http://www.units.it/etica/2006_1/DICIOTTI.htm
Le
giustificazioni interpretative nella pratica dell’interpretazione giuridica
Dipartimento di scienze
storiche, giuridiche, politiche e sociali
Abstract
The question at issue in the present essay is whether there is a reason
to doubt the seemingly indubitable fact that the function of interpretive
justifications of judges and lawyers is to show that certain interpretive
judgments are correct. The conclusion is that there is a reason to doubt this
fact: the reason is that judges and lawyers do not seem to attribute this function
to their interpretive justifications, because their justifications do not have
the content which is needed to perform such a function. Four theses are
developed to support this conclusion. First, there are three meanings in which
interpretive judgments could be said correct: grounded on facts; grounded on
norms belonging to the legal system; grounded on moral norms. Second, an
examination of interpretive argumentation indicates that interpretive judgments
are to be conceived as moral judgments, whose correctness depends on moral
norms. Third, to claim that an interpretive judgment is correct, the
interpretive justification which is offered must have a premise that states a
methodological principle, i.e. a moral norm prescribing a hierarchy of
interpretive arguments to be used to attribute a meaning to legal texts.
Fourth, the premise that states a certain methodological principle is a missing
element in the interpretive justifications of judges and lawyers. |
La questione che affronto in
queste pagine è se sia possibile dubitare di un fatto che, da una certa
prospettiva, appare innegabile, cioè del fatto che le giustificazioni
interpretative avanzate da giudici e giuristi hanno lo scopo di mostrare che
determinati giudizi interpretativi sono giusti (nel senso di ‘non sbagliati’).
La mia conclusione è che di questo fatto è possibile dubitare, per la ragione
che i giudici e i giuristi non sembrano avanzare per questo scopo le
giustificazioni interpretative, in quanto tali giustificazioni non hanno il
contenuto che dovrebbero avere per perseguire questo scopo. Per approdare a
questa conclusione, in primo luogo distinguo tre sensi in cui i giudizi
interpretativi potrebbero essere ritenuti giusti: giusti nel senso di veri,
cioè corrispondenti a fatti; giusti nel senso di corretti, cioè fondati su
norme vigenti nell’ordinamento giuridico; giusti nel senso di validi, cioè
fondati su norme morali. In secondo luogo, sulla base di un esame
dell’interpretazione giuridica, sostengo che i giudizi interpretativi sono
giudizi morali, che possono essere detti giusti solo nel senso di validi. In
terzo luogo, individuo le premesse che dovrebbero essere presenti in una
giustificazione che intendesse mostrare la validità di un giudizio interpretativo:
una di queste si riferisce al principio metodologico da adottare, cioè alla
norma morale che indica gli argomenti dell’interpretazione utilizzabili e li
pone in una gerarchia. Infine, metto in luce come questa premessa sia assente
nelle giustificazioni interpretative effettivamente avanzate da giudici e
giuristi.
1. Giudizi interpretativi e giustificazioni interpretative
Giudici, giuristi e avvocati
si occupano di norme giuridiche, sostenendo che gli individui, dato il
contenuto di queste norme, hanno determinati obblighi e diritti, o devono
essere sottoposti a determinate sanzioni; i giudici, inoltre, applicano norme
giuridiche quando prendono decisioni su casi concreti. Le norme giuridiche sono
prescrizioni generali in gran parte contenute, almeno negli ordinamenti moderni
(nei quali il diritto consuetudinario occupa uno spazio molto limitato), in
documenti normativi prodotti da organi autorizzati. Quali siano i documenti
contenenti le norme giuridiche valide, cioè, approssimativamente, quelle che i
giudici sono tenuti ad applicare, non è in genere una questione controversa: in
ogni ordinamento giuridico vi è cioè un certo pacifico accordo sulle fonti del
diritto. (1) Quali siano le norme giuridiche valide,
cioè quale contenuto abbiano esattamente le prescrizioni che i giudici sono
tenuti ad applicare, è invece una questione spesso controversa: accade
frequentemente, infatti, che giudici, giuristi e avvocati si trovino in
disaccordo sull’esatto contenuto dei documenti normativi prodotti da organi
autorizzati. Questi disaccordi consistono in controversie interpretative.
Il termine ‘interpretazione
giuridica’ è usato in vari significati, (2) ma
ai nostri fini stipulo che designi l’insieme delle attività intellettuali
compiute per individuare le norme contenute nei documenti prodotti da organi
autorizzati, cioè espresse dai testi di legge. (3)
In base a questa stipulazione, ‘interpretazione giuridica’ si riferisce sia
all’attività interpretativa in senso stretto, cioè all’attività svolta dai
giuristi per attribuire un significato a uno o più enunciati legislativi, sia
all’attività integrativa dei giuristi, cioè all’attività svolta da essi per
colmare le lacune, o più in generale per individuare norme che non sono
espresse da alcun enunciato legislativo, ma che, in qualche modo, possono
essere ritenute implicite nei testi di legge. (4)
Giudici, giuristi e avvocati,
affermando che un testo di legge contiene determinate norme (provviste di un
determinato contenuto), esprimono un giudizio interpretativo. Chi esprime un
giudizio interpretativo, così come chi esprime un giudizio di qualsiasi altro
genere, pretende che ciò che dice sia, in qualche senso, giusto (intendendo ‘giusto’ come contrario di ‘sbagliato’) e che vi
siano ragioni per mostrare che è giusto.
(5) Queste pretese non devono essere concepite
come necessariamente corrispondenti a effettive credenze di coloro che
esprimono giudizi interpretativi; esse dipendono infatti da regole relative
agli atti linguistici e sono necessariamente implicate dall’atto linguistico
compiuto nell’esprimere un giudizio interpretativo (e, più in generale, ogni altro
giudizio). (6)
Adducendo ragioni a sostegno
di giudizi interpretativi, gli interpreti avanzano giustificazioni
interpretative. (7) Le giustificazioni
interpretative vertono su questioni in qualche misura dubbie o controverse,
poiché non è sensato giustificare ciò che agli occhi di tutti appare pacifico;
(8) in questo campo, tuttavia, le questioni
dubbie o controverse sono tanto frequenti da verificarsi raramente il caso in
cui un’affermazione sul contenuto di una o più norme di legge non appaia
bisognosa di alcuna giustificazione.
In ogni cultura giuridica vi è
un certo accordo sulle ragioni appropriate per sostenere giudizi
interpretativi. Queste ragioni, dette argomenti
dell’interpretazione, possono essere variamente distinte e classificate
ricorrendo a criteri diversi e sono talvolta elencate, in liste parzialmente
diverse l’una dall’altra, nei testi di teoria dell’interpretazione.(9) Ai nostri fini sarà sufficiente
presentarne alcune, distinguendole in cinque gruppi:
1) Argomento del significato letterale, che l’interprete utilizza
quando, per attribuire un determinato significato a un termine, richiama il
significato in cui questo è usato nel linguaggio comune o in un linguaggio
tecnico di cui fa parte. (10)
2) Argomenti psicologici, o della
volontà del legislatore storico, che l’interprete utilizza quando, per
attribuire un determinato significato a un testo di legge, richiama la volontà
di colui o coloro che hanno prodotto il testo.(11) Si può assumere che appartengano a questo gruppo l’argomento dell’intenzione del legislatore,
con il quale è richiamato il senso in cui il legislatore ha usato una o più
parole contenute in un testo di legge, e l’argomento
degli scopi del legislatore, con il quale sono richiamati gli scopi che il
legislatore intendeva conseguire con l’emanazione delle norme espresse da un
testo di legge. Secondo le convenzioni seguite dagli interpreti, intenzioni e
scopi del legislatore sono principalmente testimoniati dai cosiddetti lavori
preparatori (cioè, ad esempio, gli atti parlamentari).
3) Argomenti sistematici, che l’interprete utilizza quando, per
attribuire un determinato significato a uno o più enunciati legislativi,
richiama il contenuto di altri enunciati legislativi o testi di legge.(12) Appartengono a questo gruppo: l’argomento della costanza terminologica,
utilizzato per attribuire a un termine contenuto in un enunciato legislativo il
significato che lo stesso termine esprime in un altro o in altri enunciati
legislativi; l’argomento della coerenza
del dettato legislativo, utilizzato per attribuire a due enunciati
legislativi, che a prima vista sembrino esprimere norme contrastanti,
significati in cui esprimono norme non contrastanti; l’argomento della conformità delle norme ai principi costituzionali,
utilizzato per attribuire a un enunciato della legge ordinaria, che a prima
vista sembri esprimere una norma contrastante con un principio della
costituzione, un significato in cui esprime una norma non contrastante con
quello; l’argomento della conformità
delle norme ai principi del diritto, utilizzato per attribuire a un
enunciato legislativo un significato in cui esprime una norma non contrastante
con un principio del diritto, intendendo con ‘principio del diritto’ una norma,
espressa da un testo di legge o implicita in esso, provvista di un particolare
grado di generalità o di una particolare rilevanza in termini di valore; l’argomento economico, utilizzato per
attribuire a due enunciati legislativi, che a prima vista sembrino esprimere la
stessa norma, significati in cui esprimono norme diverse.
4) L’argomento teleologico, che l’interprete utilizza quando, per
attribuire un significato a uno o più enunciati legislativi, richiama lo scopo
per cui ragionevolmente deve essere applicata la norma espressa da tali
enunciati. (13)
5) Gli argomenti integrativi, che l’interprete utilizza quando richiama
ragioni in base alle quali si può ritenere che i testi di legge contengano
implicitamente una norma che, in effetti, non è espressa da alcun enunciato
legislativo o insieme di enunciati legislativi. Argomenti di questo genere sono
utilizzati per individuare principi inespressi del diritto, applicabili a casi
concreti e/o utilizzabili per attribuire significati a enunciati legislativi
(nell’ambito dell’interpretazione condotta con argomenti sistematici), oppure
per individuare norme da applicare a casi concreti, quando vi sia una lacuna,
cioè quando si presenti un caso non disciplinato da norme espresse da enunciati
legislativi. Se ci limitiamo a trattare degli argomenti integrativi utilizzati
per colmare lacune, possiamo distinguere: l’argomento
a contrario, utilizzato per attribuire a un caso non espressamente disciplinato
una disciplina contraria a quella espressamente prevista per casi più o meno
simili a quello (tipicamente, per sostenere che è permesso un comportamento non
espressamente vietato); l’argomento
analogico, utilizzato per attribuire a un caso non espressamente
disciplinato la stessa disciplina che è espressamente prevista per casi simili
a quello. (14)
Un aspetto importante degli
argomenti dell’interpretazione è che molto spesso, o forse addirittura in ogni
circostanza, argomenti dell’interpretazione differenti possono essere addotti
per giustificare giudizi interpretativi contrastanti. Ciò è evidente per gli
argomenti integrativi, poiché l’argomento a
contrario e l’argomento analogico possono sempre essere utilizzati per giustificare giudizi interpretativi
contrastanti, ma è abbastanza chiaro anche per gli altri argomenti
dell’interpretazione: può infatti accadere che il significato letterale di un
termine sia parzialmente diverso dal significato in cui questo è stato usato
dal legislatore; che il significato in cui il legislatore ha espresso un
enunciato sia diverso dal significato che questo assume ove sia inteso in
conformità ai principi costituzionali; ecc. A ciò si può aggiungere che vi sono
argomenti dell’interpretazione che possono essere usati in modo tale da fornire
una giustificazione di giudizi interpretativi contrastanti: uno di questi è ad
esempio l’argomento teleologico, poiché la questione di quali siano gli scopi
ragionevoli di una norma può spesso essere risolta in modi diversi da
interpreti diversi. (15)
2. Due questioni: lo scopo delle giustificazioni interpretative e il senso
dei giudizi interpretativi
Almeno da un certo punto di
vista, la questione del senso o dello scopo delle giustificazioni
interpretative appare provvista di un’ovvia soluzione. Una giustificazione
interpretativa può essere avanzata da un interprete per conseguire gli scopi
più diversi (prendere una buona decisione riguardo a un caso concreto, mettere
in luce la propria abilità, vincere una causa, ecc.), ma vi è uno scopo che
essa inevitabilmente presenta: quello determinato dalla pretesa di giustezza
che accompagna il proferimento dei giudizi interpretativi, cioè quello di
mostrare che un giudizio interpretativo è giusto (nel senso di non sbagliato).
