Etica & Politica/ Ethics & Politics, 2006, 1

http://www.units.it/etica/2006_1/CREMASCHI.htm

 

 

Sidgwick e il progetto di un’etica scientifica: risposte a Greco e Pellegrino

 

Sergio Cremaschi

Dipartimento di Studi Umanistici  

Università del Piemonte  Orientale

 

 

 

Ringrazio Greco e Pellegrino per i commenti attenti e pertinenti e provo ad aggiungere qualcosa, sperando che sia utile a me, a loro, e ai lettori.

Greco illustra utilmente come alcuni miei suggerimenti sul modo in cui l’eredità di Sidgwick abbia lasciato un segno nella tradizione anglosassone in etica si possano accostare ai più autorevoli suggerimenti di Williams sullo stesso punto. Rispetto alle prospettive indicate da Williams, ritengo utile chiarire qualche mia impressione:

a) mi sentirei vicino a Williams quando denuncia le eccessive pretese della «teoria etica», ovvero del sogno di un’etica filosofica come capitolo di una più ampia teoria dell’azione razionale, capace di stabilire, applicando un «metodo», ciò che deve essere fatto nei casi particolari; ciò che il mio contributo suggerisce è però che questa idea di teoria etica è un progetto ancora più datato e più peregrino di quanto Williams pensi, dato che affonda le sue radici soltanto nel terreno del positivismo, con i suoi corollari della Scienza come sostituto della religione e della Scienza che può  insegnare che cosa è giusto;

b) mi distanzierei dall’opinione di Williams che la filosofia morale moderna in blocco pecchi dello stesso peccato, la teoria dell’azione obbligatoria, e che Kant sia l’altra faccia di Bentham; tenderei a pensare invece che Pufendorf, Butler, Price, Mendelsohn, Kant cercavano di fare una cosa diversa e tutto sommato non troppo straordinaria, la stessa cosa che voleva fare il vecchio Cicerone, ovvero un’etica normativa razionalmente giustificata; questa non peccava necessariamente dei peccati che Williams ascrive alla teoria etica perché non pretendeva di essere un analogo della scienza della natura, e anzi la nozione di Scienza è una novità ottocentesca. Infatti Cicerone aveva una epistemologia moderatamente scettica, la casistica aveva sviluppato una serie di dottrine alternative sulla determinazione dell’azione doverosa o lecita di fronte a situazioni di incertezza, Kant aveva una sua soluzione – legata al ruolo del «giudizio» – per affrontare i dilemmi morali, soluzione che né MacIntyre né Williams sembrano conoscere (1), come non la conosceva Sidgwick, nonostante un solerte scozzese avesse tradotto la Metafisica dei costumi già nel 1799 (2);

b) mi distanzierei anche dall’idea di Williams che l’alternativa ai mali della “teoria etica” sia la considerazione nella loro complessità delle situazioni morali concrete con lo sviluppo di un’arte del decidere saggiamente ed esteticamente; tendo a pensare che invece ci sia spazio per diversi generi di discorso su livelli diversi: in primo luogo un’etica normativa che non è «scientifica» ma che argomenta in modo  razionale seppure  non fondazionalista, in secondo luogo una sorta di «arte del giudizio» che si inizia a praticare nel momento in cui si gettano alle spalle le teorie che si sono studiate e si improvvisa, come sanno fare soltanto i pianisti che hanno fatte le scale per ore ed ore in tenera età, di fronte ai casi concreti, che non sono per lo più i dilemmi da cui partono i libri di testo anglosassoni, ma sono muddles in cui affondano le persone sagge e i filosofi morali «non fanatici» e sopra i quali viaggiano a un metro da terra gli idealisti, che sono gli unici realisti; in terzo luogo quella sorta di «deliberazione filosoficamente assistita» in cui consiste la cosiddetta «etica applicata», un famiglia di procedure simili in modo impressionante alla casistica di Francisco de Vitoria (il domenicano che aveva sostenuto che il re di Spagna dovesse scusarsi con gli indios, ritirare truppe e coloni e limitarsi a chiedere l’applicazione di una clausola di reciprocità in materia di libera circolazione di missionari e mercanti), casistica che venne ferocemente derisa dai giansenisti (che non sono compagni di strada raccomandabili per nessuno) e poi da tutti i filosofi successori per pura inerzia. L’etica applicata non presuppone l’etica laica, l’etica scientifica, l’etica razionale, altrimenti non ce ne sarebbe bisogno perché tutti sarebbero già d’accordo, ma è solo un procedimento di deliberazione che prende le «ideologie» e le visioni del mondo accettate dai soggetti coinvolti come materia prima, che non vuole «indottrinare» questi soggetti ma soltanto  produrre un processi di revisione autocritica, e che mira a mettere d’accordo su qualche punto chi è in disaccordo (3), non a mettere d’accordo quei pochi che sono già d’accordo fra loro (perché aderiscono all’etica scientifica o all’etica laica o alla «nuova morale»).

