Etica
e analisi concettuale.
Dipartimento di studi filosofici ed epistemologici
Università di Roma “La Sapienza”
Abstract Donatelli’s paper offers a critical
reconstruction of Cora Diamond moral philosophy. |
1.
Premessa
In
questo testo mi occupo del pensiero morale di Cora Diamond. Diamond è nota in
larga parte per il suo lavoro su Wittgenstein. La pubblicazione del suo volume The Realistic Spirit nel 1991 (1) ha avuto un enorme impatto
e ha imposto una nuova e originale prospettiva nella lettura del Tractatus e dell’intera filosofia di
Wittgenstein che è ora al centro di un dibattito molto ricco e fertile. (2) Ma Diamond ha elaborato
anche una posizione molto originale in filosofia morale. Diamond sostiene che
la vita morale delle persone è una vita propriamente concettuale; ma vuole
difendere anche due idee che in genere non sono state messe assieme a questa
tesi: l’idea che l’etica è anche il campo di espressione dei sentimenti e
dell’esperienza e l’idea che in etica il punto di vista personale, come lo ha
chiamato Bernard Williams tra gli altri, è qualcosa di irrinunciabile. Per
illustrare questa posizione vorrei porre il pensiero di Diamond in prospettiva.
Credo, infatti, che essa recuperi una certa tradizione dell’etica analitica
che è stata poco frequentata. In questo modo la riflessione su questa posizione
ci aiuta anche a fare luce sulla storia dell’etica analitica, sulle varie linee
che sono operanti in questa tradizione.
Il
testo che segue riprende alcune sezioni del saggio introduttivo al volume di
Cora Diamond, L’immaginazione e la vita
morale, a cura di P. Donatelli (Carocci, Roma 2006). I riferimenti tra
parentesi nel testo rimandano ai saggi tradotti in questo volume.
2. Diamond
e la tradizione dell’etica analitica
Nella
Prefazione al volume L’immaginazione e la
vita morale Diamond richiama l’influsso che sui suoi scritti ha avuto il
pensiero di Iris Murdoch (p. 53). Potremmo però provare a collocare alcuni
motivi di fondo che si ritrovano nei saggi di Diamond in un più ampio approccio
alla filosofia morale che Murdoch condivideva, negli anni Cinquanta e Sessanta
del Novecento (e fino agli anni Settanta), con altri filosofi in quella prima
fase della filosofia analitica inglese (3). A
monte di questo dibattito vi era l’idea che la filosofia dovesse fare attenzione
al contesto linguistico in cui si collocavano i fenomeni che si volevano spiegare,
ad esempio la vita morale delle persone (o la loro mente ecc.). Possiamo però
vedere subito due modi differenti in cui è stata interpretata questa idea. R.M.
Hare aveva presentato sin dall’inizio la sua riflessione sulla morale come una
descrizione del linguaggio morale, cioè degli usi linguistici attraverso i
quali le persone esprimono pensieri morali, e cioè valutazioni delle situazioni
e raccomandazioni sulla condotta da intraprendere. (4) Ma
Hare aveva concepito lo studio degli usi linguistici come l’analisi delle
regole formali caratteristiche del linguaggio morale. Tali caratteristiche – la
prescrittività e l’universalità, a cui in seguito aggiunse la soverchianza (5) – sono considerate da Hare, cioè, come
proprie del linguaggio morale in quanto tale indipendentemente dal contenuto
che esso esprime, e cioè dai pensieri che esso comunica. In questo Hare poteva
in realtà dare una versione linguistica della tradizione formalista kantiana e
in particolare del test della universalizzabilità. La stessa prescrittività, e
cioè l’elemento che dava conto del carattere direttivo degli enunciati morali,
del fatto che essi sono legati alla condotta, veniva concepita essa stessa come
una caratteristica formale degli enunciati, indipendente da chi pronuncia
quegli enunciati e dal contesto concreto in cui si trova. L’opposizione tra
regole formali e contenuto era intenzionale: attraverso di essa Hare
rielaborava, come si è detto, la tradizione kantiana e riprendeva inoltre la
grande divisione tra logica degli enunciati e contenuto empirico che era al
centro delle filosofie neopositiviste ed emotiviste in etica.
Si
può comprendere, perciò, che una serie di filosofi abbia cercato invece di
svolgere l’idea dell’attenzione al contesto in modo diverso da Hare, prendendo
le distanze sia dalla tradizione kantiana sia da quella neopositivista. Era
l’idea che la logica degli enunciati (morali) fosse appurabile
indipendentemente e appartenesse a un speciale regno sconnesso con il contenuto
degli enunciati stessi che veniva radicalmente criticata. Negli Stati Uniti
questa idea trovava uno speciale sviluppo nel naturalismo di W.V.O. Quine. (6) Ma a noi interessano qui le critiche che a
Hare venivano mosse a Oxford e in Inghilterra. Queste critiche erano rivolte
contro il kantismo di Hare, che era anche espressione della sua teoria del
significato. Filosofi tra loro molto diversi, come Philippa Foot, Elizabeth
Anscombe, Peter Geach, Iris Murdoch e Bernard Williams, erano accomunati dalla
critica severa che muovevano all’idea che la moralità possa essere racchiusa
come per magia in concetti morali come quello di dovere. L’idea che la nozione
di dovere raccolga tutta su di sé la forza morale di una considerazione e che
la proietti, per così dire, sull’enunciato a cui tale nozione è applicata
veniva vista, ad esempio da Anscombe, come l’esito di una mera suggestione
ipnotica. Il concetto di dovere morale (moral
ought) non può affatto riuscire a fare questo perché non è affatto un
concetto, è solo un termine che conserva una forza psicologica ma che non
possiede alcuna articolazione concettuale. (7) Se
vogliamo comprendere cosa significhi esprimere una raccomandazione a proposito
di un certo corso di azione o una valutazione su uno stato di cose dobbiamo
considerare il contesto in modo diverso da come faceva Hare. Il carattere
morale dell’enunciato dipende interamente dal contesto più ampio in cui
facciamo un’affermazione morale. Anscombe e Geach sviluppavano da questa
critica una certa via naturalista. Geach riteneva che i concetti più
tipicamente etici, che Williams chiamò in seguito sottili, come «dovere» e
«buono», non avessero in sé alcun significato ma che lo assumessero in virtù
della situazione a cui sono applicati. Un buon giocatore di tennis, un buon
insegnante, una buona madre, hanno un significato in riferimento a ciò che
significa giocare a tennis o fare l’insegnante o tirare su la prole. È perché
sappiamo già in cosa consistono queste attività che comprendiamo cosa voglia
dire fare bene queste cose (8). Per il resto, aggiungeva Anscombe, i
termini che descrivono in modo generale il bene degli esseri umani, e cioè le
virtù (il coraggio, la temperanza, la giustizia e così via), dipendono allo
stesso modo da una conoscenza di ciò che sono gli esseri umani, presi nel
contesto delle loro attività di pensiero e di scelta. Per questa via Anscombe
poteva suggerire una teoria aristotelica dell’etica, in cui le virtù sono
derivate dalla conoscenza di ciò che è caratteristico della specie umana. In
questo modo Geach e Anscombe finivano con il sottovalutare un altro aspetto che
era centrale per l’etica kantiana, e cioè la peculiarità della dimensione morale
rispetto alle altre sfere pratiche, e che Hare aveva rappresentato attraverso
l’idea che le considerazioni morali soverchiano sempre le altre (ad esempio quelle
estetiche). Nel mettere in collegamento l’etica ai diversi contesti e alle
diverse nozioni di bene di volta in volta chiamate in causa, non era più
possibile identificare una certa sfera della valutazione e della condotta come
morale. Con il rifiuto dell’indipendenza del concetto di dovere morale cadeva
anche l’idea che la moralità fosse nettamente distinta da altre forme di bene.
Questa idea fu sviluppata in seguito da Williams, che ha criticato spesso nei
suoi scritti il carattere moralistico di molta filosofia morale e cioè la sua
concentrazione su un certo tipo di considerazioni (il dovere per il dovere ad
esempio) a discapito di altre, e cioè dei molti modi in cui le situazioni
possono colpire, interessare, risultare gradevoli o dolorose (9).
Foot
in quegli anni seguiva invece una strada diversa. Anche lei era insoddisfatta
dell’idea che la morale fosse racchiusa nel concetto di dovere a prescindere
dalle circostanze. Ma rispondeva con argomenti che traevano da Hume la loro
ispirazione. In un primo momento sostenne che le virtù con cui approviamo e
disapproviamo le persone hanno un significato perché fanno riferimento agli interessi
personali. Capiamo cosa sia l’interesse di una persona e capiamo allora cosa
significhi attribuirgli una ragione per agire (10);
le virtù hanno un significato perché descrivono quanto è necessario agli esseri
umani per ottenere ciò che desiderano. In una fase successiva Foot arrivava a
respingere la tesi della connessione necessaria tra virtù e interesse
personale. Sosteneva che possiamo comprendere le virtù perché sono legate alla
promozione di una varietà di scopi, che non sono solo l’interesse personale.
Comprendiamo cosa significa soffrire e cosa significa riuscire a identificarsi
con tale sofferenza, perciò capiamo cosa vogliano dire le raccomandazioni che
ci fa la virtù della carità quando ci spinge ad aiutare gli altri (11). Ma in entrambi i momenti della sua riflessione Foot voleva comunque
dissolvere l’idea che la forza morale di una raccomandazione sia indipendente
dagli interessi e dai legami che definiscono la vita delle persone.
Anche
Murdoch muoveva le sue critiche all’idea che la morale possa essere contenuta
in un singolo concetto indipendentemente dalle circostanze. (12) «Un concetto morale», scriveva, «non sembra affatto come un
anello che si può muovere ed estendere fino a coprire una certa regione dei
fatti, ma appare piuttosto come una differenza complessiva di Gestalt» (13).
Murdoch criticava l’idea che la moralità faccia la sua comparsa solo nel
momento della scelta, nei termini di una raccomandazione all’azione che si
applica a una certa sfera della realtà. Questa idea, naturalmente, era
congeniale agli altri assunti della metaetica analitica di quel tempo, come la
divisione tra fatti e valori. Si poteva pensare infatti, in questo modo, che la
morale potesse essere contenuta in concetti speciali, come «dovere» e «buono»,
che entrano in scena al momento della scelta, e che il resto della vita delle
persone e del mondo costituisse solo lo sfondo dei fatti su cui cadeva la
scelta. Murdoch suggeriva di pensare invece alla moralità in un altro modo,
«come qualcosa che va avanti continuamente e non come qualcosa che sia
possibile spegnere tra una scelta morale esplicita e un’altra». (14) La morale ha un aspetto complessivo, una visione ramificata
delle cose che appare in tanti aspetti, nelle più diverse reazioni, nelle
parole e nei silenzi, in ciò che si trova divertente o interessante o
ammirevole, nelle scelte, certo, e soprattutto nei concetti che si hanno. Avere
o meno un certo concetto, abitare in una certa dimensione concettuale, non è
una semplice questione di scelta, ma riguarda la storia, che ci ha consegnato
certe possibilità concettuali anziché altre, e riguarda personalmente ciascuno,
la propria capacità di fare qualcosa della propria dimensione concettuale, di
approfondirla, di trasformarla o abbandonarla. (15)
Murdoch insisteva sull’importanza di rendere conto delle differenze che in morale
separano intere visioni complessive. Sono differenze che è possibile spiegare
solo articolando una visione del mondo. Essa vedeva che la filosofia analitica
del suo tempo aveva un’inclinazione a semplificare, a cercare una formula
universale. (16) Come Anscombe, Murdoch era alla ricerca
del più ampio contesto concettuale della vita morale delle persone; ma era
interessata alla trasformazione personale dei concetti, alle differenze che le
singole persone impongono a una dimensione concettuale con la loro attenzione e
la loro energia, qualcosa che non trovava molto spazio in Anscombe.