(16) Infatti, non è chiaro come si potrebbe sostenere
qualcosa di diverso, e ciò per quanto concerne sia le giustificazioni
interpretative sia ogni altra giustificazione. Se prendiamo una qualsiasi
giustificazione che faccia discendere un giudizio G da un insieme di ragioni A,
B e C, non sembra che vi siano circostanze in cui l’autore della
giustificazione potrebbe sensatamente affermare: «Credo che A, B
e C, e credo che A, B e C implichi G, ma non intendo mostrare che G
è giusto per le ragioni A, B e C»:
(17) ciò per il fatto che credere qualcosa
significa ritenere che qualcosa sia giusto (vero o valido), e non è chiaro in
che senso qualcuno potrebbe esprimere le ragioni per cui qualcosa è, a suo
parere, giusto, senza voler mostrare che è giusto. E, se non vi sono circostanze
in cui questa affermazione appare sensata, allora non vi sono circostanze in
cui il proferimento di una giustificazione non si accompagna allo scopo di
mostrare che un certo giudizio è giusto.
L’idea secondo cui le
giustificazioni interpretative hanno lo scopo di mostrare che un determinato
giudizio interpretativo è giusto non implica evidentemente che ogni interprete
si ponga effettivamente tale scopo nell’avanzare giustificazioni
interpretative, né che tale scopo sia effettivamente conseguito da qualche
giustificazione interpretativa. Questa idea, pertanto, non può essere respinta
adducendo il fatto che alcuni interpreti non si pongono di fatto tale scopo
nell’avanzare giustificazioni interpretative, o il fatto che tale scopo non è
effettivamente conseguito dalle giustificazioni interpretative avanzate.
Ma non vi è nessun fatto che
possa indurre a respingere quest’idea?
Bisogna qui notare che una
completa disattenzione sul comportamento effettivo degli individui può produrre
fraintendimenti del senso o della funzione dei loro atti linguistici. Prendiamo
un’interrogazione che frequentemente gli individui si scambiano quando si
incontrano, spesso nel darsi la mano: «Come stai?». Un’interrogazione ha lo
scopo di indurre l’individuo cui è rivolta a fornire informazioni di un certo
genere; eppure sarebbe sbagliato asserire che questo è lo scopo o la funzione
della domanda «Come stai?». Di fatto, coloro che si scambiano questa domanda, o
altre analoghe, mostrano di non intenderla in questo modo; solitamente (anche
se vi sono significative eccezioni) non rispondono alla domanda informando
l’interlocutore di tutti i piccoli malesseri di cui hanno sofferto ultimamente;
in altri termini, in un certo senso mostrano di non prendere la domanda sul
serio. D’altra parte, la spiegazione del loro comportamento è semplice: la
domanda che pongono dipende da specifiche convenzioni da essi condivise, che
indicano i doveri della buona educazione e della cortesia. Il senso di «Come
stai?» deve cioè essere inteso nell’ambito della pratica sociale della
cortesia; il suo scopo o funzione è determinato dalle convenzioni di questa
pratica e non dalle convenzioni linguistiche relative all’atto
dell’interrogazione.
Ebbene, l’idea secondo cui le
giustificazioni interpretative sono discorsi aventi lo scopo di mostrare che
determinati giudizi interpretativi sono giusti non apparirebbe quanto meno
problematica qualora si accertasse che il comportamento effettivo degli
interpreti non è coerente con essa, cioè che gli interpreti mostrano di non
prendere sul serio le pretese che sembrano accompagnarsi al proferimento delle
giustificazioni interpretative? Se si accertasse questo, non vi sarebbe una
ragione per asserire che in effetti gli interpreti non intendono le
giustificazioni interpretative come discorsi aventi lo scopo di mostrare che
determinati giudizi interpretativi sono giusti, ossia una ragione per ritenere
che la pratica giuridica di giustificare i giudizi interpretativi dipenda da
regole o convenzioni condivise in base alle quali queste giustificazioni hanno
altri scopi o funzioni? (18)
Non pretendo di dare qui una
risposta soddisfacente a queste domande. Mi propongo però di sollevare qualche
dubbio sull’idea che le giustificazioni interpretative abbiano lo scopo di
mostrare che determinati giudizi interpretativi sono giusti, mettendo in luce
che il comportamento degli interpreti non è coerente con quest’idea. Mi
propongo infatti di mettere in luce il fatto che le giustificazioni
interpretative non presentano i caratteri che dovrebbero presentare se davvero
gli interpreti intendessero tali giustificazioni, le proprie e le altrui, come
discorsi aventi lo scopo di mostrare che determinati giudizi interpretativi
sono giusti.
Quali siano le caratteristiche
che le giustificazioni interpretative dovrebbero presentare se, quali prodotti
di una pratica sociale, avessero tale scopo, è una questione che diverrà più
chiara in seguito. Per adesso, però, si deve osservare che agire in vista di
tale scopo significa svolgere un’attività sociale, nella quale deve essere
rivolta attenzione alle ragioni, ai dubbi e alle obiezioni avanzati da coloro
cui la giustificazione è indirizzata; non sarebbe infatti sensato affermare:
«Intendo mostrarvi che il giudizio G
è giusto, ma non intendo in alcun modo rispondere ai vostri dubbi e alle vostre
obiezioni riguardo alla questione se G
sia giusto». Ciò rende l’attività di giustificare un’attività tendenzialmente
cooperativa, tramite la quale i parlanti partecipano a una più ampia
discussione svolta allo scopo di individuare concordemente i giudizi giusti che
forniscono una soluzione di questioni di interesse comune.
Dunque, se gli interpreti
partecipassero alla pratica giuridica di giustificare giudizi interpretativi
allo scopo di mostrare la giustezza di questi, le loro giustificazioni
dovrebbero poter essere concepite come i discorsi di singoli partecipanti a una
discussione comune condotta al fine di individuare concordemente i giudizi
interpretativi giusti. Cioè dovrebbero poter essere concepite nello stesso modo
in cui sono concepibili i discorsi degli scienziati della natura, i quali
discorsi, pur avendo sovente lo scopo di sostenere e giustificare ipotesi
contrapposte, possono essere visti come elementi di una discussione condotta
per il conseguimento di uno scopo condiviso: individuare le ipotesi
scientifiche meglio fondate o vere. (19) E
per poter concepire una pluralità di giustificazioni interpretative come
elementi di una discussione condotta tra più soggetti al fine di individuare il
giudizio interpretativo giusto, ossia l’“effettivo” contenuto di un testo di
legge, è necessario che tali giustificazioni tengano conto, in qualche modo,
l’una dell’altra: ad esempio che la giustificazione avanzata a sostegno del
giudizio interpretativo G1 tenga
conto della giustificazione precedentemente avanzata a sostegno del giudizio
interpretativo G2, contrastante con G1, cioè che le ragioni addotte a
sostegno di G2 siano prese in
considerazione dalla giustificazione avanzata a sostegno di G1.
Per affrontare la questione se
le giustificazioni interpretative, dato il modo in cui solitamente si
presentano, possano essere concepite come discorsi aventi lo scopo di mostrare
la giustezza di un giudizio interpretativo, bisogna anzitutto chiarire in che
cosa consista la giustezza di un
giudizio interpretativo, cioè che cosa significhi l’affermazione che un
giudizio interpretativo è giusto, o quali requisiti siano richiesti a un
giudizio interpretativo per essere detto giusto. (20) Domandarsi in che cosa consista la giustezza di un giudizio
interpretativo equivale a domandarsi quali siano i caratteri delle questioni interpretative, cioè delle
questioni del contenuto dei testi di legge.
Le questioni interpretative
possono essere concepite essenzialmente in due modi: o come questioni teoriche, cioè questioni
relative al modo in cui stanno le cose, o come questioni pratiche, cioè questioni relative al modo in cui le cose
devono stare o sarebbe bene che stessero, ovvero al comportamento che uno o più
individui devono tenere o sarebbe bene che tenessero. (21) Concepirle come questioni teoriche
significa ritenere che, di fatto, i testi di legge contengano determinate norme
e che questo contenuto possa essere oggetto di conoscenza. Concepirle come
questioni pratiche significa ritenere che gli interpreti non possano determinare
il contenuto dei testi di legge se non applicando norme o tenendo conto di
valori di un certo genere. Concepirle come questioni pratiche non comporta però
necessariamente ritenere che gli interpreti creino,
in qualche misura, norme giuridiche;
infatti, le norme o i valori che gli interpreti devono applicare o di cui
devono tener conto possono essere concepiti in due modi: o come, in qualche
senso, interni al diritto, oppure
come esterni al diritto, cioè – e lo
vedremo meglio in seguito – come norme o valori morali.
Dunque, vi sono
fondamentalmente tre sensi in cui i giudizi interpretativi potrebbero essere
detti, a seconda dei casi, giusti o sbagliati. Dire giusto un giudizio
interpretativo equivale a dirlo: in un primo senso, vero, in quanto corrispondente a fatti o comunque fondato su fatti;
in un secondo senso, corretto, in
quanto fondato su regole o convenzioni accettate e, dunque, vigenti nella
comunità giuridica; in un terzo senso, valido,
in quanto fondato su “fatti morali”, su norme o valori morali “oggettivamente”
esistenti, cioè esistenti a prescindere dalla loro accettazione in una qualche
comunità, o comunque su norme e valori che ogni individuo razionale dovrebbe
accettare o accetterebbe in determinate condizioni ideali.
Varie sono le concezioni
dell’attività interpretativa che possono legarsi a queste concezioni della
giustezza dei giudizi interpretativi. Tuttavia, qui sarà sufficiente ribadire
che la prima e la seconda concezione della giustezza dei giudizi interpretativi
si legano a concezioni dell’attività interpretativa secondo cui questa consiste
in un’attività di individuazione di norme giuridiche, per così dire, già date.
La terza concezione della giustezza dei giudizi interpretativi, invece, si lega
a una concezione dell’attività interpretativa come attività, almeno in qualche
misura, creativa di norme giuridiche.
