http://www.units.it/etica/2006_1/VILLA.htm
La teoria dell’interpretazione giuridica fra formalismo e antiformalismo
Abstract
The research of a middle
course between interpretative legal formalism and interpretative legal scepticism
is one of the main characteristics of the contemporary debate on legal interpretation.
The difficulty of finding this space in the midst is due a) to the lack of a
proper reflection on the link between theory of interpretation and theory of
meaning and b) to the unaware acceptance of an unsuited theory of meaning.
Either formalism or scepticism (or, better, anti-formalism) presuppose a static
conception of meaning: meaning is found (according to formalism) or created
(following scepticism) at one go. To be considered a valid alternative to these
two extremes, an intermediate theory of legal interpretation should propose a dynamic
approach to meaning. In this paper it will be presented an intermediate theory
of legal interpretation grounded on a dynamic theory of meaning. |
Lo scopo di questo saggio è
quello di presentare un breve abbozzo di una teoria “pragmaticamente orientata”
dell’interpretazione giuridica, teoria che ho cercato di sviluppare, perlomeno
nelle sue linee generali, in questi ultimi anni. (1)
Prima, però, di entrare nel merito della trattazione mi sembra importante fare
alcune considerazioni sulla peculiare rilevanza che viene oggi assunta da
questo tema di ricerca all’interno delle teorie giuridiche contemporanee.
Nelle teorie del diritto
tradizionali l’interpretazione viene tutto sommato considerata come un
“argomento di settore”, sia pure importante. (2)
Oggi, invece, alcune fra le opere più significative di teoria del diritto sono
declinate come teorie dell’interpretazione. (3)
Mi sembra opportuno indicare alcune delle ragioni che giustificano il diverso
ruolo giocato da queste teorie.
Una prima ragione, di
carattere teorico-generale, è legata alla diffusione, sia nell’area ermeneutica
(4) che nell’area analitica (5) (che rappresenta il punto di riferimento
filosofico di questo scritto), di una concezione che può essere opportunamente
etichettata come “teoria del diritto come pratica sociale”. Secondo questa
teoria, nella versione che ne dà Hart, si può affermare che le regole sociali
(la categoria più generale che ingloba le regole giuridiche) esistono in senso
proprio se e solo se vengono riconosciute
come tali, e dunque accettate,
dai membri di una comunità di rule
followers; e una delle condizioni necessarie dell’accettazione è
rappresentata dall’interpretazione del loro contenuto. (6) Da questo punto di vista, insomma,
l’interpretazione delle regole rappresenta un elemento costitutivo della loro stessa esistenza come fenomeni normativi.
Una seconda ragione è legata
al diverso ruolo che viene riconosciuto all’interpretazione giudiziale negli
odierni stati di diritto costituzionali. È opinione largamente diffusa(7) che l’interpretazione giudiziale (ma sotto
certi profili anche l’interpretazione dottrinale) intervenga direttamente nella
fase dell’accertamento della validità delle norme legislative, e proprio per il
fatto che tale accertamento non riguarda più soltanto l’esame del loro pedigree formale, ma anche il giudizio
sulla conformità o meno del loro contenuto rispetto a quello dei principi
costituzionali.
In linea più generale, si può
notare come oggi torni prepotentemente alla ribalta, con argomenti più solidi
che in passato, la tesi secondo cui l’interpretazione giudiziale (e per qualche
aspetto l’interpretazione dottrinale) costituisce una vera e propria fonte di diritto, e non solo per quanto
detto sopra a proposito dell’accertamento della validità delle norme, ma anche
per il suo continuo lavoro di concretizzazione e di specificazione dei messaggi
normativi del legislatore, svolto a contatto con i casi concreti. Tale lavoro
si carica peraltro oggi, in un sistema giuridico come il nostro, di nuovi e
importanti compiti interpretativi, perché mette costantemente a contatto
giudici e giuristi, sul versante “interno”, con principi costituzionali che
tendono sempre più ad essere direttamente applicati nelle controversie; (8) e, sul versante “esterno”, con norme
sovra-nazionali delle quali si tratta di accertare le credenziali ai fini del
loro ingresso nel sistema. (9)
In questo saggio, guardando in
modo esclusivo al profilo del rapporto fra interpretazione e significato, mi
preoccuperò in primo luogo di render conto delle principali teorie
dell’interpretazione giuridica che oggi si contendono il campo; dopo averle
esaminate criticamente, cercherò poi di presentare una concezione diversa,
basata, appunto, su di una teoria del significato alternativa a quella sostenuta
dalle concezioni precedenti; questo mi consentirà, contestualmente, di dare un
senso teorico più preciso alla tesi della creatività dell’interpretazione giudiziale, ma anche di prendere in considerazione
il ruolo altrettanto creativo dell’interpretazione
dottrinale, in una prospettiva che non riconosce alcuna differenza di tipo
qualitativo fra i due tipi di attività. Nel fare tutto ciò dedicherò una
particolare attenzione alla importante connessione che senza dubbio esiste fra
questo modo peculiare di impostare il rapporto fra significato e interpretazione
giuridica e alcune recenti concezioni semantiche di ispirazione analitica che
condividono una concezione pragmaticamente orientata del linguaggio e della
comunicazione.
2. La relazione interna fra interpretazione e
significato
Non
è possibile, nello spazio di questo breve saggio, fornire tutte quelle definizioni
orientative, sull’interpretazione in generale e sull’interpretazione giuridica
in particolare, che sarebbero necessarie per avere a disposizione una mappa in
grado di guidarci nel nostro tragitto in questo territorio piuttosto
accidentato. (10) Mi limito qui a
precisare che il mio scritto assume come oggetto esclusivo di indagine quella
che può essere considerata, quantomeno nei sistemi di diritto codificato,
l’istanza paradigmatica di interpretazione giuridica, e cioè l’interpretazione della legge.
Dal punto di vista della
teoria del diritto analitica, l’interpretazione della legge può essere definita
come un’attività, eminentemente linguistica, che attribuisce significato a tutti
quei documenti che sono potenzialmente in grado di esprimere norme legislative. (11) Questi documenti sono a loro volta
costituiti da singoli enunciati (le disposizioni
giuridiche), che rappresentano normalmente le unità minime della
comunicazione linguistica (nel diritto come in tutti gli altri campi).
