Etica & Politica/ Ethics & Politics,
2006, 1
http://www.units.it/etica/2006_1/CANALE.htm
Istituto
di diritto comparato “Angelo Sraffa”
Abstract
“Preunderstanding” is the core of the theoretical
framework developed by legal hermeneutics. Legal interpretation is necessary
guided by the know-how, the presuppositions and the attitudes of the
interpreter. But if this is the case, how can we distinguish between a legitimate
and a not legitimate preunderstanding, and also between a good and a bad
interpretation? The paper tries to adress this question analyzing the structure
of preunderstanding from the point of view of both legal hermeneutics and
philosophical hermeneutics. The paper argues, in particular, that the
preunderstanding of the judge can be treated as legitimate if corresponding to
the “real thing” (Sache selbst)
regulated by the text. Such a criterion can be articulated methodologically by
means of an inferential approach to conceptual content and legal process. |
L’ermeneutica giuridica vive
oggi un momento di trasformazione. Nell’ultimo ventennio gli studiosi che si
riconoscono in questo indirizzo della filosofia e della teoria del diritto
contemporanea hanno infatti esteso il loro campo di ricerca dalla teoria
dell’interpretazione in senso stretto alla teoria del ragionamento giuridico,
alla teoria dei diritti fondamentali, alla bioetica, alle dottrine della
giustizia internazionale, giungendo a delineare una vera e propria teoria ermeneutica
del diritto, in grado di abbracciare l’intero spettro dei fenomeni giuridici e
dei problemi ad essi correlati. (1) Per
un verso si tratta di un ampliamento di orizzonti che rispecchia uno dei tratti
salienti dell’ermeneutica filosofica novecentesca, la quale si riconosce non
come un metodo per interpretare un testo o, più in generale, come un insieme di
dottrine, quanto piuttosto come uno stile di interrogazione filosofica, come un
«modo per accostarsi ad un problema». (2) Per
altro verso, tuttavia, questo allargamento tematico ha reso più vaghi i caratteri
distintivi del lavoro ermeneutico in campo giuridico. Se a partire dagli anni
Sessanta del Novecento lo stimolo esercitato dall’opera di Hans-Georg Gadamer,
e il nuovo statuto da questa riconosciuto al problema dell’interpretazione,
aveva fatto da collante per filosofi del diritto di estrazione assai diversa, (3) l’attenzione oggi riservata ad ambiti
tematici in gran parte nuovi ha favorito un crescente disinteresse per i
fondamenti dello stile ermeneutico, a vantaggio di forme di ibridazione con
apparati concettuali ripresi dal neo-giusnaturalismo, dalla teoria del
discorso, dal post-strutturalismo, dal neo-costituzionalismo, dalle dottrine
della democrazia deliberativa e così via. Un’ibridazione che testimonia certo
la ricerca di un dialogo con altre tradizioni filosofiche, da sempre tratto
distintivo dello stile ermeneutico, ma che rischia, per converso, di generare
in quest’ultimo una progressiva perdita di identità.
Credo tuttavia che proprio le
nuove sfide cui è posta dinanzi la filosofia del diritto contemporanea
consiglino di tornare a riflettere criticamente su alcuni snodi chiave della
tradizione ermeneutica. Ciò non certo per preservare il suo codice genetico da
mutazioni indesiderate, ma perché tali snodi conservano un carattere
problematico che si presta a percorsi di ricerca ancora degni di attenzione.
Ne costituisce un esempio
paradigmatico il concetto di precomprensione (Vorverständnis), croce e delizia dell’ermeneutica giuridica
novecentesca. Se infatti l’attenzione riservata alle presupposizioni che
guidano l’interpretazione dei testi normativi, condizionando la decisione del
giudice, ha segnato una tappa importante per la metodologia giuridica del
Novecento, il ruolo riconosciuto ai presupposti impliciti dell’interpretazione
continua a suscitare innumerevoli problemi. Una volta assodato che
l’interpretazione giudiziale non è descrivibile come un procedimento logico-deduttivo,
ma include scelte politiche e scelte di valore che condizionano
l’individuazione delle premesse decisionali, come distinguere una
presupposizione legittima da una illegittima ovvero una interpretazione
corretta da una errata?
Questo problema ha assillato
l’ermeneutica giuridica fin dai suoi esordi, costringendola a concentrare
l’attenzione sui criteri di razionalità della decisione giudiziale, ovverosia
sulle condizioni che rendono giustificato un risultato interpretativo. (4)
L’attenzione riservata al problema della giustificazione, alimentato da un
dialogo fecondo con la topica giuridica, con la nuova retorica perelmaniana,
con
Se si accoglie fino alle sue
estreme conseguenze il paradigma ermeneutico, dunque, non è pensabile una presa
di distanza dalle pratiche interpretative, che consenta di verificare la
corrispondenza tra i loro risultati e dei parametri precostituiti, comunque
questi vengano concepiti (lettera del testo, intenzione del legislatore,
principi generali del diritto, valori condivisi dalla comunità interpretativa,
regole universali della comunicazione, presupposti antropologici della
convivenza umana, ecc.). Il contenuto di tali parametri costituisce il
risultato di un’attività interpretativa a più ampio raggio, tesa a rinnovare il
legame – nel lessico di Gadamer: la «fusione di orizzonti» – tra l’interprete e
la tradizione interpretativa nella quale il testo si inserisce.
Una considerazione simile, che
ribadisce il carattere circolare del comprendere giuridico, sembrerebbe
riabilitare l’accusa di relativismo o di vago tradizionalismo che ha spesso
accompagnato l’ermeneutica, (5) o,
nel migliore dei casi, ridurre la sua elaborazione teorica ad una lezione di
saggezza pratica, ad un appello etico, rivolto al giurista, teso a stimolare
una presa di responsabilità nei confronti del suo operare. Ma è questo l’unico
esito a cui può approdare lo stile ermeneutico in filosofia del diritto?
Vale forse la pena esplorare
una via alternativa. Se infatti non è possibile aggirare la dipendenza della
comprensione dall’anticipazione di senso che la rende possibile, occorre
risalire alla struttura della precomprensione, per determinare le sue
condizioni di legittimità. Un’interpretazione
può dirsi corretta, infatti, non alla luce dei suoi risultati, ma in virtù dei
suoi presupposti. Riprendendo le parole di Martin Heidegger, il problema
della corretta interpretazione non si risolve uscendo dalla circolarità del
comprendere, per controllarne dall’esterno la legittimità, ma «entrando [nel
circolo] nel modo corretto (in ihn nach
der rechten Weise hineinzukommen)». (6)
Occorre dunque concentrare l’attenzione sul punto d’accesso all’interpretazione
di un testo giuridico, alla ricerca di un criterio che consenta di vagliarne la
correttezza. Un criterio certo interno al comprendere giuridico, ma non di meno
suscettibile di una trattazione metodologica – per quanto sui generis – e dunque funzionale alle esigenze di certezza del
diritto e di legittimazione democratica che caratterizzano gli ordinamenti
occidentali contemporanei.
