vasto ancora lo diventa, poi, se lo integriamo con la parte relativa all’applicazione giudiziale del diritto. In ogni caso, con riferimento a tutto il complesso delle attività interpretative e applicative, trovo particolarmente appropriata la dizione “teoria del ragionamento giuridico”. Invece, per quanto concerne in particolare la teoria dell’interpretazione giuridica (e il suo specifico settore rappresentato dall’interpretazione della legge), è opportuno distinguere due diversi ambiti di ricerca.

Il primo settore è rappresentato dalla teoria dell’interpretazione giuridica in senso stretto, che guarda a questa attività da un punto di vista squisitamente strutturale. Intesa in questo modo, tale teoria si preoccupa di esaminare il modo (il come) in cui l’interpretazione effettua le sue attribuzioni di significato, nei suoi profili metodologici e nelle sue implicazioni teoriche. Qui il nodo tematico centrale è quello relativo a come debba essere caratterizzato il processo di attribuzione di significato alla disposizione. A questo proposito, alcune domande particolarmente rilevanti sono: l’attribuzione di significato può essere caratterizzata come una scoperta? Oppure si tratta di una creazione? Ovvero, ancora, è una sorta di “mescolanza di entrambe”, o magari un’attività etichettabile in modo totalmente alternativo?

Il secondo settore è costituito dalla teoria dell’argomentazione giuridica, che si preoccupa della questione del perché si sia realizzata una determinata attribuzione di significato e non eventualmente un’altra; essa si pone l’obiettivo, in sostanza, di esaminare, sul piano ricostruttivo, o di suggerire, sul piano prescrittivo, gli argomenti usati o da usare dalla dottrina e dalla giurisprudenza per giustificare un certo tipo di risultato interpretativo e/o applicativo.

In questo saggio mi occupo esclusivamente dell’aspetto strutturale dell’interpretazione della legge (che d’ora in poi chiamerò più semplicemente “interpretazione”). In questa sede, dunque, non mi interessa il perché dell’interpretazione, ma soltanto il come. Mi affretto a precisare che con questa affermazione non voglio affatto sminuire l’importanza della teoria dell’argomentazione; la mia impressione è però che i problemi oggi più intricati e filosoficamente più rilevanti della teoria dell’interpretazione si annidino in questo settore “strutturale” e riguardino il complesso e tormentato rapporto fra interpretazione e significato.

L’ultimo punto da chiarire riguarda proprio il rapporto fra interpretazione giuridica e significato. Da un punto di vista generale sono convinto che, salvo alcune eccezioni, esista una relazione concettuale o interna  fra interpretazione e significato.

A tale proposito si impongono alcuni chiarimenti sull’uso che faccio della nozione di “relazione interna”. Nell’area della filosofia analitica sono in particolare Backer e Hacker ad introdurre tale nozione, considerandola come uno degli esiti dell’analisi wittgensteiniana sul rule following. Secondo i due autori era precisa convinzione di Wittgenstein che la grammatica delle regole presentasse un insieme di relazioni interne. Per Baker e Hacker, in ogni caso, conoscere una regola significa sapere quali atti contano come corretta applicazione di essa; ci sarebbe, insomma, una relazione interna fra “l’espressione di una regola” e “la descrizione di ciò che si chiama agire in accordo con la regola”. (13)

Da questo punto di vista, sostenere che esiste una relazione interna fra significato e interpretazione equivale ad affermare che non è concettualmente possibile sviluppare definizioni e teorie dell’interpretazione che non siano anche, e necessariamente, definizioni e teorie del significato, e viceversa. (14) Questo vale, a maggior ragione, per l’interpretazione giuridica: una teoria dell’interpretazione giuridica non può che implicare, necessariamente, una teoria del significato.

Si tratta di un punto la cui importanza non è unanimemente condivisa da parte degli studiosi di orientamento analitico. (15) Personalmente sono convinto che una teoria generale del significato (che includa sia i linguaggi naturali che i linguaggi “tecnicizzati”) è un presupposto necessario per la teoria dell’interpretazione giuridica. (16) Non ho però bisogno, in questa fase, di argomentare a favore di questa tesi, perché sarà lo sviluppo stesso del mio discorso, nei paragrafi seguenti, a costituire una conferma del ruolo di presupposto necessario svolto dalla teoria semantica.

 

 

3. Formalismo, antiformalismo, teorie di mezzo

 

È tempo di passare ad esaminare brevemente, sotto la specifica angolazione del rapporto fra interpretazione e significato, le principali teorie dell’interpretazione che si contendono il campo nell’odierno panorama delle teorie giuridiche contemporanee. Nel fare ciò presterò particolare attenzione alle produzioni più recenti della teoria giuridica italiana di orientamento analitico. (17)

Le teorie dell’interpretazione giuridica si sono più frequentemente collocate, nella loro evoluzione storica, su due poli contrapposti, considerati in chiave mutuamente esclusiva. Negli ultimi decenni hanno invece ripreso vigore gli orientamenti che possiamo chiamare “di mezzo” (proprio perché non scelgono nessuno dei due poli contrapposti), sulla scorta del grande seguito che ha avuto la teoria di Hart, (18) che rappresenta un punto di riferimento molto influente per coloro che decidono di seguire questa strada.

Di questi orientamenti darò ora una rappresentazione molto semplificata, prendendo esclusivamente in esame, come ho detto prima, il profilo strutturale.

Il primo orientamento, che è anche quello storicamente più risalente, sarà da me chiamato formalismo interpretativo (d’ora in poi semplicemente formalismo).