È l’interpretazione giuridica,
per il fatto di attribuire significato alla disposizione, a determinare il
passaggio da quest’ultima alla norma vera e propria. In questo senso le norme
giuridiche non rappresentano altro che significati
di disposizioni legislative (o, meglio, riformulazioni di disposizioni cui
è stato dato un significato compiuto).(12)
Nonostante la restrizione
derivante dal fatto di aver assunto l’interpretazione della legge come oggetto
esclusivo di studio, il campo di indagine continua pur tuttavia ad essere
troppo vasto per poter essere esaminato tutto in una volta, a maggior ragione
nello spazio di questo saggio. Più vasto ancora lo diventa, poi, se lo
integriamo con la parte relativa all’applicazione giudiziale del diritto. In
ogni caso, con riferimento a tutto il complesso delle attività interpretative e
applicative, trovo particolarmente appropriata la dizione “teoria del ragionamento
giuridico”. Invece, per quanto concerne in particolare la teoria
dell’interpretazione giuridica (e il suo specifico settore rappresentato
dall’interpretazione della legge), è opportuno distinguere due diversi ambiti
di ricerca.
Il primo settore è
rappresentato dalla teoria
dell’interpretazione giuridica in senso stretto, che guarda a questa
attività da un punto di vista squisitamente strutturale.
Intesa in questo modo, tale teoria si preoccupa di esaminare il modo (il come) in cui l’interpretazione effettua le sue attribuzioni di
significato, nei suoi profili metodologici e nelle sue implicazioni teoriche.
Qui il nodo tematico centrale è quello relativo a come debba essere
caratterizzato il processo di attribuzione di significato alla disposizione. A
questo proposito, alcune domande particolarmente rilevanti sono: l’attribuzione
di significato può essere caratterizzata come una scoperta? Oppure si tratta di
una creazione? Ovvero, ancora, è una sorta di “mescolanza di entrambe”, o
magari un’attività etichettabile in modo totalmente alternativo?
Il secondo settore è
costituito dalla teoria
dell’argomentazione giuridica, che si preoccupa della questione del perché si sia realizzata una determinata
attribuzione di significato e non eventualmente un’altra; essa si pone
l’obiettivo, in sostanza, di esaminare, sul piano ricostruttivo, o di suggerire, sul piano prescrittivo, gli argomenti usati
o da usare dalla dottrina e dalla
giurisprudenza per giustificare un certo tipo di risultato interpretativo e/o applicativo.
In questo saggio mi occupo
esclusivamente dell’aspetto strutturale dell’interpretazione della legge (che
d’ora in poi chiamerò più semplicemente “interpretazione”). In questa sede,
dunque, non mi interessa il perché dell’interpretazione,
ma soltanto il come. Mi affretto a
precisare che con questa affermazione non voglio affatto sminuire l’importanza
della teoria dell’argomentazione; la mia impressione è però che i problemi oggi
più intricati e filosoficamente più rilevanti della teoria dell’interpretazione
si annidino in questo settore “strutturale” e riguardino il complesso e
tormentato rapporto fra interpretazione e significato.
L’ultimo punto da chiarire
riguarda proprio il rapporto fra interpretazione giuridica e significato. Da un
punto di vista generale sono convinto che, salvo alcune eccezioni, esista una
relazione concettuale o interna fra
interpretazione e significato.
A tale proposito si impongono
alcuni chiarimenti sull’uso che faccio della nozione di “relazione interna”.
Nell’area della filosofia analitica sono in particolare Backer e Hacker ad
introdurre tale nozione, considerandola come uno degli esiti dell’analisi
wittgensteiniana sul rule following.
Secondo i due autori era precisa convinzione di Wittgenstein che la grammatica
delle regole presentasse un insieme di relazioni interne. Per Baker e Hacker,
in ogni caso, conoscere una regola significa sapere quali atti contano come
corretta applicazione di essa; ci sarebbe, insomma, una relazione interna fra
“l’espressione di una regola” e “la descrizione di ciò che si chiama agire in
accordo con la regola”. (13)
Da questo punto di vista,
sostenere che esiste una relazione interna fra significato e interpretazione
equivale ad affermare che non è concettualmente
possibile sviluppare definizioni e teorie dell’interpretazione che non
siano anche, e necessariamente,
definizioni e teorie del significato, e viceversa. (14) Questo vale, a maggior ragione, per
l’interpretazione giuridica: una teoria dell’interpretazione giuridica non può
che implicare, necessariamente, una
teoria del significato.
Si tratta di un punto la cui
importanza non è unanimemente condivisa da parte degli studiosi di orientamento
analitico. (15) Personalmente sono
convinto che una teoria generale del significato (che includa sia i linguaggi
naturali che i linguaggi “tecnicizzati”) è un presupposto necessario per la
teoria dell’interpretazione giuridica. (16) Non ho però bisogno, in questa fase, di argomentare a favore
di questa tesi, perché sarà lo sviluppo stesso del mio discorso, nei paragrafi
seguenti, a costituire una conferma del ruolo di presupposto necessario svolto
dalla teoria semantica.
3. Formalismo,
antiformalismo, teorie di mezzo
È tempo di passare ad
esaminare brevemente, sotto la specifica angolazione del rapporto fra
interpretazione e significato, le principali teorie dell’interpretazione che si
contendono il campo nell’odierno panorama delle teorie giuridiche contemporanee.
Nel fare ciò presterò particolare attenzione alle produzioni più recenti della
teoria giuridica italiana di orientamento analitico. (17)
Le teorie dell’interpretazione
giuridica si sono più frequentemente collocate, nella loro evoluzione storica,
su due poli contrapposti, considerati in chiave mutuamente esclusiva. Negli
ultimi decenni hanno invece ripreso vigore gli orientamenti che possiamo
chiamare “di mezzo” (proprio perché non scelgono nessuno dei due poli
contrapposti), sulla scorta del grande seguito che ha avuto la teoria di Hart,
(18) che rappresenta un punto di riferimento
molto influente per coloro che decidono di seguire questa strada.
Di questi orientamenti darò
ora una rappresentazione molto semplificata, prendendo esclusivamente in esame,
come ho detto prima, il profilo
strutturale.
Il primo orientamento, che è
anche quello storicamente più risalente, sarà da me chiamato formalismo interpretativo (d’ora in poi
semplicemente formalismo).
Il formalismo interpretativo trova le sue origini storiche in Francia,
agli inizi del 1800. È
Altre scuole giuridiche
seguono poi le piste della Scuola dell’Esegesi nell’esprimere un atteggiamento
ispirato al formalismo interpretativo, anche se in modi diversi. Ad esempio,
ben diverso è il modo in cui
Manca purtroppo lo spazio per
scendere nei dettagli dell’esame, certo di grande interesse, delle varie scuole
formalistiche. Qui mi limito a dire che esse mantengono comunque un comune
atteggiamento circa la questione di “che cosa sia l’interpretazione giuridica”.