Tale obbiettivo verrà qui
perseguito seguendo un percorso peculiare. Muovendo da una ricognizione critica
degli usi della parola ‘precomprensione’ rinvenibili nel discorso
dell’ermeneutica giuridica contemporanea, verrà proposta una rapida incursione
in alcuni grandi classici del pensiero ermeneutico. (7) Ciò non tanto per delineare una
archeologia del concetto di precomprensione, ma per recuperare alcuni spunti
utili alla sua ricollocazione nel dibattito filosofico odierno.
2. Il concetto teorico-giuridico di precomprensione
Il concetto di precomprensione
gode di una considerevole fortuna nella letteratura giuridica contemporanea.
Ciò deriva probabilmente dal fatto che esso riconosce dignità teorica ad una
consapevolezza ampiamente diffusa tra gli operatori del diritto:
l’interpretazione dei testi normativi è sempre influenzata da valutazioni
preventive di opportunità, di realizzabilità e di giustezza di un progetto
decisionale, le quali condizionano inevitabilmente i suoi risultati. Il termine
‘precomprensione’ viene cioè comunemente utilizzato per svelare il reale funzionamento
della prassi giudiziale, la quale si configura innanzitutto come una forma di
mediazione tra interessi, prima ancora che come uno strumento per implementare
le direttive del legislatore.
L’ermeneutica giuridica ha
canalizzato questa convinzione diffusa entro coordinate teoriche precise.
Quando il giudice, il funzionario amministrativo, l’avvocato o lo scienziato
del diritto si accostano ad una disposizione giuridica per comprenderne il
contenuto, sono sempre guidati da una precomprensione, vale a dire da una
prefigurazione di quanto la disposizione prescrive (significato) e della
situazione di fatto che essa regola (riferimento). (8) Ma
come si caratterizza questa forma di “comprensione anticipata” nella
riflessione dell’ermeneutica giuridica?
Se intesa in senso lato, la
precomprensione o «aspettativa di senso» (Sinnerwartung)
costituisce un aspetto della competenza pratica dell’interprete nell’uso dei
testi normativi, vale a dire della sua capacità di padroneggiare il linguaggio
delle norme. (9) Si tratta di una
capacità che deriva sia della conoscenza sintattica e semantica della lingua,
sia da conoscenze tecniche che concernono la specificità del linguaggio
giuridico. Non solo. Considerata la plurivocità semantica del linguaggio
normativo, vale a dire l’ambiguità dei testi giuridici e la vaghezza delle
norme, tale competenza include la capacità di valutare quale soluzione interpretativa,
tra quelle sintatticamente e semanticamente possibili, sia da considerare più
opportuna, adeguata, pertinente. Ciò sulla scorta di conoscenze e valutazioni a
più ampio raggio, che concernono il funzionamento delle dinamiche sociali,
l’assetto dei rapporti politici ed istituzionali, come pure gli interessi e i
valori considerati preminenti all’interno della società in un certo momento storico.
L’ermeneutica giuridica non ha mancato di analizzare nel dettaglio i fattori
che concorrono a determinare la competenza pratica dell’interprete, e con essa
la precomprensione in senso lato degli enunciati normativi. Tra gli ingredienti
della precomprensione in senso lato, la cui “impronta semantica” indirizza
l’attribuzione di senso, vale la pena ricordare la formazione dell’interprete,
i canoni o argomenti interpretativi, le figure dogmatiche consolidate,
l’opinione dottrinale dominante, i precedenti delle corti superiori, la
previsione delle conseguenze decisionali, i princîpi inespressi
dell’ordinamento. (10)
Tali fattori, se considerati dal punto di vista ermeneutico, non costituiscono
un ostacolo o una fonte di alterazione della comprensione, come se il senso di
un enunciato normativo potesse sussistere indipendentemente da essi.
L’aspettativa di senso acquista invece un valore positivo: essa fa sì che il
testo non rimanga muto, ma si presti a significare qualcosa per i suoi fruitori. La precomprensione costituisce cioè
un presupposto tanto di una interpretazione corretta quanto di una interpretazione
errata: essa si limita a rendere possibile il procedimento interpretativo, vale
a dire la determinazione del senso, lasciando aperto il problema della sua correttezza.
Se intesa in senso stretto,
con specifico riferimento cioè all’interpretazione giudiziale, la
precomprensione viene invece definita come un’ipotesi relativa alla soluzione
della controversia. (11)
Precomprendere in senso stretto un enunciato normativo significa formulare un
progetto di soluzione del caso, in virtù del quale viene ipotizzato sia quanto
l’enunciato da interpretare prescrive, sia la situazione di fatto che esso
regola. Si tratta tuttavia di un’ipotesi provvisoria, che attende di essere
confermata o confutata durante il percorso interpretativo. Dal punto di vista
ermeneutico quest’ultimo si sostanzia infatti nell’interrogare le disposizioni
alla luce dei fatti e i fatti alla luce delle disposizioni, secondo un
procedimento di domanda e risposta (circolo ermeneutico) che consente di determinare,
in modo correlato, tanto il significato quanto il riferimento di un enunciato
normativo. Detto più precisamente, la ricostruzione giudiziale dei fatti
conduce l’interprete, alla luce della sua competenza pratica nell’uso del
linguaggio giuridico, ad individuare l’enunciato normativo che potrebbe
disciplinare il caso, prefigurando il riferimento dell’enunciato stesso; il
contenuto direttivo (significato) di quest’ultimo consente a sua volta di
perfezionare l’individuazione degli elementi di fatto giuridicamente rilevanti,
innescando un percorso circolare che si conclude con la decisione giudiziale. (12) Tale processo di mutua determinazione
semantica non necessariamente avrà successo. L’interpretazione giudiziale (interpretazione-processo)
viene infatti descritta dall’ermeneutica giuridica come un procedimento di
“prova ed errore”, mediante il quale vengono espunte dal giudizio le
correlazioni tra norma (disposizione giuridica interpretata) e caso (ricostruzione
giudiziale dei fatti) inadeguate, garantendo così l’individuazione del
risultato interpretativo corretto. (13)
Se questa descrizione del
procedimento interpretativo coglie nel segno, ne segue una presa di posizione
teorica che vale la pena puntualizzare: per l’ermeneutica giuridica la
cosiddetta interpretazione-processo fa riferimento non ad uno stato mentale
soggettivo, e dunque discrezionale o arbitrario, quanto ad una prassi istituzionale
alla quale prendono parte, direttamente o indirettamente, una pluralità di
soggetti. Tale prassi consiste nel formulare delle ipotesi in ordine alla
soluzione di una controversia, e nel vagliare dette ipotesi in modo da
selezionare sia il significato pertinente delle disposizioni normative scelte
per disciplinare il caso, sia i fatti giuridicamente rilevanti. (14)
Ma il processo interpretativo,
nei limiti in cui è stato fin qui descritto, consente per sé di individuare l’interpretazione-risultato corretta?