Il formalismo interpretativo trova le sue origini storiche in Francia, agli inizi del 1800. È la Scuola dell’Esegesi ad esprimere, prima di ogni altro orientamento, questa posizione. Come è noto, si tratta della scuola dei giuristi che contribuiscono prima a creare il grande edificio della Codificazione Napoleonica, e che poi si preoccupano di sottoporre ad interpretazione le sue norme. L’idea centrale di questa scuola è che nel codice ci sono tutte le risorse per consentire di decidere ogni caso concreto (principio della completezza della legge), e proprio perché nel codice è contenuta la legge stessa della ragione. Il codice è considerato come tendenzialmente completo, o comunque completabile senza stravolgimenti da parte dall’interprete. Quest’ultimo deve dunque cavar fuori dai testi tutto ciò che essi già contengono, quantomeno implicitamente. Il criterio ermeneutico fondamentale per cogliere il significato (l’unico significato corretto) delle espressioni contenute nelle varie disposizioni è quello della intenzione o volontà storica del legislatore, la quale si suppone stia dietro alla formulazione dell’enunciato. Nei casi, tuttavia, in cui la volontà reale non risulti palese e manifesta nel testo, si va in cerca della volontà presunta, e cioè ci si sforza di cogliere quale sarebbe stata l’intenzione del legislatore concreto se avesse potuto prevedere la situazione per la quale, appunto, manca una sua indicazione chiara.

Altre scuole giuridiche seguono poi le piste della Scuola dell’Esegesi nell’esprimere un atteggiamento ispirato al formalismo interpretativo, anche se in modi diversi. Ad esempio, ben diverso è il modo in cui la Scuola Storica tedesca (che sfocia poi nella Pandettistica) declina un atteggiamento interpretativo di tipo formalistico. In assenza di una codificazione cui far riferimento, il compito di razionalizzazione del diritto esistente viene svolto dal lavoro interpretativo dei giuristi, anziché dall’opera di un legislatore.

Manca purtroppo lo spazio per scendere nei dettagli dell’esame, certo di grande interesse, delle varie scuole formalistiche. Qui mi limito a dire che esse mantengono comunque un comune atteggiamento circa la questione di “che cosa sia l’interpretazione giuridica”. L’idea centrale condivisa è appunto, in primo luogo, quella secondo cui interpretare è comunque “scoprire un significato preesistente”, qualunque sia l’oggetto o entità da cui tale significato venga tratto; e, in secondo luogo, quella secondo cui tale significato, nei casi in cui vengano poste in essere interpretazioni genuine, è il significato vero, l’unico corretto. Ove tale operazione sollevi delle difficoltà, e dunque non risulti immediatamente chiaro quale sia questo significato, allora vengono prescelte, alternativamente o cumulativamente, due strade. La prima, prescelta dalla Scuola dell’Esegesi, privilegia, come abbiamo visto, il ricorso all’intenzione del legislatore; la seconda, percorsa dalla Scuola Storica e dalla Pandettistica, privilegia il ricorso a tecniche di carattere logico, che prevedano l’esplicitazione di ciò che è implicito e l’espansione di ciò che è già esplicito all’interno di un dato diritto positivo, attraverso un intervento che si snoda tutto “all’interno” del sistema giuridico.

 

Il secondo gruppo di orientamenti è rappresentato dall’antiformalismo interpretativo (d’ora in poi semplicemente antiformalismo). La stragrande maggioranza degli studiosi, in realtà, preferisce usare, in relazione a questi orientamenti, la locuzione “scetticismo”, (19) sulla scia dello schema proposto da Hart. (20) Obietto, in primo luogo, che non tutte le posizioni antiformalistiche sono riconducibili a tesi scettiche (sulle norme e/o sull’interpretazione); e, in secondo luogo, che la locuzione “antiformalismo” è forse più appropriata nel render conto del fatto che queste tendenze, che sono molto meno omogenee di quelle riconducibili al formalismo, si sono storicamente sviluppate, perlomeno agli inizi, come reazione al formalismo e ai suoi eccessi.

L’antiformalismo interpretativo non esprime, ancora più che il formalismo interpretativo, una teoria dell’interpretazione unitaria; soprattutto ai suoi inizi, verso la fine del 1800, esso si caratterizza come un insieme di forti reazioni critiche agli eccessi del formalismo, reazioni che cominciano a svilupparsi in Germania e poi anche in Francia e in Italia. Tre sono le tendenze principali in cui si condensa questa reazione, fra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo: la giurisprudenza degli interessi, gli indirizzi teleologici e il movimento del diritto libero.

Non è qui possibile esaminare in dettaglio queste concezioni dell’interpretazione; in questa sede il mio obiettivo, del resto, non è quello di fornire uno studio specifico di queste tendenze, quanto piuttosto quello di tracciare le linee fondamentali del loro approccio complessivo all’interpretazione. Ebbene, da questo punto di vista l’elemento più interessante è rappresentato da una comune caratteristica condivisa da questo tipo di approccio: si tratta, per l’esattezza, di quella prescrizione metodologica rivolta agli interpreti, secondo la quale essi devono cercare le risposte ai problemi di carattere interpretativo e applicativo muovendosi all’esterno della dimensione normativa, e cioè in una dimensione estrinseca al sistema giuridico. Ciò vuol dire che l’interpretazione delle disposizioni e la giustificazione delle decisioni giudiziali deve basarsi direttamente su elementi che fanno parte della realtà economico-sociale sottostante, siano essi costituiti da valori posti a fondamento delle norme (o, nelle versioni più radicali, da valori postulati dall’interprete), ovvero da interessi e da scopi che esse mirano a realizzare (o da interessi e da scopi fatti propri dall’interprete). Gli indirizzi teleologici fanno prevalente affidamento sul primo tipo di criteri, la giurisprudenza degli interessi sul secondo tipo; la scuola del diritto libero, in modo ancora più radicale delle prime due, sostiene che è il giudice stesso a creare, in senso proprio, il diritto attraverso la produzione delle sentenze.