3. L’interpretazione giuridica come conoscenza della volontà del
legislatore
L’idea che l’attività
interpretativa consista esclusivamente in un’attività di conoscenza di norme
giuridiche ha avuto in passato una notevole diffusione e in certi periodi è
stata dominante nella cultura giuridica occidentale. Sebbene essa possa essere
proposta in più di una versione, (22)
qui intendo accennare unicamente alla versione che ha riscosso maggiore
fortuna: quella secondo cui l’attività interpretativa consiste in un’attività
di conoscenza della volontà del legislatore. (23) Questa concezione può essere chiarita distinguendone i
seguenti assunti: il solo organo che può produrre norme giuridiche è il legislatore
(l’organo della legislazione); le norme giuridiche dipendono dunque dalla volontà
del legislatore; il legislatore esprime la propria volontà nei testi di legge;
dunque, l’interpretazione della legge non può che consistere in un’attività di
conoscenza della volontà del legislatore.
Questa concezione non può
evidentemente escludere che un singolo interprete avanzi il giudizio
interpretativo che gli sembri soddisfare meglio i propri interessi o il proprio
senso di giustizia, piuttosto che quello che ritenga conforme alla volontà del
legislatore. Ciò che, almeno a prima vista, sembra sensatamente in grado di
sostenere è che, quali che siano le motivazioni e le intenzioni di singoli
interpreti, avanzare un giudizio interpretativo significhi pretendere che questo
giudizio sia giusto (cioè, non sbagliato) e che tale giustezza possa essere
intesa unicamente come corrispondenza del giudizio alla volontà del
legislatore.
Secondo questa concezione, le
questioni interpretative sono questioni teoriche, cioè questioni relative a
fatti. I giudizi interpretativi, che forniscono una risposta a tali questioni,
sono veri o falsi e, dunque, tipicamente provvisti della seguente formulazione:
«Il testo di legge T (un enunciato
legislativo o una pluralità di enunciati legislativi) ha il contenuto N (una
norma espressa da uno o più enunciati legislativi o implicita nel testo)»,
tenendo presente che tale formulazione ha il seguente senso: «Il legislatore ha
espresso, tramite il testo T, la propria
volontà di produrre la norma N».
Infine, le giustificazioni interpretative sono giustificazioni teoriche, che indicano le ragioni per cui si
possono ritenere veri determinati giudizi interpretativi, ossia le ragioni per
cui si può ritenere che davvero i fatti stiano nei modi in cui tali giudizi li
rappresentano.
Una concezione di questo
genere può ammettere che più o meno spesso sia difficile sapere quale norma il
legislatore intendesse precisamente produrre, essendo gli indizi della sua
volontà molteplici e contrastanti, oppure scarsi ed evanescenti. Quando ciò
accada, gli interpreti saranno costretti ad affidarsi a congetture provviste
talvolta di un fondamento assai debole e sarà possibile che sorgano
controversie interpretative. Infatti, pur in mancanza di indizi affidabili, gli
interpreti dovranno in qualche modo risolvere la questione interpretativa, adottando
uno dei giudizi interpretativi possibili, e potrà facilmente accadere che finiscano
con l’adottare giudizi interpretativi contrastanti, tra i quali non sarà
possibile distinguere con certezza il vero dai falsi.
Vari sono i modi in cui questa
concezione può essere respinta. Anzitutto, può essere respinta la teoria del
diritto su cui si basa, e più precisamente l’idea che le norme di legge
consistano nel contenuto della volontà del legislatore. (24) Inoltre, può essere messa in dubbio
l’ontologia che essa presuppone, cioè l’idea che vi sia, quale fatto del mondo
reale, una volontà del legislatore che sempre consenta di precisare il
contenuto delle norme giuridiche. A questo proposito mi limito a ricordare le
note obiezioni che mettono in evidenza come il cosiddetto legislatore sia in
effetti costituito, almeno negli ordinamenti giuridici moderni, da un insieme
di individui che fanno parte di forze politiche diverse; come alcune di queste
forze politiche, pur componendo il corpo legislativo, di fatto manifestino
frequentemente una volontà contrastante con quella della legge, opponendosi
all’approvazione di essa; come le forze politiche che approvano una legge, la approvino
spesso con intendimenti e per scopi differenti; come accada che la maggior
parte degli individui che votano a favore di una legge faccia ciò solo per disciplina
di partito e avendo solo un’idea piuttosto vaga del contenuto della legge; come
sia possibile che si presentino agli interpreti casi che non siano stati
immaginati da nessuno di coloro che parteciparono all’approvazione di una legge
e riguardo ai quali, dunque, è impossibile che qualche membro del corpo legislativo
avesse una qualsivoglia volontà. (25)
Qui, però, tralascerò queste
obiezioni, per affrontare una questione in parte diversa: le giustificazioni
interpretative, dato il loro effettivo contenuto, possono essere concepite come
giustificazioni teoriche aventi lo scopo di mostrare che il legislatore ha
manifestato, tramite un determinato testo di legge, una determinata volontà? E,
più in generale, l’interpretazione giuridica, dato il modo in cui
effettivamente si svolge, può essere concepita come un’attività di conoscenza
della volontà del legislatore?
Ebbene, la risposta a queste
domande è ragionevolmente negativa.
Anzitutto, si può osservare
che molti degli argomenti dell’interpretazione che prima ho elencato, e che
vengono comunemente utilizzati dagli interpreti, non fanno riferimento alla
volontà del legislatore, cioè dell’autore effettivo del testo oggetto di
interpretazione. È vero che alcuni di questi argomenti potrebbero anche essere
intesi come argomenti che, in qualche modo, fanno riferimento a indizi della
volontà del legislatore: può essere inteso così l’argomento del significato
letterale, ove si supponga che il legislatore solitamente usi le parole
contenute nei testi di legge nel significato in cui queste sono comunemente
usate dagli altri parlanti; può essere inteso così l’argomento della costanza
terminologica, ove si supponga che il legislatore usi una stessa parola sempre
nello stesso significato; ecc. Però, anche se questo è vero, si deve rilevare
che non tutti gli argomenti dell’interpretazione possono essere concepiti in
questo modo, e anche alcuni di quelli che possono essere concepiti così,
possono esserlo solo in alcuni dei loro possibili usi. Per limitarmi a un
esempio, non può essere concepito così l’argomento della conformità delle norme
ai principi costituzionali, quando sia usato per attribuire un significato a
testi di legge prodotti precedentemente all’entrata in vigore della
costituzione. Infatti, a meno di credere che il legislatore fosse provvisto di
doti di preveggenza, non si può ritenere che egli avesse voluto produrre norme
conformi al contenuto di una costituzione non ancora venuta ad esistenza.
Inoltre, si deve notare quanto
segue: se l’interpretazione giuridica consistesse in un’attività di conoscenza
della volontà del legislatore, dovrebbe accadere che, almeno nella maggior
parte dei casi, gli interpreti assegnassero la maggiore rilevanza agli
argomenti che indicano gli indizi più certi di questa volontà, cioè le
dichiarazioni e i discorsi contenuti nei lavori preparatori. Ma ciò non accade.
Almeno finché si guardi al modo in cui effettivamente procede la pratica interpretativa,
il contenuto del lavori preparatori non può essere considerato decisivo per
l’attribuzione di un determinato contenuto ai testi di legge, perché gli interpreti
fanno spesso prevalere su di esso altre considerazioni, cioè altri argomenti
dell’interpretazione, che apparentemente non hanno nulla a che fare con la
volontà del legislatore, o che nel migliore dei casi possono essere concepite
come indicazioni di indizi piuttosto deboli di questa volontà. (26)
Da ciò segue che la pratica
dell’interpretazione giuridica non può ragionevolmente essere concepita come un
insieme di attività accomunate dallo scopo della conoscenza della volontà del
legislatore. Pertanto, le giustificazioni interpretative non possono essere
ragionevolmente concepite come giustificazioni teoriche aventi lo scopo di
mostrare che il legislatore ha manifestato, tramite un determinato testo di
legge, una determinata volontà.
4. L’interpretazione giuridica come conoscenza della volontà del
legislatore ideale
L’idea che l’interpretazione
giuridica consista in un’attività di conoscenza della volontà del legislatore
potrebbe però essere proposta in una diversa versione, assumendo che la volontà
cui fanno riferimento gli interpreti non sia quella del legislatore che
effettivamente ha prodotto il testo di legge interpretato, cioè quella degli
autori reali di questo testo, ma sia quella di un ipotetico legislatore razionale,
(almeno entro certi limiti) giusto e (apparentemente) onnisciente, cioè di un
legislatore ideale, (27)
di un autore fittizio dei testi di legge provvisto di un insieme di proprietà
che non appartiene a nessun individuo effettivamente esistente. (28)
Questa concezione non trova un
ostacolo nell’eterogeneità degli argomenti dell’interpretazione, poiché ognuno
di questi può in qualche modo essere considerato relativo a indizi della
volontà di un legislatore ideale. (29)
Per fare qualche esempio, l’argomento del significato letterale può essere
considerato relativo a indizi della volontà del legislatore ideale, perché si
può assumere che il legislatore ideale intenda esprimersi in un linguaggio
condiviso; nello stesso modo può essere concepito l’argomento della conformità
delle norme ai principi costituzionali, perché si può assumere che il
legislatore ideale intenda produrre norme conformi ai principi della
costituzione; nello stesso modo può essere concepito l’argomento teleologico,
perché si può assumere che il legislatore ideale intenda produrre norme
adeguate per il conseguimento di scopi ragionevoli o giusti; ecc.
Anche questa concezione, però,
non sembra accettabile. Infatti, è qui necessario scegliere una delle seguenti
tesi: o gli interpreti condividono una stessa idea del legislatore ideale,
oppure non la condividono. La prima tesi consente di sostenere che
l’interpretazione giuridica consista unicamente nella conoscenza della volontà
di qualcuno, ma ragionevolmente deve essere respinta; la seconda tesi, che
invece pare corretta, non consente di sostenere che l’interpretazione giuridica
consista unicamente nella conoscenza della volontà di qualcuno. Vediamo di
chiarire questo punto.
Se gli interpreti convengono
su una determinata figura (fittizia) di autore dei testi di legge, allora essi,
avanzando argomenti dell’interpretazione diversi a sostegno di giudizi
interpretativi contrastanti, adducono semplicemente indizi diversi della
volontà di questo autore di dire determinate cose tramite gli enunciati che
compongono i testi di legge. Essi, cioè, dissentono unicamente sulla risposta
da dare a questa domanda: se l’autore dei testi di legge fosse un soggetto
provvisto dei caratteri A, B e C,
che cosa avrebbe inteso dire tramite questi testi?