Larga
parte dello sviluppo successivo dell’etica analitica, e ciò in particolare in
virtù della sua ispirazione fortemente kantiana, ha come reso invisibile il contributo
di questo gruppo di autori. Vi sono delle notevoli eccezioni su cui ora non mi
soffermo, se non per menzionare il lavoro in etica di John McDowell che
costituisce a suo modo una continuazione di quello stile filosofico. (17) Avremo modo di tornare ancora sui
collegamenti tra McDowell e Diamond. Quel gruppo di filosofi erano interessati
a sviluppare, in modi molto diversi tra loro, l’idea, tipica della filosofia
analitica di quel tempo, che le considerazioni morali trovano il loro
fondamento, e cioè il loro punto e la loro dimensione, in un determinato
contesto. Ma abbiamo visto subito che nel seguire questa idea essi erano tutti
critici di Hare e di un certo modo di riprendere sia la tradizione kantiana sia
la famiglia delle filosofie neopositiviste. Hare concepiva il contesto come una
questione di caratteristiche formali del linguaggio. Questi autori pensavano al
contesto, invece, come al tessuto complesso di aspetti che caratterizza la vita
umana in cui hanno un posto le considerazioni morali. Anscombe e Foot (con idee
filosofiche e autori diversi in testa: Aristotele e Hume) guardavano al
contesto più naturale e biologico: gli interessi e le necessità vitali degli
esseri umani. Murdoch pensava più al contesto concettuale, alle visioni,
storiche e personali, in cui è avvolto il modo in cui guardiamo alle cose e ci
muoviamo e agiamo nel mondo. Questi autori non ritenevano che il contesto che
rende intelligibile una considerazione morale potesse cristallizzarsi nelle caratteristiche
formali di certi enunciati, ma sostenevano al contrario che alcune parole, come
«dovere» e «buono» e molte altre con loro, potessero svolgere quel ruolo, avere
quella forza, solo in virtù di un più ampio contesto spesso sotterraneo. Essi
perciò rovesciavano l’immagine di Hare. In un senso lato, come ho detto, la
loro operazione correva parallela a quella di altri naturalismi, come quello di
Quine, che si proponevano precisamente di rendere conto degli aspetti normativi
e regolativi nei termini di ciò che essi normano e regolano, cioè del contesto
in cui norme e regole operano. Ma la specificità di questi autori era invece
nella loro idea di contesto, che andava cercato in questa rete complessa di
aspetti che mescolava fatti naturali e concettuali, storici e personali. Vi
sono differenze molto marcate tra questi singoli autori ma essi indicano
tuttavia anche uno stile comune, un certo interesse filosofico condiviso.
Possiamo
perciò vedere la contrapposizione tra Hare e questi autori anche come il
dispiegarsi di diverse interpretazioni di quali siano i metodi e gli scopi
della filosofia analitica. Alle spalle di tutti vi era la lezione di
Wittgenstein e i modi differenti in cui essi la interpretarono. (18) Possiamo inserire la prospettiva di Diamond in questo snodo.
Vorrei caratterizzare il suo lavoro in filosofia morale (ma anche negli altri
campi) come una particolare ricerca del contesto che dà significato alle nostre
considerazioni morali. Vi è molto di personale e distintivo nel modo in cui
Diamond procede a delucidare concetti e questioni morali, in cui l’analisi
concettuale si mescola all’uso della letteratura e a un più vasto impiego della
critica culturale, ma potremmo leggerlo anche come uno sviluppo del complesso stile
filosofico a cui ambiva questo gruppo di autori, e quindi come uno sviluppo di
una certa tradizione della filosofia analitica, in etica ma non solo. Quindi
possiamo essere introdotti al lavoro di Diamond in questo modo. Troviamo in
Diamond un ritorno a questo stile dell’etica analitica, al problema dei modi
migliori di delucidare il contesto delle nostre considerazioni morali. In particolare,
come vedremo, Diamond riprende molti temi che aveva sviluppato Murdoch ma
presenta anche un’interessante e complessa rielaborazione di alcuni aspetti
centrali della filosofia di Anscombe. Al contempo, la continuazione di questo
stile filosofico le è reso possibile dalla sua lettura di Wittgenstein. Essa
sviluppa una lettura di Wittgenstein in cui è resa chiara e centrale l’idea
della delucidazione concettuale del contesto delle nostre affermazioni, delle
affermazioni che troviamo problematiche e che chiamano in causa gli strumenti
della filosofia. La sua riflessione morale si inserisce in questa rilettura e
rielaborazione della filosofia di Wittgenstein.
3. La
lezione di Wittgenstein
Vediamo
ora di chiarire il collegamento tra l’approccio filosofico in etica e la lezione
di Wittgenstein. In effetti potremmo caratterizzare la prospettiva filosofica
complessiva di Diamond e, quindi, la sua lettura di Wittgenstein come il tentativo
di chiarire cosa significhi rendere perspicuo il contesto concettuale delle
attività umane (in etica, in matematica, nella conoscenza del mondo e delle persone
e così via), la vita dei concetti, come Diamond si esprime spesso. L’intero suo
lavoro filosofico può essere visto come l’esplorazione di cosa sia questa vita
nei diversi casi che essa esamina. Vorrei dare una descrizione schematica
dell’approccio di Diamond. Diamond riprende da Wittgenstein l’idea della difficoltà
di portare alla luce la vita in cui sono intessute le nostre attività. Wittgenstein
torna spesso su questa difficoltà e sulla nostra costante inclinazione a
sfuggire alla vita dei concetti, che è per altro verso dischiusa di fronte a
noi. Egli insiste su questo punto osservando quanto sia difficile descrivere
ciò che facciamo, la massa complessa e articolata di cose che sono intrecciate
e sottendono qualsiasi nostra singola attività. Le Ricerche filosofiche cominciano precisamente con questo tema, che
ricorre poi in infinite riformulazioni lungo l’intero arco di esempi, casi e
questioni che Wittgenstein affronta nei suoi scritti. (19) Per mettere in luce l’approccio di Diamond potremmo aiutarci
usando la descrizione che dei capoversi iniziali delle Ricerche ha dato Stanley Cavell. (20)
Vi sono delle affinità tra la lettura che Cavell e Diamond hanno dato di
Wittgenstein e ve ne sono anche tra alcuni momenti della loro riflessione
morale. (21) Si potrebbe anzi provare a leggere questi
due filosofi americani come, tra l’altro, due elaborazioni indipendenti e
distintive, ma anche a loro modo simili in alcuni punti, delle stesse correnti
della filosofia analitica britannica.
Cavell
mostra come nei capoversi di esordio delle Ricerche
Wittgenstein sia interessato a farci comprendere quanto sia facile eludere la
realtà del linguaggio e delle attività in cui sono intessuti i nostri concetti.
Perciò, il compito di delucidare tale realtà va concepito come qualcosa che noi
facciamo contro l’inclinazione molto forte a non osservare e a imporre invece
una qualche visione preconcetta di come stanno le cose. Ciò appare chiaramente
nei capoversi iniziali che trattano la questione della denominazione, di cosa
conta come nominare un certo oggetto. A questo proposito Wittgenstein introduce
l’idea dei giochi linguistici, e cioè di esempi in cui attività sono connesse a
parole e a circostanze particolari. Cavell osserva come nel secondo capoverso
Wittgenstein voglia suscitare la nostra meraviglia e incredulità di fronte alla
sua richiesta di considerare il gioco linguistico dei muratori come «un
linguaggio primitivo completo». La situazione che immagina è quella di due
muratori A e B che si porgono mattoni, pilastri, lastre e travi: «A grida
queste parole; – B gli porge il pezzo che ha imparato a portargli quando sente
questo grido». Ma se immaginiamo veramente che queste siano le sole cose che
questi due esseri fanno l’intera scena ci appare troppo meccanica e
incredibile. Potremmo pensare naturalmente che questa è solo una porzione della
loro vita, che stiamo descrivendo un momento singolo di una scena più vasta.
Oppure, come Wittgenstein stesso suggerisce (§§ 5 e 6), una circostanza così
scarna potrebbe descrivere una scena di apprendimento: «I bambini vengono
educati a svolgere queste attività, a
usare, nello svolgerle, queste
parole, e a reagire in questo modo
alle parole altrui»(§ 6). Ciò che emerge lentamente è, tuttavia, che se
immaginiamo la descrizione dei muratori come l’intera situazione essa ci appare
forse come la scena in cui si muovono due automi o due persone ipnotizzate, ma
non riusciamo a scorgervi l’umanità e la varietà di aspetti che ci permette di
vedere quello che fanno A e B come il chiamare mattone un mattone. A meno di
non immaginare una scena più vasta e articolata, un contesto più ricco.
Questa
è la lezione che si insinua, dunque. Nel primo capoverso, con il passo tratto
da Agostino, Wittgenstein ci suggerisce un’immagine molto comune, secondo cui
l’essenza del linguaggio consiste nel denominare oggetti e cioè che la
denominazione, la relazione tra nome e oggetto, è a fondamento delle nostre attività
linguistiche o di una larga parte di esse. Ma poi, immaginando diversi giochi
linguistici, egli mostra come l’idea che la denominazione, che la semplice relazione
tra nome e oggetto, sia a fondamento del linguaggio è un’immagine confusa che
noi imponiamo ai fenomeni linguistici senza prenderci la briga di osservarli.
Il caso dei muratori sembra come rovesciare la nostra immagine iniziale. Non è
tanto che la relazione nome-oggetto è a fondamento dell’intero linguaggio,
quanto che abbiamo bisogno dell’intero linguaggio, e cioè di un contesto di
attività linguistiche e umane sufficientemente esteso, per riuscire ad
annoverare quella cosa che fanno i muratori A e B come chiamare mattone un mattone, nominare
un mattone. Cioè, già in questi primi passaggi delle Ricerche, spiega Cavell, Wittgenstein si impegna a mostrare come il
concetto di denominazione vada cercato nella forma di vita in cui esso ha un
posto e come sia difficile rendere perspicua questa vita concettuale e quanto
sia invece facile imporre una certa immagine, imporre l’idea che la
denominazione in quanto tale ha un suo significato che riscontriamo poi in
varie situazioni.