L’idea centrale condivisa è appunto, in primo luogo, quella secondo cui
interpretare è comunque “scoprire un significato preesistente”, qualunque sia
l’oggetto o entità da cui tale significato venga tratto; e, in secondo luogo,
quella secondo cui tale significato, nei casi in cui vengano poste in essere
interpretazioni genuine, è il
significato vero, l’unico corretto. Ove tale operazione sollevi
delle difficoltà, e dunque non risulti immediatamente chiaro quale sia questo
significato, allora vengono prescelte, alternativamente o cumulativamente, due
strade. La prima, prescelta dalla Scuola dell’Esegesi, privilegia, come abbiamo
visto, il ricorso all’intenzione del legislatore; la seconda, percorsa dalla
Scuola Storica e dalla Pandettistica, privilegia il ricorso a tecniche di
carattere logico, che prevedano
l’esplicitazione di ciò che è implicito e l’espansione di ciò che è già
esplicito all’interno di un dato diritto positivo, attraverso un intervento che
si snoda tutto “all’interno” del sistema giuridico.
Il secondo gruppo di
orientamenti è rappresentato dall’antiformalismo
interpretativo (d’ora in poi semplicemente antiformalismo). La stragrande maggioranza degli studiosi, in
realtà, preferisce usare, in relazione a questi orientamenti, la locuzione
“scetticismo”, (19)
sulla scia dello schema proposto da Hart. (20) Obietto, in primo luogo, che non tutte le posizioni
antiformalistiche sono riconducibili a tesi scettiche (sulle norme e/o
sull’interpretazione); e, in secondo luogo, che la locuzione “antiformalismo” è
forse più appropriata nel render conto del fatto che queste tendenze, che sono
molto meno omogenee di quelle riconducibili al formalismo, si sono storicamente
sviluppate, perlomeno agli inizi, come reazione al formalismo e ai suoi
eccessi.
L’antiformalismo interpretativo non esprime, ancora più che il
formalismo interpretativo, una teoria dell’interpretazione unitaria;
soprattutto ai suoi inizi, verso la fine del 1800, esso si caratterizza come un
insieme di forti reazioni critiche agli eccessi del formalismo, reazioni che
cominciano a svilupparsi in Germania e poi anche in Francia e in Italia. Tre
sono le tendenze principali in cui si condensa questa reazione, fra la fine del
XIX e gli inizi del XX secolo: la giurisprudenza
degli interessi, gli indirizzi
teleologici e il movimento del
diritto libero.
Non è qui possibile esaminare
in dettaglio queste concezioni dell’interpretazione; in questa sede il mio
obiettivo, del resto, non è quello di fornire uno studio specifico di queste
tendenze, quanto piuttosto quello di tracciare le linee fondamentali del loro
approccio complessivo all’interpretazione. Ebbene, da questo punto di vista
l’elemento più interessante è rappresentato da una comune caratteristica
condivisa da questo tipo di approccio: si tratta, per l’esattezza, di quella
prescrizione metodologica rivolta agli interpreti, secondo la quale essi devono
cercare le risposte ai problemi di carattere interpretativo e applicativo
muovendosi all’esterno della
dimensione normativa, e cioè in una dimensione estrinseca al sistema giuridico. Ciò vuol dire che
l’interpretazione delle disposizioni e la giustificazione delle decisioni
giudiziali deve basarsi direttamente
su elementi che fanno parte della realtà economico-sociale sottostante, siano
essi costituiti da valori posti a
fondamento delle norme (o, nelle versioni più radicali, da valori postulati
dall’interprete), ovvero da interessi
e da scopi che esse mirano a
realizzare (o da interessi e da scopi fatti propri dall’interprete). Gli indirizzi teleologici fanno prevalente
affidamento sul primo tipo di criteri, la giurisprudenza
degli interessi sul secondo tipo; la scuola
del diritto libero, in modo ancora più radicale delle prime due, sostiene
che è il giudice stesso a creare, in senso proprio, il diritto attraverso la
produzione delle sentenze.
A prescindere dalle differenze
specifiche fra queste varie posizioni, l’idea centrale comunemente condivisa è
quella secondo cui l’attività interpretativa genuina crea il significato della disposizione nel momento in cui
applica il diritto al caso concreto (o, magari, ne prefigura la possibile
applicazione a casi-tipo). Vi sono certamente dei casi in cui questa creazione
non si verifica, perché la soluzione è talmente scontata che viene direttamente
ricavata dalla norma. Ma non sono questi i casi di interpretazione che devono
realmente interessare la teoria; né, in ogni caso, sembrano essere quelli più
diffusi.
Nei casi che sono per davvero rilevanti
per la teoria dell’interpretazione, invece, il significato non viene colto
dall’indagine semantica avente per oggetto una disposizione, ma viene ricavato
direttamente dall’esame della realtà economico-sociale sottostante, dalla quale
l’interprete trae la soluzione interpretativa più adeguata, individuando
valori-guida, selezionando gli interessi più rilevanti, facendo appello al
proprio senso di equità, eccetera.
Queste due grandi concezioni
dell’interpretazione si rincorrono continuamente nella cultura giuridica
moderna e contemporanea, in un intreccio molto complicato in cui la crisi
dell’una molto spesso lascia spazio all’avvento dell’altra. Accade sovente, ad
esempio, che l’eccesso di formalismo, o la consapevolezza della impossibilità
di sviluppare sino in fondo un approccio formalistico, finiscano per
determinare un atteggiamento antiformalistico: (21) l’antiformalista si comporta così come un “formalista
deluso”, (22) che ritiene, cioè, di
non avere altra strada da percorrere, nella crisi del formalismo, che optare
per un approccio antiformalistico. Ma accade pure l’inverso: la consapevolezza
degli eccessi delle concezioni antiformalistiche, in direzione di concezioni
che lasciano agli interpreti la libertà di andare non solo “oltre”, ma anche
“contro” la legge, determina spesso la virata verso posizioni formalistiche.