Consideriamo un primo aspetto
del problema. L’ermeneutica giuridica osserva come nell’interrogare le norme
alla luce dei fatti e i fatti alla luce delle norme, in modo da individuare una
correlazione semantica tra situazione in fatto e situazione in diritto,
l’interprete sia guidato dal criterio della coerenza. Adeguata sarà cioè
l’interpretazione-risultato che garantisce l’unità di senso del testo interpretato,
vale a dire, nel contesto giudiziale, una effettiva «corrispondenza» tra i
fatti giuridicamente rilevanti e i concetti giuridici utilizzati per
individuarli, oltre che per imputare ad essi le conseguenze giuridiche previste
dall’ordinamento. (15)
Ma a quale nozione di coerenza
fa qui riferimento il discorso dell’ermeneutica giuridica? Va da sé che nel
contesto teorico che stiamo considerando non risulta determinante la semplice
coerenza logica (consistency) tra
premesse e conclusione, la quale garantisce la non contraddittorietà di un
risultato interpretativo ma non la sua correttezza. (16) Il concetto ermeneutico di coerenza,
tuttavia, non è neppure riducibile alle nozioni di normative coherence e di narrative
coherence discusse nel campo della teoria del ragionamento giuridico, le
quali denotano, rispettivamente, la capacità di un’ipotesi interpretativa di
“fare senso” entro il complesso dell’ordinamento, e la capacità della
ricostruzione giudiziale del caso di fornire the best explanation dei fatti oggetto della controversia. (17) L’ermeneutica giuridica sviluppa una
nozione più ampia e articolata di coerenza, che rinvia non tanto alla
giustificazione delle premesse decisionali, quanto piuttosto al procedimento di
formazione della precomprensione in senso stretto. Un’ipotesi di soluzione
della controversia è coerente, nel lessico dell’ermeneutica, se riconduce ad
«unità di senso» la spiegazione dei fatti e la loro qualificazione giuridica,
vale a dire se la fattispecie astratta e la fattispecie concreta entrano
effettivamente in un rapporto di «corrispondenza reciproca», determinando il
contenuto semantico della norma da applicare al caso di specie. (18)
Se in questo modo la nozione
di coerenza conduce il teorico del diritto a focalizzare l’attenzione sul
procedimento di costruzione dell’ipotesi decisionale, non di meno essa non
fornisce ancora un criterio sufficiente a garantire la correttezza del
risultato interpretativo. La configurazione degli ordinamenti contemporanei,
segnati da una proliferazione incontrollata e asistematica delle disposizioni
del legislatore, aggravata dai fenomeni di ambiguità e di vaghezza delle norme,
impedisce infatti di supporre l’esistenza di un’unica ipotesi coerente di
soluzione del caso. (19)
Il processo di mutua determinazione dei fatti giuridicamente rilevanti e del
significato dei testi normativi utilizzati per disciplinarli (circolo ermeneutico),
non esclude cioè che il giudice possa formulare più ipotesi decisionali
ugualmente coerenti, ma rende tale possibilità sempre attuale. Il criterio
dell’unità di senso si limita pertanto a configurare una precondizione
dell’interpretazione giudiziale non in grado di risolvere il problema del
conflitto delle interpretazioni. Se considerato isolatamente, tale criterio
rischia anzi di riproporre, sotto il profilo contenutistico anziché
logico-formale, la tesi vetero-positivista dell’unica soluzione corretta, la
quale, per essere adeguatamente sostenuta, renderebbe necessario lo sviluppo di
un apparato teorico non compatibile col paradigma ermeneutico, così come
considerato fino a questo momento. (20)
Il problema appena esposto non
giunge a migliore soluzione qualora la costruzione della precomprensione in
senso stretto venga caratterizzata come un procedimento di “prova ed errore”.
Tale procedimento – che l’ermeneutica giuridica riprende dall’epistemologia
popperiana, trasformandolo in un dispositivo metodologico-giuridico – consente
certo di dar conto, sotto il profilo descrittivo, del reale funzionamento della
prassi giudiziale, evidenziando come essa muova da ipotesi e proceda attraverso
la discussione e la confutazione di ipotesi. Non di meno, se considerato nella
sua accezione popperiana, il procedimento di trial and error non fornisce alcun criterio di correttezza
dell’interpretazione, ma consente semplicemente di falsificare una legge scientifica. Se utilizzato in sede giudiziale,
tale procedimento condurrà quindi ad individuare la ricostruzione dei fatti non
falsificabile alla luce delle prove esibite nel processo, ma non per questo a
formulare l’interpretazione corretta, che concerne la qualificazione giuridica
dei fatti e non il loro semplice accertamento. Nel caso fosse attribuita al processo
di trial and error questa ulteriore
capacità discriminante, ne seguirebbe il paradosso che in sede di motivazione
della sentenza il giudice potrebbe giustificare l’interpretazione di una disposizione
normativa appellandosi alla mera non falsificabilità della legge scientifica
utilizzata per spiegare lo svolgimento dei fatti, senza dover giustificare la
scelta della disposizione da applicare e il senso ad essa attribuito, come se
quest’ultimo fosse iscritto nei fatti stessi, o meglio nella legge scientifica
che li spiega. (21)
Qualora si escluda questa
ricaduta nel cognitivismo interpretativo, incompatibile col paradigma
ermeneutico, sembra restare aperta soltanto una via extra-metodica per
accostarsi al metodo giuridico: rinnovando alle fondamenta
Con ciò non intendo sostenere
che la ricostruzione del procedimento interpretativo offerta dall’ermeneutica
giuridica risulta poco convincente o inadeguata: essa appare semplicemente
incompleta. Resta infatti da spiegare come la precomprensione giunga ad
acquistare forma proposizionale. Solo chiarendo questo aspetto sarà possibile
recuperare un criterio di correttezza interpretativa che consenta di
discriminare tra ipotesi decisionali ugualmente coerenti. Per uscire da questa
impasse, è opportuno dunque fare un passo indietro e risalire alle origini
filosofiche del concetto di precomprensione, alla ricerca di elementi ulteriori
che consentano di far luce su di esso.