Il
metodo filosofico di Wittgenstein è diretto a questo scopo: a dissolvere le immagini
che imponiamo alla realtà e a descrivere quella realtà: ad esempio, a vedere
cosa annoveriamo come l’attività del nominare nei vari casi, osservando le
varie situazioni, riconoscendo che il nominare è quella certa attività in
quanto fa parte di quella complessa situazione. Allora riusciremo a vedere i
modi molto diversi in cui usiamo le parole, in cui le parole hanno per noi un
significato. Ma se partiamo con l’idea che le parole hanno come tali un
significato, senza osservare come lo
hanno, come sono usate, allora un tale «concetto generale di significato della
parola» finisce con il circondare «il funzionamento del linguaggio di una
caligine, che rende impossibile la visione chiara. – La nebbia si dissipa
quando studiamo i fenomeni del linguaggio nei modi primitivi del suo impiego,
nei quali si può avere una visione chiara e completa dello scopo e del funzionamento
delle parole»(§ 5). I giochi linguistici, e cioè questo metodo immaginativo in
filosofia, che Diamond sviluppa in modo sempre originale, fresco e ingegnoso,
sono diretti a riconoscere che le nostre parole (quelle coinvolte nell’attività
della denominazione o in qualsiasi altra attività) sono sempre parole vissute e che la possibilità di dire
certe cose, di intendere con le proprie parole una certa cosa, è allo stesso
tempo la possibilità di una certa forma di vita. (22) Abbiamo
quelle parole che ci significano qualcosa perché abbiamo una tale vita in cui
esse sono intessute. La nostra inclinazione è invece quella di dimenticare
questa vita, questo contesto, di lasciarlo dietro di noi. Diamond ha dato il
titolo di The Realistic Spirit alla
sua raccolta di saggi del 1991. Il realismo, per come essa lo intende, ha a che
fare precisamente con la possibilità di recuperare questa realtà complessa in
cui sono inserite le nostre attività concettuali, contro l’inclinazione di
imporre invece una nostra idea, di imporre richieste alla realtà (laying down requirements, come Diamond
scrive spesso). Come abbiamo visto nel caso della denominazione, vi è la
tendenza a imporre una certa immagine dell’uso che facciamo della relazione tra
nome e oggetto senza andare a vedere. L’impressione di sapere già in anticipo
cosa sia il denominare non ci consente di andare a vedere cosa stanno veramente
facendo i muratori dell’esempio wittgensteiniano, quale sia il posto che il
pronunciare il nome lastra e mattone hanno in quelle circostanze.
Diamond
ha chiarito una volta questa idea centrale per la sua filosofia e per la
filosofia di Wittgenstein commentando un passo tratto da Zettel. (23) Wittgenstein scrive:
Se
in generale gli uomini non concordassero sui colori delle cose, se i casi indeterminati
non fossero eccezioni, il nostro concetto di colore non potrebbe esistere. No:
– il nostro concetto di colore non esisterebbe.
(24)
C’è
un modo molto facile di fraintendere questo passo di Wittgenstein. Si può
pensare che vi siano due cose, da una parte il concetto di colore e dall’altra
l’insieme di circostanze sulle quale gli esseri umani si trovano d’accordo.
Allora l’argomento segue in questo modo. Per avere il concetto di colore c’è
bisogno che vi sia una certa comunità di esseri umani che fanno e dicono quelle
cose, c’è bisogno di certe convenzioni e forme di vita. Così convenzioni e
forme di vita diventano ai nostri occhi il fondamento, variamente inteso, di
quel concetto: inteso, ad esempio, come ciò su cui convergono pratiche e regole
o come uno sfondo in qualche maniera trascendentale. (25) Ma Diamond mostra come il punto di Wittgenstein sia
interamente differente. In effetti, se pensassimo che vi sono queste due cose,
allora potremmo effettivamente dire che le persone non potrebbero avere il concetto di colore se non concordassero tra
loro nel modo in cui fanno. Ma Wittgenstein risponde che se quelle persone non
concordassero in quel modo, se non avessero quella forma di vita e quelle
convenzioni, in ciò consisterebbe il loro non avere il concetto di colore.
Questa appare la lezione più difficile per Wittgenstein e Diamond, quella di
riuscire a vedere che la possibilità di intendere il concetto di colore è
precisamente la possibilità di quella complessa forma di vita. Mentre
l’inclinazione è quella di pensare che abbiamo concetti in isolamento dalle
pratiche e dalle attività in cui essi hanno un posto. Diamond si propone di mostrare
le conseguenze di questo modo di vedere nella varietà di casi che essa affronta
nei suoi scritti.
Vediamo
quindi la connessione con l’altra tradizione, quella che in etica criticava
Hare e una certa interpretazione della filosofia analitica, e faceva appello al
contesto della vita morale. Diamond continua quella linea attraverso la sua rielaborazione
dell’approccio filosofico di Wittgenstein. Con Anscombe e Murdoch (e gli altri
autori), Diamond sostiene che i problemi filosofici che ci poniamo riguardo la
natura del pensiero morale vanno risolti recuperando il contesto in cui il
pensiero morale ha un posto. Ma legge la ricerca di tale contesto nella prospettiva
di Wittgenstein come una forma peculiare di delucidazione concettuale, come la
ricerca della vita in cui è intessuto il pensiero morale.
4. Il
ruolo dei sentimenti e dell’esperienza
Inoltriamoci
ora nella riflessione morale di Diamond. Vorrei cominciare con il segnalare due
possibili chiavi di lettura del suo lavoro; attengono entrambe all’importanza
della ricerca del contesto del pensiero morale. La prima ha a che fare con
l’importanza della vita emotiva e più in generale dell’esperienza personale; la
seconda riguarda invece l’importanza dei concetti in etica. Diamond mostra di
tenere molto sia all’importanza di riconoscere che la vita morale è carica di
emozioni e affettività sia che essa è una vita propriamente concettuale.
Affrontiamo ora il punto circa l’importanza delle emozioni e dell’esperienza.
La vita che è intessuta nei nostri problemi morali è una vita di sentimenti, di
emozioni e di esperienze. In etica, come essa scrive, «pensare bene coinvolge
un pensiero carico del sentimento appropriato». (26)
Una visione ristretta e impoverita del pensiero morale ha presente unicamente
la capacità di pensare bene che collochiamo nella testa e non nel cuore. Vede i
meriti di un certo ideale di razionalità, che consiste nell’essere capaci di
porre i principi in un insieme di premesse coerenti tra di loro e di riuscire a
trarre le conseguenze che ne seguono. Ma una tale visione è del tutto chiusa
rispetto alla varietà ben più ampia di modi in cui possiamo pensare bene o male
in etica. Molti di questi modi hanno a che fare con le capacità affettive, con
la capacità di chiamare in causa la propria esperienza nel modo appropriato.
Diamond
sostiene che un pensiero morale è qualcosa di vivo per noi in quanto è pervaso
da una certa dimensione affettiva. Ma mostrare la forza e l’articolazione di
tale dimensione non è un compito facile. Come essa scrive: «non è un affare
facile riuscire a trovare come scrivere in modo illuminante sull’esperienza
umana». (27) Il compito di Diamond qui è quello di
presentare l’intera tessitura in cui il sentimento collabora con molti altri
elementi in modo da fare di quella tessitura qualcosa capace di dominare e
organizzare la vita interiore e la condotta di una persona. La difficoltà qui
ha a che fare con i temi wittgensteiniani menzionati sopra. Come vedremo,
Diamond sviluppa una sua personale concezione delle difficoltà che si
incontrano e delle risposte che la filosofia e il pensiero può dare loro; ma
possiamo vedere subito una sua sintonia con una certa critica che è stata mossa
alla ricognizione dei sentimenti in etica. Come sappiamo, il ruolo dei
sentimenti e della vita emotiva in etica è stato sostenuto dal non cognitivismo
e dal sentimentalismo etico. (28)
Vi sono molte linee filosofiche diverse tra loro che possono essere raggruppate
sotto queste etichette. Diamond condivide comunque la critica che John McDowell
ha mosso verso una certa versione di queste teorie. (29) McDowell critica l’idea che del contributo sentimentale si
possa guadagnare una visione, per così dire, di traverso, come se vedessimo il
modo in cui il sentimento riempie il pensiero del proprio contribuito
dall’esterno. McDowell ha insistito, invece, che nella vita morale noi siamo
sempre interni a una certa sensibilità affettiva che coinvolge sia la capacità
di selezionare certi oggetti e di raggrupparli assieme (ad esempio come situazioni
di coraggio) sia di provare nei loro confronti un sentimento appropriato. Il
sentimento e l’elemento cognitivo sono legati in modo indissolubile e rimandano
a dimensioni di sensibilità individuale e di coltivazione dell’io. Vedremo poi
come Diamond complichi e trasformi questo quadro in molti modi; ma certamente
condivide questa critica contro una certa linea del sentimentalismo etico, caratterizzata
dal fatto di non vedere alcuna difficoltà nel rintracciare il ruolo del
contributo emotivo in un pensiero morale. Tornando al modo in cui Wittgenstein
vedeva le difficoltà in filosofia, potremmo leggere l’appello al ruolo dei
sentimenti nel sentimentalismo che è oggetto della critica di McDowell come un
modo di evadere il complicato intreccio di elementi coinvolti nella vita del pensiero
morale. Indicare il ruolo quasi-idraulico del sentimento (come lo chiama
McDowell) (30) sembra precisamente un modo in cui ci
liberiamo della difficoltà di guardare a questa vita, e cerchiamo subito un
elemento fondativo, il sentimento, capace di rendere conto della moralità di un
certo pensiero. Così come nei capoversi iniziali delle Ricerche Wittgenstein mostrava come la relazione nome-oggetto
diventasse subito un’immagine che veniva imposta alla realtà e che impediva di
andare a vedere cosa contasse nei vari casi il nominare quel certo oggetto,
quale vita complessa rendesse il nominare quella particolare attività per quegli
esseri umani, analogamente – si potrebbe dire – nel caso di un certo
sentimentalismo etico l’indicazione del sentimento gioca un ruolo analogo. Impedisce
di guardare a come la vita affettiva e l’esperienza personale trasformano la
visione delle persone, impedisce di descrivere la varietà di casi e impone un
modello unico, quello del sentimento che colora un certo pensiero cognitivo già
compiuto. Ma come sappiamo questa era l’immagine che anche Hare aveva sviluppato
del pensiero morale. Possiamo vedere ora come Diamond risponda a
quell’immagine, come essa prosegua la critica di quel gruppo di filosofi che ho
menzionato sopra.
Diamond
vede la vita di un pensiero morale e la sua dimensione affettiva come un intero
mondo in cui si deve entrare, un mondo in cui vari aspetti si tengono assieme,
una visione complessiva (come osservava Murdoch) che si deve fare propria.
Vorrei riprendere due esempi tratti dagli scritti di Diamond. Il primo esempio
riguarda il senso di umanità. Diamond torna molte volte nei suoi scritti su
come un senso di umanità verso le persone e gli animali sia nutrito da vari
aspetti, da una varietà complessa di esperienze. L’esempio che voglio
presentare riguarda il modo in cui il senso di umnanità è connesso con il fatto
di essere stati bambini. Dickens è un autore molto importante per Diamond. Le
descrizioni che Dickens ci dà della vita dei bambini «contribuiscono al nostro
profondo senso della vita, e di ciò che è interessante e importante». (31) Nel suo saggio L’importanza di essere umani, essa commenta il Canto di Natale di Dickens. Dickens, scrive Diamond,
cerca
di mostrarci come negli atti di umanità possa essere presente un senso
immaginativo della capacità di commuovere dell’infanzia legato al senso di noi
stessi in quanto bambini, e come la sua assenza possa essere percepita anche in
ciò che facciamo e in ciò che siamo capaci di sentire (p. 95).