Ebbene, l’idea che gli
interpreti dissentano solo sulla risposta da dare a questa domanda sembra
tutt’altro che ragionevole. In primo luogo, pare improbabile che gli interpreti
concordino tacitamente su una stessa figura di autore fittizio dei testi di
legge (in che modo può essersi formato un accordo di questo genere? e perché
non è mai stato reso palese? e perché nessun interprete non ha mai esposto il
contenuto dell’accordo, cioè espressamente indicato i caratteri di questa
figura di autore fittizio?). In secondo luogo, le controversie interpretative,
per il modo in cui effettivamente si presentano, sembrano smentire che questo
accordo vi sia. Si deve infatti osservare – come già abbiamo fatto poc’anzi –
che i diversi argomenti dell’interpretazione, se concepiti come relativi a
indizi della volontà di un autore fittizio, presuppongono caratteri diversi di
tale autore: ad esempio, l’argomento del significato letterale presuppone che
il legislatore ideale si esprima in un determinato linguaggio, mentre
l’argomento teleologico presuppone che il legislatore ideale emani, tramite i
testi di legge, norme adeguate per il conseguimento di scopi ragionevoli o
giusti. Ebbene, se l’uso di argomenti diversi si accompagna alla presunzione
che l’autore dei testi di legge abbia caratteri differenti, allora si deve
concludere che gli interpreti, quando ricorrono ad argomenti diversi per
giustificare giudizi interpretativi contrastanti, presuppongano figure
differenti del legislatore ideale: ad esempio, da una parte la figura di un
legislatore ideale che sempre si esprime in un linguaggio condiviso dagli altri
parlanti; dall’altra parte la figura di un legislatore ideale che talvolta utilizza
le parole in un significato peculiare, diverso da quello in cui sono comunemente
usate dagli altri parlanti, ma che sempre produce norme adeguate per il
conseguimento di scopi ragionevoli o giusti.
Dunque, non sembra sostenibile
che tutti gli interpreti svolgano la loro attività per rispondere a una stessa
domanda così formulata: «Se l’autore dei testi di legge fosse un soggetto
provvisto dei caratteri A, B e C,
che cosa avrebbe inteso dire tramite questi testi?» Ove si voglia raffigurare
l’interpretazione come un’indagine sulla volontà di un autore fittizio, bisogna
assumere non vi sia un accordo sui caratteri di quest’autore e che l’indagine
di interpreti diversi abbia ad oggetto la volontà di autori fittizi differenti.
Ma, se si ammette che
l’indagine di interpreti diversi abbia ad oggetto la volontà di autori fittizi
differenti, diviene insostenibile la concezione secondo cui l’interpretazione
giuridica consiste unicamente nella conoscenza della volontà di qualcuno.
Infatti, se gli interpreti si
occupassero unicamente della volontà di autori fittizi provvisti di caratteri
differenti, l’interpretazione giuridica non potrebbe essere considerata come
una pratica comune degli interpreti. Essi condurrebbero imprese conoscitive diverse,
non avrebbero nulla da obiettare l’uno all’altro e l’idea stessa che l’uso di
argomenti dell’interpretazione differenti possa dar luogo a controversie
interpretative dovrebbe essere abbandonata: vi sarebbero controversie di questo
genere solo quando gli interpreti, utilizzando gli stessi argomenti
dell’interpretazione, presupponessero una stessa figura di autore fittizio dei
testi di legge. Quando ciò non accadesse gli interpreti, pur attribuendo contenuti
diversi a uno stesso testo di legge, avanzerebbero giudizi interpretativi non
contrastanti, perché (eventualmente) veri in quanto corrispondenti a fatti
diversi e congiuntamente possibili: ad esempio, da una parte il fatto che un
legislatore ideale provvisto dei caratteri A,
B, C e D avrebbe inteso esprimere,
tramite il testo di legge T, la norma
N1; dall’altra parte il fatto che un
legislatore ideale provvisto dei caratteri A,
B, C ed E avrebbe inteso
esprimere, tramite il testo di legge T,
la norma N2.
Inutile dire che
quest’immagine dell’interpretazione giuridica male si accorda con il modo in
cui la pratica interpretativa sembra effettivamente svolgersi; gli interpreti,
infatti, non sembrano disposti ad ammettere che tra di essi non vi siano
dissensi e sembrano invece animati dalla volontà di opporsi ad attribuzioni di
significato che mostrano di non condividere. Essi, dunque, oltre a riferirsi a
figure diverse del legislatore ideale, sembrano anche manifestare un disaccordo
sui caratteri che dovrebbero essere
attribuiti alla figura del legislatore ideale. In altri termini, sembrano
ritenere che vi sia una risposta giusta (nel senso di non sbagliata) alla
questione dei caratteri che dovrebbero essere assegnati alla figura del
legislatore ideale, pur non trovandosi d’accordo sul contenuto di questa risposta.
5. L’interpretazione come applicazione di regole giuridiche
Nel secondo paragrafo ho
chiarito che concepire le questioni interpretative come questioni pratiche non
comporta necessariamente ritenere che gli interpreti creino, in qualche misura, norme giuridiche. Infatti, è possibile
che le norme o i valori che gli interpreti applicano o di cui tengono conto per
rispondere a tali questioni siano concepibili, per il fatto di essere
generalmente condivisi da coloro che operano all’interno della comunità
giuridica, come interni al diritto.
La tesi che l’interpretazione
sia disciplinata da regole che, per la loro effettiva vigenza nella comunità
giuridica, possono essere considerate parte del diritto della comunità,
potrebbe da un certo punto di vista apparire plausibile. Gli interpreti,
infatti, sembrano effettivamente condividere l’idea che alcune ragioni, ovvero
alcuni argomenti dell’interpretazione, e non altre siano appropriate per
attribuire un contenuto ai testi di legge, e dunque per giustificare i giudizi
interpretativi. E, se condividono quest’idea, si può allora assumere che
accettino un’insieme di regole che indicano il modo in cui l’interpretazione
giuridica deve essere condotta. (30)
La tesi che gli interpreti
sono vincolati da regole giuridiche dell’interpretazione non consente però da
sola di sostenere che gli interpreti non creano diritto. Per sostenere questo è
necessaria anche un’altra tesi: quella secondo cui l’applicazione di queste
regole è sufficiente per dare una risposta corretta alle questioni
interpretative.
Soltanto se l’applicazione di
regole dell’interpretazione interne al diritto fosse sufficiente per dare una
risposta alle questioni interpretative, si potrebbe asserire che il contenuto
delle norme espresse dai testi di legge è determinato dal diritto stesso e non
dall’attività creativa degli interpreti, così come si può asserire che il
risultato di una somma o una sottrazione è determinato dalle regole della
matematica e non da un’attività creativa di chi materialmente lo scrive su un
foglio di carta. Soltanto in questo caso sarebbe possibile distinguere, in ogni
possibile insieme di giudizi interpretativi contrastanti, un solo giudizio corretto, in quanto effettivamente
implicato da quelle regole.
Ebbene, l’idea che le regole
dell’interpretazione condivise dagli interpreti siano sufficienti per dare
sempre una risposta corretta alle questioni interpretative non è certamente
sostenibile. Ove si assuma che gli interpreti condividano un insieme di regole
dell’interpretazione, non si potrà poi negare che queste regole implicano una
pluralità di giudizi interpretativi contrastanti e non, tranne forse in alcuni
casi, un giudizio interpretativo corretto.
Come ho già detto, infatti, è
vero che gli interpreti utilizzano determinati argomenti dell’interpretazione,
mostrando di essere d’accordo sull’adeguatezza di questi; ma è anche vero che
gli interpreti utilizzano argomenti dell’interpretazione diversi per
giustificare giudizi interpretativi contrastanti. Pertanto, se il contenuto
delle regole dell’interpretazione accettate dagli interpreti deve desumersi
dall’attività degli interpreti, bisogna concludere che queste regole indicano
un insieme di argomenti dell’interpretazione appropriati per giustificare
giudizi interpretativi, ma che vi sono questioni interpretative alle quali esse
non sono in grado di fornire un’unica risposta. In altri termini, queste regole
si limitano a consentire l’uso di un insieme di argomenti dell’interpretazione,
senza stabilire quale o quali argomenti, tra quelli che fanno parte
dell’insieme, debbano essere utilizzati quando argomenti differenti implichino
giudizi interpretativi contrastanti.
Quindi, si può ritenere che vi
siano regole dell’interpretazione vigenti nella comunità giuridica, e dunque interne al diritto; però, non si può
ritenere che queste regole siano congiuntamente configurabili come un principio metodologico dell’interpretazione,
cioè come un principio che, oltre a indicare gli argomenti dell’interpretazione
utilizzabili, stabilisca una gerarchia di questi argomenti, indicando quale
argomento o quali argomenti debbano prevalere sugli altri quando argomenti
differenti implichino giudizi interpretativi contrastanti. (31)
Se
vogliamo pensare all’interpretazione come a un’attività interamente soggetta a
regole, dobbiamo allora assumere che ogni interprete, nell’avanzare un giudizio
interpretativo, si basi su uno dei molti principi metodologici
dell’interpretazione possibili, dato l’insieme degli argomenti
dell’interpretazione che sono ritenuti utilizzabili nella comunità giuridica.
Inoltre, considerando il fatto che ogni interprete pretende che il proprio
giudizio interpretativo sia giusto (cioè non sbagliato), dobbiamo assumere che ogni
interprete, nell’avanzare un giudizio interpretativo, implicitamente pretenda
che sia da applicare il principio metodologico che implica tale giudizio e non
un altro principio metodologico.
La conclusione del precedente
paragrafo è stata che gli interpreti manifestano, nelle controversie
interpretative, un disaccordo sui caratteri da attribuire al legislatore
ideale, cioè a una figura fittizia per la conoscenza della cui volontà si può
assumere che sia condotta l’interpretazione giuridica. La conclusione di questo
paragrafo è invece che gli interpreti manifestano, nelle controversie interpretative,
un disaccordo sul principio metodologico dell’interpretazione da seguire, cioè
sul principio che stabilisce una gerarchia degli argomenti dell’interpretazione
il cui uso è ammesso nella comunità giuridica. Poiché un disaccordo sui
caratteri del legislatore ideale, così come un disaccordo sul principio
metodologico dell’interpretazione, è un disaccordo sugli argomenti
dell’interpretazione da utilizzare in determinate circostanze, queste
conclusioni, sebbene in modo diverso, dicono una stessa cosa.
6. L’interpretazione come applicazione di norme morali
Se gli interpreti si trovano
in disaccordo sul principio metodologico dell’interpretazione da seguire,
ovvero sui caratteri da attribuire al legislatore ideale, sorge l’esigenza di
chiarire di che genere sia questo disaccordo, cioè di rispondere alla seguente
domanda: di che genere è la questione del principio metodologico
dell’interpretazione che dovrebbe essere seguito da tutti gli interpreti?
La risposta è che tale
questione è (a) una questione pratica (b) che non può essere risolta se non
sulla base di norme o valori morali “oggettivamente” esistenti, cioè esistenti
a prescindere dalla loro accettazione in una qualche comunità, o comunque di
norme e valori che ogni individuo razionale dovrebbe accettare o accetterebbe
in determinate condizioni ideali. (32)
Il fatto che sia una questione
pratica, e non teorica, appare piuttosto ovvio, considerando che essa non è
relativa al modo in cui le cose stanno o, date certe condizioni, starebbero, ma
è relativa al modo in cui gli interpreti dovrebbero svolgere la loro attività.