A prescindere dalle differenze specifiche fra queste varie posizioni, l’idea centrale comunemente condivisa è quella secondo cui l’attività interpretativa genuina crea il significato della disposizione nel momento in cui applica il diritto al caso concreto (o, magari, ne prefigura la possibile applicazione a casi-tipo). Vi sono certamente dei casi in cui questa creazione non si verifica, perché la soluzione è talmente scontata che viene direttamente ricavata dalla norma. Ma non sono questi i casi di interpretazione che devono realmente interessare la teoria; né, in ogni caso, sembrano essere quelli più diffusi.

Nei casi che sono per davvero rilevanti per la teoria dell’interpretazione, invece, il significato non viene colto dall’indagine semantica avente per oggetto una disposizione, ma viene ricavato direttamente dall’esame della realtà economico-sociale sottostante, dalla quale l’interprete trae la soluzione interpretativa più adeguata, individuando valori-guida, selezionando gli interessi più rilevanti, facendo appello al proprio senso di equità, eccetera.

 

Queste due grandi concezioni dell’interpretazione si rincorrono continuamente nella cultura giuridica moderna e contemporanea, in un intreccio molto complicato in cui la crisi dell’una molto spesso lascia spazio all’avvento dell’altra. Accade sovente, ad esempio, che l’eccesso di formalismo, o la consapevolezza della impossibilità di sviluppare sino in fondo un approccio formalistico, finiscano per determinare un atteggiamento antiformalistico: (21) l’antiformalista si comporta così come un “formalista deluso”, (22) che ritiene, cioè, di non avere altra strada da percorrere, nella crisi del formalismo, che optare per un approccio antiformalistico. Ma accade pure l’inverso: la consapevolezza degli eccessi delle concezioni antiformalistiche, in direzione di concezioni che lasciano agli interpreti la libertà di andare non solo “oltre”, ma anche “contro” la legge, determina spesso la virata verso posizioni formalistiche.

Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad un forte declino delle concezioni formalistiche, mentre quelle antiformalistiche attraversano, soprattutto all’interno della nostra cultura giuridica, un periodo di particolare vivacità, soprattutto per opera della “scuola genovese”. Resta però il fatto che, come ho detto prima, sono le “teorie miste” ad avere la prevalenza, sia nell’area analitica, (23) che in quella di orientamento ermeneutica. (24) Nonostante questo successo, però, queste ultime concezioni sono afflitte da problemi ricorrenti, ormai di natura endemica, legati alla difficoltà di chiarire il loro effettivo statuto teorico, e soprattutto di salvaguardarne l’autonomia rispetto alle due concezioni precedenti. (25)

A mio avviso, comunque, le teorie miste, contrariamente a chi forse sopravvaluta le differenze fra le varie posizioni, (26) hanno delle radici comuni, quantomeno con riferimento a quelle più recenti. Queste radici sono rappresentate dalla ben nota tesi della struttura aperta del diritto di Hart, (27) secondo la quale i linguaggi che adottano termini generali (e dunque anche il linguaggio giuridico), presentano sempre dei casi chiari, (28) nei quali tali termini sono chiaramente applicabili, e dei casi dubbi, (29) nei quali si è per l’appunto in dubbio sul fatto se i termini si applichino oppure no. (30)

Questa distinzione costituisce una delle basi principali – anche se non l’unica – sulla quale si può poi costruire la contrapposizione fra i casi giudiziari facili, in relazione ai quali il giudice scopre, in qualche senso, significati preesistenti delle disposizioni, e i casi giudiziari difficili, in relazione ai quali il giudice crea nuovi significati delle disposizioni.

Da questo punto di vista, le teorie miste condividono, nel loro complesso, la tesi secondo cui l’interpretazione ha talvolta una funzione ricognitiva, nei casi –facili- in cui scopre significati preesistenti; e ha talvolta una funzione creativa, nei casi –difficili- in cui produce significati nuovi.

 

 

4. Visione “statica” e visione “dinamica” del significato

 

Dopo aver brevemente dato conto dello “stato attuale dell’arte” in sede di teoria dell’interpretazione giuridica, è adesso possibile passare, nei prossimi due paragrafi, alla parte critico-costruttiva del saggio. La prospettiva che voglio tratteggiare, anche se molto sommariamente, si inserisce nel solco dalle teorie miste, anche se muove da presupposti semantici – ed epistemologici - diversi da quelli adottati dalla maggior parte degli studiosi che si riconoscono in questi orientamenti.

È mia convinzione che le teorie miste non riescono a differenziarsi adeguatamente dalle altre perché finiscono per condividere un certo modo di intendere il significato, modo che è fondamentalmente comune a tutte e tre le prospettive sopra delineate. Il punto è che tutte queste prospettive, sia che intendano l’interpretazione come scoperta, sia che la intendano come creazione, condividono comunque una visione statica del significato.

Si tratta di una tesi di importanza nevralgica, sulla quale vale la pena di soffermarsi un attimo. Per visione statica del significato intendo l’idea secondo cui il significato, “scoperto” o “inventato” che sia, è comunque qualcosa che viene ad esistenza “tutto in una volta”, “in un’unica soluzione”. Non c’è modo, stando a questo tipo di impostazione, di uscire dalla alternativa dicotomica fra “scoprire” e “creare”; le stesse teorie miste, che pure vorrebbero farlo, sono in qualche modo costrette, dai presupposti semantici di partenza, a separare nettamente la scoperta (nei casi facili) dalla creazione (nei casi difficili). In questo modo, però, l’interpretazione concernente i casi facili viene configurata in modo estremamente riduttivo (si risolve in una mera presa d’atto), mentre quella concernente i casi difficili viene caricata di un contenuto discrezionale eccessivo, se rapportato all’intero spettro dei casi difficili. Il risultato è che nessuno di questi orientamenti è in grado di rendere conto in modo adeguato di quello che a me sembra l’aspetto peculiare dell’attività interpretativa, che è rappresentato dalla presenza, in tutte le attività interpretative – certo, in modi e forme da definire - di entrambi gli elementi, quello della “scoperta” e quello della “creazione”. (31)

Vale la pena di notare come questo modo dicotomico di intendere i discorsi interpretativi dei giuristi e degli operatori giuridici non sia affatto isolato, ma faccia parte di una complessa rete interconnessa di contrapposizioni, che sono patrimonio del positivismo giuridico tradizionale (anche di quello analitico), e che ricomprende, ad esempio, quella fra “descrivere” e “valutare”, fra “prendere atto” e “prendere posizione”, fra “fare discorsi sul diritto” e “fare discorsi nel diritto”, eccetera.