Diamond
vuole mostrare come un senso di umanità sia carico di sentimento e come questa
capacità di sentire sia connessa con una varietà di emozioni che sono collegate
assieme nello sguardo che un bambino rivolge alle cose. È la «vulnerabilità dei
bambini, l’intensità delle loro speranze, la profondità delle loro paure e
delle loro sofferenze, il loro piacere nei giochi, la loro gioia nell’ascoltare
le storie» (p. 95, trad. modificata) e molte altre cose ancora, che
costituscono il senso che abbiamo di noi stessi come bambini e che è parte del
senso di umanità. Perciò la scoperta della capacità di sentire, che è propria
del senso di umanità, chiama in causa un’attenzione alla complessità
dell’esperienza dei bambini, un’attenzione che Diamond riesce a ridestare
attraverso il suo stile narrativo – non descrivendo nello stile della
psicologia empirica la vita dei bambini ma aiutandosi con Dickens a mostrare
una visione complessiva che troviamo nei bambini, un intero arco di capacità
affettive, un mondo intero che possiamo rivivere immaginativamente dentro di
noi.
Vediamo
qui all’opera, quindi, sia la ricerca del contesto che aveva mosso le riflessioni
di Murdoch, Foot, Anscombe ecc., sia la peculiare lezione di Wittgenstein. Se
ci domandiamo come operi il senso di umanità, la virtù dell’umanità, andiamo
alla ricerca del contesto in cui il senso di umanità trova un posto. Esso è
dato da una complessa vita dei sentimenti di cui possiamo specificare un importante
contribuito, il senso di gioia, di intensità, di sorpresa che è caratteristico
dei bambini. Questa specifica trama di sentimenti contribuisce a riempire di
significato la virtù dell’umanità (rende viva per noi, e cioè attiva e
operante, tale virtù). Ma la spiegazione di Diamond mostra anche l’influsso di
Wittgenstein. Con Wittgenstein, Diamond mostra che se ci si chiede come operi
questa virtù non si deve cercare fuori, andare oltre i nostri dubbi sul
funzionamento di tale virtù, ma tornare indietro al punto in cui abbiamo
dimenticato o abbiamo perduto una trama di sentimenti che sono la fonte della
virtù dell’umanità. Noi offriamo criteri su come funziona la virtù dell’umanità
recuperando il contesto che abbiamo perduto e che non riusciamo più a vedere,
il contesto fatto tra l’altro da quel complesso insieme di sentimenti che
riconosciamo in un bambino.
Già
da questo esempio possiamo vedere anche il ruolo che la letteratura, i romanzi,
la poesia, rivestono nella filosofia di Diamond. Il recupero del contesto che
rende vivi i nostri interessi morali, ad esempio la virtù dell’umanità, riguarda
il modo in cui possiamo risvegliare in noi la connessione tra certe esperienze,
ad esempio come possiamo mettere in collegamento il senso dell’umanità con il
senso di intensità e freschezza dei bambini. La comprensione della virtù
dell’umanità comporta la capacità di fare un tale tipo di connessioni, di guadagnarle
per sé in quel modo speciale che coinvolge una comprensione intima, una
trasformazione di sé. Ora Diamond vede nella letteratura (in particolare, in
una sezione interessante della letteratura che ha al suo centro il romanzo
realista ottocentesco, assieme a molte altre cose) proprio questo tipo di uso
del linguaggio, finalizzato non a comunicare fatti ma a risvegliare emozioni, a
destare nei lettori intere visioni delle cose, interi mondi affettivi. Questa
idea della letteratura accomuna Diamond a Murdoch, che nutriva questo tipo di
interesse non solo come filosofa ma anche come grande scrittrice; ma la
accomuna anche a Martha Nussbaum che ha espresso un simile interesse per
l’importanza morale dei romanzi e della letteratura e per il modo in cui la
forma che le parole assumono è internamente connessa con il contenuto che esse
comunicano. (32) Ma questo punto chiama in causa di nuovo
Wittgenstein e il modo in cui egli pensava all’attività filosofica come a una
forma di trasformazione interiore. È in questo quadro che possiamo provare a
riconoscere il carattere distintivo dello stile di Diamond, che è un insieme di
argomentazione filosofica tradizionale, dove si fa leva sulla logica e su quel
tipo di capacità della mente, di comprensione immaginativa, di uso della
letteratura per portare il lettore a sentire e a vedere certe cose. Ma come ho
suggerito, è anche un modo originale di continuare la lezione di Wittgenstein,
non ciò che molti filosofi analitici hanno voluto leggere in lui, ma il suo
stesso stile fatto di ascolto a ciò che di volta in volta siamo inclini a dire,
di correzioni di ciò che vorremmo dire, di esempi, di argomentazioni, di aforismi
filosofici, di istruzioni date al lettore e ancora altro. (33)
Vediamo
ora il secondo esempio: esso riguarda l’importanza della vita individuale. Il
compito di Diamond, anche in questo caso, è di mostrare ciò che è coinvolto
nell’affermazione circa l’importanza della vita individuale delle persone, la
massa complicata di sentimenti e di esperienza che è intessuta in questo tipo
di affermazione e che ce la rende viva e piena di significato. Abbiamo un certo
numero di teorie filosofiche che ribadiscono l’irrinunciabilità di questo aspetto.
John Rawls nella Teoria della giustizia
ha sostenuto l’importanza di pensare alle persone come esseri separati gli uni
dagli altri, ad esempio in contrasto con il modo in cui l’utilitarismo
concepisce il valore della vita individuale. Diamond non è in disaccordo con
Rawls circa la verità della sua affermazione, ma è in disaccordo in merito a
ciò che comporta fare una tale affermazione, in merito a ciò che è coinvolto in
essa. È in disaccordo circa il tipo di esperienza che rende tale affermazione
un’affermazione viva per noi. Nel saggio Le
fonti della vita morale Diamond tratta in dettaglio la questione; scrive
che Rawls riconosce l’importanza della vita individuale perché ne vede il
collegamento con l’importanza che le persone hanno in quanto agenti morali,
come portatori di personalità morale. Ciò che vi trova di sbagliato è che una
visione troppo ristretta dell’importanza della vita individuale. Scrive
infatti:
la
riflessione morale è resa ciò che è dalla riflessione sulla vita: ma da una
riflessione che coglie, interpreta ed è infinitamente toccata da una varietà di cose della vita, non soltanto
dalla personalità morale. [Da cose come] i nostri pensieri sulla vita, la
morte, il caso, la felicità, il tempo, l’amore e così via […] (p. 144).
Ciò
che non va in Rawls è che egli propone una spiegazione troppo limitata del tipo
di esperienza che può riempire di significato la sua affermazione sulla separatezza
delle persone. Ciò che dà significato alla sua affermazione è il senso
(kantiano) dell’importanza, del rispetto, della reverenza e così via, nei
confronti delle persone in quanto persone morali. Diamond sostiene invece che
ciò che riempie quel pensiero di significato è un bagaglio ben più ampio di
esperienze: pensieri sulla mortalità e il caso, sulla gioia e il divertimento,
ad esempio. Questo tipo di pensieri ha un ruolo nelle teorie contrattualiste
(come quella di Rawls) solo in quanto vi rientrano come il possibile contenuto
delle concezioni che le persone hanno del proprio bene; non hanno un ruolo nel
formare la nostra nozione del perché diamo valore al fatto che le persone siano
libere di avere tali concezioni del bene e di vivere in integrità con esse.
Diamond sostiene invece che la varietà complessa di modi in cui siamo toccati
dalla vita dà forma alla nostra concezione del valore delle persone, del senso
di rispetto e di importanza nei confronti di ogni singola vita individuale. Una
tale concezione del rispetto e del valore è nutrita dai modi diversi in cui la
vita ci tocca e ci sorprende o ci inquieta come speciale, strana, commovente.
Diamond
offre molti esempi dell’ampio arco di esperienze che illuminano ciò che
intendiamo quando diciamo che siamo legati all’importanza delle vite individuali.
Un esempio che voglio riprendere ha a che fare con l’importanza della verità e
della precisione. Vi è un saggio dedicato a questi temi, Truth: Defenders, Debunkers, Despisers. (34) Diamond sostiene qui che la verità, questo concetto centrale
in epistemologia e in molte altre aree del pensiero, è un concetto essenziale
anche in etica. L’esempio che porta è quello del poeta polacco Zbigniew
Herbert, che ha scritto che la mancanza di accuratezza nel contare il numero
delle vittime morte contro un potere disumano è intollerabile. Come scrive Herbert
nella sua poesia Il signor Cogito e la
necessità dell’esattezza: (35)
[…]
in queste cose
ci
vuole accuratezza
non
è lecito sbagliarsi
neppure
di uno
siamo
malgrado tutto
custodi
dei nostri fratelli
l’incertezza
sui dispersi
incrina
la concretezza del mondo
spinge
nell’inferno delle apparenze
nella
diabolica rete della dialettica
proclamante
che non c’è differenza
tra
sostanza e spettro
dobbiamo
perciò sapere
contare
esattamente
chiamare
per nome
[…]
Diamond
commenta in questo modo: «Abbiamo bisogno di un mondo fondato sulla verità in
cui una menzogna è solo una menzogna, in cui vi sono archivi, in cui la realtà
di ciascuno di noi è affidata agli altri, in cui la distruzione delle vite
umane non è cancellabile». (36)
Il fatto che la verità è un concetto che struttura la realtà in quel modo, con
l’esistenza della matematica, di archivi e anagrafi e con l’attività degli
storici, tutto ciò è essenziale al nostro interesse per le vite individuali.
Questo interesse, questo senso di importanza, è connesso con il fatto che la
verità ha quel posto nel nostro mondo. Possiamo renderci vividamente
consapevoli di ciò quando immaginiamo regimi in cui questo insieme di attività
è assente, come fa Herbert nella sua poesia. Così, in questo caso, l’esperienza
del nostro mondo ordinario in cui conserviamo la memoria scritta delle persone
che muoiono, in cui una menzogna è solo una menzogna, questo tipo di esperienza
contribuisce a dare significato al nostro interesse per le vite individuali,
contribuisce a rendere quel senso di importanza qualcosa di vivo per noi.