Negli ultimi decenni abbiamo
assistito ad un forte declino delle concezioni formalistiche, mentre quelle
antiformalistiche attraversano, soprattutto all’interno della nostra cultura
giuridica, un periodo di particolare vivacità, soprattutto per opera della
“scuola genovese”. Resta però il fatto che, come ho detto prima, sono le
“teorie miste” ad avere la prevalenza, sia nell’area analitica, (23) che in quella di orientamento
ermeneutica. (24) Nonostante questo
successo, però, queste ultime concezioni sono afflitte da problemi ricorrenti,
ormai di natura endemica, legati alla difficoltà di chiarire il loro effettivo
statuto teorico, e soprattutto di salvaguardarne l’autonomia rispetto alle due
concezioni precedenti. (25)
A mio avviso, comunque, le
teorie miste, contrariamente a chi forse sopravvaluta le differenze fra le
varie posizioni, (26)
hanno delle radici comuni, quantomeno con riferimento a quelle più recenti.
Queste radici sono rappresentate dalla ben nota tesi della struttura aperta del diritto di Hart, (27) secondo la quale i linguaggi che adottano
termini generali (e dunque anche il linguaggio giuridico), presentano sempre
dei casi chiari, (28) nei quali tali termini sono chiaramente applicabili, e dei casi
dubbi, (29) nei quali si è per l’appunto in dubbio
sul fatto se i termini si applichino oppure no. (30)
Questa distinzione costituisce
una delle basi principali – anche se non l’unica – sulla quale si può poi
costruire la contrapposizione fra i casi
giudiziari facili, in relazione ai quali il giudice scopre, in qualche senso, significati
preesistenti delle disposizioni, e i casi
giudiziari difficili, in relazione ai quali il giudice crea nuovi significati
delle disposizioni.
Da questo punto di vista, le
teorie miste condividono, nel loro complesso, la tesi secondo cui
l’interpretazione ha talvolta una funzione
ricognitiva, nei casi –facili- in cui scopre significati preesistenti; e ha
talvolta una funzione creativa, nei
casi –difficili- in cui produce significati nuovi.
Dopo aver brevemente dato
conto dello “stato attuale dell’arte” in sede di teoria dell’interpretazione
giuridica, è adesso possibile passare, nei prossimi due paragrafi, alla parte
critico-costruttiva del saggio. La prospettiva che voglio tratteggiare, anche
se molto sommariamente, si inserisce nel solco dalle teorie miste, anche se
muove da presupposti semantici – ed epistemologici - diversi da quelli adottati
dalla maggior parte degli studiosi che si riconoscono in questi orientamenti.
È mia convinzione che le
teorie miste non riescono a differenziarsi adeguatamente dalle altre perché
finiscono per condividere un certo modo di intendere il significato, modo che è
fondamentalmente comune a tutte e tre le prospettive sopra delineate. Il punto
è che tutte queste prospettive, sia che intendano l’interpretazione come scoperta,
sia che la intendano come creazione, condividono comunque una visione statica del significato.
Si tratta di una tesi di
importanza nevralgica, sulla quale vale la pena di soffermarsi un attimo. Per visione statica del significato intendo
l’idea secondo cui il significato, “scoperto” o “inventato” che sia, è comunque
qualcosa che viene ad esistenza “tutto in una volta”, “in un’unica soluzione”.
Non c’è modo, stando a questo tipo di impostazione, di uscire dalla alternativa
dicotomica fra “scoprire” e “creare”; le stesse teorie miste, che pure
vorrebbero farlo, sono in qualche modo costrette, dai presupposti semantici di
partenza, a separare nettamente la scoperta (nei casi facili) dalla creazione
(nei casi difficili). In questo modo, però, l’interpretazione concernente i
casi facili viene configurata in modo estremamente riduttivo (si risolve in una
mera presa d’atto), mentre quella concernente i casi difficili viene caricata
di un contenuto discrezionale eccessivo, se rapportato all’intero spettro dei casi
difficili. Il risultato è che nessuno di questi orientamenti è in grado di
rendere conto in modo adeguato di quello che a me sembra l’aspetto peculiare
dell’attività interpretativa, che è rappresentato dalla presenza, in tutte le
attività interpretative – certo, in modi e forme da definire - di entrambi gli
elementi, quello della “scoperta” e quello della “creazione”. (31)
Vale la pena di notare come questo modo dicotomico di
intendere i discorsi interpretativi dei giuristi e degli operatori giuridici
non sia affatto isolato, ma faccia parte di una complessa rete interconnessa di
contrapposizioni, che sono patrimonio del positivismo giuridico tradizionale
(anche di quello analitico), e che ricomprende, ad esempio, quella fra
“descrivere” e “valutare”, fra “prendere atto” e “prendere posizione”, fra
“fare discorsi sul diritto” e “fare
discorsi nel diritto”, eccetera.
Si tratta di strutture categoriali standardizzate di tipo dicotomico, il cui
obiettivo è quello di individuare, nell’ambito delle svariate attività “su
norme” condotte dai giuristi e dagli operatori giuridici, due polarità
contrapposte, due modi radicalmente alternativi di far riferimento a questi
“oggetti giuridici”. Così facendo, si finisce per ricostruire l’universo di
queste attività giuridiche attorno a due modalità alternative, delle quali la
prima è costruita facendo leva sull’idea della descrizione, la seconda sulla idea della creazione e/o della valutazione.
In poche parole, l’immagine che viene fuori da questo schema bipolare è quella
di una rigida separazione fra due tipi diversi di attività: da una parte tutte
quelle attività a carattere oggettivo (in
un senso forte di “oggettività” che verrà specificato in seguito), finalizzate,
in qualche senso, a rappresentare il
- o a prendere atto del - diritto
positivo in quel momento esistente (in un dato contesto, ovviamente);
dall’altra parte tutte quelle attività a carattere soggettivo (in un senso altrettanto forte di “soggettività” che
verrà anch’esso specificato in seguito), all’interno delle quali quello stesso
diritto positivo non è più oggetto di descrizione, ma, al contrario, di prese di posizione, di interventi volti
alla modifica di alcune sue parti, ovvero, addirittura, alla creazione di nuovo
diritto.