3. Gadamer e il concetto filosofico di precomprensione
La declinazione gadameriana
del concetto di precomprensione ha costituito, com’è noto, un importante
paradigma di riferimento per l’ermeneutica giuridica nella sua revisione
critica della dottrina del metodo. Il notevole successo di questo paradigma si
spiega solo in parte con la messa in luce del ruolo ineliminabile dei
pregiudizi nell’interpretazione di un testo. L’aspetto più interessante e innovativo
dell’opera di Gadamer consiste piuttosto nel collocare le presupposizioni
dell’interprete all’interno di un orizzonte temporale. Il concetto di precomprensione,
così come sviluppato in Wahrheit und
Methode, rinvia infatti alla storicità della comprensione, alla presa
d’atto che essa muta nel tempo, e dunque anche alla specifica storicità che
caratterizza la comprensione di un testo giuridico. (22)
La parola ‘storicità’ va qui
considerata secondo due accezioni rilevanti ai nostri fini. In primo luogo
l’interpretazione di un testo normativo è costitutivamente segnata dalla
«distanza temporale» che separa la produzione del testo dalla sua
interpretazione, o meglio dalla «tensione che si stabilisce tra il testo (…) e
il senso che assume la sua applicazione nel momento dell’interpretazione». (23) Questa distanza non è intesa da Gadamer
come un ostacolo alla comprensione, come se quest’ultima potesse risolversi nel
recupero del senso originario del testo o dell’intenzione del suo autore. (24) La distanza temporale assume piuttosto
una valenza “produttiva”, poiché conduce l’interprete ad arricchire il senso di
un enunciato normativo mediante la sua armonizzazione con le esigenze del presente.
La precomprensione svolge un compito importante in questo processo. Essa
consente che le variabili contestuali dell’interpretazione entrino a far parte
del contenuto del testo, rendendo possibile la sua determinazione in rapporto
al caso da decidere. Ma non è questo l’aspetto più rilevante. Se riconosciamo
all’attività del comprendere una natura storica, messa in luce dal problema della
distanza temporale, ne segue che la precomprensione non costituisce la proiezione
di uno stato mentale soggettivo. Ciò che Gadamer denomina col termine
‘pregiudizio’ si concretizza in un processo collettivo di trasmissione storica
(Überlieferung), vale a dire di riconoscimento,
selezione e rideclinazione del senso di un testo lungo il processo diacronico
delle sue interpretazioni (Wirkungsgeschichte).
(25) Calando quanto appena osservato
nell’ambito giudiziale, la precomprensione in senso stretto include sia il
riconoscimento dei significati precedentemente attribuiti all’enunciato
normativo da interpretare, sedimentati nella competenza pratica
dell’interprete, sia la loro selezione alla luce del contesto attuale, sia il
loro adattamento alla situazione di fatto che dovrà essere regolata. Il
concetto di precomprensione mostra dunque un’articolazione diacronica, che
getta maggiore luce sul suo statuto filosofico.
Poiché il processo di trasmissione
storica, a cui dà accesso il concetto di precomprensione, esplicita secondo
Gadamer la struttura fondamentale di qualsiasi forma di comprensione, tale
concetto acquista per ciò stesso una valenza quasi-trascendentale. La
precomprensione individua le condizioni di possibilità della comprensione,
condizioni tuttavia a loro volta storicamente condizionate, poiché situate nel
mondo e quindi non riducibili ad un insieme di categorie apriori. Esse non si
lasciano definire una volta per tutte, ma si determinano ogni volta di nuovo
lungo il percorso interpretativo che da esse prende il via. (26)
Lo statuto
quasi-trascendentale riconosciuto da Gadamer al concetto di precomprensione
comporta tuttavia una conseguenza per noi rilevante. Se l’anticipazione di
senso non costituisce la proiezione di uno stato mentale soggettivo, ad essa è
parimenti preclusa l’oggettività. I contenuti della precomprensione non si
prestano ad assumere forma proposizionale né ad essere altrimenti obbiettivati,
giacché sono ciò che garantisce che il senso si riveli. In base alle lezione
gadameriana la precomprensione rende possibile la comprensione ma si sottrae
contemporaneamente ad essa. Il momento dell’anticipazione di senso resta
insondabile e inarticolato, (27) diventando
l’emblema del fluire vorticoso del mondo della vita e della insuperabile
condizionatezza storica del comprendere umano – ciò che Heidegger chiamava la
gettatezza (Geworfenheit) del nostro essere-nel-mondo (in-der-Welt-sein).
Non sorprende quindi che in Wahrheit und Methode Gadamer non si
soffermi sulla struttura della precomprensione, di per sé inaccessibile, ma esamini
invece la sua elaborazione in seno all’interpretazione, che dal processo di
trasmissione storica del senso (Überlieferungsgeschehen)
conduce alla fusione tra l’orizzonte comprensivo dell’interprete e quello del
testo (Horizontverschmelzung), alla determinazione
del senso attraverso la sua applicazione ad una situazione concreta (Anwendung), per approdare alla
caratterizzazione dialogica della comprensione linguistica e alle sue
implicazioni ontologiche. Con ciò non intendo sostenere che il problema della
corretta interpretazione non venga affrontato da Gadamer. L’esigenza di
distinguere tra pregiudizi legittimi e illegittimi costituisce anzi una
preoccupazione costante in Wahrheit und
Methode. (28) Un’esigenza che viene
soddisfatta, tuttavia, non analizzando come si forma la precomprensione o elaborando
un metodo per interpretare, ma chiarificando lo statuto filosofico della
corretta interpretazione. È il caso di soffermarsi un momento su questo punto,
cruciale nella riflessione di Gadamer, ma spesso trascurato in letteratura.
Gadamer afferma, facendo proprie
le parole di Martin Heidegger, che «ogni interpretazione corretta deve
difendersi dall’arbitrarietà e dalle limitazioni che derivano da inconsapevoli
abitudini mentali, guardando “alle cose stesse” (die Sache selbst)». (29)
Il criterio di correttezza dell’interpretazione è dato cioè non dall’autorità
della tradizione, dalle presupposizione dell’unità di senso (coerenza), o dal
consenso della comunità degli interpreti, come spesso è stato sostenuto, quanto
piuttosto dalla “cosa stessa” di cui il testo parla. Come sottolinea Gadamer a
più riprese, «il problema ermeneutico non è un problema di corretto possesso di
una lingua, ma esige che ci si intenda correttamente sulla cosa (rechte Verständigung über eine Sache)».
(30) Con riferimento al contesto giuridico, potremmo
dire che l’interpretazione di un enunciato normativo è corretta se il senso
attribuito a quest’ultimo si accorda
alla situazione di fatto da regolare. (31)
Ma a che tipo di accordo fa
riferimento Gadamer? Va da sé che non assistiamo qui alla riabilitazione di una
teoria referenziale del significato, la quale presuppone un accordo immediato
tra le parole e le cose che l’interprete avrebbe il compito semplicemente di
riconoscere. Né d’altra parte il concetto di “cosa stessa”, che Gadamer
riprende dalla fenomenologia husserliana e heideggeriana, va scambiato con un
richiamo giusnaturalistico alla “natura della cosa” (Natur der Sache), vale a dire ad un ordine sottratto alla
discrezionalità umana che si offrirebbe all’interprete quale metro obbiettivo
di giustizia. (32) In entrambi i casi
verrebbe infatti meno il ruolo di mediazione riconosciuto dall’ermeneutica filosofica
all’attività del comprendere, un’attività da intendere non come estrinseca
rispetto alla “cosa” compresa, quanto piuttosto come un suo aspetto costitutivo.