Altrettanto ovvio appare poi il fatto che tale questione non sia risolvibile se
non sulla base di norme o valori morali “oggettivamente” esistenti a
prescindere dalla loro effettiva accettazione da parte di insiemi più o meno
ampi di individui. Anzitutto, tale questione ha un evidente rilievo morale, in
quanto concerne il modo in cui gli interpreti dovrebbero individuare o stabilire
gli obblighi e i diritti degli individui e le sanzioni associate alla
violazione di essi; inoltre, come già abbiamo visto, essa non può essere
risolta sulla base di norme o valori generalmente accettati, e che dunque
possano essere ritenuti vigenti in una determinata comunità.
Dunque, la questione del
giudizio metodologico da adottare è una questione morale; da ciò segue che un
giudizio sul principio metodologico da adottare è un giudizio morale e che il
principio metodologico da adottare, se ve n’è uno, è una norma morale. Per
quanto concerne il fatto che il principio metodologico dell’interpretazione
consiste in una norma morale, basti ripetere le osservazioni già fatte a
proposito della questione relativa al principio metodologico: un principio
metodologico consiste in una prescrizione o un criterio di valutazione per
attività provviste di indubbio rilievo morale; inoltre, non vi è un principio metodologico
generalmente accettato dagli interpreti e che dunque possa essere ritenuto
vigente nella comunità giuridica.
Se il principio metodologico
dell’interpretazione è una norma morale, e se sono giudizi morali i giudizi sul
principio metodologico da seguire, si può affermare che sono giudizi morali
anche i giudizi interpretativi, ove si assuma che ogni giudizio implicato da un
giudizio morale sia anch’esso un giudizio morale, almeno nel caso in cui non
riprenda il contenuto di una prescrizione di soggetti ai quali sia generalmente
riconosciuto il potere di emanare prescrizioni vincolanti (cioè il contenuto di
una legge o di un altro atto giuridico) o il contenuto di una regola sociale
comunemente seguita (cioè il contenuto di una consuetudine). (33)
Sia un giudizio sul principio
metodologico, sia il principio metodologico, indicando gli argomenti
dell’interpretazione utilizzabili e stabilendo una gerarchia di essi, avranno
approssimativamente questa formulazione: «Si
deve ascrivere ai testi di legge il contenuto che essi mostrano di avere
quando siano letti in conformità ai valori V,
W, X e ai fatti A, B, C,
oppure ai fatti D, E, F,
nel caso in cui non vi sia un’evidenza dei fatti A, B, C o nel caso in cui questi non consentano
di ascrivere ai testi di legge un contenuto sufficientemente preciso, oppure ai
fatti G, H, I, ecc.». Si deve di
conseguenza assumere che i giudizi interpretativi, essendo implicati da giudizi
sul principio metodologico, abbiano il seguente contenuto: «Si deve ascrivere al testo di legge T il contenuto N». (34)
A questo punto appare evidente
che la questione della validità dei giudizi interpretativi, se posta in questi
termini, ha a che fare con una questione fondamentale della filosofia morale,
che qui non può essere esaminata. Cioè ha a che fare con la questione se i
giudizi morali dipendano unicamente da opinioni condivise di fatto da insiemi
più o meno ampi di individui, ma sprovviste di ogni effettivo fondamento,
oppure se al contrario vi siano “fatti morali”, o norme o valori morali
esistenti in modo analogo a quello in cui esistono i fatti che costituiscono
l’oggetto della conoscenza scientifica, o almeno vi siano giudizi morali che
ogni individuo razionale dovrebbe accettare o accetterebbe in determinate
condizioni ideali. (35)
Se denominiamo non-cognitivista la prima posizione concernente la natura della
morale e cognitivista la seconda, possiamo asserire che la posizione
non-cognitivista implica che non vi sia alcun principio metodologico
dell’interpretazione “oggettivamente” esistente, ovvero che nessun giudizio sul
principio metodologico sia in effetti valido (anche se gli interpreti
potrebbero erroneamente credere che qualcuno di questi giudizi sia valido). (36) Dunque, la posizione non-cognitivista
implica anche che non vi siano giudizi interpretativi effettivamente validi,
sebbene gli interpreti mostrino di credere che ve ne siano. In definitiva,
implica che la pretesa di giustezza che accompagna il proferimento di un
giudizio interpretativo, così come quella che accompagna il proferimento di
ogni altro giudizio morale, sia una pretesa vuota, che non può essere soddisfatta.
Tutto ciò ha una innegabile
rilevanza per la nostra discussione. Tuttavia, dato che non possiamo affrontare
la questione del fondamento dei giudizi morali, conviene lasciare da parte tale
questione e soffermarsi invece sulle condizioni che dovrebbero essere
immediatamente soddisfatte affinché un giudizio fosse valido e sul contenuto
che dovrebbe avere una giustificazione interpretativa che intendesse mostrare
che un determinato giudizio interpretativo è valido.
Le condizioni che dovrebbero
essere immediatamente soddisfatte affinché un determinato giudizio interpretativo
fosse valido, sono già state chiarite. Un giudizio interpretativo che ascriva a
un testo di legge T il contenuto N è valido solo (a) se è valido un
determinato giudizio P, che propone
un certo principio metodologico dell’interpretazione, dicendo che i testi di
legge devono essere letti in conformità a determinati fatti A, B,
C e valori V, W, X, e (b) se è vero che il testo di legge
T mostra di avere il contenuto N quando sia letto in conformità ai
fatti A, B, C e valori V, W,
X. Ma, se queste sono le condizioni
che dovrebbero essere immediatamente soddisfatte affinché un determinato
giudizio interpretativo fosse valido, allora una giustificazione interpretativa
che intendesse mostrare che un determinato giudizio interpretativo è valido
dovrebbe contenere (a) un giudizio P,
che indica i fatti A, B, C
e i valori V, W, X, in conformità ai
quali devono essere letti i testi di legge, e (b) il giudizio che un testo di
legge T mostra di avere un
determinato contenuto N quando sia
letto in conformità ai fatti A, B, C
e ai valori V, W, X, oltre a (c)
indicazioni di qualche prova relativa ai fatti A, B, C.
Tralasciando per semplicità la
premessa (c), necessaria per fornire un fondamento alla premessa (b), ecco lo
schema di una giustificazione interpretativa provvista di questo contenuto:
(a)
Si
deve ascrivere ai testi di legge il contenuto che essi mostrano di avere quando
siano letti in conformità ai fatti A,
B, C e ai valori V, W, X.
(b)
Il
testo di legge T mostra di avere il
contenuto N quando sia letto in
conformità ai fatti A, B, C
e ai valori V, W, X.
(c)
Dunque,
si deve ascrivere al testo di legge T
il contenuto N.
Sulla base di questo quadro,
l’attività interpretativa è un’attività (in qualche misura) creativa di norme
giuridiche, dato che ricavare norme da testi di legge non significa compiere
una semplice attività di conoscenza di fatti, né una semplice attività di
applicazione di regole che, essendo generalmente accettate nella comunità
giuridica, possono essere considerate in essa vigenti. Da ciò non segue però
che l’attività interpretativa sia un’attività (in qualche misura) arbitraria, e
neppure un’attività creativa tout court.
La questione se sia un’attività (in qualche misura) arbitraria o creativa tout court dipende infatti dalla
questione delle corrette concezioni del ragionamento morale,
dell’argomentazione morale e della validità dei giudizi morali, cioè dalla
questione filosofica cui ho prima accennato e che ho prudentemente accantonato.
7. L’“incompletezza” delle giustificazioni interpretative
Nel precedente paragrafo ho
presentato lo schema delle ragioni che devono essere addotte in una
giustificazione che intenda mostrare che un certo giudizio interpretativo è
valido. Secondo tale schema, una giustificazione di questo genere deve
contenere una premessa relativa al principio metodologico dell’interpretazione
da seguire.
Adesso, bisogna dire che un
esame delle giustificazioni effettivamente avanzate dagli interpreti rivela
inequivocabilmente che queste, quando siano confrontate con questo schema,
appaiono incomplete. Ciò in quanto non contengono una premessa relativa al
principio metodologico dell’interpretazione da seguire.
Questa incompletezza è
raramente presa in considerazione dalla teoria dell’interpretazione giuridica.
Probabilmente, alcuni ritengono che essa sia solo apparente, per il fatto che
una premessa relativa al principio metodologico dell’interpretazione da
seguire, sebbene non sia esplicitata nelle giustificazioni interpretative, può
esservi ritenuto implicita. (37)
L’idea dell’incompletezza
apparente non è, ovviamente, peregrina: le giustificazioni interpretative sono
discorsi e, non diversamente da ogni altro discorso, è possibile che abbiano un
contenuto implicito intuibile e precisabile, a seconda dei casi, con maggiore o
minore difficoltà. Se qualcuno asserisce che Socrate è mortale per la ragione
che è un uomo, anche se non enuncia la premessa secondo cui tutti gli uomini
sono mortali, noi possiamo ben ritenere che tale premessa sia implicita nel suo
discorso. E analogamente, se qualcuno sostiene che si deve ascrivere al testo
di legge T il contenuto N per la ragione che T esprime N quando sia letto in conformità alle intenzioni del legislatore,
anche se non enuncia la premessa secondo cui si deve ascrivere a T il contenuto che questo esprime in
conformità alle intenzioni del legislatore, noi possiamo ben ritenere che tale
premessa sia implicita nella sua giustificazione interpretativa.
Però, come dovrebbe
precisamente essere intesa l’idea che una certa premessa P, pur non essendo espressa in una certa giustificazione
interpretativa, è in essa implicita? In primo luogo, quest’idea potrebbe essere
intesa nel senso che il parlante ha omesso coscientemente di esprimere P per ragioni di economia, per evitare
inutili pedanterie, avendo la consapevolezza che gli ascoltatori l’avrebbero
immediatamente colta anche se taciuta; se intesa così, essa implica che il parlante
contragga coscientemente l’impegno a sostenere P. In secondo luogo, quest’idea potrebbe essere intesa nel senso
che P è da ascrivere al contenuto della
giustificazione date le convenzioni, le conoscenze e le convinzioni condivise
dalla gran parte di coloro che appartengono alla comunità linguistica o alla
più ristretta comunità degli interpreti O
alla quale si rivolge il parlante; se intesa così, essa implica che il parlante
contragga oggettivamente (quale che fosse il suo atteggiamento mentale nel
momento in cui ha proferito la giustificazione) l’impegno a sostenere P, perché secondo le convenzioni vigenti
in O contrae un impegno di quel
genere chi avanza una giustificazione di quel genere. In terzo luogo, questa
premessa potrebbe essere intesa nel senso che P è da ascrivere al contenuto della giustificazione a prescindere
dalla consapevolezza del parlante e dalle convenzioni, conoscenze e convinzioni
condivise nella comunità cui si rivolge, ma date alcune innegabili regole del
discorso, fatti o norme; se intesa così, essa implica che il parlante contragga
oggettivamente (quale che fosse il suo atteggiamento mentale nel momento in cui
ha proferito la giustificazione e quali che siano le convenzioni vigenti nella
comunità O alla quale egli si
rivolge) l’impegno a sostenere P,
perché vi sono innegabili regole del discorso secondo cui contrae un impegno di
quel genere chi avanza una giustificazione di quel genere.