Si tratta di strutture categoriali standardizzate di tipo dicotomico, il cui obiettivo è quello di individuare, nell’ambito delle svariate attività “su norme” condotte dai giuristi e dagli operatori giuridici, due polarità contrapposte, due modi radicalmente alternativi di far riferimento a questi “oggetti giuridici”. Così facendo, si finisce per ricostruire l’universo di queste attività giuridiche attorno a due modalità alternative, delle quali la prima è costruita facendo leva sull’idea della descrizione, la seconda sulla idea della creazione e/o della valutazione. In poche parole, l’immagine che viene fuori da questo schema bipolare è quella di una rigida separazione fra due tipi diversi di attività: da una parte tutte quelle attività a carattere oggettivo (in un senso forte di “oggettività” che verrà specificato in seguito), finalizzate, in qualche senso, a rappresentare il - o a prendere atto del - diritto positivo in quel momento esistente (in un dato contesto, ovviamente); dall’altra parte tutte quelle attività a carattere soggettivo (in un senso altrettanto forte di “soggettività” che verrà anch’esso specificato in seguito), all’interno delle quali quello stesso diritto positivo non è più oggetto di descrizione, ma, al contrario, di prese di posizione, di interventi volti alla modifica di alcune sue parti, ovvero, addirittura, alla creazione di nuovo diritto.

Questo tipo di ricostruzione dicotomica tocca tutti i punti nodali del “lavoro sul diritto positivo” svolto dai giuristi e dagli operatori giuridici, e quindi coinvolge anche, per quello che qui interessa, l’attività di interpretazione giuridica. Naturalmente, di questo tipo di schema bipolare possono essere date configurazioni diverse, alla luce di presupposti teorici e metodologici (e, più in generale, epistemologici) differenti. Si può così accentuare al massimo, sempre restando nell’ambito delle attività sopra menzionate, l’aspetto della descrizione, lasciando il profilo della creazione e/o della valutazione come elemento residuale (è il caso, in sede di teoria della interpretazione, degli orientamenti formalistici); ovvero si può considerare l’aspetto creativo e/o valutativo come l’elemento centrale del lavoro dei giuristi e degli operatori, relegando gli elementi descrittivi all’interno dei “casi di scuola”, come ipotesi limite non realistiche (ed è il caso, sempre in sede di teoria dell’interpretazione, degli orientamenti antiformalistici). L’andamento bipolare dello schema rimane comunque immutato, irrigidito nella forma della opposizione mutuamente esclusiva (o si dà un caso, o si dà l’altro). In entrambi i casi, l’idea che ci sia uno spazio per una attività descrittiva oggettivamente connotata, quantomeno astrattamente configurabile, anche se non realizzabile in pratica (cosa che sostengono gli antiformalisti), assume un ruolo davvero centrale.

Mi manca qui lo spazio per esaminare criticamente questa complessa rete di contrapposizioni, mettendone in evidenza i fondamentali presupposti epistemologici, che fanno capo ad una concezione realistico-descrittivistica che va a mio avviso considerata come destituita di fondamento. (32) Limiterò il mio discorso all’interpretazione giuridica.

Ebbene, sotto questo specifico profilo è importante rilevare che l’interpretazione giuridica non si lascia irregimentare nello schema dicotomico sopra delineato, e dunque, nel caso specifico, nelle contrapposte modalità della “scoperta” e della “creazione”. È mia convinzione, da questo punto di vista, che l’attività interpretativa utilizzi contestualmente entrambe le modalità, attraverso un processo dinamico di attribuzione di significato che attraversa più fasi. Riconoscere questo punto fondamentale equivale, allora, a passare da un approccio statico ad un approccio dinamico alla teoria del significato. È proprio a partire da questa svolta fondamentale che si può cominciare a costruire una teoria pragmaticamente orientata dell’interpretazione giuridica. (33)

Schematizzando al massimo un discorso ovviamente molto più complesso, si può osservare che le radici di questa svolta teorica sono di carattere filosofico e risiedono nelle concezioni pragmaticamente orientate del linguaggio e della comunicazione, che sono patrimonio della filosofia di Wittgenstein, (34) e, più recentemente, della filosofia post-analitica. (35) Secondo queste concezioni è la dimensione dell’uso del linguaggio e dunque degli effetti (sia tipici che concreti) della comunicazione sugli utenti (i membri linguisticamente competenti della comunità di riferimento) a costituire la base di riferimento per stabilire che cosa è una comunicazione linguistica, che cosa, in altri termini, rappresenta un messaggio comunicativo e quali sono le sue caratteristiche.(36)

Da questi presupposti semantici di sfondo discende una particolare configurazione della teoria del significato degli enunciati, costruita, appunto, su basi pragmatiche, teoria che può essere poi integralmente riproposta per gli enunciati giuridici. Secondo questa configurazione l’obiettivo della teoria non è quello di descrivere e di spiegare, in modo statico, l’entità “significato”, ma piuttosto quella di render conto, in modo dinamico, di un insieme di abilità e di competenze legate alla produzione, alla comprensione e alla interpretazione dei significati. (37)

Dall’approccio dinamico sopra delineato discendono due fondamentali caratteristiche della nozione di significato.