Dal punto di vista dell’analisi del linguaggio normativo, infine, non va dimenticato
come la nozioni di accordo, se intesa come sinonimo di corrispondenza, non
sembri poter trovare cittadinanza nella teoria dell’interpretazione giudiziale.
Non ha alcun senso asserire che la norma particolare e concreta con cui si
conclude il procedimento interpretativo “corrisponde” alla situazione di fatto
da regolare: un risultato interpretativo può dirsi corretto soltanto se imputa
ai fatti oggetto della controversia le conseguenze giuridiche previste
dall’ordinamento. (33)
In un illuminante saggio del
1960, Die Natur der Sache und die Sprache
der Dinge, (34) Gadamer chiarisce il quadro filosofico in
cui si inscrive il riferimento alla “cosa stessa” quale criterio di correttezza
dell’interpretazione. Mentre la parola ‘Ding’
denota genericamente l’oggetto nella sua consistenza materiale, «nell’uso
linguistico tedesco, Sache significa
innanzitutto la causa, cioè la cosa
che viene contesa (Streitsache) durante lo svolgimento del processo.
Essa è la cosa che originariamente viene posta al centro, tra le parti contendenti,
perché su di essa si deve decidere, e non è stato ancora deciso». (35) Questo richiamo al contesto giudiziale
risulta assai significativo nel discorso gadameriano. In primo luogo esso pone
in evidenza come la “cosa stessa” di cui parla il testo non vada scambiata con
un oggetto, un fatto o uno stato di cose che si presta ad essere conosciuto. La
“cosa stessa” è quanto viene conteso in sede di giudizio in vista della sua
qualificazione normativa. Il radicarsi di questo concetto filosofico entro la
dinamica del processo, della disputa tra le parti attorno ad un oggetto del contendere
che non è preventivamente determinato, ma che è scopo specifico del processo
determinare, spiega quindi perché Gadamer, nella III parte di Wahrheit und Methode, affermi che la “cosa
stessa” di cui parla il testo è accessibile per noi solo in quanto viene al
linguaggio (Zur-sprache-kommt), vale
a dire nei limiti in cui essa acquista forma preposizionale nell’interazione
dialogica tra i parlanti. Il corretto intendersi sulla “cosa”, detto
altrimenti, può accadere soltanto «nel medium
del linguaggio», (36)
così come l’oggetto del contendere giudiziale diventa intelligibile nei termini
della raffigurazione linguistica che ne viene fornita nel processo.
Va notato, tuttavia, come tale
raffigurazione non restituisca la “cosa stessa” nella sua compiuta
obbiettività. Secondo Gadamer il confronto dialogico tra le parti ha certo il
merito di far emergere «l’omogeneità interna tra la parola e la cosa», (37) rompendo il «dualismo di soggettività e volontà
da un lato, oggetto ed Essere in sé dall’altro». (38) Ma il dialogo fornisce una visione soltanto prospettica della
“cosa stessa” del contendere, in sé compiuta ma in ogni caso limitata, che si
impone tuttavia, nella sua «immediatezza» ed «evidenza», come quella giusta in
un contesto spazio-temporale determinato. (39) Da ciò segue una conseguenza assai rilevante, solo
apparentemente paradossale. Un’interpretazione può dirsi corretta nella misura
in cui rende possibile altre, ulteriori interpretazioni. Soltanto l’accumularsi
storico di risultati interpretativi, nel loro continuo rinnovarsi, consente
infatti di arricchire la visione della “cosa stessa” di cui il testo parla,
correggendo gli errori prospettici dell’interprete secondo un processo di
perfezionamento che non ha mai fine. (40) Il
criterio della correttezza si risolve pertanto in Gadamer nel criterio
dell’apertura di senso, nella possibilità di arricchire e correggere il senso
di un testo attraverso il continuo rinnovarsi delle sue interpretazioni. Una
interpretazione potrà dunque dirsi corretta nella misura in cui conduce a
gettare nuova luce sul contenuto del testo, aprendo ad una visione originale e
inaspettata della “cosa stessa” di cui esso parla.
Il criterio dell’apertura di
senso, se risulta adeguato all’interpretazione dell’opera d’arte – vero punto
di riferimento della riflessione gadameriana –, mostra maggiori limiti nel caso
venga applicato all’interpretazione giudiziale. Questa si sviluppa infatti in
un contesto istituzionalizzato teso ad individuare la soluzione del caso
singolo. Il suo scopo consiste nell’escludere alternative interpretative in
vista della decisione, non nell’aprire ad alternative interpretative ulteriori
con riferimento ad una tipologia di casi. Tale apertura potrà costituire un
effetto secondario di un risultato interpretativo, che in virtù della soluzione
adottata potrà essere trattato come un esempio nelle interpretazioni future, entrando
a far parte della precomprensione in senso lato dell’interprete. Non di meno un
criterio di correttezza dell’interpretazione giudiziale deve innanzitutto
rendere conto della richiesta di determinatezza e di legittimazione della
decisione, la quale per quanto radicata nel passato e proiettata potenzialmente
verso il futuro, conserva una valenza immediata per il presente del caso concreto.
Va certo riconosciuto come Gadamer risulti perfettamente consapevole della focalizzazione
sul caso singolo dell’interpretazione giudiziale. (41) Non di meno tale presa d’atto risulta
funzionale, in Wahrheit und Methode,
alla sottolineatura del rapporto costitutivo che lega la comprensione
all’applicazione del senso compreso nelle diverse ermeneutiche settoriali (storica,
letteraria, giuridica, teologica). Laddove si tratta invece di individuare il
criterio di correttezza dell’interpretazione del giudice, Gadamer si accontenta
di un generico riferimento al ruolo della dogmatica giuridica ed ai vincoli
sistematici cui è sottoposta l’interpretazione giudiziale, riconducendo il
rapporto con la “cosa” alla mera evidenza descrittiva. (42)
La declinazione gadameriana
del concetto di precomprensione non consente dunque di rispondere al nostro
interrogativo iniziale. L’analisi delle strutture del comprendere, infatti, non
fa luce sulla struttura della precomprensione se non nello sviluppo storico dei
suoi effetti. L’interpretazione corretta finisce così con l’identificarsi con
un evento che si sottrae a qualsiasi trattazione metodologica, con una apertura
infinita di senso dischiusa dalla singolarità finita dell’atto interpretativo.
Un modo di concepire il predicato di correttezza, questo, certo stimolante
sotto il profilo filosofico, ma proiettato in una dimensione sapienziale e
post-istituzionale che purtroppo non fornisce risposte ai problemi del
presente.