Se è
intesa nel terzo modo, l’idea che una premessa sul principio metodologico è
implicita nelle giustificazioni interpretative potrebbe essere considerata
corretta. Infatti, ove si prenda per buono quanto è stato detto nelle pagine
precedenti sui caratteri degli argomenti dell’interpretazione e sul carattere
pratico delle questioni interpretative, non è logicamente possibile che un
giudizio interpretativo sia implicato dai soli argomenti dell’interpretazione:
si deve quindi ritenere che ogni giustificazione interpretativa contenga,
sebbene in modo implicito, un giudizio P
sul principio metodologico. In altri termini, non si può negare che, avanzando
una giustificazione interpretativa, il parlante contragga oggettivamente
l’impegno a sostenere P.
È però importante rilevare che
individuare l’esatto contenuto di P,
quando P sia stato taciuto, è
praticamente impossibile, almeno nella maggior parte dei casi. (38) Gli interpreti, infatti, non appaiono
molto costanti nell’uso di determinati argomenti dell’interpretazione: chi oggi
ricorre all’argomento dell’intenzione del legislatore per giustificare
l’ascrizione di un certo contenuto al testo di legge T1 è probabile che ricorra all’argomento teleologico, o a qualunque
altro argomento, per giustificare domani l’ascrizione di un determinato
contenuto al testo di legge T2. Da
ciò si dovrebbe ragionevolmente arguire che le ragioni per cui un certo
argomento dell’interpretazione è utilizzato a preferenza di altri abbiano
talvolta a che fare anche: (i) con la particolare occasione in cui il testo T1 viene interpretato, cioè con il caso
o i casi concreti per dare soluzione ai quali è condotta l’interpretazione di T1; (ii) con i particolari caratteri di T1, cioè ad esempio con il momento in
cui T1 è stato prodotto o con il
fatto che T1 è un codice o un altro
testo di legge provvisto di particolari caratteri; (iii) con le particolari
circostanze che si determinano nell’interpretazione di T1, cioè ad esempio con il fatto che in alcune circostanze non è
possibile ricorrere a un determinato argomento dell’interpretazione per la
mancanza di una qualche evidenza dei fatti cui l’argomento rinvia. Ma,
sfortunatamente, non è affatto chiaro fino a che punto tali ragioni valgano per
i singoli interpreti: secondo alcuni, forse, valgono ben poco. Né, d’altra
parte, il contenuto di una giustificazione interpretativa consente in genere di
chiarire questo aspetto e, eventualmente, di precisare quelle ragioni: le
giustificazioni interpretative risultano infatti alquanto lacunose ed opache,
quando da esse si vogliano trarre informazioni di questo genere. Da tutto ciò
segue che possiamo anche affermare che ogni giustificazione interpretativa
contiene implicitamente un principio metodologico, ma quale esattamente sia
questo principio non possiamo dirlo: al più possiamo congetturare che si tratti
di un principio secondo cui, quando ci si trovi nella particolare occasione in
cui il testo T1 viene interpretato, quando
un testo di legge abbia i particolari caratteri di T1, quando ricorrano le particolari circostanze che si determinano
nell’interpretazione di T1, si debba
ascrivere a un testo di legge il contenuto che esso mostra di avere quando sia
letto in conformità alle intenzioni del legislatore. (39)
Dunque, c’è un senso in cui si
può dire che le giustificazioni interpretative presentano, sebbene in modo
implicito, una necessaria premessa P;
però, non è possibile dire quale sia esattamente il contenuto di P. La cosa, come si vede, è un po’
strana: è sensato asserire che un discorso ha un contenuto implicito, se non vi
è un criterio per individuare questo contenuto? Tuttavia, non è di questo
problema che intendo discutere. Il punto più importante è infatti un altro: il
senso in cui si può (forse) dire che le giustificazioni interpretative
contengono implicitamente una necessaria premessa P non è quello che rileva quando si indaghi sulla questione se
queste giustificazioni abbiano un determinato scopo nell’ambito della pratica
sociale dell’interpretare.
Quando si indaghi su tale
questione bisogna chiedersi se l’idea del contenuto implicito delle
giustificazioni interpretative possa essere ragionevolmente intesa nel secondo
senso, cioè nel senso che tale contenuto è da ascrivere alle giustificazioni
interpretative date le convenzioni, le conoscenze e le convinzioni condivise
dalla gran parte di coloro che appartengono alla comunità linguistica o alla
più ristretta comunità alla quale si rivolge il parlante. Infatti, ove si
concluda che non vi sono convenzioni, conoscenze e convinzioni condivise in
base alle quali una premessa contenente un principio metodologico deve essere
considerata implicita nelle giustificazioni interpretative, e ove si ammetta –
come si è fatto fin qui – che questa premessa è necessaria per mostrare che un
giudizio interpretativo è valido, finirà con l’apparire problematica l’idea che
nella pratica dell’interpretazione giuridica le giustificazioni interpretative
abbiano lo scopo di mostrare che un giudizio interpretativo è valido.
Ebbene, è – mi sembra –
abbastanza ovvio che non vi sono convenzioni, conoscenze e convinzioni
condivise nella comunità giuridica in base alle quali si deve ritenere che una
premessa contenente un principio metodologico sia implicita nelle
giustificazioni interpretative. A provare ciò basta il fatto che è praticamente
impossibile individuare il contenuto di quella premessa implicita in una
giustificazione interpretativa; infatti, se vi fossero quelle convenzioni,
conoscenze e convinzioni condivise, il contenuto di quella premessa dovrebbe
immediatamente apparire piuttosto chiaro. D’altra parte, come potrebbero
esservi convinzioni condivise riguardo al contenuto da assegnare a un principio
metodologico se gli interpreti sembrano discordare per l’appunto sulla
gerarchia degli argomenti dell’interpretazione, cioè sul contenuto che dovrebbe
essere assegnato a un principio metodologico? E come potrebbero esservi
convenzioni condivise riguardo alla presenza di un principio metodologico nelle
giustificazioni interpretative, se questi principi sono generalmente assenti in
tali giustificazioni?
Ma vi è di più. Se,
nell’ambito della pratica dell’interpretazione giuridica, le giustificazioni
interpretative avessero lo scopo di mostrare che determinati giudizi
interpretativi sono validi, dovrebbe accadere che principi metodologici contrastanti
fossero non solo espressamente addotti, ma anche discussi nelle giustificazioni
interpretative. Come ho accennato nel secondo paragrafo, infatti, porsi lo
scopo di mostrare che un giudizio è giusto significa rivolgere qualche
attenzione alle ragioni, ai dubbi e alle obiezioni espressi da coloro cui la
giustificazione è indirizzata. Ebbene, se giudizi relativi a principi
metodologici fossero da ritenere impliciti sulla base delle convenzioni
condivise dagli interpreti, risulterebbe del tutto chiaro agli interpreti che i
loro disaccordi sulla validità dei giudizi interpretativi dipendono dai loro
disaccordi sulla validità di differenti giudizi sul principio metodologico
dell’interpretazione, ed essi potrebbero perseguire lo scopo di mostrare la
validità di determinati giudizi interpretativi solo cercando di mostrare la
validità di particolari giudizi sul principio metodologico.(40) Cioè, diversamente da quanto effettivamente avviene, le
giustificazioni interpretative dovrebbe contenere anche giustificazioni di
giudizi relativi al principio metodologico.
Tutto porta a concludere che
le giustificazioni interpretative, per come sono recepite nella comunità
giuridica, non contengano implicitamente una delle premesse necessarie per
mostrare che un determinato giudizio interpretativo è valido.
Resterebbe da affrontare la
questione se sia sensato ritenere che alle giustificazioni interpretative si
debba ascrivere questa premessa quando si guardi a ciò che con esse il parlante
intende dire. Tale questione può però essere tralasciata, limitandosi a notare
che è molto improbabile che la gran parte degli interpreti sia pienamente
consapevole del problema del principio metodologico e, seppure privatamente,
cerchi di dare ad esso una soluzione, dato che nella comunità giuridica, di cui
gli interpreti fanno parte, tale problema non emerge.
8. Giustificazioni interpretative e ideologia
Se tutto quello che ho detto
fin qui è, almeno nelle sue linee essenziali, accettabile, si pone il problema
del senso, o dello scopo, da attribuire alle giustificazioni interpretative.
Infatti, mentre da una parte sembra innegabile che queste giustificazioni
abbiano lo scopo di mostrare che un certo giudizio interpretativo è valido,
dall’altra parte si può argomentare che queste giustificazioni non perseguono
tale scopo, ovvero che nella comunità giuridica non sono effettivamente intese
come discorsi aventi tale scopo. Come è possibile – da una parte si potrebbe
dire – che le giustificazioni interpretative non siano intese dagli stessi interpreti
come discorsi aventi lo scopo di mostrare che un giudizio interpretativo è giusto,
se ogni giustificazione è necessariamente intesa così? E come è possibile –
dall’altra parte si potrebbe replicare – che le giustificazioni interpretative
siano intese dagli interpreti come discorsi aventi questo scopo, se il modo in
cui essi elaborano e avanzano giustificazioni interpretative prova il
contrario?
Nel secondo paragrafo ho
accennato che, date le specifiche convenzioni che valgono in determinati
contesti, accade talvolta che gli atti linguistici non siano quelli che
potrebbe sembrare che fossero: ad esempio, l’interrogazione «Come stai?» non è
effettivamente un’interrogazione, ma un atto di cortesia o un saluto. A questo
punto, bisogna però dire che la questione in cui adesso ci imbattiamo,
trattando di giustificazioni interpretative, è meno chiara e più complicata. Da
una parte, sembra che davvero gli interpreti pretendano di avanzare giudizi
interpretativi validi, e quindi di avere ragioni per ritenere che essi siano validi,
che spesso si trovino tra loro in disaccordo sulla validità di alcuni giudizi interpretativi,
e quindi sulla validità delle ragioni addotte a sostegno di alcuni giudizi
interpretativi. Dall’altra parte, le giustificazioni interpretative che avanzano
sembrano mostrare che queste pretese non sono prese sul serio e che questi
disaccordi sono una finzione.
Si potrebbe pensare che questo
problema potrebbe essere risolto ricorrendo alla distinzione tra scopo
illocutorio di un atto linguistico e sincerità del parlante. (41) Una cosa è lo scopo illocutorio che
necessariamente si accompagna all’atto linguistico della giustificazione;
un’altra cosa la questione se il parlante persegua davvero quello scopo.
Facendo un’affermazione un parlante pretende necessariamente di esprimere una
propria credenza, ma è poi possibile che non sia sincero e che quindi non abbia
effettivamente quella credenza; allo stesso modo, avanzando una giustificazione
un parlante pretende necessariamente di mostrare che un certo giudizio è
giusto, ma è poi possibile che non sia sincero e che quindi non intenda davvero
mostrare ciò.