La prima caratteristica riguarda la scomposizione della nozione di significato, che va divisa in tre diversi strati, (38) che qui possono essere menzionati soltanto di sfuggita: (39) lo strato del significato in senso ampio (il quantum autonomo di comunicazione espresso dall’enunciato; (40) lo strato del significato in senso stretto (l’argomento dell’enunciato, ovvero il suo contenuto semantico, così come risulta dalla combinazione delle parole in esso contenute, fatta astrazione dalla funzione svolta); lo strato del significato in senso debole (il significato delle singole parole, e delle nozioni da esse connotate, parole e nozioni che concorrono a comporre l’argomento dell’enunciato).

Di tutti i vocaboli che possono entrare a far parte degli enunciati, quelli che più frequentemente ricorrono nella componente referenziale degli enunciati giuridici sono i vocaboli che esprimono termini generali descrittivi, quali “veicolo” (nell’esempio del “veicolo nel parco” che, pur nella sua  banalità, solleva problemi interpretativi interessanti), “partecipe” e “concorrente esterno” (nelle varie ipotesi di responsabilità connesse alla fattispecie di associazione mafiosa), “terrorista” e “combattente” (figure che sono in qualche modo coinvolte nelle norme che disciplinano il reato di associazione a fini di terrorismo internazionale), e così via. Si tratta di termini strutturalmente “aperti”, il cui ambito di estensione non può essere predeterminato in anticipo.

Il significato in senso debole va ricostruito come una nozione inclusiva, (41) un vettore a più componenti, (42) di cui fanno parte: i) il senso, che, secondo una lettura pragmaticamente orientata, rinvia alla capacità intra-linguistica di usare correttamente le parole di una lingua (ad esempio operando le opportune sostituzioni attraverso relazioni di sinonimia) e di definire correttamente, nel linguaggio, le nozioni connotate dalle parole; ii) il riferimento, che riguarda la capacità, che si proietta al di fuori del linguaggio, di usare correttamente le parole per “parlare del mondo”, per denotare oggetti del mondo esterno.

È importante rilevare che, in questa visione semantica “allargata”, tutte le questioni relative al rapporto con il mondo ricadono all’interno della teoria del significato. Questo vuol dire, in relazione all’interpretazione giuridica, che tutte le questioni relative ai rapporti fra fattispecie astratte e fattispecie concrete, e che sono normalmente rubricate all’interno della categoria della applicazione del diritto, diventano a pieno titolo di competenza della teoria del significato. Insomma, non è corretto scindere, come se fossero due cose completamente diverse, la questione dell’individuazione delle norme a partire dagli enunciati e la questione dell’applicazione delle norme a casi concreti, come se si trattasse di due processi qualitativamente diversi dal punto di vista semantico. (43) Secondo la prospettiva qui accolta, in realtà, il processo di attribuzione del significato alla disposizione è uno solo, pur se molto complesso e articolato, e coinvolge pure le fasi collegate alla dimensione del riferimento (e dunque del rapporto con i casi concreti).  

La seconda caratteristica di una teoria del significato pragmaticamente orientata è che essa guarda al significato come ad una nozione a formazione progressiva. Rapportata al piano dell’interpretazione giuridica questa tesi vuol dire che il significato di una disposizione – di qualsiasi tipo di disposizione - non si produce “tutto in una volta”, ma attraverso un processo complesso, che contiene più fasi, (44) o che comunque può essere analiticamente distinto in più fasi (pur se, dal punto di vista psicologico, può anche durare un attimo); e in questo processo il significato di una disposizione tende a specificarsi in modo sempre più compiuto, man mano che entra a contatto con situazioni applicative concrete (interpretazione operativa), o con situazioni applicative-tipo (interpretazione dottrinale).

Per rappresentare questo aspetto trovo appropriato usare la locuzione “monismo sequenziale”: infatti, qualificando la teoria come monistica, si rende tutto sommato bene l’idea che nel processo interpretativo il significato della disposizione rimane, nonostante tutto, sempre uno solo; aggiungendo l’attributo “sequenziale” si mette opportunamente in evidenza il fatto che tale significato, mano a mano che il processo di interpretazione si sviluppa, passa attraverso più fasi, raggiungendo livelli sempre più elevati di specificazione e di concretizzazione. Questa specificazione, si badi bene, può essere il risultato di itinerari diversi, e dunque può ramificarsi in più direzioni.

È proprio attraverso la caratterizzazione dell’interpretazione come processo, in più fasi, di formazione progressiva del significato che si riesce a dissipare l’impressione di una incoerenza di fondo di cui potrebbe essere accusata la teoria pragmaticamente orientata, per il fatto di richiedere la presenza contestuale, nell’interpretazione giuridica, di un’attività che sia insieme di “scoperta” e di “creazione”. Le due attività, infatti, vanno collocate in fasi distinte dell’attività interpretativa, fasi che ora passo brevemente a distinguere.

 

 

5. Dimensione “convenzionale” e dimensione “contestuale” del significato

 

Le varie fasi del processo di costruzione e di specificazione del significato di una disposizione, e ovviamente delle parole in essa contenute, possono essere a grandi linee ricondotte a due grandi dimensioni, di cui parlerò molto schematicamente in questo paragrafo: la dimensione convenzionale, cui fa capo, appunto, il significato convenzionale, e la dimensione contestuale, cui fa capo il significato contestuale.

Dal punto di vista della visione dinamica del significato, non c’è alcuna opposizione mutuamente esclusiva fra significato convenzionale e significato contestuale, (45) per cui la presenza dell’uno escluderebbe la presenza dell’altro. In una visione “a formazione progressiva” ognuna di queste due componenti mantiene legittimamente il suo posto accanto all’altra. (46) L’importante, però, è che si riconosca la priorità logica del significato convenzionale. È proprio questa dimensione logicamente prioritaria, infatti, a preparare il terreno per l’intervento dell’altra.

