http://www.units.it/etica/2006_1/POLLO.htm
Il legame fatti/valori e la
storia evolutiva della moralità
Commento a Zecchinato
Dipartimento di Studi filosofici ed
epistemologici
Università di Roma «La Sapienza»
1. Premessa
Paolo Zecchinato utilizza la
raccolta di saggi Fatto/Valore: fine di
una dicotomia di Hilary Putnam (1) come
spunto per affrontare alcuni nodi teorici relativi al tema della distinzione
fra mondo dei fatti e mondo dei valori o, per dirla altrimenti, fra descrizioni
e prescrizioni. Intendo utilizzare gli argomenti esposti da Zecchinato come
spunto per proporre una breve riflessione sul tema della distinzione
fatti/valori, spingendomi oltre l’ambito della sua analisi, invitandolo a espandere
quanto ha elaborato a partire da Putnam e a trarre le conseguenze dei suoi
argomenti sulle questioni che gli proporrò.
Il tema al centro del libro di
Putnam è probabilmente quello che, nella storia della metaetica analitica,
occupa permanentemente, sin dalla nascita di questa sfera di riflessione, il
primo posto nella hit parade. Il dialogo
che Zecchinato intesse con Putnam si inserisce a pieno diritto nella tradizione
di quelle discussioni metaetiche che abitano sulle vette della classifica. La
conclusione che Zecchinato ci propone è sostanzialmente una riqualificazione di
una tesi divisionista fra descrizioni e prescrizioni, pur nella consapevolezza
dell’esistenza di stretti legami e connessioni. In modo interessante,
Zecchinato sottolinea la funzione «terapeutica» di un atteggiamento
divisionista. Su questa funzione terapeutica proverò a dire qualcosa in
conclusione di questo intervento.
Ciò che vorrei suggerire a
Zecchinato è un tentativo di arricchire il quadro delle connessioni esistenti
fra mondo dei fatti e mondo dei valori e chiedergli, anzitutto, un’opinione
sulla plausibilità di queste connessioni che presenterò e, in secondo luogo,
lanciargli quella che forse è una provocazione circa la funzione «terapeutica»
della grande divisione. Per arricchire il quadro delle connessioni fra fatti e
valori, vorrei provare a muovermi nell’ambito di una metaetica dagli orizzonti
più ampi rispetto a quella interessata peculiarmente alle proprietà logico-epistemiche
degli enunciati morali. La metaetica intesa in questo senso, infatti, sembra
interessarsi del fenomeno della moralità, intendendo tale fenomeno come
sostanzialmente «statico». Essa scatta un’istantanea di quella che è
l’esperienza morale umana e ne esamina alcuni caratteri. (2) La stessa lettura che Zecchinato fa di Putnam si muove
all’interno di una metaetica che si interessa specialmente (o forse
esclusivamente) della natura dell’etica analizzando le proprietà
logiche/formali/epistemiche dei termini o enunciati morali.
Vorrei, da parte mia,
ragionare all’interno di una metaetica definita in modo più ampio e dai
caratteri meno statici e più «dinamici». Questa metaetica si interessa anche
del processo di formazione e di modificazione dell’esperienza morale. Più
specificamente, la domanda che vorrei porre riguarda il significato per la riflessione
sulle proprietà logico-epistemiche degli enunciati morali di alcuni fatti
relativi al processo di formazione di ciò che, in termini molto generali,
possiamo chiamare il «fenomeno dell’esperienza morale».
2. Metaetica e naturalizzazione
dell’etica
L’estensione dell’oggetto di
ricerca della metaetica oltre le proprietà logico-formali degli enunciati
morali ai meccanismi che hanno formato il linguaggio della morale così come lo
conosciamo (e la mente morale che lo produce) sembra un passo inevitabile per
un compiuto tentativo di naturalizzazione dell’etica.