Questo tipo di ricostruzione
dicotomica tocca tutti i punti nodali del “lavoro sul diritto positivo” svolto
dai giuristi e dagli operatori giuridici, e quindi coinvolge anche, per quello
che qui interessa, l’attività di interpretazione giuridica. Naturalmente, di
questo tipo di schema bipolare possono essere date configurazioni diverse, alla
luce di presupposti teorici e metodologici (e, più in generale, epistemologici)
differenti. Si può così accentuare al massimo, sempre restando nell’ambito
delle attività sopra menzionate, l’aspetto della descrizione, lasciando il
profilo della creazione e/o della valutazione come elemento residuale (è il
caso, in sede di teoria della interpretazione, degli orientamenti formalistici); ovvero si può considerare
l’aspetto creativo e/o valutativo come l’elemento centrale del lavoro dei
giuristi e degli operatori, relegando gli elementi descrittivi all’interno dei
“casi di scuola”, come ipotesi limite non realistiche (ed è il caso, sempre in
sede di teoria dell’interpretazione, degli orientamenti antiformalistici). L’andamento bipolare dello schema rimane
comunque immutato, irrigidito nella forma della opposizione mutuamente esclusiva (o si dà un caso, o si dà
l’altro). In entrambi i casi, l’idea che ci sia uno spazio per una attività descrittiva oggettivamente
connotata, quantomeno astrattamente configurabile, anche se non realizzabile
in pratica (cosa che sostengono gli antiformalisti), assume un ruolo davvero
centrale.
Mi manca qui lo spazio per
esaminare criticamente questa complessa rete di contrapposizioni, mettendone in
evidenza i fondamentali presupposti epistemologici, che fanno capo ad una
concezione realistico-descrittivistica che va a mio avviso considerata come
destituita di fondamento. (32)
Limiterò il mio discorso all’interpretazione giuridica.
Ebbene, sotto questo specifico
profilo è importante rilevare che l’interpretazione giuridica non si lascia
irregimentare nello schema dicotomico sopra delineato, e dunque, nel caso specifico,
nelle contrapposte modalità della “scoperta” e della “creazione”. È mia
convinzione, da questo punto di vista, che l’attività interpretativa utilizzi
contestualmente entrambe le modalità, attraverso un processo dinamico di attribuzione di significato che attraversa più
fasi. Riconoscere questo punto fondamentale equivale, allora, a passare da un approccio
statico ad un approccio dinamico alla teoria del significato. È
proprio a partire da questa svolta fondamentale che si può cominciare a
costruire una teoria pragmaticamente
orientata dell’interpretazione giuridica. (33)
Schematizzando al massimo un
discorso ovviamente molto più complesso, si può osservare che le radici di
questa svolta teorica sono di carattere filosofico e risiedono nelle concezioni
pragmaticamente orientate del linguaggio e della comunicazione, che sono
patrimonio della filosofia di Wittgenstein, (34) e, più recentemente, della filosofia post-analitica. (35) Secondo queste concezioni è la dimensione
dell’uso del linguaggio e dunque
degli effetti (sia tipici che concreti) della comunicazione sugli utenti (i membri linguisticamente competenti della comunità di riferimento) a
costituire la base di riferimento per stabilire che cosa è una comunicazione
linguistica, che cosa, in altri termini, rappresenta un messaggio comunicativo
e quali sono le sue caratteristiche.(36)
Da questi presupposti
semantici di sfondo discende una particolare configurazione della teoria del
significato degli enunciati, costruita, appunto, su basi pragmatiche, teoria
che può essere poi integralmente riproposta per gli enunciati giuridici.
Secondo questa configurazione l’obiettivo della teoria non è quello di
descrivere e di spiegare, in modo statico,
l’entità “significato”, ma piuttosto quella di render conto, in modo dinamico, di un insieme di abilità e di competenze legate alla produzione, alla comprensione e alla
interpretazione dei significati. (37)
Dall’approccio dinamico sopra
delineato discendono due fondamentali caratteristiche della nozione di
significato.
La prima caratteristica riguarda la scomposizione della nozione di
significato, che va divisa in tre diversi strati, (38) che qui possono essere menzionati soltanto di sfuggita: (39) lo strato del significato in senso ampio (il quantum
autonomo di comunicazione espresso dall’enunciato; (40)
lo strato del significato in senso stretto
(l’argomento dell’enunciato, ovvero
il suo contenuto semantico, così come risulta dalla combinazione delle parole
in esso contenute, fatta astrazione dalla funzione svolta); lo strato del significato in senso debole (il
significato delle singole parole, e delle nozioni da esse connotate, parole e
nozioni che concorrono a comporre l’argomento dell’enunciato).
Di tutti i vocaboli che
possono entrare a far parte degli enunciati, quelli che più frequentemente
ricorrono nella componente referenziale degli enunciati giuridici sono i
vocaboli che esprimono termini generali
descrittivi, quali “veicolo” (nell’esempio del “veicolo nel parco” che, pur
nella sua banalità, solleva problemi
interpretativi interessanti), “partecipe” e “concorrente esterno” (nelle varie
ipotesi di responsabilità connesse alla fattispecie di associazione mafiosa),
“terrorista” e “combattente” (figure che sono in qualche modo coinvolte nelle
norme che disciplinano il reato di associazione a fini di terrorismo
internazionale), e così via. Si tratta di termini strutturalmente “aperti”, il
cui ambito di estensione non può essere predeterminato in anticipo.
Il significato in senso debole
va ricostruito come una nozione inclusiva, (41) un vettore a più componenti,
(42) di cui fanno parte: i) il senso, che, secondo una lettura
pragmaticamente orientata, rinvia alla capacità
intra-linguistica di usare correttamente le parole di una lingua (ad esempio operando le opportune
sostituzioni attraverso relazioni di sinonimia) e di definire correttamente,
nel linguaggio, le nozioni connotate
dalle parole; ii) il riferimento, che
riguarda la capacità, che si proietta al di fuori del linguaggio, di usare
correttamente le parole per “parlare del mondo”, per denotare oggetti del mondo
esterno.
È importante rilevare che, in
questa visione semantica “allargata”, tutte le questioni relative al rapporto con
il mondo ricadono all’interno della teoria del significato. Questo vuol dire,
in relazione all’interpretazione giuridica, che tutte le questioni relative ai
rapporti fra fattispecie astratte e fattispecie concrete, e che sono
normalmente rubricate all’interno della categoria della applicazione del diritto, diventano a pieno titolo di competenza
della teoria del significato. Insomma, non è corretto scindere, come se fossero
due cose completamente diverse, la questione dell’individuazione delle norme a
partire dagli enunciati e la questione dell’applicazione delle norme a casi
concreti, come se si trattasse di due processi qualitativamente diversi dal
punto di vista semantico. (43)
Secondo la prospettiva qui accolta, in realtà, il processo di attribuzione del
significato alla disposizione è uno solo, pur se molto complesso e articolato,
e coinvolge pure le fasi collegate alla dimensione del riferimento (e dunque
del rapporto con i casi concreti).