5. Il
ruolo dei concetti
Ho
portato alcuni esempi tesi a mostrare come la vita dei nostri interessi e considerazioni
morali sia una vita pervasa dal sentimento e dall’esperienza. Vorrei ora
fermarmi sull’altro aspetto che illustra il modo in cui Diamond esplora il
contesto dell’etica, e cioè il ruolo dei concetti. Diamond sostiene che la
forza che appartiene all’interesse morale che si è formato con l’esperienza e
gli affetti è anche il tipo di forza che appartiene ai concetti. La vita delle
emozioni e dell’esperienza ha la capacità di farci entrare in un mondo
concettuale. Torniamo a Dickens. Il complesso risveglio delle emozioni e dei
sentimenti di Scrooge nel Canto di Natale,
per come lo legge Diamond, è anche la riconquista di una prospettiva
concettuale. Attraverso il fatto di essere toccato nuovamente dalla
vulnerabilità, dalla gioia e dall’intensità dei bambini, Scrooge arriva a
vedere le attese e le speranze dei bambini come parte dei bisogni degli esseri
umani. Questo miglioramento emotivo contribuisce alla sua possibilità di
guadagnare per sé una prospettiva propriamente concettuale: cioè una
prospettiva in cui comprende che il suo riuscire a intendere il concetto di
essere umano coinvolge la capacità di vedere che vi appartengono certi fatti,
come ad esempio il fatto di avere certi bisogni connessi con il mondo emotivo
dei fanciulli. Diamond presenta la delucidazione concettuale – e cioè il fatto
che intendere un certo concetto porta con sé anche l’intendere altre cose –
come una forma di risveglio emotivo. (37)
Emerge
qui una concezione che potremmo chiamare pratica di ciò che conta come
padroneggiare un concetto, dove torna la lezione di Wittgenstein. Come abbiamo
visto, nell’interpretazione che di quella lezione danno Diamond e Cavell, la
capacità di padroneggiare un concetto coinvolge la partecipazione a una varietà
di attività, di pensieri e di esperienze, cioè il fare e il sentire una
quantità di cose. Nel caso del pensiero morale, Diamond mostra come questa
dimensione pratica sia pervasa dalla capacità di sentire. Perciò un’educazione
delle emozioni, lo sviluppo di una sensibilità morale, corrisponde alla
conquista di una certa prospettiva concettuale: una tale educazione o
trasformazione dell’io porta la persona dentro un mondo concettuale – e lo fa
in molti modi come suggerirò più avanti. Possiamo esprimere quindi la
delucidazione della vita morale, sottolineando questa doppia enfasi sugli
affetti e sui concetti. Diamond stessa presenta la sua argomentazione in questo
modo. Voglio riprendere quanto scrive nel saggio L’importanza di essere umani. La sua operazione in questo scritto è
molto interessante. Diamond critica Annette Baier, e una certa linea in
filosofia ispirata al pensiero di Hume, per il modo in cui viene trattata la
natura umana. Una tale prospettiva tratta le emozioni, i sentimenti e le
esperienze umane come oggetti di studio a cui noi prendiamo parte in qualità di
osservatori e di teorizzatori. La conoscenza che ne deriva fa parte della più
ampia sfera della conoscenza empirica. Diamond sostiene invece che il tipo di
miglioramento emotivo coinvolto, ad esempio, nei cambiamenti a cui va incontro
lo Scrooge dickensiano non può essere descritto in questo modo. Siamo di fronte
a una trasformazione che tocca l’io in modo più intimo di questo. Diamond
perciò fa uso dell’altra linea in filosofia, quella kantiana. È più appropriato
sostenere che il modo in cui Scrooge è toccato dal mondo emotivo dei bambini è
analogo al modo in cui Kant afferma che dovremmo riconoscere la razionalità e
la personalità morale come parte di ciò che noi siamo. Scrive in proposito:
Ora voglio sviluppare un paragone tra lo Scrooge di Dickens e uno Scrooge kantiano, il quale (per esempio) potrebbe dare qualche penny al bambino sulla porta in virtù di un rispetto di tipo kantiano per l’umanità del bambino, un rispetto (vale a dire) per la natura razionale del bambino, là dove questo rispetto è inseparabile dal rispetto dello Scrooge kantiano per se stesso in quanto essere razionale, dalla sua comprensione di sé come un essere capace sia di imporre a se stesso la legge morale sia di obbedirgli. Questa comprensione di sé dello Scrooge kantiano è molto diversa dalla comprensione che egli possiede in quanto osservatore empirico di se stesso o in generale degli esseri umani come parte della natura (p. 95).
Diamond
sta dalla parte di Kant qui. Vuole che quel riconoscimento della razionalità
sia visto non come un fatto della natura umana tra gli altri fatti ma come un
fatto che riguarda noi stessi. Nella filosofia di Kant, pensare a se stessi nel
modo appropriato va insieme al pensare a sé in termini di razionalità e di
personalità morale. Quindi Diamond aggiunge:
Nello Scrooge di Dickens, questo essere commossi dall’infanzia comporta un senso vivo e l’accettazione da parte sua dello Scrooge-bambino che è in lui, come parte (una parte che gli appartiene, che egli riconosce come sua) dell’«io, Scrooge, essere umano» – proprio come nella generosità dello Scrooge kantiano è presente il senso vivo e il riconoscimento dello Scrooge-essere-razionale che è in lui (pp. 95-96).
Vediamo,
quindi, come Diamond legga l’educazione morale di Scrooge come una riconquista
di un senso delle cose, dei bisogni umani, della vulnerabilità umana, delle
speranze, della gioia e della sofferenza, allo stesso modo in cui l’educazione
morale dello Scrooge kantiano coinvolge il riconoscimento che egli stesso è
parte della dignità che promana dalla razionalità e dalla personalità morale.
Diamond vuole conservare l’interpretazione kantiana della forza con cui si
impongono le considerazioni morali come una forza autenticamente concettuale,
cioè il tipo di forza che è all’opera quando vediamo ciò che si tiene assieme
concettualmente; ma rifiuta di accettare la lettura kantiana circa l’origine di
tale forza. Contro Kant, come abbiamo visto nella discussione di Rawls e delle
teorie contrattualiste, essa sostiene che un autentico riconoscimento
concettuale di se stessi come esseri umani comporta un riconoscimento di sé in
quanto esseri capaci di sentimento e di immaginazione e di molte altre cose
ancora. Perciò, in questo rifiuto del modo in cui Kant si concentra sulla sola
razionalità, a esclusione della sfera delle passioni e delle inclinazioni e
delle altre contingenze della vita, Diamond sta, in un certo senso, difendendo
l’altra linea filosofica. (38)
Questa
doppia insoddisfazione nei confronti di entrambe le linee filosofiche mostra
bene il tipo di esplorazione della vita dei concetti morali che Diamond sviluppa.
Il rifiuto della limitatezza della linea kantiana verso i contenuti del pensiero
morale rimanda all’importanza a non semplificare, a non cercare una formula
universale che tralasci la varietà di cose di cui è nutrito il nostro interesse
morale verso il mondo. Ma il rifiuto della linea humeana, di come essa tratta
questa varietà di aspetti, riguarda il modo in cui essi rendono vivi i nostri
pensieri. Li rendono vivi non come fatti tra gli altri fatti ma come la fonte
dei nostri interessi morali, li rendono vivi dall’interno. L’importanza delle
singole vite, ad esempio, è quel tipo di pensiero, quella considerazione
morale, perché sentiamo e facciamo e viviamo in un certo modo. Queste cose, per noi che sentiamo il valore della
vita individuale (se lo sentiamo), non sono solo fatti che contempliamo come
osservatori esterni, ma si tengono tutti assieme internamente, cioè concettualmente.
Possiamo
tornare ora brevemente a McDowell. Nei saggi in cui criticava il non
cognitivismo, McDowell era interessato a mostrare come nell’interesse morale
che nutriamo verso le cose, cioè nella dimensione della virtù se vogliamo, il
contributo non cognitivo del sentimento non è un contributo esterno, che rende
morale la considerazione cognitiva di una situazione accompagnandosi a essa,
colorando tale situazione con la forza del sentimento. McDowell ritiene invece
che vi sia una collaborazione interna tra il sentimento e la considerazione
cognitiva. Non potremmo raggruppare quelle azioni insieme come azioni
coraggiose, ad esempio, se non fossimo già interni alla dimensione affettiva
appropriata, che è quella che ci rende sensibili nei confronti del coraggio.
Come abbiamo già visto, Diamond è d’accordo con McDowell su questo punto. Anche
lei è interessata a mostrare come nella prospettiva del pensiero morale i
sentimenti e le altre contingenze della natura umana non entrano nel pensiero sideways-on, come dice McDowell, di
traverso, rendendosi cioè disponibili a una descrizione meramente empirica,
quella che ci impegna come osservatori e teorizzatori. Ma questa critica
costituisce il punto di partenza per Diamond, per mettere in luce il tipo di
varietà di aspetti e di fatti che si tengono assieme concettualmente nella vita
delle nostre considerazioni morali. L’elemento più interessante e originale
della sua riflessione consiste proprio in questa esplorazione della varietà di
cose in cui consiste il nutrire un certo interesse morale. Nei saggi di
McDowell può sembrare che la virtù consista solo nel modo concettuale in cui il
sapere raggruppare le cose (quel tipo di capacità cognitiva) si tiene assieme
al provare sentimenti appropriati. (39)
Diamond prende esplicitamente le distanze da McDowell su questo punto nel
saggio Perdere i propri concetti.
Osserva che «afferrare un concetto (perfino un concetto come quello di essere
umano, che è un concetto descrittivo se mai ve ne sono) non è solo una
questione di sapere come raggruppare cose sotto quel concetto: significa essere
in grado di partecipare alla vita-con-il-concetto» (p. 71). Diamond è
interessata a esplorare la varietà di cose che si tengono assieme, la varietà
di sentimenti e il modo in cui sono intrecciati con molte attività, con molti
fatti. Così il senso dell’importanza delle vite individuali è ricondotto al
senso di importanza della verità, negli esempi che essa dà: il fatto di avere
archivi e anagrafi, ma anche l’esistenza della matematica, l’importanza della
precisione e dell’accuratezza. Qui varie attività umane, il posto pratico,
affettivo, e ancora altro, che esse hanno nelle nostre vite è legato a
sentimenti più specifici connessi con il senso di rispetto, cura, ricordo delle
persone. È questa varietà complessa di aspetti che si tiene assieme (concettualmente)
che dà vita al nostro interesse per la vita individuale.
6. L’etica
e l’analisi concettuale
Una
volta intesa appropriatamente la natura dei concetti e il senso in cui la vita
dei nostri interessi morali è una vita concettuale, possiamo certamente affermare
che la critica riflessiva in etica ha l’aspetto dell’analisi concettuale. È in
questo quadro che riusciamo anche a verificare il collegamento che il pensiero
di Diamond intrattiene con quello di Anscombe e in generale con quel tipo di
naturalismo filosofico in etica. (40)
Diamond
sostiene che il pensiero morale è propriamente un pensiero e che le
considerazioni morali sono affermazioni concettuali. Vorrei citare un passo tratto
da un saggio contenuto in The Realistic
Spirit, Eating Meat and Eating People:
(41)
[…]
non è per rispetto degli interessi degli esseri della classe a cui noi apparteniamo
che ci diamo nomi l’un l’altro, o che trattiamo la sessualità o la nascita o la
morte umane come facciamo, contrassegnandole – in vari modi – come significative
e serie. E ancora, non è il rispetto per i nostri interessi a essere coinvolto
nel fatto che non ci mangiamo l’un l’altro. Queste sono tutte cose che vanno a
determinare che tipo di concetto è quello di «essere umano». Analogamente con
l’avere doveri verso gli esseri umani. Questa non è una conseguenza di ciò che
gli esseri umani sono, non è giustificato da ciò che gli esseri umani sono: è
essa stessa una delle cose che vanno a determinare la nostra nozione di esseri
umani.