Centrale ad una concezione
naturalizzata ed evoluzionistica è l’idea che il fenomeno della moralità non
può essere altro che il prodotto della «attrezzatura biologica» dell’essere
umano, ovvero sia di quell’insieme di capacità e disposizioni che
caratterizzano l’animale umano e delle condizioni di vita in cui si trova questo
animale. Il fenomeno morale, cioè, deve essere spiegato ricorrendo anche alla
storia evolutiva della «natura umana» (si prenda questo termine con tutte le
dovute cautele e precauzioni). Tale «natura» è il prodotto di un processo di evoluzione
che è guidato dai due motori principali della teoria darwiniana
dell’evoluzione: nascita spontanea dei caratteri e selezione dei caratteri più adatti
in virtù della capacità di rispondere alle pressioni ambientali.
Più specificamente, una
concezione pienamente naturalizzata del fenomeno della moralità dovrebbe
rimanere vincolata a queste quattro clausole:
1. Clausola dell’esperienza: La moralità è costituita da
fatti empiricamente osservabili e la spiegazione di tali fatti può essere
operata solo mediante altri fatti empiricamente osservabili. Le capacità e
facoltà che rendono possibile la vita morale sono capacità e facoltà naturali
empiricamente osservabili.
2. Clausola della dipendenza biologica: Dal momento che gli esseri umani sono esseri
materiali e biologici le capacità e facoltà che rendono possibile la vita morale
devono essere spiegate in ultima analisi come fatti di natura biologica e dipendenti
dalla costituzione biologica dell’organismo umano. Questa clausola non implica
necessariamente (anche se la ammette) una tesi riduzionista forte (del tipo per
cui: un evento mentale è riducibile integralmente a un evento cerebrale).
Tuttavia, capacità e facoltà sono dipendenti (come e in che misura è da
determinarsi) dalla costituzione biologica.
3. Clausola della dipendenza evolutiva: Dal momento che gli esseri
umani sono esseri biologici, la loro attuale costituzione è il risultato di un
processo di selezione/adattamento di tipo evoluzionistico-darwiniano. Le
facoltà e le capacità che rendono possibile la vita morale umana sono il
prodotto di questo processo. Data la dipendenza del comportamento morale dalle
capacità che lo rendono possibile, vi deve essere un qualche tipo di correlazione fra l’evoluzione biologica
dell’essere umano e il comportamento morale. Correlazione non significa necessariamente un rapporto diretto di
causa-effetto: ciò significa che la clausola della dipendenza evolutiva non si
deve tradurre nell’idea naive che il
comportamento morale c’è perché è utile alla sopravvivenza della specie (anche
se l’idea di correlazione non esclude questa tesi).
4. Clausola dell’esplicabilità: Alla luce delle tre clausole enunciate sopra,
si può formulare la quarta ed ultima clausola di naturalizzazione dell’etica.
Questa afferma che, in linea di principio, il comportamento morale è un fatto
naturale empiricamente osservabile e per il quale è possibile fornire
spiegazioni. L’esistenza, cioè, di qualcosa che chiamiamo «comportamento
morale» può essere spiegata con altri fatti riguardanti la specie umana, le
condizioni ecologiche di vita di questa specie e la sua storia evolutiva.
Enunciare queste clausole e
vincolare ad esse un programma di ricerca per la naturalizzazione dell’etica
non significa riproporre quell’uso della biologia evoluzionistica in campo
etico che sostiene la trascrivibilità diretta in valori morali dei risultati
dell’evoluzione biologica, suggerendo sostanzialmente l’equazione «evoluto/più
adatto = moralmente buono». Contro quest’uso semplicistico della biologia e
della teoria dell’evoluzione ha già argomentato in modo esauriente ed efficace
James Rachels nel suo Creati dagli
animali. Implicazioni morali del darwinismo. (3) Queste
clausole non pretendono di stabilire i contenuti dell’etica normativa, ma
vincolano le teorie con le quali si intende spiegare la natura del fenomeno
morale. Se, ad esempio, dovessimo sostenere una tesi cognitivista circa i
giudizi morali, dovremmo avere disponibile (almeno in linea di principio) una
spiegazione di come e perché si siano evolute quelle facoltà che rendono
possibile agli esseri umani la conoscenza di ciò che è moralmente buono.