Il significato convenzionale può essere definito come «tutto quello che si conosce di un enunciato prescindendo dal contesto della enunciazione».(47) Esso può essere caratterizzato come il first meaning dell’enunciato, e cioè il significato che le espressioni di un linguaggio posseggono in accordo con le convenzioni e le regole d’uso attualmente condivise (e magari codificate in un dizionario) dai membri della comunità di riferimento. (48)

Il significato contestuale è quella parte del significato che, sulla scorta del significato convenzionale di partenza, viene costruita con riferimento ad intenzioni comunicative tipiche in situazioni complesse di interazione segnica. (49) Questa parte del significato viene prodotta a contatto con le singole occasioni d’uso del linguaggio, e dunque all’interno di specifici contesti comunicativi (l’applicazione –potenziale o effettiva- del diritto ai casi concreti).

Mi pare che, in accordo con questo tipo di impostazione, non venga a crearsi alcuna contraddizione, né tampoco alcuna contrapposizione mutuamente esclusiva fra queste due dimensioni, sia all’interno della teoria semantica generale, che all’interno della teoria dell’interpretazione giuridica. Entrambi gli elementi, quello della “scoperta” e quello della “creazione”, entrano tutti e due, a pieno titolo, nel processo di costruzione del significato, sia pure in fasi diverse. Quella che semmai può variare, e talvolta sensibilmente, è la “distanza semantica” fra il significato convenzionale e quello contestuale. Quest’ultimo, cioè, può limitarsi a riprodurre il significato convenzionale, costituendone una mera specificazione del contenuto in vista di una determinata occasione d’uso; e questo accade, ad esempio, nei “casi facili” dell’interpretazione giuridica, casi, tuttavia, che richiedono una attività interpretativa che non può ridursi ad una mera “presa d’atto”. Ma il significato contestuale può anche allontanarsi dal significato convenzionale (nei “casi difficili”), sino al punto, talvolta, da rappresentare (nei “casi particolarmente difficili”) il risultato di un percorso ramificato che può comportare specificazioni semantiche alternative (e quindi “significati contestuali alternativi”).

Resta comunque il fatto che il momento finale della costruzione compiuta del significato di una disposizione, da parte dell’interpretazione giuridica, è quello della sua definitiva specificazione semantica (molto spesso una fra le varie possibili), all’interno dei vari contesti di recezione dentro i quali viene a collocarsi, di volta in volta, il messaggio normativo espresso dalla disposizione stessa.

 

 

6. Conclusione

 

Mi manca purtroppo lo spazio per soffermarmi ulteriormente su questa concezione semantico-strutturale “pragmaticamente orientata” dell’interpretazione. Mi sembra tuttavia utile segnalare, in sede di conclusione, una implicazione piuttosto interessante del discorso svolto sopra, che riguarda il rapporto fra interpretazione e applicazione del diritto. La concezione inclusiva e allargata del significato che ho qui adottato consente di inserire all’interno del continuum dei processi di attribuzione del significato alle disposizioni anche quella parte del lavoro giudiziale che riguarda non solo il rapporto semantico fra fattispecie astratta e fattispecie concreta, ma anche il procedimento di sussunzione del fatto nella norma (che può essere qualificato, dal punto di vista semantico, come individualizzazione del riferimento).

Certamente questo discorso dovrebbe essere ulteriormente approfondito. Qui mi limito a rilevare che, stando a quanto detto sopra, non sembra esservi soluzione di continuità, dal punto di vista semantico, fra interpretazione e applicazione del diritto. Sembra anzi che il processo di costruzione del significato compiuto delle disposizioni richieda un accurato dosaggio di interpretazione e di applicazione (quantomeno nel senso del confronto semantico con i casi concreti).

Mi sembra questo un esito piuttosto interessante cui può pervenire una teoria analitica dell’interpretazione giuridica, qualora abbandoni le premesse epistemologiche e semantiche cui si ispirano le teorie tradizionali dell’interpretazione; un esito, peraltro, che si rivela essere molto in sintonia con quanto vanno da tempo sostenendo gli orientamenti giusfilosofici ermeneutici.

 

 

Note

 

(1) Si vedano in proposito i miei lavori: Interpretazione giuridica e teorie del significato, in Scritti per Uberto Scarpelli, a cura di L. Gianformaggio e M. Jori, Giuffrè, Milano, 1997, pp. 803-853; Interpretazione giuridica e significato: una relazione dinamica, in L’intenzione nell’interpretazione, “Ars Interpretandi”, 1998, pp. 129-154; Il positivismo giuridico: metodi, teorie e giudizi di valore. Lezioni di filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 2004, cap. VII; Lineamenti di una teoria pragmaticamente orientata dell’interpretazione giuridica, in “Cassazione Penale”, XLV, 7-8, 2005, pp. 2424-2436; Un approccio pragmaticamente orientato all’interpretazione giuridica, in “Questione Giustizia”, 4, 2005, pp. 672-686.

(2) Si veda in proposito la teoria di H. Kelsen, Reine Rechtslehre, Franz Deuticke, Wien, 1960; trad. it. La dottrina pura del diritto (1960), trad. it Einaudi, Torino,1975, pp. 381-390. In questa teoria la teoria dell’interpretazione giuridica è non a caso relegata nell’ultimo capitolo.

(3) Si guardi, a titolo di mero esempio, alla teoria di Dworkin (cfr. R. Dworkin, Law’s Empire, Fontana Press, London,1986; trad. it. L’impero del diritto, Milano, Il Saggiatore, 1989) e a quella di MacCormick (cfr. N. MacCormick, Legal Reasoning and Legal Theory, Clarendon Press, Oxford, 1978; trad. it. Ragionamento giuridico e teoria del diritto, Giappichelli, Torino, 2001).

(4) Emblematico è, da questo punto di vista, il titolo del libro di F. Viola, Il diritto come pratica sociale, Jaca Book, Milano, 1990.

(5) Emblematico è, da questo punto di vista, il titolo del libro di F. Viola, Il diritto come pratica sociale, Jaca Book, Milano, 1990.

(6) H.L.A. Hart, Il concetto di diritto, cit., pp. 67-70, 105-108.