Diamond ci mostra la riflessione morale come un lavoro di chiarificazione concettuale. Che qualcosa vada fatto può essere visto come parte di ciò che è coinvolto nei concetti alla luce dei quali si articola la deliberazione morale. Scopriamo cosa vada fatto come parte della scoperta di ciò che è tenuto assieme ai concetti attraverso i quali vediamo e sentiamo e descriviamo le cose. In questo senso Diamond sostiene che la scoperta che fa Scrooge della freddezza del suo cuore e dei bisogni delle persone è una scoperta di ciò che è tenuto assieme al concetto di essere umano, al rinnovato concetto di essere umano, attraverso il quale ora vede e sente se stesso.
Vi
sono quindi delle analogie tra questa prospettiva e il naturalismo filosofico
di Anscombe. Ma questa è anche un’occasione per vedere uno dei modi attraverso
i quali Diamond ha rielaborato il pensiero di Anscombe. (42) Possiamo scorgere delle similitudini tra la concezione di
Diamond e un’affermazione come la seguente: ciò che dobbiamo fare è il tipo di
azione che conta come la risposta appropriata verso un essere umano. Cioè,
abbiamo il concetto di essere umano perché gli esseri umani sono trattati in
quel modo. Anscombe ha avanzato una posizione simile nel suo famoso articolo Modern Moral Philosophy. (43) Ha scritto che
così
come l’uomo ha il numero di denti che
ha, che non è certamente il numero medio di denti che hanno gli uomini, ma è il
numero di denti della specie, così forse la specie uomo, considerato non solo biologicamente, ma dal punto di vista
dell’attività di pensiero e di scelta rispetto alle varie sfere della vita –
poteri, facoltà e uso delle cose di cui ha bisogno – «ha» queste-e-queste
virtù: e tale «uomo» con il suo insieme completo di virtù è la «norma», così
come l’«uomo» con, ad esempio, l’intera fornitura di denti è la norma.
Nella
concezione suggerita da Anscombe, le virtù appartengono alla definizione
dell’uomo, concepito non come un concetto esclusivamente biologico ma come una
nozione che indica gli esseri umani nelle loro varie capacità e attività culturali
e morali. Diamond collega invece la sua concezione dell’etica con la sua particolare
comprensione della natura dei concetti (morali). Diamond sostiene che il
pensiero morale è un pensiero che si muove e si articola nella vita dei
concetti che danno forma al nostro linguaggio e alla nostra visione delle cose.
Possiamo pensare agli strumenti critici che usiamo nel discorso morale come
modi attraverso i quali arriviamo a riconoscere ciò che si tiene
(concettualmente) con gli aspetti che troviamo problematici o su cui stiamo
riflettendo. Attraverso questo lavoro di delucidazione riusciamo a mostrare il
tipo di contesto concettuale che dà vita e significato ai nostri quesiti e ai
nostri problemi. Ma questi strumenti ci consentono anche di riconoscere
connessioni attraverso le quali tali concetti possono essere reinterpretati,
modificati o estesi in nuove direzioni. Diamond è molto chiara in proposito nel
suo saggio Eating Meat and Eating People.
Discute la natura della nostra percezione degli animali. Gli animali sono visti
in vari modi, come animali da compagnia, come gli animali selvatici che vediamo
nei documentari, come gli animali che sono il nostro cibo, o quelli pericolosi
per le fattorie. Sono modi molto diversi di ritrarre la vita animale che
portano con sé anche atteggiamenti diversi e modi diversi di trattarli. Ora
Diamond insiste però su un punto, che questa varietà di percezioni è resa possibile
da una massa di risposte, reazioni, visioni, non del tutto coerenti tra di
loro, ma che ha comunque un ordine sufficiente da consentirci di pensare ogni
volta a questi esseri come a degli animali.
Abbiamo cioè un concetto di animale, che ci permette poi di parlare di cani e
gatti come quel tipo di animale, di tigri e leoni, o di mucche e polli, come
insiemi ancora diversi di animali. Ma possiamo anche lavorare su questa massa
di risposte e di atteggiamenti, in cui consiste il concetto di animale, per estenderne
alcuni e per ridescriverne altri. In effetti, questo è ciò che Diamond fa nei
suoi scritti «animalisti» (contenuti in The
Realistic Spirit) o nel saggio L’importanza
di essere umani. Prende alcune caratteristiche che costituiscono il
concetto di animale, come il fatto di essere una creatura con una vita indipendente,
una vita sua, lontana e misteriosa, e cerca di vedere le rassomiglianze con il
senso di indipendenza e di mistero che troviamo nella vita umana. Suggerisce
come potremmo leggere nella vita animale il senso di comunanza e solidarietà
che già nutriamo nei confronti degli esseri umani. Ma ciò finisce con il ridimensionare
altre caratteristiche che compongono la massa di risposte che costituisce il
concetto di animale.
Torniamo
ora al paragone con il naturalismo di Anscombe. Anscombe sostiene che le virtù
appartengono alla definizione di essere umano, cioè che ciò che è bene per gli
esseri umani è tenuto assieme concettualmente alla varietà di aspetti che
rendono ciò che un essere umano è. Vi è in certi limiti una sintonia con
Diamond. Diamond sostiene che le considerazioni morali hanno un significato e
hanno quindi un posto (motivazionale, normativo di vario tipo) nelle nostre
vite in quanto sono legate concettualmente con una varietà di concetti
attraverso i quali vediamo le situazioni che ci sono moralmente interessante e
salienti, tra cui il concetto di essere umano. In questo senso sostiene che la
nozione di dovere è essa stessa uno di quegli aspetti che costituiscono la
nozione di essere umano. Egualmente nel caso degli animali, una considerazione
morale nei loro confronti ha un posto nelle nostre vite in quanto elabora ciò
che gli animali sono per noi, come ci appaiono, elabora un tessuto concettuale
entro cui percepiamo gli animali. La possibilità di rispettare le loro vite, di
non mangiarli ad esempio, va assieme alla possibilità di vederli come esseri
che come noi hanno una loro vita, indipendente, lontana e misteriosa da vivere.
La nostra considerazione morale è fondata (concettualmente) sulla definizione
di animale, nel senso che possiamo veramente vedere l’importanza morale di
rispettare gli animali in quanto ciò esprime questo insieme di atteggiamenti:
il rispetto esprime il nostro vederli come esseri con una vita indipendente e a
loro modo personale. Vi è quindi un’analogia con Anscombe: le considerazioni
morali sono fondate concettualmente sulle nozioni rilevanti in gioco, ad
esempio quella di essere umano o di animale.
Ma
possiamo vedere subito anche le differenze. In effetti questa lezione di Anscombe
segna solo l’inizio della riflessione. Il modo in cui si procede da qui in
avanti mostra tutte le differenze tra il naturalismo etico di Anscombe e la
riflessione di Diamond e ancora altre linee filosofiche. Anscombe e quella
linea del naturalismo etico è interessata a ricavare da questo approccio l’idea
che le considerazioni morali sono fondate su ciò che gli esseri umani sono, una
volta che li abbiamo propriamente intesi. C’è questa ricerca di ciò che è propriamente umano: è un’idea
aristotelica che si ritrova in Anscombe, in Foot ma anche in autori come
Nussbaum. (44) L’idea che vi sia una connessione
concettuale tra la nozione di essere umano e le virtù spinge questi autori a
cercare una nozione appropriata di essere umano. Essi tendono a leggere l’idea
che le considerazioni morali facciano parte (concettualmente) della nozione di
essere umano come premessa per una ricerca di ciò che è propriamente umano da cui derivare le considerazioni morali
come sue componenti concettuali. (45)
Questa è precisamente la strada che Diamond non segue. Nella prospettiva di
Anscombe vi è qualcosa come ciò che un essere umano è, da cui derivare ciò che
un essere umano è al suo meglio e quindi l’insieme delle virtù. Diamond vede le
cose diversamente. Essa ritiene, con Anscombe, che le nostre considerazioni
morali hanno una vita propriamente concettuale, che sono collocate in un
contesto concettuale, costituito ad esempio dalla nozione di essere umano. Ma
non vi è niente che assomigli alla scoperta di ciò che quel concetto significa da cui derivare le considerazioni morali
stesse. Invece, vi sono numerosi fatti, contingenze, cioè attività che le
persone svolgono, reazioni emotive, modi di vedere, atteggiamenti, percezioni
sottili di ciò che è o meno appropriato fare in certe circostanze. Tutto ciò
costituisce di volta in volta, per il tipo di questione che stiamo affrontando,
una massa di aspetti in cui possiamo provare a leggere alcune linee dominanti,
alcune connessioni centrali. Le considerazioni morali hanno la loro vita in
queste connessioni, in questa rete concettuale che tiene assieme alcuni
aspetti. Ma la possibilità di vedere queste connessioni, di mettere assieme
quegli aspetti, è essa stessa frutto della riflessione morale, è (con
Wittgenstein) l’esito di una trasformazione personale, di un miglioramento di
sé. Non è tanto che vi sia qualcosa come ciò che è propriamente umano da cui
deriviamo le considerazioni morali, quanto che tutto ciò che facciamo e
sentiamo e così via ha un qualche peso, può essere visto come rilevante per la
riflessione morale, e le considerazioni morali hanno una vita, ci dicono
qualcosa, in quanto esprimono modi di tenere assieme quegli aspetti, che
dipendono tuttavia dal nostro sforzo, dalla nostra energia interiore, dal tipo
di persone che siamo.
7. I
beni concettuali
Diversamente
dal naturalismo etico di Anscombe, Diamond è interessata a non semplificare la
vita dei concetti morali ma a mettere in luce le differenze e le distanze che
separano le persone (e le epoche). Vorrei fermarmi su questo punto. Esso
concerne anche la continuità che Diamond ha inteso stabilire con alcuni momenti
centrali del pensiero di Murdoch, ma riguarda allo stesso tempo in modo pieno
anche l’interpretazione di Wittgenstein. Nel sostenere che la vita dei nostri
interessi morali è una vita concettuale Diamond fa un’affermazione in cui vuole
anche tenere dentro l’idea che vi sono distanze tra le persone e le epoche che
dipendono dalle concezioni in cui si articola il modo di vedere le cose e la
vita. Murdoch era molto interessata a questo tema; scriveva infatti: «la comunicazione
di un nuovo concetto morale non si raggiunge necessariamente specificando i
criteri fattuali che sono a disposizione di ogni osservatore (‘Approva questa area!’) ma può richiedere
la comunicazione di una visione completamente nuova, coerente e dalle possibili
conseguenze lontane; ed è certamente vero che non possiamo sempre comprendere i concetti morali delle
altre persone». (46) Ciò ha un significato sia personale sia
storico. Da una parte se «sosteniamo che la moralità di un uomo non è solo
nelle sue scelte ma nella sua visione, allora questa potrebbe essere profonda,
ramificata, difficile da cambiare e non facilmente aperta all’argomentazione».