La seconda caratteristica di una teoria del significato
pragmaticamente orientata è che essa guarda al significato come ad una nozione a formazione progressiva. Rapportata al
piano dell’interpretazione giuridica questa tesi vuol dire che il significato
di una disposizione – di qualsiasi tipo di disposizione - non si produce “tutto
in una volta”, ma attraverso un processo complesso, che contiene più fasi, (44) o che comunque può essere analiticamente
distinto in più fasi (pur se, dal punto di vista psicologico, può anche durare
un attimo); e in questo processo il significato di una disposizione tende a
specificarsi in modo sempre più compiuto, man mano che entra a contatto con
situazioni applicative concrete (interpretazione operativa), o con situazioni
applicative-tipo (interpretazione dottrinale).
Per rappresentare questo
aspetto trovo appropriato usare la locuzione “monismo sequenziale”: infatti,
qualificando la teoria come monistica,
si rende tutto sommato bene l’idea che nel processo interpretativo il
significato della disposizione rimane, nonostante tutto, sempre uno solo; aggiungendo l’attributo “sequenziale”
si mette opportunamente in evidenza il fatto che tale significato, mano a mano
che il processo di interpretazione si sviluppa, passa attraverso più fasi,
raggiungendo livelli sempre più elevati di specificazione e di concretizzazione.
Questa specificazione, si badi bene, può essere il risultato di itinerari diversi,
e dunque può ramificarsi in più direzioni.
È proprio attraverso la
caratterizzazione dell’interpretazione come processo,
in più fasi, di formazione progressiva del significato che si riesce a
dissipare l’impressione di una incoerenza di fondo di cui potrebbe essere
accusata la teoria pragmaticamente orientata, per il fatto di richiedere la presenza contestuale,
nell’interpretazione giuridica, di un’attività che sia insieme di “scoperta” e
di “creazione”. Le due attività, infatti, vanno collocate in fasi distinte dell’attività
interpretativa, fasi che ora passo brevemente a distinguere.
5. Dimensione “convenzionale” e dimensione
“contestuale” del significato
Le varie fasi del processo di
costruzione e di specificazione del significato di una disposizione, e
ovviamente delle parole in essa contenute, possono essere a grandi linee ricondotte
a due grandi dimensioni, di cui parlerò molto schematicamente in questo
paragrafo: la dimensione convenzionale,
cui fa capo, appunto, il significato
convenzionale, e la dimensione contestuale,
cui fa capo il significato contestuale.
Dal punto di vista della
visione dinamica del significato, non
c’è alcuna opposizione mutuamente esclusiva fra significato convenzionale e significato
contestuale, (45) per cui la presenza dell’uno escluderebbe
la presenza dell’altro. In una visione “a formazione progressiva” ognuna di
queste due componenti mantiene legittimamente il suo posto accanto all’altra. (46) L’importante, però, è che si riconosca la
priorità logica del significato convenzionale. È proprio questa dimensione
logicamente prioritaria, infatti, a preparare il terreno per l’intervento
dell’altra.
Il significato convenzionale può essere
definito come «tutto quello che si conosce di un enunciato prescindendo dal
contesto della enunciazione».(47) Esso può essere caratterizzato come il first meaning dell’enunciato, e cioè il
significato che le espressioni di un linguaggio posseggono in accordo con le
convenzioni e le regole d’uso attualmente condivise (e magari codificate in un
dizionario) dai membri della comunità di riferimento. (48)
Il significato contestuale è quella parte del significato che, sulla
scorta del significato convenzionale di partenza, viene costruita con riferimento ad intenzioni comunicative tipiche in
situazioni complesse di interazione segnica. (49) Questa parte del significato viene
prodotta a contatto con le singole occasioni d’uso del linguaggio, e dunque
all’interno di specifici contesti comunicativi (l’applicazione –potenziale o
effettiva- del diritto ai casi concreti).
Mi pare che, in accordo con
questo tipo di impostazione, non venga a crearsi alcuna contraddizione, né
tampoco alcuna contrapposizione mutuamente esclusiva fra queste due dimensioni,
sia all’interno della teoria semantica generale, che all’interno della teoria
dell’interpretazione giuridica. Entrambi gli elementi, quello della “scoperta”
e quello della “creazione”, entrano tutti e due, a pieno titolo, nel processo
di costruzione del significato, sia pure in fasi diverse. Quella che semmai può
variare, e talvolta sensibilmente, è la “distanza semantica” fra il significato
convenzionale e quello contestuale. Quest’ultimo, cioè, può limitarsi a
riprodurre il significato convenzionale, costituendone una mera specificazione
del contenuto in vista di una determinata occasione d’uso; e questo accade, ad
esempio, nei “casi facili” dell’interpretazione giuridica, casi, tuttavia, che
richiedono una attività interpretativa che non può ridursi ad una mera “presa
d’atto”. Ma il significato contestuale può anche allontanarsi dal significato
convenzionale (nei “casi difficili”), sino al punto, talvolta, da rappresentare
(nei “casi particolarmente difficili”) il risultato di un percorso ramificato
che può comportare specificazioni semantiche alternative (e quindi “significati
contestuali alternativi”).
Resta comunque il fatto che il
momento finale della costruzione compiuta del significato di una disposizione,
da parte dell’interpretazione giuridica, è quello della sua definitiva specificazione semantica
(molto spesso una fra le varie possibili), all’interno dei vari contesti di
recezione dentro i quali viene a collocarsi, di volta in volta, il messaggio
normativo espresso dalla disposizione stessa.
6. Conclusione
Mi manca purtroppo lo spazio
per soffermarmi ulteriormente su questa concezione semantico-strutturale
“pragmaticamente orientata” dell’interpretazione. Mi sembra tuttavia utile
segnalare, in sede di conclusione, una implicazione piuttosto interessante del
discorso svolto sopra, che riguarda il rapporto
fra interpretazione e applicazione del diritto. La concezione inclusiva e
allargata del significato che ho qui adottato consente di inserire all’interno
del continuum dei processi di
attribuzione del significato alle disposizioni anche quella parte del lavoro
giudiziale che riguarda non solo il rapporto semantico fra fattispecie astratta
e fattispecie concreta, ma anche il procedimento di sussunzione del fatto nella
norma (che può essere qualificato, dal punto di vista semantico, come individualizzazione del riferimento).
Certamente questo discorso
dovrebbe essere ulteriormente approfondito. Qui mi limito a rilevare che,
stando a quanto detto sopra, non sembra esservi soluzione di continuità, dal
punto di vista semantico, fra interpretazione e applicazione del diritto.