(7) Cfr., fra gli altri, L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari, 1989, pp. 97, 348-349, 916.

(8) Si tratta di uno di quegli aspetti di quel complesso fenomeno culturale che Guastini definisce come costituzionalizzazione di un ordinamento e che esamina con particolare riguardo alla situazione italiana (R. Guastini, La “costituzionalizzazione” dell’ordinamento italiano, in “Ragion pratica”, n. 11, 1998, pp. 185-206).

(9) Considerazioni simili sull’importanza assunta dall’interpretazione nelle teorie giuridiche contemporanee vengono sviluppate da D. Canale, Forme del limite nell’interpretazione giudiziale, CEDAM, Padova, 2003, pp. 18-20.

(10) Rinvio per tutto questo al mio Il positivismo giuridico…, cit., cap. VII.

(11) La definizione è tratta da G. Tarello, L’interpretazione della legge, Giuffrè, Milano, 1980, p. 9.

(12) Tarello è stato il primo a formulare in modo analiticamente rigoroso questa tesi (cfr. G. Tarello, L’interpretazione della legge, cit., pp. 9-10); un’altra formulazione molto autorevole è quella di Guastini (cfr. R. Guastini, Dalle fonti alle norme, Giappichelli, Torino, 1990, pp. 15-20).

(13) Sulla nozione di “relazione interna”, per come è sviluppata dalla filosofia analitica, si vedano i fondamentali lavori di Baker e Hacker (cfr. G.P. Baker-P.M.S. Hacker, Scepticism, Rules and Language,  Blackwell, Oxford, 1984, pp. 94-115 e Wittgenstein. Rules, Grammar and Necessity. Vol. II of an Analytical Commentary on the Philosophical Investigations, Blackwell, Oxford, 1985, pp. 85-105).

(14) Sulla relazione concettuale fra “interpretazione” e “significato”  si consulti M. Platts, Ways of Meaning. An Introduction to Philosophy of Language, Routledge & Kegan, London, 1979, p. 43.

(15) La tesi non è ad esempio condivisa da quegli studiosi genovesi della scuola di Tarello che possono essere fatti rientrare nell’indirizzo “antiformalistico”. Secondo costoro la teoria dell’interpretazione dovrebbe porsi problemi diversi da quelli che riguardano il significato nei linguaggi naturali (che sono legati, ad esempio, alla “vaghezza” dei termini generali), e segnatamente quelli che concernono le “ambiguità”, le “lacune” e le “antinomie”. Per affrontare questi problemi non ci sarebbe alcun bisogno di una teoria generale del significato. Cfr. in proposito R. Guastini, Due esercizi di non-cognitivismo, in “Analisi e diritto 1999”, a cura di P. Comanducci e R. Guastini, Giappichelli, Torino, 2000, pp. 278-279, e P. Chiassoni, L’ineluttabile scetticismo della scuola genovese, in “Analisi e diritto 1998”, a cura di P. Comanducci e R. Guastini, Giappichelli, Torino, 1999, pp. 22, 47-48.

(16) Della stessa opinione è Barberis (M. Barberis, Lo scetticismo immaginario. Nove obiezioni agli scettici “a la génoise”, in “Analisi e diritto 2000”, a cura di P. Comanducci e R. Guastini, Giappichelli, Torino, 2001, pp. 15-17), che però non si preoccupa, né in questo saggio né – per quanto ne so – altrove, di indicare in modo preciso e dettagliato a quale teoria del significato si stia riferendo.

(17) Per un esame più dettagliato delle concezioni formalistiche e antiformalistiche, rinvio al mio Il positivismo giuridico…, cit., pp. 206-211.

(18) Cfr. H.L.A. Hart, Il concetto di diritto, cit., cap. VII.

(19) Come esempio per tutti, si veda E. Diciotti, Interpretazione della legge e discorso razionale, Giappichelli, Torino, 1999, pp. 201 ss.

(20) H.L.A. Hart, Il concetto di diritto, cit., pp., 159-165.

(21) Cfr. su questo punto H.L.A. Hart, Il concetto di diritto, cit., p. 163, e M. Jori, Paradigms of Legal Science, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, n. 2, 1990 , p. 245.

(22) La figura del “formalista deluso” ha delle forti analogie con quella dell’“oggettivista deluso”, di cui parla Putnam (H. Putnam, Words and Life, ed. by J. Conant, Harvard University Press, Cambridge Mass. and London, 1995, p. 299), in sede epistemologica, per caratterizzare la frustrazione di chi aveva riposto le sue aspettative nel “realismo metafisico”, ma che si trova poi costretto a riconoscere che garanzie così forti non sono disponibili per la teoria della conoscenza.

(23) Un esempio recente e particolarmente influente di teoria mista è rappresentato dal volume di J. J. Moreso, La indeterminación del derecho y la interpretación de la Constitución, Centro de estudios politicos y constitucionales, Madrid, 1997. Moreso, utilizzando le denominazioni felicemente coniate da Hart (H.L.A. Hart, Essays in Jurisprudence and Philosophy, Clarendon Press, Oxford, 1983, pp. 123-144) per “formalismo” (il nobile sogno) e “antiformalismo” (l’incubo), etichetta la sua versione delle teorie di mezzo come “veglia” (vigilia).

(24) All’interno di quest’ultima area un contributo particolarmente significativo in questa direzione viene dal lavoro di F. Viola-G. Zaccaria, Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto, Laterza, Roma-Bari, 1999.