Inoltre, «l’idea che le differenze morali sono concettuali (nel senso di essere
differenze di visione) e che devono essere studiate come tali non è affatto una
tesi popolare perché rende impossibile la riduzione dell’etica alla logica,
dato che suggerisce che la moralità deve, fino a un certo punto almeno, essere
studiata storicamente. Ciò non implica naturalmente l’abbandono del metodo
linguistico ma implica piuttosto che venga preso sul serio». (47)
Diamond
riprende questa lezione. Affermare che la vita dei nostri interessi morali è
concettuale comporta un’attenzione alla varietà di distanze che si possono
porre tra le persone e le epoche, e apre quindi anche a una varietà di possibilità
di critica. Diamond si sofferma su questo tema nel suo saggio Perdere i propri concetti. Non è solo
che la propria vita morale trova espressione in concetti, ma che possiamo
vedere il bene insito nell’avere a disposizione un’articolazione concettuale della
propria vita morale, il bene dell’espressività, come scrive Diamond, dell’avere
le parole di cui si ha bisogno, anziché non averle affatto, o meglio averle in
una dimensione impoverita e limitata. Marx proponeva qualcosa come l’idea di
una privazione assoluta della possibilità di dare espressione alla propria
condizione di lavoratori sfruttati. Anche Simone Weil dava voce a un tema
simile nei suoi scritti sulla condizione delle classi lavoratrici. Diamond aggiunge
altri esempi in cui altri autori parlano di una privazione locale, temporanea,
di alcuni gruppi di persone, in certe epoche. Possiamo vedere il male insito in
questa privazione o in questo impoverimento dell’articolazione concettuale
delle proprie vite morali, e il bene connesso alla possibilità di descrivere
adeguatamente in modo ricco e articolato, la propria esistenza, le proprie
speranze, i propri ideali. Ma qui troviamo allora anche uno strumento di
critica di tali situazioni, e tale strumento critico può essere rivolto anche
contro i filosofi che parlano di queste situazioni. Se una descrizione
filosofica della vita morale non ci fa vedere questo bene e le modalità della
sua presenza non è una buona descrizione filosofica. C’è una varietà di
successi e insuccessi, un’intera dimensione del valore della vita che passa
attraverso il rapporto tra l’esperienza delle persone e il loro pensiero, le
loro parole. Ma Diamond suggerisce con Murdoch che la tradizione analitica e
empirista, che è la tradizione in cui si collocano, a loro modo, le due filosofe
(e qui Diamond ha presente alcuni momenti: Bentham e non Mill, Frege e non
Wittgenstein), ha in larga parte trascurato questa dimensione, cioè questo bene
concettuale, se vogliamo esprimerci così. In quella tradizione, scrive Diamond,
non c’è un problema con il tipo di parole che abbiamo a nostra disposizione. Ma
se vediamo che invece c’è un tale problema, un problema e una difficoltà a
esprimere la propria esperienza e differenze anche radicali nei modi in cui le
persone vedono e hanno visto se stesse, diversità di visione, come scrive
Murdoch, possiamo riconoscere anche il bene insito nell’avere le parole per
esprimere se stessi e la propria condizione.
Una
volta che riconosciamo questo tipo di bene, introduciamo un’intera dimensione
della descrizione morale e della critica. Possiamo fare dei paragoni, ad esempio.
Possiamo interrogarci su cosa significhi vivere con quel concetto e vivere
senza di esso. Sono confronti immaginativi tra epoche e tra persone. Vediamo
quindi che tipo di guadagni concettuali facciamo o che perdite subiamo passando
da una visione personale all’altra, da un’epoca all’altra. Non tutti i
confronti sono facili o è chiaro in che cosa possa proprio consistere un tale
confronto. Si apre qui un tema interessante che Diamond ha sviluppato anche in
aree non morali in altri suoi scritti. Proprio riconoscendo la natura
concettuale delle nostre descrizioni e delle attività in tutte le aree, la
possibilità di comprendere a sufficienza quello che pensano o fanno persone
lontane da noi nella storia e nella mentalità è sempre una questione aperta.
Dipende, tra l’altro, da quanto abbiamo in comune, da quante risorse
concettuali condividiamo (e cioè attività e atteggiamenti e percezioni) per
riuscire a spiegarci ciò che ci è invece alieno o lontano. (48) Ma se riusciamo a fare un confronto, con esso guadagniamo un
importante strumento di critica: con il quale intraprendere una battaglia per
un modo di vedere che è andato perduto e che vogliamo restaurare, o per apprezzare
il bene che abbiamo guadagnato perdendo quel modo di vedere, o ancora per
arricchire il nostro pensiero di un modello, di un termine di paragone che,
come scrive Wittgenstein, ha un’utilità immensa per comprendere ciò in cui
crediamo, per comprendere il fondamento delle nostre convinzioni. Possiamo
guadagnare una visione nuova e fresca delle nostre convinzioni se riusciamo a
vederle dal di fuori, attraverso altri occhi, altre dimensioni concettuali.
Wittgenstein scriveva ad esempio: «Chi crede che certi concetti siano
senz’altro quelli giusti e che colui che ne possedesse altri non si renderebbe
conto di quello di cui ci rendiamo conto noi, – potrebbe immaginare certi fatti
generalissimi della natura in modo diverso da quello in cui noi siamo soliti
immaginarli; e formazioni di concetti diverse da quelle abituali gli
diventerebbero comprensibili». (49)
Questi termini di paragone possono essere immaginativi o trarre il loro
contenuto dalla comprensione di visioni e dimensioni concettuali storicamente o
culturalmente lontane dalle nostre. Questa prospettiva ci mostra un modo
diverso rispetto al quale possiamo pensare di dare fondamento o di contestare
convinzioni e sistemi di credenze. Possiamo pensare che questi confronti,
questa ridescrizione attraverso termini di paragone sempre diversi e insoliti,
possa rafforzare o indebolire (fino ad arrivare a fare perdere loro consistenza
e presa nei nostri confronti) modi di vedere consolidati e acquisiti. È un’idea
di fondazione e di critica diversa da quella perseguita dalla filosofia quando
ha voluto cercare di mostrare, come scrive Wittgenstein, che «certi concetti
siano senz’altro quelli giusti». (50)
Diamond
non sembra tanto interessata a stabilire da quale partito dovrebbe essere vinto
l’argomento negli esempi che suggerisce, ma le interessa che venga visto il
bene della concettualità e che si possano fare riflessioni su questo bene. C’è
un esempio illuminante in proposito, ed è quello intorno alla relazione tra genitori
e figli. Da una parte vediamo il tipo di bene insito nell’idea che le relazioni
morali siano soggette alla nostra scelta, un’idea al centro di importanti
correnti della modernità liberale, si potrebbe dire. Dall’altra vediamo una
diversa dimensione concettuale, quella che vede i beni e i mali che sono
connessi con il fatto che le relazioni morali non sono sempre scelte, che la
responsabilità non è sempre assunta volontariamente. Questo è il caso della
relazione con i propri genitori, ad esempio. Diamond osserva come ci sono mali
come quello di tradire i propri genitori, che percepiamo come orrori morali,
che non troverebbero espressione nell’altro linguaggio, in quello della scelta.
In quel linguaggio avremmo l’idea che è molto grave tradire i propri genitori
ma non avremmo questa idea di un fatto terribile. Questa idea, questo tipo di
male, trova espressione solo nel linguaggio in cui la relazione dei figli verso
i genitori non è reciproca e paritaria, non è soggetta alla scelta e alla
libera assunzione di responsabilità ma è un altro tipo di legame. Ora Diamond
tiene soprattutto che il confronto tra i due linguaggi sia fatto riflettendo su
queste perdite e su questi guadagni morali concettuali.
La dimensione concettuale della scelta non consente quel male e quindi neanche
il bene della lealtà verso i propri genitori, che non è la stessa lealtà verso
un amico o un sodale. Nella riflessione critica su questi linguaggi perderemmo
qualcosa se non tenessimo presenti questi beni, se non portassimo la riflessione
su di essi. (51)
Come
ho accennato prima, la riflessione su queste dimensioni concettuali, e quindi
su particolari beni concettuali, non procede solo per soppesare beni da una
certa prospettiva ma serve anche a nutrire quella prospettiva con un termine di
paragone. Si apre qui la via che sembra quella privilegiata da Diamond. Nella
concezione che essa ha dei concetti, la comprensione ed eventualmente la
capacità di guadagnare per sé (o per la propria cultura: qualcosa che fanno i riformatori
morali) un certo bene concettuale non significa l’acquisizione di una
prospettiva chiusa ma, a suo modo, di un’intera dimensione critica.
L’acquisizione di un bene concettuale è solo l’inizio. Come Diamond scrive:
«Conoscendo la vita con quel termine, possiamo andare avanti, in modi in cui
forse nessun altro farebbe, aspettandoci che gli altri seguano ciò che abbiamo
detto» (p. 74). C’è una difficoltà a comprendere questo punto che è anche relativa
alla concezione che si ha del linguaggio. Scrive ancora:
[…]
pensiamo che imparare a usare un termine equivalga a imparare a seguire le
regole che ne governano l’uso; concepiamo il linguaggio in termini di regole
che fissano ciò che può e non può essere fatto. Ma la cosa più essenziale a
proposito dell’uso del linguaggio è che non
è fissato in questo modo. Imparare a usare un termine significa introdursi
nella vita con quel termine, le cui possibilità sono in larga misura ancora da
determinare (p. 74).
Questa
è anche una lezione che riguarda la filosofia di Wittgenstein. Wittgenstein è
stato letto spesso come se sostenesse questa idea del linguaggio come governato
da regole date, fissato in questo modo. Un contributo essenziale di Diamond è
stato anche quello di smantellare una tale idea della filosofia di Wittgenstein,
recuperando invece l’immagine dello spazio dei concetti come un luogo dove è
sempre possibile chiedere ragione e criticare le credenziali offerte, dove ciò
che possiamo fare con i nostri concetti non è già fissato in anticipo ma dipende da noi. (52) Non dobbiamo pensare, perciò, ai beni concettuali come a perimetri
valutativi chiusi ma come a nuovi spazi concettuali da cui proseguire e «le cui
possibilità sono in larga misura ancora da determinare». (53) Come Diamond ha scritto in The Realistic Spirit: «La comunicazione nelle questioni morali, come
la comunicazione in molti altri ambiti, include l’esplorazione di ciò che consentirà
gli interlocutori di raggiungersi reciprocamente: ciò non è ‘dato’
dall’esistenza di una ‘pratica’. Le nostre pratiche sono esplorative, ed è
effettivamente tramite queste esplorazioni che arriviamo a vedere pienamente
ciò che noi stessi pensavamo o volevamo dire». (54)
(1) C.
Diamond, The Realistic Spirit.
Wittgenstein, Philosophy, and the Mind, MIT Press,
(2) Si
vedano ad es. i seguenti volumi: A. Crary - R. Read (a cura di), The New Wittgenstein, Routledge, London
- New York 2000; T. McCarthy - S.C. Stidd (a cura di), Wittgenstein in America, Clarendon Press, Oxford 2001; E.H. Reck (a
cura di), From Frege to Wittgenstein.
Perspectives on Early Analytic Philosophy,
(3) Per un quadro si veda E. Lecaldano, Le analisi del linguaggio morale. “Buono” e
“dovere” nella filosofia inglese dal 1903 al 1965, Ateneo, Roma 1970.
(4) Di
Hare si vedano The Language of Morals,
Clarendon Press,
(5) Si veda il suo Moral Thinking. Its Levels, Method and Point,
(6) Si vedano ad es. Two
Dogmas of Empiricism, in
Id., From a Logical Point of View,
Harper and Row, New York 1951, cap. 2 (trad. it. Due dogmi dell'empirismo, in
(7) G.E.M.
Anscombe, Modern Moral Philosophy
(1958), in
(8) P.
Geach, Good and Evil, in “Analysis”,
17, 1956, pp. 33-42; B. Williams, Morality.