Ciò non significa che il
riferimento a Gadamer risulti infruttuoso ai nostri fini; vale anzi il
contrario. Quanto appena osservato consente di evidenziare come nella prospettiva
ermeneutica la precomprensione si radichi nel processo di trasmissione storica
del senso, che la sua natura è linguistica e non psicologica, e che il suo
criterio di legittimità risiede nella “cosa stessa” di cui parla il testo, non
in un accordo convenzionale interno alla comunità degli interpreti. (43)
4. Heidegger e la “cosa stessa”
Giunti a questo punto del
nostro percorso, è necessario dunque chiarire quale relazione sussista tra la
“cosa stessa” disciplinata dal testo e la precomprensione dell’interprete
giudiziale, alla ricerca di un criterio di correttezza dell’interpretazione
adeguato ai nostri fini.
Se tale relazione resta
indeterminata negli scritti di Gadamer, essa trova invece un’analisi puntuale
in Sein und Zeit di Martin Heidegger,
costante punto di riferimento della riflessione gadameriana, oltre che pietra
angolare dell’ermeneutica filosofica novecentesca. Questo ulteriore passo a
ritroso consente, tra le altre cose, di risalire alle radici profonde della
storicità del comprendere, per spiegare come mai la nostra comprensione dei
testi e la nostra conoscenza dei fatti sia soggetta al tempo e al suo
mutamento. Una problema che può trovare una soluzione adeguata, secondo il
primo Heidegger, non affinando i nostri metodi conoscitivi e comprensivi, ma
assumendo un nuovo punto di vista ontologico, in grado di dar conto di ciò che
esiste nell’effettività storica del quotidiano. Heidegger ricerca in altri
termini una risposta convincente al problema della vera conoscenza e del retto
giudizio non indagando la struttura degli stati psichici soggettivi (credenze,
desideri, intenzioni), o tentando di risalire alle categorie trascendentali che
li rendono possibili, ma chiarendo com’è costituito effettivamente il mondo e
quali rapporti intratteniamo con lui.
Se considerata da questo
angolo visuale, la “cosa stessa” di cui il testo parla, a cui la
precomprensione deve accordarsi per risultare legittima, non può essere intesa
come un semplice dato che ci è posto dinanzi (Vorhandensein), come un oggetto, un fatto o uno stato di cose che
fissa il riferimento di una enunciato indipendentemente dalle relazioni che le
“cose” intrattengono con le nostre azioni. (44) Secondo Heidegger le “cose” che incontriamo nella nostra esperienza quotidiana si presentano
innanzitutto come dei mezzi per fare
qualcosa (Zuhandensein). (45) È nello scrivere che una penna si
manifesta in quanto penna, o nel piantare un chiodo che un martello si
manifesta in quanto martello. L’utilizzabilità (Zuhandenheit) costituisce in altri termini il modo di essere immediato
e fondamentale della “cosa stessa”, il quale si configura come un insieme di rinvii,
di rapporti funzionali tra la “cosa” e i suoi antecedenti (Woraus) e conseguenti (Wozu) relazionali. (46) Il chiodo si manifesta in quanto chiodo
in virtù del martello che lo pianta (Woraus)
e in vista del muro in cui verrà piantato (Wozu).
Allo stesso modo, con riferimento al contesto giuridico, un’arma si manifesta
in quanto arma in virtù del soggetto che ne sfrutta le potenzialità offensive e
in vista dell’effetto lesivo che deriva dal suo uso; un contratto si manifesta
in quanto contratto alla luce dell’accordo tra le parti e in vista
dell’adempimento all’obbligazione che da tale accordo scaturisce. Il modo
d’essere delle “cose” si fonda dunque, secondo Heidegger, nell’insieme di pratiche
umane che le coinvolgono, (47)
le quali assumono per ciò stesso un contenuto normativo. Una “cosa” è ciò che è
alla luce delle regole pratiche che determinano il suo uso appropriato o non
appropriato in rapporto all’uso appropriato o non appropriato di altre “cose”.
(48) Si tratta certo di criteri normativi
definiti a livello sociale, che esplicitano la struttura ontologica delle “cose
stesse” in quanto “cura” (Sorge); una
struttura, tuttavia, che condiziona a sua volta le relazioni sociali e le
regole di utilizzabilità, prefigurando i loro contenuti possibili. (49) Si assiste cioè in Heidegger ad una forma
di costruzione sociale della realtà e ad una parallela reificazione ontologica
delle relazioni sociali, nella quale ogni interprete si trova in un certo senso
confinato (Geworfenheit), al pari dei
testi che egli interpreta e delle “cose stesse” di cui questi parlano, ma che
gli dischiude al contempo molteplici possibilità d’azione, tra le quali è
chiamato a scegliere. (50)
Il compito
dell’interpretazione, nel lessico heideggeriano, è non a caso quello di far
emergere la struttura del «qualcosa in quanto qualcosa» (etwas als etwas), (51)
vale a dire dar conto dell’insieme di relazioni (Woraus e Wozu) in cui si
articola la “cosa stessa”. Ma cosa consente che ciò accada? Proprio a
quest’altezza del discorso entra in gioco il problema della precomprensione. La
precomprensione è infatti ciò media tra le “cose stesse” e la loro
interpretazione, vale a dire tra le relazioni funzionali che costituiscono la
realtà e il nostro accesso ad esse.
Heidegger osserva in
particolare come la precomprensione, punto di partenza di quel processo
interpretativo in cui si sostanzia la comprensione, si articoli in tre
categorie fondamentali: Vorhabe (predisponibilità),
Vorsicht (previsione) e Vorgriff (precognizione). (52) Consideriamole più da vicino. Il Vorhabe circoscrive l’insieme di
relazioni cose-mezzi (Zuhandenheit)
che strutturano la realtà sociale e che entrano a far parte della competenza
pratica dell’interprete (della sua precomprensione in senso lato). Se so cos’è
un’arma, so cosa un’arma serve a fare e cosa si presta ad essere trattato come
un’arma. Il Vorsicht delimita invece
l’insieme di impegni normativi che tale competenza generale chiama in causa nel
momento in cui viene applicata ad una situazione particolare. Se precomprendo
una pistola in quanto arma, ne segue che quella pistola deve avere una capacità
offensiva e deve essere utilizzata a tale scopo. Il Vorgriff descrive invece il modo in cui tali impegni, una volta
soddisfatti, concorrono a determinare il senso. Se accerto che una pistola è
stata usata per compiere una rapina, e la qualifico mediante l’uso della parola
‘arma’ in virtù della sua capacità offensiva e dell’uso lesivo che ne è stato
fatto, determino il significato e il riferimento della parola ‘arma’, e faccio
seguire alla sua applicazione le conseguenze giuridiche previste dall’ordinamento.