Sembra anzi che il processo di costruzione del significato compiuto delle
disposizioni richieda un accurato dosaggio di interpretazione e di applicazione
(quantomeno nel senso del confronto semantico con i casi concreti).
Mi sembra questo un esito
piuttosto interessante cui può pervenire una teoria analitica
dell’interpretazione giuridica, qualora abbandoni le premesse epistemologiche e
semantiche cui si ispirano le teorie tradizionali dell’interpretazione; un
esito, peraltro, che si rivela essere molto in sintonia con quanto vanno da
tempo sostenendo gli orientamenti giusfilosofici ermeneutici.
(1)
Si vedano in proposito i miei lavori: Interpretazione
giuridica e teorie del significato, in
Scritti per Uberto Scarpelli, a cura
di L. Gianformaggio e M. Jori, Giuffrè, Milano, 1997, pp. 803-853; Interpretazione giuridica e significato:
una relazione dinamica, in L’intenzione
nell’interpretazione, “Ars Interpretandi”, 1998, pp. 129-154; Il positivismo giuridico: metodi, teorie e
giudizi di valore. Lezioni di filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 2004, cap. VII; Lineamenti di una teoria pragmaticamente orientata dell’interpretazione
giuridica, in “Cassazione Penale”, XLV, 7-8, 2005, pp. 2424-2436; Un approccio pragmaticamente orientato
all’interpretazione giuridica, in “Questione Giustizia”, 4, 2005, pp.
672-686.
(2)
Si veda in proposito la teoria di H. Kelsen, Reine Rechtslehre, Franz Deuticke, Wien, 1960; trad. it. La dottrina pura del diritto (1960),
trad. it Einaudi, Torino,1975, pp. 381-
(3)
Si guardi, a titolo di mero esempio, alla teoria di Dworkin (cfr. R. Dworkin, Law’s Empire, Fontana Press,
London,1986; trad. it. L’impero del
diritto, Milano, Il Saggiatore, 1989) e a quella di MacCormick (cfr. N.
MacCormick, Legal Reasoning and Legal
Theory, Clarendon Press, Oxford, 1978; trad. it. Ragionamento giuridico e teoria del diritto, Giappichelli, Torino,
2001).
(4)
Emblematico è, da questo punto di vista, il titolo del libro di F. Viola, Il diritto come pratica sociale, Jaca
Book, Milano, 1990.
(5)
Emblematico è, da questo punto di vista, il titolo del libro di F. Viola, Il diritto come pratica sociale, Jaca
Book, Milano, 1990.
(6)
H.L.A. Hart, Il concetto di diritto, cit.,
pp. 67-70, 105-108.
(7)
Cfr., fra gli altri, L. Ferrajoli,
Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari, 1989,
pp. 97, 348-349, 916.
(8) Si
tratta di uno di quegli aspetti di quel complesso fenomeno culturale che
Guastini definisce come costituzionalizzazione
di un ordinamento e che esamina con particolare riguardo alla situazione
italiana (R. Guastini, La “costituzionalizzazione”
dell’ordinamento italiano, in “Ragion pratica”, n. 11, 1998, pp. 185-206).
(9)
Considerazioni simili sull’importanza assunta dall’interpretazione nelle teorie
giuridiche contemporanee vengono sviluppate da D. Canale, Forme del limite nell’interpretazione giudiziale, CEDAM, Padova,
2003, pp. 18-20.
(10) Rinvio per tutto questo al mio Il positivismo giuridico…, cit., cap. VII.
(11) La definizione è tratta da G. Tarello, L’interpretazione della legge, Giuffrè, Milano, 1980, p. 9.
(12) Tarello è stato il primo a formulare in modo analiticamente
rigoroso questa tesi (cfr. G. Tarello, L’interpretazione
della legge, cit., pp. 9-10); un’altra formulazione molto autorevole è
quella di Guastini (cfr. R. Guastini, Dalle
fonti alle norme, Giappichelli, Torino, 1990, pp. 15-20).
(13) Sulla nozione di “relazione interna”, per come è sviluppata dalla
filosofia analitica, si vedano i fondamentali lavori di Baker e Hacker (cfr.
G.P. Baker-P.M.S. Hacker, Scepticism,
Rules and Language, Blackwell,
Oxford, 1984, pp. 94-115 e Wittgenstein. Rules, Grammar and Necessity.
Vol. II of an Analytical Commentary on the Philosophical Investigations, Blackwell,
(14) Sulla relazione concettuale fra “interpretazione” e
“significato” si consulti M. Platts, Ways of Meaning. An Introduction to Philosophy
of Language, Routledge & Kegan,
(15) La tesi non è ad esempio condivisa da quegli studiosi
genovesi della scuola di Tarello che possono essere fatti rientrare
nell’indirizzo “antiformalistico”. Secondo costoro la teoria
dell’interpretazione dovrebbe porsi problemi diversi da quelli che riguardano
il significato nei linguaggi naturali (che sono legati, ad esempio, alla
“vaghezza” dei termini generali), e segnatamente quelli che concernono le
“ambiguità”, le “lacune” e le “antinomie”. Per affrontare questi problemi non
ci sarebbe alcun bisogno di una teoria generale del significato. Cfr. in
proposito R. Guastini, Due esercizi di
non-cognitivismo, in “Analisi e diritto
(16) Della stessa opinione è Barberis (M. Barberis, Lo scetticismo immaginario. Nove obiezioni
agli scettici “a la génoise”, in “Analisi e diritto
(17) Per un esame più dettagliato delle concezioni formalistiche e
antiformalistiche, rinvio al mio Il
positivismo giuridico…, cit., pp. 206-211.
(18) Cfr. H.L.A. Hart, Il
concetto di diritto, cit., cap. VII.
(19) Come esempio per tutti, si veda E. Diciotti, Interpretazione della legge e discorso
razionale, Giappichelli, Torino, 1999, pp. 201 ss.
(20) H.L.A. Hart, Il
concetto di diritto, cit., pp., 159-165.
(21) Cfr. su questo punto H.L.A. Hart, Il concetto di diritto, cit., p. 163, e M. Jori, Paradigms of Legal Science, in “Rivista
internazionale di filosofia del diritto”, n. 2, 1990 , p. 245.
(22) La figura del “formalista deluso” ha delle forti analogie con
quella dell’“oggettivista deluso”, di cui parla Putnam (H. Putnam, Words and Life, ed. by J. Conant,
Harvard University Press, Cambridge Mass. and London, 1995, p. 299), in sede
epistemologica, per caratterizzare la frustrazione di chi aveva riposto le sue
aspettative nel “realismo metafisico”, ma che si trova poi costretto a
riconoscere che garanzie così forti non sono disponibili per la teoria della
conoscenza.