Le obiezioni di Pellegrino sono articolate e documentate in modo notevole; limiti di spazio (e di tempi di consegna) mi impediscono di entrare nel merito quanto meriterebbero; mi limito quindi a chiarire su quali punti ho l’impressione, al momento, di avere ancora un’opinione diversa:

a) sul relativismo: Sidgwick non è stato relativista (e se ho detto il contrario e non si è capito è certamente colpa mia) ma semmai lo è stato troppo poco e gli avrebbe fatto bene diventarlo un po’ di più; ciò che è implicato nel testo dei Metodi è che esiste la storia dell’umanità e che questa va nella direzione dal meno verso il più; ciò che è valido per l’élite britannica di fine Ottocento è valido per tutti, salvo che per la maggioranza non vi è speranza di rischiaramento, ed è meglio che le credenze irriflesse di questa maggioranza siano pilotate dalla minoranza privilegiata; direi che Sidgwick è un post-illuminista proprio perché ha perso la fiducia illuminista che il modo di sentire dell’uomo della strada sia già potenzialmente rettamente orientato, come per Kant, o che lo possa essere con un intervento educativo non troppo lungo e  non troppo costoso, come per Bentham;

b) sullo psicologismo: le critiche di Sidgwick allo psicologismo metaetico (o più precisamente in sede di ontologia morale) sono nette e non lasciano dubbi e non ne ho trattato nell’intervento perché il punto della natura della felicità e del piacere non era centrale per il mio ragionamento, ma ho certamente sbagliato a non trattarle o almeno ricordarle; non mi sembra però che questo riconoscimento abbia molto rilievo per la comprensione dell’influsso di Spencer su Sidgwick per quanto riguarda la teoria della conoscenza in generale e di conseguenza l’epistemologia morale; mi sembra che giustamente Pellegrino metta in rilievo come Sidgwick si proponga di difendere l’etica normativa degli utilitaristi (ma, ricordo, la difende in una battaglia fatta solo di ritirate come quelle del generale Kutuzov) pagando il prezzo di adottare una diversa metaetica per difendere la stessa etica normativa; io suggerirei che l’antipsicologismo in ontologia morale resta indipendente dall’epistemologia che Sidgwick bene o male accetta, e suggerirei di verificare eventuali evoluzioni delle posizioni di Sidgwick in materia di epistemologia che penso ci siano state dato che sia l’incontro con Spencer che quello con i neoidealisti sono posteriori alla prima edizione dei Metodi;

c) sullo scetticismo: d’accordo sulle precisazioni terminologiche; forse avrei dovuto parlare non di «scetticismo etico» ma di «scetticismo qualificato in sede di etica normativa», ovvero non dell’adozione di una tesi della impossibilità di conoscere sia il bene sia il giusto, ma della tesi più limitata della impossibilità di determinare in molti casi quale sia il giusto; forse Nietzsche è uno scettico del primo tipo, o uno scettico in senso forte, e Sidgwick è uno «scettico limitato» nel secondo senso; ma ciò è come dire che Sidgwick è l’assertore della irrealizzabilità del compito autoassegnatosi di costruire una «teoria etica»; e, dato questo compito, questa conclusione ha conseguenze disastrose;

d) ancora sullo scetticismo, ma in sede epistemologica generale: mi sembra un punto da approfondire, ma per nulla risolto che la teoria della conoscenza di Sidgwick sia in linea di principio realista e solo metodologicamente coerentista; mi sembra che Sidgwick, dato che l’empirismo benthamiano non gli sembra più accettabile, si affidi a una teoria della conoscenza positivista, la quale è scientistica al livello «pratico», ma è scettica in linea di principio in quanto ha come capisaldi l’impossibilità della «metafisica» e la necessità di limitare la conoscenza ai «fenomeni»;

e) sul senso comune: fuori di dubbio che Sidgwick non crede in una teoria della conoscenza o una psicologia basate sulle «facoltà» e che la sua nozione di intuizione non è quella di “contenuto di una facoltà intuitiva”, ma la nozione di senso comune non era stata partorita vergine dal cervello di John Stuart Mill; era invece una nozione carica di una storia e di implicazioni teoriche; il ritorno alla nozione di senso comune nel dibattito intorno alla metà dell’Ottocento è il risultato di un tentativo da parte dei due schieramenti nella controversia di aggirare le obiezioni dell’avversario, ma con il risultato di modificare entrambe le posizioni; Sidgwick compie questa mossa fino in fondo ma lo fa pagando dei costi teorici elevati, quelli di rendere inservibili ad ogni fine pratico alcuni assunti che tiene fermi a livello teorico; questo sarà il punto finale che illustrerò;

f) sul conservatorismo di Sidgwick e la non riformabilità del senso comune: certamente Sidgwick non crede nell’impossibilità di riformarlo in linea di principio e se sembra che io l’abbia suggerito è sicuramente colpa mia; ma Sidgwick si rende conto con grande coraggio delle ragioni utilitariste che possono militare contro una riforma della morale del senso comune in direzione utilitarista; questo però, dato il compito autoassegnatosi di Sidgwick, non è un dettaglio marginale. Altra cosa sarebbe discutere la reale urgenza dell’esecuzione del compito di Sidgwick, urgenza che, col senno del poi, a parere di chi scrive, fino alla prossima smentita, non c’era per nulla, tanto quanto non c’era il pericolo della anomia che un altro grande post-illuminsita, Durkheim, tentava di esorcizzare negli stessi anni con una strategia analoga, ma, poste le priorità che Sidgwick si era assegnato, non avrei dubbi a ripetere che avrebbe potuto utilmente far concludere tutte le sette edizioni dei Metodi dell’etica con le parole «inevitable failure».

 

 

Note

 

(1) A. MacIntyre, A Short History of Ethics (1966), Routledge, London 19982; pp. 183-191; B. Williams, Ethics and the Limits of Philosophy (Cambridge University Press, Cambridge, 1985), trad. it. L'Etica e i limiti della filosofia (Laterza, Roma-Bari 1987).

(2) I. Kant, The Metaphysics of Morals, London. 1799 [trad. ingl. di William Richardson].

(3) Vedi O. O’Neill, Faces of Hunger. An Essay on Poverty, Justice and Development (London: Allen  & Unwin, 1986), pp. 27-51.