3. Fatti e valori: tre connessioni strutturali
L’estensione dell’orizzonte di
ricerca della metaetica alla dimensione storico-evolutive della moralità offre
una prospettiva diversa all’analisi del rapporto fra mondo dei fatti e mondo
dei valori. È una banalità, ma una concezione naturalizzata dell’etica non può
che affermare che, in un certo senso, sono i fatti che creano i valori: le
condizioni biologiche (e culturali) di vita degli esseri umani causano la
nascita e la permanenza del fenomeno morale. Dalla prospettiva storico-evolutiva,
la connessione fra fatti e valori è strutturale.
Un modo per esplorare questa connessione strutturale è provare a rileggere i
temi della metaetica classica (l’analisi del linguaggio morale) dalla prospettiva
dell’analisi storico-evolutiva. Questa rilettura può, ad esempio, prendere
strade simili all’esempio che abbiamo menzionato poche righe sopra: in che modo
la storia evolutiva della mente umana ci è utile per scegliere fra le varie
teorie della mente morale (cognitivista/non-cognitivista;
razionalista/sentimentalista)?
Un'altra strada che può
prendere questa rilettura è quella che tenta di rendere conto in termini
storico-evolutivi di alcuni caratteri che sono generalmente considerati propri
degli enunciati morali. A partire da una analisi storico-evolutiva, possiamo,
ad esempio, rintracciare connessioni
strutturali fra mondo dei fatti e mondo dei valori in quelli che Richard M.
Hare indica come i tre caratteri propri degli enunciati morali: soverchianza;
prescrittività; universalizzabilità. (4) Vediamo
più specificamente queste connessioni.
Evoluzione biologica, adattamento e soverchianza. La prima riflessione che suggerisco intende evidenziare una connessione fra
il fatto dell’evoluzione biologica e dell’adattamento degli animali umani con
la proprietà della soverchianza degli enunciati morali. Come ho già avuto modo
di rimarcare, l’animale umano è il prodotto (ed è costantemente sottoposto) a
un processo di evoluzione/adattamento, gli enunciati morali risentono di questo
processo di evoluzione/adattamento (non mi spingo a dire che sono sottoposti
anch’essi a un processo analogo, ma sicuramente ne debbono risentire).
L’ipotesi che suggerisco e che pongo come domanda a Zecchinato è questa: il
carattere adattativo o esadattativo delle pratiche morali ne può spiegare la
soverchianza rispetto ad altre pratiche? Ovvero: il «valore» (in senso non
morale) di sopravvivenza delle pratiche morali è superiore a quello di altre
pratiche? Se questa immagine fosse plausibile, come ne risulterebbe cambiata la
stessa nozione di «soverchianza»?
La mente morale e la prescrittività. La seconda connessione che
provo a presentare riguarda il fatto della riducibilità delle pratiche morali a
dati biologici dei singoli individui umani. Questa riducibilità potrebbe dirci
qualcosa sulla proprietà della prescrittività. La tesi che suggerisco è questa:
le norme/valori/enunciati morali corrispondono a sentimenti/stati mentali/stati
del cervello degli esseri umani. Questi stati mentali hanno la capacità di
motivare/guidare l’azione. L’ipotesi (e relativa domanda al relatore) è la
seguente: la prescrittività può essere ricondotta/ridotta ad una caratteristica
propria di quegli stati cerebrali che fondano (o meglio sono) i sentimenti / pensieri morali? Se è così, esistono enunciati
morali di fatto impossibilitati ad
essere prescrittivi per la loro incapacità di attivare i «circuiti cerebrali»
adeguati? (5)
Universalizzabilità e la natura umana. La
terza e ultima connessione che suggerisco riguarda un possibile legame fra il
carattere di universalizzabilità degli enunciati morali e la storia evolutiva