An Introduction to Ethics, Harper and Row,
(9) B. Williams, Moral Luck, Cambridge University Press, Cambridge 1981 (trad. it. Sorte
morale, Il Saggiatore, Milano
1987); Ethics and the Limits of Philosophy,
Fontana Press,
(10) P.
Foot, Moral Beliefs (1958-59), in
Id., Virtues and Vices and Other Essays
in Moral Philosophy (1978), 2a ed., Clarendon, Oxford 2002, pp.
110-131, alla p. 127. Sullo sviluppo delle idee di Foot si veda il
mio Non Basta l’umanità. Philippa
Foot sulla bontà naturale, in
“Iride”, 38, 2003, pp. 179-186.
(11) P.
Foot, Morality as a System of
Hypothetical Imperatives (1972), in Virtues
and Vices, cit., pp. 157-173, alla p. 165.
(12) Sul nuovo interesse per l’approccio
filosofico di Murdoch si vedano L.A. Blum, Moral
Perception and Particularity, Cambridge University Press, Cambridge
(13) I.
Murdoch, Vision and Choice in Morality
(1956), in
(14) I.
Murdoch, The Sovereignty of Good,
Routledge,
(15)
(16) I.
Murdoch, Metaphysics and Ethics
(1957), in
(17) Di J. McDowell si vedano i saggi etici in
Mind, Value, and Reality, Harvard
University Press, Cambridge, Mass., 1998.
(18) La contrapposizione tra Hare e questi
autori ricalca in realtà anche le famiglie di interpretazioni che hanno
dominato successivamente il panorama degli studi su Wittgenstein. L’importanza
che Hare attribuiva al linguaggio in quanto dominato da regole trova riscontro
nella vasta lettura in vari volumi della filosofia matura di Wittgenstein che
hanno offerto ad es. P.M.S. Hacker e G.P. Baker (per una chiara enunciazione di
questa idea si veda ad es. Wittgenstein.
Rules, Grammar and Necessity, Blackwell, Oxford 1985, cap. II; ma si
consideri il percorso autonomo che Baker ha intrapreso a un certo punto, con
alcuni momenti di vicinanza con la lettura di Diamond, di cui dà conto il
volume Wittgenstein’s Method: Neglected
Aspects, a cura di K.J. Morris, Blackwell, Malden, Mass., 2004). Al contrario, l’idea che Anscombe esponeva nel suo
saggio The Reality of the Past (1950,
ora in Metaphysics and the Philosophy of
Mind. Collected
Philosophical Papers II, University of Minnesota Press, Minneapolis
1981, pp. 103-119) di ciò che significa applicare i metodi di Wittgenstein
trova invece riscontro nel più recente gruppo di interpretazioni che si sono
sviluppate attorno e in sintonia con il lavoro di Diamond (tra cui, tra gli
altri, J. Conant, W. Goldfarb, M. Kremer, T. Ricketts).
(19) L. Wittgenstein, Philosophische
Untersuchungen. Philosophical Investigations (1953), 3a ed., a cura di G.E.M. Anscombe
- R. Rhees, Blackwell,
(20) Si
v. S. Cavell, Notes and Afterthoughts on
the Opening of Wittgenstein’s Investigations, in
(21) Per la lettura di Wittgenstein si vedano
i saggi raccolti in S. Cavell, Must We
Mean What We Say? (1969), Cambridge University Press, Cambridge 1976; per
interessanti connessioni con il pensiero di Diamond si veda The Claim of Reason. Wittgenstein,
Skepticism, Morality, and Tragedy, Oxford University Press, Oxford 1979,
parti 3 e 4 (trad. it. parziale La
riscoperta dell’ordinario. La filosofia, lo scetticismo, il tragico,
Carocci, Roma 2001; non include la parte 3).
(22) S.
Cavell, Notes and Afterthoughts on the
Opening of Wittgenstein’s Investigations, cit., p. 158.
(23) C.
Diamond, Rules: Looking in the Right
Place, in D.Z. Phillips - P. Winch (a cura di), Wittgenstein: Attention to Particulars. Essays in Honour of Rush Rhees
(1905-89), Macmillan,
(24) L.
Wittgenstein, Zettel, a cura di
G.E.M. Anscombe - G.H. von Wright, Blackwell,
(25) Su ciò si veda P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza,
Roma-Bari 1998, pp. 147-153.
(26) C.
Diamond, Anything but Argument?, in
(27) C. Diamond, Having
a Rough Story about What Moral Philosophy Is, in Id., The Realistic Spirit, cit., 367-381, alla p. 379.
(28) Per alcune precisazioni su queste
concezioni etiche si veda il mio La filosofia
morale, Laterza, Roma-Bari 2001. Si veda inoltre J. D’Arms - D. Jacobson, Sentiment and Value, in “Ethics”, 110, 2000, pp. 722-748.
(29) Si
vedano Non-Cognitivism and Rule-Following;
Virtue and Reason; Values and Secondary Qualities; Projection and Truth in Ethics, tutti
riediti nel suo Mind, Value, and Reality,
cit.
(30) L’espressione si trova in Non-Cognitivism and Rule-Following,
cit., p. 213 (trad. it. Il
non-cognitivismo e la questione del “seguire una regola”, in P. Donatelli -
E. Lecaldano (a cura di), Etica
analitica. Analisi, teorie, applicazioni, LED, Milano 1996, pp. 159-182).
(31) C.
Diamond, Anything but Argument?,
cit., p. 300.
(32) Si
vedano M. Nussbaum, Love’s Knowledge.
Essays on Philosophy and Literature,
(33)
Sulla varietà di metodi e di usi delle parole nella filosofia di Wittgenstein
si veda S. Cavell, The Availability of
Wittgenstein’s Later Philosophy, in Must
We Mean What We Say?, cit., pp. 44-72; The
Investigations’ Everyday Aesthetics of Itself, in Wittgenstein in America, cit., pp. 250-266. Si
vedano inoltre i vari saggi in J. Gibson - W. Huemer (a cura di), The Literary Wittgenstein, Routledge,
London 2004. Diamond è tornata sul significato della chiarificazione in
filosofia nel suo recente Criss-Cross
Philosophy, in E. Ammereller -E. Fischer (a cura di), Wittgenstein at Work: Method in the Philosophical Investigations,
Routledge, London 2004, pp. 201-220.
(34) Pubblicato in L. Toker (a cura di), Commitment in Reflection, Garland,
Hamden 1993, pp. 195-221.
(35) Si trova in Z. Herbert, Rapporto dalla città assediata, a cura
di P. Marchesani, Adelphi, Milano 1993, pp. 217-218.
(36) C.
Diamond, Truth: Defenders, Debunkers,
Despisers, cit., p. 210.
(37) E. Lecaldano sottolinea come Diamond
presenti la trasformazione emotiva come al contempo una forma di ragionamento
nel suo Le emozioni morali e
l’argomentazione in etica, in T. Magri (a cura di), Filosofia ed emozioni, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 135-
(38) Una mossa analoga si trova in Anything but Argument?, cit., nei
confronti delle posizioni kantiane di Onora O’Neill.
(39) Ma l’impressione che si ricava dalla
lettura di quei saggi andrebbe comunque messa assieme alla lettura di Mind and World, Harvard University
Press, Cambridge, Mass.
(40) Per maggiori precisazioni sul significato
di naturalismo qui si v. P. Donatelli, La
teoria morale analitica: un bilancio degli ultimi venticinque anni, in Etica analitica, cit., pp. 9-133. Il
lavoro di Anscombe è stato ripreso nella riflessione più recente di P. Foot, Rationality and Virtue e Does Moral Subjectivism Rest on a Mistake?,
in Id., Moral Dilemmas and Other Topics
in Moral Philosophy, Clarendon Press, Oxford 2002, pp. 159-174, 189-208; Natural Goodness, Clarendon Press,
Oxford 2001; nel lavoro di M. Thompson: si veda ad es. The
Representation of Life, in
R. Hursthouse - G.
(41) The
Realistic Spirit, cit., pp. 319-334, alla p. 324.
(42) Anscombe è una figura importante per
Diamond. Questo lavoro di rilettura e riappropriazione andrebbe verificato in
molte aree del pensiero di Diamond. Essa ha presentato di recente un quadro
della sua lettura della filosofia di Anscombe in Elizabeth Anscombe: Notes on Her Philosophy, ancora inedito.
(43) Op. cit., p. 38.
(44) Di Nussbaum si veda ad es. Non-Relative
Virtues: An Aristotelian Approach, in M. Nussbaum - A. Sen (a cura di), The Quality of Life, Clarendon Press, Oxford 1993, pp. 242-269. Per
una discussione di questo punto in Nussbaum rimando al mio Valore e possibilità di vita: Martha Nussbaum, in “Rivista di
filosofia”, 92, 2001, pp. 97-119.
(45) La lettura che sto offrendo di questa
linea del naturalismo è certamente controversa. Alcuni dei suoi sostenitori
vogliono difenderla precisamente dal mio tipo di ricostruzione. McDowell offre
gli strumenti per resistervi nel suo Two
Sorts of Naturalism, in Virtues and
Reasons, cit., pp. 149-
(46) I. Murdoch, Vision and Choice in Morality, cit., p. 82.
(47)
(48) Per una discussione di questi temi in
aree non morali si veda C. Diamond, How
Old Are the Bones? Putnam, Wittgenstein and Verification, in “Proceedings of the Aristotelian Society”,
Suppl., 73, 1999, pp. 99-134.
(49) Ricerche
filosofiche, cit., parte II, sezione XII.
(50) Questa linea filosofica di Diamond, il
suo modo di concepire la critica filosofica e morale, e quindi la sua lettura
di Wittgenstein, consente di mettere in luce possibili convergenze con altre
linee filosofiche che hanno insistito sulla critica più che sul modello della
fondazione trascendentale o su quello dell’accumulazione del sapere positivo.
Un interessante confronto può essere condotto con alcuni momenti della
riflessione di Michel Foucault. Si veda ad es. l’Introduzione a L’usage des Plaisirs, Gallimard, Paris
1984 (trad. it. L’uso dei piaceri,
Feltrinelli, Milano
(51) La riflessione di Diamond aiuta a
trattare una quantità di casi. Uno interessante è quello dell’incesto e la
conseguente difficoltà di spiegare l’orrore verso l’incesto in termini di
scelta autonoma e di razionalità sociale. Nel suo volume Sex
and Reason (Harvard University Press, Cambridge 2002, trad. it. Sesso e ragione,
Comunità, Milano 1995) Richard Posner ammette questo tipo di difficoltà ma
trova una facile risposta nel sentimento inveterato di disgusto (cioè un sentimento
irrazionale), che chiude la strada tuttavia a ogni possibilità di spiegazione
(cfr. trad. it. cit., pp. 198-202).
(52) Diamond critica l’idea che le possibilità
concettuali siano limitate dai nostri giochi linguistici in Unfolding Truth and Reading Wittgenstein,
in “SATS - Nordic Journal of Philosophy”, 4, 2003, pp. 24-58.
(53) Ho cercato di sviluppare il significato
di questo punto nel mio Concetti e critica
morale, in “Bioetica”, 8, 2000, pp. 262-283.
(54) C.
Diamond, The Realistic Spirit, cit.,
p. 27.