Ringrazio Greco e
Pellegrino per i commenti attenti e pertinenti e provo ad aggiungere qualcosa,
sperando che sia utile a me, a loro, e ai lettori.
Greco illustra
utilmente come alcuni miei suggerimenti sul modo in cui l’eredità di Sidgwick
abbia lasciato un segno nella tradizione anglosassone in etica si possano
accostare ai più autorevoli suggerimenti di Williams sullo stesso punto.
Rispetto alle prospettive indicate da Williams, ritengo utile chiarire qualche
mia impressione:
a) mi sentirei vicino
a Williams quando denuncia le eccessive pretese della «teoria etica», ovvero
del sogno di un’etica filosofica come capitolo di una più ampia teoria dell’azione
razionale, capace di stabilire, applicando un «metodo», ciò che deve essere
fatto nei casi particolari; ciò che il mio contributo suggerisce è però che questa
idea di teoria etica è un progetto ancora più datato e più peregrino di quanto
Williams pensi, dato che affonda le sue radici soltanto nel terreno del
positivismo, con i suoi corollari della Scienza come sostituto della religione
e della Scienza che può insegnare che
cosa è giusto;
b) mi distanzierei
dall’opinione di Williams che la filosofia morale moderna in blocco pecchi
dello stesso peccato, la teoria dell’azione obbligatoria, e che Kant sia
l’altra faccia di Bentham; tenderei a pensare invece che Pufendorf, Butler,
Price, Mendelsohn, Kant cercavano di fare una cosa diversa e tutto sommato non
troppo straordinaria, la stessa cosa che voleva fare il vecchio Cicerone,
ovvero un’etica normativa razionalmente giustificata; questa non peccava
necessariamente dei peccati che Williams ascrive alla teoria etica perché non
pretendeva di essere un analogo della scienza della natura, e anzi la nozione
di Scienza è una novità ottocentesca. Infatti Cicerone aveva una epistemologia
moderatamente scettica, la casistica aveva sviluppato una serie di dottrine
alternative sulla determinazione dell’azione doverosa o lecita di fronte a
situazioni di incertezza, Kant aveva una sua soluzione – legata al ruolo del
«giudizio» – per affrontare i dilemmi morali, soluzione che né MacIntyre né
Williams sembrano conoscere (1),
come non la conosceva Sidgwick, nonostante un solerte scozzese avesse tradotto
la Metafisica dei costumi già nel 1799 (2);
b) mi distanzierei
anche dall’idea di Williams che l’alternativa ai mali della “teoria etica” sia
la considerazione nella loro complessità delle situazioni morali concrete con
lo sviluppo di un’arte del decidere saggiamente ed esteticamente; tendo a pensare
che invece ci sia spazio per diversi generi di discorso su livelli diversi: in
primo luogo un’etica normativa che non è «scientifica» ma che argomenta in
modo razionale seppure non fondazionalista, in secondo luogo una
sorta di «arte del giudizio» che si inizia a praticare nel momento in cui si
gettano alle spalle le teorie che si sono studiate e si improvvisa, come sanno
fare soltanto i pianisti che hanno fatte le scale per ore ed ore in tenera età,
di fronte ai casi concreti, che non sono per lo più i dilemmi da cui partono i
libri di testo anglosassoni, ma sono muddles in cui affondano le persone
sagge e i filosofi morali «non fanatici» e sopra i quali viaggiano a un metro
da terra gli idealisti, che sono gli unici realisti; in terzo luogo quella
sorta di «deliberazione filosoficamente assistita» in cui consiste la cosiddetta
«etica applicata», un famiglia di procedure simili in modo impressionante alla
casistica di Francisco de Vitoria (il domenicano che aveva sostenuto che il re
di Spagna dovesse scusarsi con gli indios, ritirare truppe e coloni e limitarsi
a chiedere l’applicazione di una clausola di reciprocità in materia di libera
circolazione di missionari e mercanti), casistica che venne ferocemente derisa
dai giansenisti (che non sono compagni di strada raccomandabili per nessuno) e
poi da tutti i filosofi successori per pura inerzia. L’etica applicata non
presuppone l’etica laica, l’etica scientifica, l’etica razionale, altrimenti
non ce ne sarebbe bisogno perché tutti sarebbero già d’accordo, ma è solo un
procedimento di deliberazione che prende le «ideologie» e le visioni del mondo
accettate dai soggetti coinvolti come materia prima, che non vuole
«indottrinare» questi soggetti ma soltanto
produrre un processi di revisione autocritica, e che mira a mettere
d’accordo su qualche punto chi è in disaccordo (3), non
a mettere d’accordo quei pochi che sono già d’accordo fra loro (perché
aderiscono all’etica scientifica o all’etica laica o alla «nuova morale»).