Attraverso le categorie del Vorhabe, del Vorsicht e del Vorgriff
Heidegger dunque non solo sviluppa un’analisi del concetto di precomprensione,
sopperendo all’indeterminatezza nel discorso gadameriano, ma fissa al contempo
i suoi criteri di legittimità. La precomprensione è legittima se i contenuti di
Vorhabe, Vorsicht e Vorgriff
corrispondono effettivamente alla struttura ontologica della “cosa stessa” di
cui faccio esperienza o di cui il testo parla, ovverosia danno conto in modo
adeguato delle relazioni di utilizzabilità che rendono la “cosa stessa” ciò che
essa è. Non nel senso che ne forniscono una rappresentazione adeguata, ma nel
senso che tali relazioni guidano il formarsi della precomprensione. Tornando al
contesto giudiziale, l’interpretazione di una pistola in quanto arma è corretta
solo se la sua precomprensione è legittima, e tale precomprensione è legittima
se l’interprete sa cosa un’arma serve a fare (Vorhabe), se una pistola si presta effettivamente ad essere usata
come un’arma (Vorsicht), e se è in
grado di concettualizzare tale utilizzabilità attraverso l’uso corretto del
termine giuridico ‘arma’ (Vorgriff).
Una volta accertato il sussistere di una corrispondenza tra la “cosa stessa”
disciplinata dal testo e la competenza pratica dell’interprete, nella sua
articolazione in Vorhabe, Vorsicht e Vorgriff, diventerà finalmente possibile approdare ad una risultato
interpretativo corretto. Una precomprensione legittima, nell’accezione qui
proposta, circoscrive infatti l’insieme finito, e quindi determinato, dei
risultati interpretativi possibili,
vale a dire che si prestano ad essere trattati come tali. Una interpretazione
errata, a rigore, non è infatti l’interpretazione di qualcosa, quanto
piuttosto un suo mero travisamento, che conduce a smarrire il testo al pari
della “cosa stessa” da questo disciplinata.
Si potrebbe qui obbiettare,
tuttavia, che nel primo Heidegger la precomprensione, al pari
dell’interpretazione, non assume necessariamente una connotazione linguistica,
né si esercita in via privilegiata su un dato testuale. Il linguaggio
costituisce soltanto uno dei modi della nostra esistenza nei quali la comprensione
si manifesta. L’Heidegger di Sein und
Zeit mostra anzi una certa diffidenza nei confronti della prassi linguistica,
sempre pronta a trasformarsi in semplice “chiacchiera” (Gerede), ovverosia ad occultare la struttura ontologica degli enti
attraverso l’iterazione di abitudini linguistiche consolidate. (53)
Grazie al linguaggio, osserva
tuttavia Heidegger, la struttura del “qualcosa in quanto qualcosa” (interpretazione)
si presta ad assumere forma proposizionale: tramite il linguaggio le condizioni
implicite dell’interpretazione (precomprensione) possono acquistare forma
esplicita. Ciò perché il linguaggio, in quanto sequenza di segni, è al contempo
sia qualcosa che rinvia alle cose, esprimendo in segni i loro criteri di
utilizzabilità, sia qualcosa che si caratterizza per l’uso che ne facciamo,
vale a dire per la sua stessa utilizzabilità. (54) Forzando la mano al testo heideggeriano, potremmo dire che il linguaggio è quel medium omogeneo tra le
parole e le cose che consente di parlare di una corrispondenza tra le loro
rispettive regole di utilizzabilità. L’autore di Sein und Zeit non sviluppa ulteriormente questa intuizione, se non
in senso critico, mediante l’analisi fenomenologica dell’asserzione (Aussage), del discorso (Rede) e della chiacchiera (Gerede). (55) Si tratta tuttavia di un passaggio importante nel contesto
della nostra indagine.
Una volta definita la
struttura della precomprensione e il suo criterio di legittimità, occorre
infatti chiarire, sotto il profilo metodologico, come sia possibile accertare
che la precomprensione in senso stretto di un testo normativo corrisponda
effettivamente alla “cosa stessa” del contendere giudiziale. Un accertamento
che non può che far ricorso all’uso del linguaggio, o meglio alla sua capacità
di rendere esplicite le condizioni implicite dell’interpretazione. Heidegger
non fornisce alcuna indicazioni circa il modo in cui tale accertamento può avvenire.
Ciò per evitare un pericolo sempre in agguato: quello di concepire l’idea di
corrispondenza come un rapporto dualistico tra un contenuto mentale e il suo
riferimento empirico. (56)
Heidegger indica ad ogni modo i requisiti che un controllo siffatto deve
soddisfare affinché la precomprensione possa essere considerata legittima,
corretta, adeguata.
Per compiere questo ulteriore
passaggio, occorre dunque un nuovo mutamento di prospettiva, in grado da un
lato di far tesoro dell’ontologia heideggeriana dell’utilizzabilità e del
concetto di precomprensione ad essa correlato, dall’altro lato di tradurre tale
analisi sul piano dell’interpretazione testuale, alla luce del contributo
gadameriano allo studio della storicità del comprendere e della sua natura
dialogica. (57) Gli strumenti per
compiere un percorso di questo tipo non sono oggi messi a disposizione dalla
filosofia ermeneutica, nei suoi sviluppi continentali, quanto piuttosto da
alcuni recenti sviluppi del pragmatismo americano, sui quali occorre ora
concentrare l’attenzione.
5. Brandom e la struttura inferenziale della precomprensione
È noto come uno dei tratti
caratteristici del pragmatismo americano del secondo dopoguerra sia costituito
dal suo fitto dialogo con la tradizione filosofica europeo-continentale. (58) Basti qui ricordare, a mo’ di esempio, il
tentativo compiuto da Wilfrid Sellars di far transitare la filosofia analitica
di matrice neo-positivista dalla prospettiva humeana a quella kantiana, le
celebri indagini dedicate da Richard Rorty a Nietzsche, Heidegger, Foucault e
Derrida, gli addentellati kantiani del naturalismo di John McDowell o il
neo-hegelismo di autori come Robert Pippin e Robert Brandom. Si tratta di un
dialogo finalizzato a fornire una base concettuale più articolata ad alcuni
tratti distintivi della tradizione pragmatista, ed in particolare alla sua
critica al “mito del dato”, al suo naturalismo strumentalista, alla sua
epistemologia assiologicamente orientata, al suo rifiuto di una teoria
rappresentazionale della mente e del contenuto concettuale. Tale dialogo non è
risultato tuttavia fine a se stesso, ma ha favorito quella «convergenza tra
filosofia analitica e filosofia ermeneutica» (59) che ha caratterizzato l’ultimo scorcio del Novecento.