Questo modo di risolvere il
problema, però, indubbiamente funziona in riferimento a singoli atti
linguistici, ma come può funzionare in riferimento a tutti gli atti linguistici
eseguiti in un certo ambito di discussione? Se in quell’ambito nessuno è
sincero, e se tale mancanza di sincerità si rivela nei comportamenti di tutti,
come è possibile che in quell’ambito continuino a sussistere convenzioni
condivise in base alle quali un certo atto linguistico deve essere inteso nel
modo in cui, nei fatti, nessuno mostra di intenderlo?
Una risposta potrebbe essere
che, giustificando giudizi interpretativi, gli interpreti fingono di porsi lo
scopo di mostrarne la validità non per ingannarsi l’un l’altro, ma per
ingannare gli spettatori del loro gioco argomentativo, cioè gli altri
cittadini. Però tale risposta, che in questa formulazione così decisa sembra
configurare una strana teoria del complotto, (42)
appare priva di ogni plausibilità.
Un’altra risposta potrebbe
essere che gli interpreti non sono insinceri, ma si autoingannano: sinceramente
pretendono di mostrare la validità di determinati giudizi interpretativi e
credono di agire in modo coerente con questa pretesa. Ad essi si può imputare
una qualche forma di cecità, ma non una mancanza di sincerità.
Forse quest’ultima risposta
coglie meglio nel segno; ma è probabile che le cose siano più complicate di
quanto essa dica, tanto complicate quanto lo sono spesso fenomeni psicologici e
sociali. Ciò che si deve notare, comunque, è che entrambe le risposte ci
portano nei paraggi di un concetto un po’ confuso e politicamente connotato, e
tuttavia provvisto di qualche utilità: cioè il concetto di ideologia, inteso
non tanto nel “senso debole” di apparato dottrinario di idee, quanto piuttosto
nel “senso forte” di mistificazione, (auto)inganno, falsa coscienza. (43) Non è però qui possibile soffermarsi su
questo aspetto, così come non è possibile discutere delle cause per cui il
discorso giustificativo degli interpreti si struttura nel modo che abbiamo
detto, né delle funzioni cui, così strutturato, assolve nelle decisioni dei
giudici e più in generale nell’ordinamento giuridico o nella comunità
giuridica, (44) né dell’immagine del
diritto che emerge da tutto ciò. (45)
La domanda che ci siamo posti
nel secondo paragrafo è stata se le giustificazioni interpretative debbano
essere concepite come discorsi aventi lo scopo di mostrare che determinati
giudizi interpretativi sono giusti, o validi. Sulla base di quanto abbiamo
detto fin qui non possiamo dare una risposta precisa, ma possiamo asserire che
la risposta è più problematica di quanto si potrebbe pensare. Possiamo inoltre
sostenere che la teoria dell’interpretazione, ove si proponga di fornire una
rappresentazione attendibile del modo in cui gli interpreti effettivamente
operano, non dovrebbe concepire le giustificazioni interpretative come discorsi
aventi quello scopo, o almeno non dovrebbe prendere troppo sul serio (dare
troppo credito a) le pretese che, dati gli scopi illocutori degli atti linguistici,
sembrano necessariamente accompagnarsi a tali giustificazioni. I fatti, cioè i
comportamenti degli interpreti, smentiscono costantemente quelle pretese.
(1)
Ciò non significa che non sorgano mai dubbi o controversie a questo riguardo, e
in particolare sulle relazioni gerarchiche tra alcune fonti: ad esempio vedi la
questione della relazione tra diritto statale e diritto comunitario, in R. Guastini,
Teoria e dogmatica delle fonti,
Milano, Giuffrè, 1998, pp. 673-676.
(2)
Vedi R. Guastini, L’interpretazione dei
documenti normativi, Milano, Giuffrè, 2004.
(3)
Ai fini del presente discorso intenderò dunque il termine ‘interpretazione
giuridica’ come sinonimo di ‘interpretazione della legge’, trascurando il fatto
che l’interpretazione giuridica può avere ad oggetto anche testi diversi dai
documenti legislativi, come sentenze e contratti. Per una lista dei vari testi
che possono essere oggetto di interpretazione giuridica, vedi G. Tarello, L’interpretazione della legge, Milano,
Giuffrè, 1980, pp. 11-15.
(4)
Per questa distinzione rinvio a E. Diciotti, Interpretazione della legge e discorso razionale, Torino,
Giappichelli, 1999, pp. 202-219, 323-324, 451-469, 482-493.
(5)
Cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire
comunicativo (1981), Bologna, il Mulino, 1984, vol I, cap. III, e Etica del discorso (1983), Roma-Bari,
Laterza, 1985, pp. 65-70 (la terminologia di Habermas e le distinzioni che
propone sono in parte diverse da quelle che qui adotto).
(6)
Sui diversi atti linguistici vedi J.L. Austin, Quando dire è fare (1962), Torino, Marietti, 1974; J.R. Searle, Atti linguistici (1969), Torino,
Boringhieri, 1976, e Per una tassonomia
degli atti illocutori (1975), in M. Sbisà (a cura di), Gli atti linguistici, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 168-198.
(7)
Negli ordinamenti giuridici moderni i giudici hanno l’obbligo di giustificare,
o, come si dice, motivare, le loro decisioni; è però possibile che la
motivazione di una sentenza non contenga una giustificazione interpretativa,
cioè che, essendo pacifico il senso del testo di legge oggetto di applicazione,
in essa non siano addotte ragioni per mostrare che tale testo deve essere
inteso proprio nel modo in cui è stato inteso nell’applicarlo.
(8) Le
questioni interpretative controverse hanno in genere ad oggetto qualche
componente del significato di un enunciato (qualche parola o termine in esso
contenuto, qualche suo aspetto sintattico) e non tutte le sue componenti,
poiché il senso di alcune di queste risulta sufficientemente chiaro e pacifico
(vedi E. Diciotti, op. cit., pp.
230-232, 257-259); al limite, se non fosse chiaramente riconoscibile almeno una
certa struttura grammaticale dell’enunciato, non sarebbe neppure possibile
asserire che un certo insieme di parole costituisce un enunciato.
(9) Tra
i recenti lavori di teoria dell’interpretazione in cui compaiono liste degli
argomenti dell’interpretazione ricordo P. Chiassoni, Codici interpretativi, in P. Comanducci e R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto 2003-2004, Torino, Giappichelli,
2004, pp. 55-124, alle pp. 66-73; E. Diciotti, op. cit., pp. 309-323; R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, cit., pp. 142-179; G.
Tarello, op. cit., pp. 341-396.
(10) Per i vari modi in cui questo argomento può essere inteso e
utilizzato vedi C. Luzzati, La vaghezza
delle norme, Milano, Giuffrè, 1990, pp. 208-228. Indagini
sull’interpretazione letterale e sulla problematica nozione di significato
letterale sono contenute in V. Velluzzi (a cura di), Significato letterale e interpretazione del diritto, Torino,
Giappichelli, 2000.
(11) Per le diverse varianti in cui può presentarsi tale argomento
vedi R. Guastini, L’interpretazione dei
documenti normativi, cit., pp. 150-153 (bisogna notare che una delle
varianti indicate da Guastini, cioè quella in cui la volontà del legislatore è
intesa come volontà della legge, nel presente elenco è concepita come un
argomento distinto: l’argomento teleologico).
(12) Sull’interpretazione sistematica vedi V. Velluzzi, Interpretazione sistematica e prassi
giurisprudenziale, Torino, Giappichelli, 2002.
(13) Per quanto concerne l’interpretazione teleologica, rinvio a
E. Diciotti, op. cit., pp. 411-425.
(14) Su questi argomenti vedi G. Carcaterra, Analogia. I) Teoria generale, in Enciclopedia giuridica, vol II, Roma, Istituto della Enciclopedia
Italiana, 1988; R. Guastini, L’interpretazione
dei documenti normativi, cit., pp. 153-157; P. Chiassoni, La giurisprudenza civile, Milano,
Giuffrè, 1999, pp. 635-648; L. Gianformaggio, L’analogia giuridica, in L. Gianformaggio, Studi sulla giustificazione giuridica, Torino, Giappichelli, 1986,
pp. 133-154; G. Tarello, op. cit.,
pp. 352-354.
(15) Per quanto concerne questo aspetto, comunemente riconosciuto
dalla teoria dell’interpretazione, vedi tra gli altri R. Alexy, Teoria dell’argomentazione giuridica
(1978), Milano, Giuffrè, 1998, p. 192; E. Diciotti, op. cit., pp. 413-417; K. Engisch, Introduzione al pensiero giuridico (1968), Milano, Giuffrè, 1970,
pp. 121-122.
(16) Quest’idea, di per sé (apparentemente) tanto ovvia da essere
generalmente accolta, può essere precisata in modi diversi (nell’ambito di
differenti teorie dell’argomentazione giuridica): vedi ad esempio A. Aarnio, The Rational as Reasonable, Dordrecht,
Kluwer, 1987; R. Alexy, op. cit.; C.
Perelman, Logica giuridica nuova retorica
(1976), Milano, Giuffrè, 1979.
(17) Non è forse frequente che un parlante avanzi una
giustificazione dicendo «Credo che …»; è più frequente che si limiti a fare
asserzioni su determinati fatti. Ma, come è noto, asserire che p implica (in qualche senso di
‘implicare’) credere che p: su questa
implicazione vedi, tra gli altri, J.L. Austin, op. cit., pp. 86-88; J. Habermas, Etica del discorso, cit., pp. 89-90; P.H. Nowell-Smith, Etica (1954), Firenze,
(18) Per quanto concerne la relazione tra comportamenti
individuali e regole sociali, vedi le note pagine di H.L.A. Hart, Il concetto di diritto (1961), Torino, Einaudi,
1965, pp. 66-72, 98-108.
(19) Cfr. J. Habermas, Discorso
e verità (1973), in J. Habermas, Agire
comunicativo e logica delle scienze sociali, Bologna, il Mulino, 1980, pp.
319-343, e Etica del discorso, cit.,
pp. 65-76.
(20) La questione del significato di ‘giusto’ e dei criteri della
giustezza di un giudizio sono talvolta distinte, soprattutto quando tale
giustezza consista nella verità di un’asserzione (o di una proposizione, di un
giudizio, ecc.): vedi ad esempio A.J. Ayer, Linguaggio,
verità e logica (1936), Milano, Feltrinelli, 1961, pp. 104-106; N. Rescher,
The Coherence Theory of Truth,
Oxford, Clarendon Press, 1973, pp. 1-4 (una discussione di questa distinzione
si trova in A. Bottani, Verità e coerenza,
Milano, Franco Angeli, 1989, pp. 13-34).
(21) Sulla grande divisione tra questioni teoriche e questioni
pratiche (ragionamento teorico e ragionamento pratico, giustificazioni teoriche
e giustificazioni pratiche) e sulla cosiddetta legge di Hume che la sintetizza,
vedi B. Celano, Dialettica della
giustificazione pratica, Torino, Giappichelli, 1994.
(22) Oltre che nella versione di cui mi occupo, tale idea può
essere proposta, ad esempio, sommando una concezione realista del linguaggio a
una concezione dell’ordinamento giuridico come insieme coerente e completo di
norme (una versione di questo genere è ad esempio delineata da R. Guastini, Le fonti del diritto e l’interpretazione,
Milano, Giuffrè, 1993, pp. 335-336).