(23) Un esempio recente e particolarmente influente di teoria
mista è rappresentato dal volume di J. J. Moreso, La indeterminación del derecho y la interpretación de
(24) All’interno di quest’ultima area un contributo
particolarmente significativo in questa direzione viene dal lavoro di F.
Viola-G. Zaccaria, Diritto e interpretazione.
Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto, Laterza, Roma-Bari, 1999.
(25) Non è un caso, ad esempio, che alcuni studiosi inseriscano le
teorie miste nel novero di quelle formalistiche, etichettandole in chiave di
“neoformalismo” (cfr. R. Guastini, L’interpretazione
dei documenti normativi, Giuffrè, Milano, p. 58), mentre altri preferiscono
considerarle, perlomeno sotto alcune versioni, come esempi di “scetticismo
moderato” (cfr. P. Chiassoni, Archimede o
Eraclito? Sul primato retorico dello scetticismo, in "Materiali per una storia della cultura
giuridica", 2, XXXI, 2001, p. 546); altri, infine, ritengono preferibile
rinunciare del tutto al “terzo polo”, optando per una diversa articolazione dei
due poli restanti, che vengono divisi in “versioni moderate” e “versioni
estreme” (cfr. V. Velluzzi, Sulla nozione
di “interpretazione giuridica corretta” (e sui suoi rapporti con
l’interpretazione estensiva), in “Cassazione
Penale”, 2004, pp. 2589-2592).
(26) Mi sembra, ad esempio, che questo sia il caso di V. Velluzzi,
Interpretazione sistematica e prassi
giurisprudenziale, Giappichelli, Torino, 2002, pp. 47-52.
(27) H.L.A. Hart, Il concetto di diritto, cit., pp.
146-159.
(28) Nel ben noto esempio di Hart (Il concetto di diritto pp.
148-151) della “disposizione che vieta l’ingresso dei veicoli in un parco”,
casi chiari sarebbero quelli in cui gli oggetti cui si riferisce il termine
“veicolo” sono rappresentati da automobili, motociclette, ecc.
(29) Casi dubbi sarebbero invece quelli in cui gli oggetti cui si
riferisce il termine “veicolo” sono rappresentati da “automobili-giocattolo
elettriche”, “monopattini a motore”, eccetera.
(30) Su questa tesi hartiana e sulle sue ascendenze filosofiche
nell’ambito della filosofia analitica, si veda il mio Storia della filosofia del diritto analitica, Il Mulino, Bologna,
2003, pp. 121-122.
(31) Questa è una tesi che Dworkin avanza con molta forza
persuasiva, sia pure senza la dovuta consapevolezza dei presupposti
epistemologici e semantici che bisogna incorporare per offrire ad essa un
adeguato sostegno. Nel formulare questa tesi, Dworkin afferma
che «the distinction between finding the law just
"there" in history and making it wholesale is misplaced here, because
interpretation is something different from both» (R. Dworkin, A Matter of Principle, Harvard
University Press, Cambridge Mass.,1985, p. 162).
(32) Analizzo criticamente queste contrapposizioni, individuandone
le radici epistemologiche, nel mio Costruttivismo
e teorie del diritto, Giappichelli, Torino, 1999.
(33) Alcuni spunti di un approccio pragmaticamente orientato
all’interpretazione si trovano nell’importante lavoro di M. Pascal-J. Wroblewski, Transparency and
Doubt: Understanding and Interpretation in Pragmatics and in Law,in “Law
and Philosophy”, 7, 1988, pp. 203-224. Questi autori parlano espressamente di una pragmatically oriented conception of interpretation,
ma senza peraltro esplicitare in modo chiaro le premesse semantiche da cui
muovono.
(34) L. Wittgenstein, Philosophical
Investigations, Blackwell,
(35) Cfr., ad esempio, il fondamentale lavoro di R. Brandom, Making it Explicit. Reasoning, Representing
and Discursive Commitment, Harvard University Press, Cambridge, 1994, Sulla
distinzione fra filosofia analitica e filosofia post-analitica, si veda il mio Il positivismo giuridico…, cit., cap. V.
(36) Su questo punto, cfr. P. Grice, Studies
in the Ways of Words,
(37) Esprime bene questo punto M. Dummett, What is a Theory of Meaning? (II), in Truth and Meaning. Essays in
Semantics, a cura di G. Evans and J. McDowell, Clarendon Press,
(38) Nella distinzione fra questi vari strati seguo, perlomeno in
parte, lo schema presentato da R. Kempson, Semantic
Theory, Cambridge University Press, Cambridge, 1977, pp. 11 ss.
(39) Un’analisi molto più approfondita può trovarsi nel mio Il positivismo giuridico…, cit., cap. V.
(40) G. Tarello, Diritto,
enunciati, usi, Il Mulino, Bologna, 1974, p. 146.
(41)
(42) Questa caratterizzazione del significato è opera di H.
Putnam, Mind, Language and Reality.
Philosophical Papers, II, Cambridge University Press, Cambridge, 1975, pp.
268-269.
(43) Di diverso avviso è invece R. Guastini, Realismo e antirealismo nella teoria dell'interpretazione, in
"Ragion pratica", n. 17,
2001, p. 49.
(44) Che l’interpretazione vada considerata dinamicamente, e che
dunque consista in una serie di atti, è opinione che viene sostenuta anche da
Barberis, ma che non viene adeguatamente da lui giustificata su basi semantiche
(cfr. M. Barberis, Il sacro testo.
L’interpretazione giuridica fra ermeneutica e pragmatica, in “Ars
interpretandi”, 1999, pp. 282-289).
(45) Per un’ottima analisi delle posizioni che considerano invece
le due dimensioni come contrapposte in modo mutuamente esclusivo, si veda P. F.
Strawson, Logico-Linguistic Papers,
Methuen & Co., London, 1971, pp. 171-172.
(46) Condivide questo approccio, sul piano della teoria semantica
generale, R. Kempson, Semantic Theory,
cit., p. 5.
(47) La definizione è di P. Grice, Studies
in the Ways of Words, cit., p. 25.
(48) Così D. Davidson, Inquiries into
Truth and Interpretation, Clarendon Press,
(49) Per questa definizione si veda B. Celano, Dialettica della giustificazione pratica.
Saggio sulla legge di Hume, Giappichelli, Torino, 1994, p. 168.