Le obiezioni di
Pellegrino sono articolate e documentate in modo notevole; limiti di spazio (e
di tempi di consegna) mi impediscono di entrare nel merito quanto meriterebbero;
mi limito quindi a chiarire su quali punti ho l’impressione, al momento, di
avere ancora un’opinione diversa:
a) sul relativismo:
Sidgwick non è stato relativista (e se ho detto il contrario e non si è capito
è certamente colpa mia) ma semmai lo è stato troppo poco e gli avrebbe fatto
bene diventarlo un po’ di più; ciò che è implicato nel testo dei Metodi è
che esiste la storia dell’umanità e che questa va nella direzione dal meno
verso il più; ciò che è valido per l’élite britannica di fine Ottocento
è valido per tutti, salvo che per la maggioranza non vi è speranza di
rischiaramento, ed è meglio che le credenze irriflesse di questa maggioranza
siano pilotate dalla minoranza privilegiata; direi che Sidgwick è un
post-illuminista proprio perché ha perso la fiducia illuminista che il modo di
sentire dell’uomo della strada sia già potenzialmente rettamente orientato,
come per Kant, o che lo possa essere con un intervento educativo non troppo
lungo e non troppo costoso, come per
Bentham;
b) sullo
psicologismo: le critiche di Sidgwick allo psicologismo metaetico (o più
precisamente in sede di ontologia morale) sono nette e non lasciano dubbi e non
ne ho trattato nell’intervento perché il punto della natura della felicità e
del piacere non era centrale per il mio ragionamento, ma ho certamente
sbagliato a non trattarle o almeno ricordarle; non mi sembra però che questo
riconoscimento abbia molto rilievo per la comprensione dell’influsso di Spencer
su Sidgwick per quanto riguarda la teoria della conoscenza in generale e di
conseguenza l’epistemologia morale; mi sembra che giustamente Pellegrino metta
in rilievo come Sidgwick si proponga di difendere l’etica normativa degli
utilitaristi (ma, ricordo, la difende in una battaglia fatta solo di ritirate
come quelle del generale Kutuzov) pagando il prezzo di adottare una diversa
metaetica per difendere la stessa etica normativa; io suggerirei che
l’antipsicologismo in ontologia morale resta indipendente dall’epistemologia
che Sidgwick bene o male accetta, e suggerirei di verificare eventuali
evoluzioni delle posizioni di Sidgwick in materia di epistemologia che penso ci
siano state dato che sia l’incontro con Spencer che quello con i neoidealisti
sono posteriori alla prima edizione dei Metodi;
c) sullo scetticismo: d’accordo sulle precisazioni terminologiche; forse avrei dovuto parlare non di «scetticismo etico» ma di «scetticismo qualificato in sede di etica normativa», ovvero non dell’adozione di una tesi della impossibilità di conoscere sia il bene sia il giusto, ma della tesi più limitata della impossibilità di determinare in molti casi quale sia il giusto; forse Nietzsche è uno scettico del primo tipo, o uno scettico in senso forte, e Sidgwick è uno «scettico limitato» nel secondo senso; ma ciò è come dire che Sidgwick è l’assertore della irrealizzabilità del compito autoassegnatosi di costruire una «teoria etica»; e, dato questo compito, questa conclusione ha conseguenze disastrose;
d) ancora sullo
scetticismo, ma in sede epistemologica generale: mi sembra un punto da
approfondire, ma per nulla risolto che la teoria della conoscenza di Sidgwick
sia in linea di principio realista e solo metodologicamente coerentista; mi
sembra che Sidgwick, dato che l’empirismo benthamiano non gli sembra più
accettabile, si affidi a una teoria della conoscenza positivista, la quale è
scientistica al livello «pratico», ma è scettica in linea di principio in
quanto ha come capisaldi l’impossibilità della «metafisica» e la necessità di
limitare la conoscenza ai «fenomeni»;
e) sul senso comune:
fuori di dubbio che Sidgwick non crede in una teoria della conoscenza o una
psicologia basate sulle «facoltà» e che la sua nozione di intuizione non è
quella di “contenuto di una facoltà intuitiva”, ma la nozione di senso comune
non era stata partorita vergine dal cervello di John Stuart Mill; era invece
una nozione carica di una storia e di implicazioni teoriche; il ritorno alla
nozione di senso comune nel dibattito intorno alla metà dell’Ottocento è il
risultato di un tentativo da parte dei due schieramenti nella controversia di
aggirare le obiezioni dell’avversario, ma con il risultato di modificare
entrambe le posizioni; Sidgwick compie questa mossa fino in fondo ma lo fa
pagando dei costi teorici elevati, quelli di rendere inservibili ad ogni fine
pratico alcuni assunti che tiene fermi a livello teorico; questo sarà il punto
finale che illustrerò;
f) sul
conservatorismo di Sidgwick e la non riformabilità del senso comune: certamente
Sidgwick non crede nell’impossibilità di riformarlo in linea di principio e se
sembra che io l’abbia suggerito è sicuramente colpa mia; ma Sidgwick si rende
conto con grande coraggio delle ragioni utilitariste che possono militare
contro una riforma della morale del senso comune in direzione utilitarista;
questo però, dato il compito autoassegnatosi di Sidgwick, non è un dettaglio
marginale. Altra cosa sarebbe discutere la reale urgenza dell’esecuzione del
compito di Sidgwick, urgenza che, col senno del poi, a parere di chi scrive,
fino alla prossima smentita, non c’era per nulla, tanto quanto non c’era il
pericolo della anomia che un altro grande post-illuminsita, Durkheim, tentava
di esorcizzare negli stessi anni con una strategia analoga, ma, poste le
priorità che Sidgwick si era assegnato, non avrei dubbi a ripetere che avrebbe
potuto utilmente far concludere tutte le sette edizioni dei Metodi
dell’etica con le parole «inevitable failure».
(1) A.
MacIntyre, A Short History of Ethics (1966), Routledge, London 19982; pp.
183-191; B. Williams, Ethics and
the Limits of Philosophy (Cambridge University Press, Cambridge, 1985),
trad. it. L'Etica e i limiti
della filosofia (Laterza, Roma-Bari
1987).
(2) I. Kant, The Metaphysics of
Morals, London. 1799
[trad. ingl. di William Richardson].
(3) Vedi
O. O’Neill, Faces of Hunger. An Essay on
Poverty, Justice and Development (London: Allen & Unwin, 1986), pp. 27-51.