(25) Non è un caso, ad esempio, che alcuni studiosi inseriscano le teorie miste nel novero di quelle formalistiche, etichettandole in chiave di “neoformalismo” (cfr. R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, Giuffrè, Milano, p. 58), mentre altri preferiscono considerarle, perlomeno sotto alcune versioni, come esempi di “scetticismo moderato” (cfr. P. Chiassoni, Archimede o Eraclito? Sul primato retorico dello scetticismo, in  "Materiali per una storia della cultura giuridica", 2, XXXI, 2001, p. 546); altri, infine, ritengono preferibile rinunciare del tutto al “terzo polo”, optando per una diversa articolazione dei due poli restanti, che vengono divisi in “versioni moderate” e “versioni estreme” (cfr. V. Velluzzi, Sulla nozione di “interpretazione giuridica corretta” (e sui suoi rapporti con l’interpretazione estensiva), in “Cassazione Penale”, 2004, pp. 2589-2592).

(26) Mi sembra, ad esempio, che questo sia il caso di V. Velluzzi, Interpretazione sistematica e prassi giurisprudenziale, Giappichelli, Torino, 2002, pp. 47-52.

(27) H.L.A. Hart, Il concetto di diritto, cit., pp. 146-159.

(28) Nel ben noto esempio di Hart (Il concetto di  diritto pp. 148-151) della “disposizione che vieta l’ingresso dei veicoli in un parco”, casi chiari sarebbero quelli in cui gli oggetti cui si riferisce il termine “veicolo” sono rappresentati da automobili, motociclette, ecc.

(29) Casi dubbi sarebbero invece quelli in cui gli oggetti cui si riferisce il termine “veicolo” sono rappresentati da “automobili-giocattolo elettriche”, “monopattini a motore”, eccetera.

(30) Su questa tesi hartiana e sulle sue ascendenze filosofiche nell’ambito della filosofia analitica, si veda il mio Storia della filosofia del diritto analitica, Il Mulino, Bologna, 2003, pp. 121-122.

(31) Questa è una tesi che Dworkin avanza con molta forza persuasiva, sia pure senza la dovuta consapevolezza dei presupposti epistemologici e semantici che bisogna incorporare per offrire ad essa un adeguato sostegno. Nel formulare questa tesi, Dworkin afferma che «the distinction between finding the law just "there" in history and making it wholesale is misplaced here, because interpretation is something different from both» (R. Dworkin, A Matter of Principle, Harvard University Press, Cambridge Mass.,1985, p. 162).

(32) Analizzo criticamente queste contrapposizioni, individuandone le radici epistemologiche, nel mio Costruttivismo e teorie del diritto, Giappichelli, Torino, 1999.

(33) Alcuni spunti di un approccio pragmaticamente orientato all’interpretazione si trovano nell’importante lavoro di M. Pascal-J. Wroblewski, Transparency and Doubt: Understanding and Interpretation in Pragmatics and in Law,in “Law and Philosophy”, 7, 1988, pp. 203-224. Questi autori parlano espressamente di una pragmatically oriented conception of interpretation, ma senza peraltro esplicitare in modo chiaro le premesse semantiche da cui muovono.

(34) L. Wittgenstein, Philosophical Investigations, Blackwell, Oxford, 1953; trad. it. Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1967, § 30, 43, 120, 138, 197, 247, 454.

(35) Cfr., ad esempio, il fondamentale lavoro di R. Brandom, Making it Explicit. Reasoning, Representing and Discursive Commitment, Harvard University Press, Cambridge, 1994, Sulla distinzione fra filosofia analitica e filosofia post-analitica, si veda il mio Il positivismo giuridico…, cit., cap. V.

(36) Su questo punto, cfr. P. Grice, Studies in the Ways of Words, Harvard University Press, Cambridge, 1989, pp. 25 ss.

(37) Esprime bene questo punto M. Dummett, What is a Theory of Meaning? (II), in Truth and Meaning. Essays in Semantics, a cura di G. Evans and J. McDowell, Clarendon Press, Oxford, 1976, pp. 69-72.

(38) Nella distinzione fra questi vari strati seguo, perlomeno in parte, lo schema presentato da R. Kempson, Semantic Theory, Cambridge University Press, Cambridge, 1977, pp. 11 ss.

(39) Un’analisi molto più approfondita può trovarsi nel mio Il positivismo giuridico…, cit., cap. V.

(40) G. Tarello, Diritto, enunciati, usi, Il Mulino, Bologna, 1974, p. 146.

(41) Usa questa espressione M. Hesse, Revolutions and Reconstructions in the Philosophy of Science, Harvester Press, Brighton, 1980, p. 113.

(42) Questa caratterizzazione del significato è opera di H. Putnam, Mind, Language and Reality. Philosophical Papers, II, Cambridge University Press, Cambridge, 1975, pp. 268-269.

(43) Di diverso avviso è invece R. Guastini, Realismo e antirealismo nella teoria dell'interpretazione, in "Ragion pratica", n. 17, 2001, p. 49.

(44) Che l’interpretazione vada considerata dinamicamente, e che dunque consista in una serie di atti, è opinione che viene sostenuta anche da Barberis, ma che non viene adeguatamente da lui giustificata su basi semantiche (cfr. M. Barberis, Il sacro testo. L’interpretazione giuridica fra ermeneutica e pragmatica, in “Ars interpretandi”, 1999, pp. 282-289).

(45) Per un’ottima analisi delle posizioni che considerano invece le due dimensioni come contrapposte in modo mutuamente esclusivo, si veda P. F. Strawson, Logico-Linguistic Papers, Methuen & Co., London, 1971, pp. 171-172.

(46) Condivide questo approccio, sul piano della teoria semantica generale, R. Kempson, Semantic Theory, cit., p. 5.

(47) La definizione è di P. Grice, Studies in the Ways of Words, cit., p. 25.

(48) Così D. Davidson, Inquiries into Truth and Interpretation, Clarendon Press, Oxford, 1984, pp. 434-436. Per una definizione simile si veda anche S. Blackburn, Spreading the Word. Groundings in the Philosophy of  Language, Oxford University Press, Oxford, 1984, pp. 110-111.

(49) Per questa definizione si veda B. Celano, Dialettica della giustificazione pratica. Saggio sulla legge di Hume, Giappichelli, Torino, 1994, p. 168.