dell’animale umano. La tesi in proposito suona in questo modo: la possibilità
di condivisione e accordo degli esseri umani sugli enunciati morali è data dal
fatto che sono animali dotati di capacità simili e comuni a tutti gli individui
della stessa specie. Tali capacità hanno una storia evolutiva comune e sono
sottoposte, generalmente, a pressioni ambientali simili. L’ipotesi (e la
domanda) che ne nasce è questa: l’universalizzabilità può essere spiegata come
la capacità di una pratica morale di rispondere a problemi evolutivi comuni a
tutta la specie umana? (6)
4. Conclusione
Mi rendo conto che il quadro
qui presentato schematicamente non brilla per chiarezza ed esaustività, ma anzi
può risultare rozzo e semplicistico. Ciò che ho avuto modo di delineare in
questa sede è ancora meno che un programma di ricerca. Quanto ho inteso
sostenere è, in ogni caso, che il legame fra mondo dei fatti e mondo dei valori
è ancora più radicale, strutturale e ineliminabile di quanto affermato da
Zecchinato (che comunque ne ha ammessa l’ineliminabilità). Ciò che sostengo è
che la ricerca metaetica (anche una metaetica non cognitivista, che comunque –
personalmente – continuerei a percorrere) non può che beneficiare da
un’esplorazione sistematica di questi legami strutturali, piuttosto che da una
sua rimozione.
Per concludere, voglio
riprendere brevemente l’idea suggeritaci da Zecchinato di un uso terapeutico
dell’approccio divisionista. Mi chiedo quanto l’appello a quest’uso terapeutico
non denunci una forma particolare di «teoria dell’errore»: forse i nostri
valori sono imbevuti di fattualità, o meglio sono semplici fatti biologici di
natura molto particolare, ma la loro particolarità è quella di farci credere –
per lo scopo della loro stessa sopravvivenza – di essere parecchio lontani dal
mondo dei fatti?
Note
(1) H.
Putnam, Fatto/Valore: fine di una
dicotomia, Fazi, Roma 2004.
(2) Ad esempio Alexander
Miller, nella sua Introduction to
Contemporary Metaethics, elenca sei questioni fondamentali che sono oggetto
dell’interesse di chi nell’etica filosofica si occupa di metaetica. Si tratta
di questioni circa il significato del
discorso morale, la sua metafisica,
la sua epistemologia, la sua fenomenologia, la psicologia morale e l’oggettività.
Tutte queste aree tematiche riguardano, essenzialmente, le proprietà dei
discorsi e dei termini morali (cfr. A. MIller, Introduction to Contemporary Metaethics, Polity Press, Cambridge
2003, p. 2).
(3) J.
Rachels, Creati dagli animali.
Implicazioni morali del darwinismo, Edizioni di Comunità, Milano 1996,
spec. Cap. II.
(4) Cfr.
R.M. Hare, Il pensiero morale. Livelli,
metodi, scopi, Il Mulino, Bologna 1981, cap. I.
(5) Un
recente tentativo di naturalizzazione della mente morale attraverso il ricorso
alle neuroscienze è rappresentato da: W. Casebeer, Natural Ethical Facts. Evolution, Connectionism and Moral Cognition,
MIT Press, Cambridge (MA) 2003.
(6) Possiamo
pensare, ad esempio, che l’universalizzabilità dell’etica sia riconducibile al
fatto che le relazioni morali nascono come uno «strumento» per risolvere
problemi comuni a tutti i membri della specie. Plausibilmente, questo strumento
si è sviluppato a partire da comportamenti molto più semplici di quelle che
sono le relazioni morali come oggi le conosciamo. Lo studio di animali che
siano da un lato filogeneticamente vicini all’Homo Sapiens e vivano tuttora in
condizioni simili a quelle dell’antenato comune potrebbe illuminarci su questi
mattoni che hanno fondato l’edificio della moralità (cfr. J.C. Flack e F:B.M.
De Waal, «”Any Animal Whatever”. Darwinian Building Blocks of
Morality in Monkeys and Apes», Journal of
Consciousness Studies, VII, 1-2, 2000, pp. 1-29.