(23) Quest’idea è in genere attribuita alla cosiddetta Scuola
dell’Esegesi, sorta in Francia all’inizio del XX secolo (N. Bobbio, Il positivismo giuridico, Torino,
Giappichelli, 1961, Nuova edizione 1996, pp. 72-84; G. Tarello, Scuola dell’Esegesi, in Novissimo Digesto Italiano, vol. 16,
Torino, UTET, 1969, pp. 819-823; ma per una ricostruzione più problematica del
metodo esegetico dell’interpretazione vedi P. Chiassoni, L’utopia della ragione analitica, Torino, Giappichelli, 2005, pp.
336-362).
(24) Cioè può essere respinta (così come è stato fatto dalle più
note teorie del diritto del Novecento: vedi H.L.A. Hart, op. cit.; H. Kelsen, La
dottrina pura del diritto (1960), Torino, Einaudi, 1966; A. Ross, Diritto e giustizia (1953), Torino,
Einaudi, 1965) la teoria imperativista del diritto che sta alla base di questa
concezione dell’interpretazione giuridica.
(25) Alcune classiche espressioni di scetticismo sulle intezioni del
legislatore possono trovarsi in A. Hägerström, On the Question of the Notion of Law (1917), in A. Hägerström, Inquiries into the Nature of Law and Morals,
Uppsala, Almqvist & Wiksells, 1953, pp. 56-256, alle pp. 74-85; E.H. Levi, An Introduction to Legal Reasoning,
Chicago, The University of Chicago Press, 1949, pp. 27-31; M. Radin, Statutory Interpretation, in Harvard Law Review, 43, 1930, pp.
863-885. Per una
critica più recente di questo concetto vedi R. Dworkin, Il foro dei principi (1981), in R. Dworkin, Questioni di principio (1985), Milano, il Saggiatore, 1990, pp.
37-86, alle pp. 39-68.
(26) Bisogna peraltro dire che le cose vanno in modi parzialmente
diversi in periodi storici diversi e in differenti ordinamenti giuridici, data
la diversità delle ideologie dell’interpretazione che possono diffondersi in
ambienti culturali diversi; per un panorama dei modi di condurre
l’interpretazione giuridica in alcuni ordinamenti giuridici contemporanei, vedi
N.L. MacCormick e R.S. Summers (a cura di), Interpreting
Statutes, Aldershot, Dartmouth, 1991.
(27) Sulla
nozione di legislatore razionale (o ideale) presupposta (o da presupporre)
nell’interpretazione della legge, vedi N. Bobbio, Le bon législateur, in H. Hubien (a cura di), Le raisonnement juridique, Bruxelles, Bruylant, 1971, pp. 243-249;
J. Lenoble e F. Ost, Droit, mythe et
raison, Bruxelles, Publication des Facultés Universitaires Saint-Louis,
1980, pp. 137-141 ; C.S. Nino, Introduzione
all’analisi del diritto (1980), Torino, Giappichelli, 1996, pp. 288-292; L.
Nowak, De la rationalité du législateur
come élément de l’interprétation juridique, in Logique et analyse, 12, 1969, pp. 65-86.
(28) L’idea che l’interpretazione giuridica consista nella
conoscenza delle intenzioni di un autore fittizio può evidentemente essere
accostata (pur essendovi differenze rilevanti) a quella presente in alcune
teorie dell’interpretazione letteraria, secondo cui l’interpretazione procede
con l’elaborazione di un’ipotesi di autore modello (U. Eco, Lector in fabula, Milano, Bompiani,
1979, pp. 60-66). D’altra parte, se si prende per buona una teoria
intenzionalista del significato (vedi in proposito H.P. Grice, Il significato (1957), in H.P. Grice, Logica e conversazione, Bologna, il
Mulino, 1993, pp. 219-231; P.F. Strawson, Intenzione
e convenzione negli atti linguistici (1964), in M. Sbisà (a cura di), Gli atti linguistici, cit., pp. 81-102),
non vi è attribuzione di significato che non implichi l’ipotesi di un emittente
provvisto di intenzioni.
(29) A testimonianza di ciò, gli argomenti dell’interpretazione
(tutti o la gran parte di essi) vengono talvolta unitamente concepiti come
relativi alla volontà del legislatore: ad esempio vedi A. Aarnio, R. Alexy e A.
Peczenick, I fondamenti del ragionamento
giuridico (1981), in P. Comanducci e R. Guastini (a cura di), L’analisi del ragionamento giuridico,
Torino, Giappichelli, 1987, pp. 120-187, alle pp. 173-177; R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi,
cit., p. 143; N.L. MacCormick e R.S.
Summers, Interpretation and Justification,
in N.L. MacCormick e R.S. Summers (a cura di), Interpreting Statutes, cit., pp. 511-544, alle pp. 522-525.
(30)
L’idea che l’interpretazione giuridica si svolga sulla base di un insieme di
regole dell’interpretazione è abbastanza diffusa nella teoria
dell’interpretazione contemporanea: vedi ad esempio A. Aarnio, op. cit., pp. 95-107; R. Alexy, Interpretazione giuridica, in Enciclopedia delle scienze sociali, vol.
3, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1996, pp. 64-71, alla p. 70; P.
Chiassoni, Codici interpretativi,
cit., pp. 63-98; F. Ost e M. van de Kerchove, Entre la lettre et l’esprit, Bruxelles, Bruylant, 1989, pp. 34-75;
J. Wróblewski, The Judicial Application
of Law, Dordrecht, Kluwer, 1992, pp. 89-107.
(31) Il fatto che questa regola sia necessaria per la giustificare
la scelta tra diversi metodi interpretativi è messo in rilievo da molti autori:
tra questi ricordo P. Chiassoni, Codici
interpretativi, cit., pp. 74-92; E. Diciotti, op. cit., pp. 277-291, 494-539; R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, cit., pp. 141-142; L.
Lombardi Vallauri, Corso di filosofia del
diritto, Padova, CEDAM, 1981, 53-79; C. Luzzati, op. cit., pp. 116-118; N.L. MacCormick e R.S. Summers, Interpretation and Justification, cit.,
pp. 527-530; U. Scarpelli, Interpretazione.
Diritto, in Gli strumenti del sapere
contemporaneo. Vol 2. I concetti, Torino, UTET, 1985, pp.423-427, alla p.
426; J. Wróblewski, op. cit., pp.
113-116.
(32) E. Diciotti, op. cit.,
pp. 494-521, e Verità e certezza
nell’interpretazione della legge, Torino, Giappichelli, 1999, pp. 152-157.
Sui rapporti tra morale e interpretazione giuridica vedi anche C.S. Nino, Diritto come morale applicata (1994), Milano,
Giuffrè, 1999, pp. 71-107.
(33) Giudizi pratici fondati su giudizi morali, ma che si limitino
a riprendere il contenuto (nella misura in cui ciò sia possibile) di
prescrizioni di organi cui viene generalmente riconosciuto un determinato
potere o di consuetudini che si ritengono applicabili da taluni di questi
organi, potrebbero infatti essere considerati giudizi giuridici o norme
giuridiche (cfr. C.S. Nino, Diritto come
morale applicata, cit., pp. 92-106).
(34) L’idea che i giudizi interpretativi avanzati da giudici e
giuristi siano giudizi pratici non è molto diffusa; tra i lavori di teoria del
diritto in cui compare ricordo P. Comanducci, Assaggi di metaetica due, Torino, Giappichelli, 1998, pp. 76-80; E.
Diciotti, Interpretazione della legge e
discorso razionale, cit., soprattutto pp. 269-273, e Verità e certezza nell’interpretazione della legge, cit., pp.
152-157; F.E. Oppenheim, The Judge as
Legislator, in L. Gianformaggio e S.L. Paulson (a cura di), Cognition and Interpretation of Law,
Torino, Giappichelli, 1995, pp. 289-294, alle pp. 291-294.
(35) In altri termini, la questione se i giudizi interpretativi
siano veri o falsi dipende dalla questione se i giudizi morali siano veri o
falsi ed ha dunque diversa soluzione sulla base delle teorie etiche
cognitiviste (oggettiviste) e non-cognitiviste (scettiche): vedi E. Diciotti, Verità e certezza nell’interpretazione della
legge, cit., Parte terza.
(36) Ove si adotti la posizione non-cognitivista si dovrà cioè
sostenere che i giudizi sui principi metodologici e i giudizi interpretativi
siano, come ogni altro giudizio morale, o né veri né falsi (così come
tipicamente è stato sostenuto dalle teorie etiche emotiviste: vedi ad esempio
A.J. Ayer, op. cit., pp. 139-141),
oppure tutti falsi (così come vuole la “teoria dell’errore” di J. Mackie, Etica: inventare il giusto e l’ingiusto
(1987), Torino, Giappichelli, 2001, pp. 40-41).
(37) L’idea che le motivazioni dei giudici possano essere
ricostruite in forma di catena di sillogismi è sostenuta da P. Chiassoni, La giurisprudenza civile, cit., pp.
155-184.
(38) Su questa impossibilità mi sono soffermato in E. Diciotti, Interpretazione della legge e discorso
razionale, cit., pp. 527-532.
(39) Il problema che si presenta è analogo a quello che sorge
quando si tratti di universalizzare una prescrizione non universale, cioè di
individuare la norma universale da cui essa discende: su questo punto vedi ad
esempio A. Ross, Sul ragionamento morale
(una critica a Richard M. Hare) (1964), in A. Ross, Critica del diritto e analisi del linguaggio, Bologna, il Mulino,
1982, pp. 159-175, alle pp. 171-172.
(40) Vedi le regole del discorso elaborate da R. Alexy, Teoria dell’argomentazione giuridica,
cit., pp. 149-163, e in particolare la regola relativa all’onere
dell’argomentazione, secondo la quale «chi ha prodotto un argomento è tenuto a
presentare ulteriori argomenti […] in presenza di un argomento contrario» (p.
156).
(41) J.R. Searle, Per una
tassonomia degli atti illocutori, cit., p. 172.
(42) Una breve indagine storica sulle teorie sociali del complotto
si trova in Z. Ciuffoletti, Retorica del
complotto, Milano, il Saggiatore, 1993.
(43) La distinzione tra ideologia’ in “senso debole” e ideologia
in “senso forte” si trova in N. Bobbio, L’ideologia
in Pareto e in Marx (1968), in N. Bobbio, Saggi sulla scienza politica in Italia, Bari, Laterza, 1971, pp.
109-122, alle pp. 114-116. Varie accezioni di ‘ideologia’ (in “senso debole” e
in “senso forte”) sono distinte da F. Rossi-Landi, Ideologia, Milano, ISEDI, 1978, pp. 37-50.
(44) Mi sono soffermato su questi aspetti in E. Diciotti, Interpretazione del diritto e discorso
razionale, cit., pp. 532-539, e Regola
di riconoscimento, controversie giuridiche e retorica, in M. Manzin e P.
Sommaggio (a cura di), Argomentazione retorica
e linguaggio normativo, Milano, Giuffrè, in corso di stampa.
(45) Qualche indicazione a questo riguardo ho cercato di darla in
E, Diciotti, Regola di riconoscimento,
controversie giuridiche e retorica, cit.