All’interno di questo dialogo
culturale acquista un interesse di primo piano la ricezione in chiave
pragmatista del pensiero del primo Heidegger e dell’ermeneutica filosofica di
Hans-Georg Gadamer sviluppata da Robert Brandom. (60) Ciò non tanto per la ricostruzione originale del pensiero di
questi autori, quanto piuttosto perché Brandom riconfigura alcuni snodi chiave
della tradizione ermeneutica, rendendoli fruibili per il dibattito
contemporaneo nel campo della filosofia del linguaggio e della filosofia della
mente. Alcune tracce evidenti della riflessione heideggeriana e gadameriana
sono rinvenibili anche nel lavoro propriamente teoretico di Robert Brandom, e
in particolare nel suo tentativo di delineare una teoria inferenzialista del
contenuto concettuale, di notevole interesse per lo studio dell’interpretazione
giuridica, (61) così come una forma
di fenomenismo normativo (normative
phenomenalism) (62)
in grado di dar conto della dimensione sociale delle pratiche linguistiche.
Proviamo a ricostruire, alla luce del percorso fin qui compiuto, questi due
poli di un approccio inferenzialista.
Brandom osserva come il senso
di un enunciato non possa essere ridotto alla rappresentazione di ciò a cui
l’enunciato si riferisce, ma sia piuttosto determinato dal ruolo inferenziale
che gli viene attribuito nel concreto articolarsi della prassi linguistica. Il
senso o contenuto semantico dell’enunciato ‘la pistola è un’arma’ non è cioè
costituito dall’immagine mentale nella quale la pistola costituisce
l’occorrenza di un’arma, ma dal ruolo di premessa o di conclusione che tale
enunciato svolge in un’inferenza. (63)
Nel caso in esame, ad esempio, il contenuto semantico sarà determinato
dall’inferenza che va da ‘un’arma possiede un potenziale offensivo’ a ‘la
pistola è un’arma’, e dall’inferenza che va da ‘la pistola è un’arma’ a ‘la
pistola può essere usata per compiere una rapina’. Nel lessico di Brandom, la prima
inferenza determina le circostanze di applicazione del concetto di arma, mentre
la seconda le conseguenze che derivano da tale applicazione. (64) Condizioni e conseguenze di applicazione
conferiscono ad un enunciato una funzione specifica negli usi linguistici dei
parlanti, determinando, sotto il profilo pragmatico, il suo contenuto
semantico. Ciò equivale a dire che la determinazione del senso può avvenire
soltanto nello «spazio delle ragioni», (65) solo se l’enunciato da interpretare viene collocato in una
sequenza enunciativa articolata inferenzialmente, che gli attribuisce un ruolo
specifico nell’ambito del comportamento linguistico di chi lo usa.
È agevole notare come la
strategia inferenzialista proposta da Brandom sia debitrice non solo nei
confronti della tradizione pragmatista di Peirce, Dewey e Sellars, ma anche
dell’ontologia heideggeriana dell’utilizzabilità, che fornisce l’intelaiatura
di base alla spiegazione del senso (contenuto concettuale) di un enunciato. Le
circostanze di applicazione di un concetto individuano infatti il suo da-cui (Woraus), vale a dire i suoi antecedenti funzionali, mentre le conseguenze
di applicazione individuano il suo a-cui
(Wozu), ovverosia i suoi conseguenti
funzionali. Ciò appare d’altra parte perfettamente plausibile nel caso si
assuma il punto di vista del primo Heidegger, da momento che anche il linguaggio
è da questi considerato innanzitutto come un mezzo per fare qualcosa. (66)
Il linguaggio è dotato infatti della medesima struttura ontologica delle “cose
stesse”: condivide con queste l’aspetto strumentale e la valenza normativa,
espressione dal rapporto che l’‘io’ intrattiene con gli ‘altri’ (Mitsein). Un carattere normativo che
nella prospettiva di Brandom costituisce, non a caso, la chiave di volta del
contenuto concettuale. Le inferenze che determinano il contenuto di un
enunciato costituiscono un’applicazione delle regole che governano l’uso di un
concetto: sempre con riferimento all’esempio considerato, tali inferenze determinano
quando è giustificato, date le circostanze del caso, utilizzare il concetto di
arma per qualificare una pistola e quali conseguenze produce tale qualificazione
normativa.
Va sottolineato come
all’interno della prassi discorsiva dette regole restino normalmente implicite,
non vengano cioè esplicitamente tematizzate: esse delineano semplicemente la
competenza linguistica di un parlante. Si tratta di una competenza, tuttavia,
che non concerne soltanto la componente lessicale e semantica della lingua, ma
che includere la capacità di distinguere l’applicazione appropriata di un
concetto da quella non appropriata, di valutare la sua adeguatezza alle
circostanze di applicazione e l’opportunità delle conseguenze che da tale
applicazione derivano.
Rincontriamo qui, osservata
sotto una luce diversa, la nozione di precomprensione in senso lato sulla quale
ci siamo soffermati nei paragrafi precedenti. Sotto il profilo teorico, la
struttura inferenziale del senso (contenuto concettuale) definisce le
condizioni implicite dell’interpretazione, vale a dire le condizioni alle quali
un qualsiasi enunciato si presta ad acquistare un significato determinato. Un
approccio inferenzialista consente in altri termini di analizzare la struttura
costitutiva e i meccanismi linguistici di funzionamento della precomprensione
in senso lato, sfuggendo all’indeterminatezza del discorso gadameriano senza tuttavia
cadere in una forma di psicologismo o di astratto trascendentalismo.
Ma una domanda ulteriore sorge
a questo punto spontanea. Se le regole di utilizzabilità determinano il senso
tanto degli enunciati normativi quanto degli asserti fattuali, cosa garantisce
che tali regole corrispondano alla struttura normativa della “cosa stessa”,
ovverosia che il punto di partenza dell’interpretazione del giudice (la sua
precomprensione in senso stretto) non sia arbitrario, aprendo così la strada ad
un risultato interpretativo corretto?
Per rispondere a questo
interrogativo è opportuno richiamare all’attenzione una delle acquisizioni più
rilevanti dell’ermeneutica giuridica contemporanea, vale a dire la presa d’atto
che l’interpretazione di un testo normativo coinvolge l’attività di più
soggetti, i quali cooperano, per quanto in modo conflittuale, alla
determinazione del senso. È necessario cioè considerare più da vicino non tanto
la precomprensione in senso stretto del giudice, quanto piuttosto le ipotesi
decisionali formulate dagli altri protagonisti del processo, che chiameremo interpreti di primo livello: (67) il difensore e il pubblico ministero con riferimento al processo
penale, i rappresentanti legali delle parti per quanto riguarda il processo civile.
Per quanto la teoria dell’interpretazione giuridica non riconosca ad essi alcun
ruolo degno di nota, spetta infatti a questi attori processuali determinare in
via preventiva la “cosa stessa” del contendere giudiziale, sulla quale il
giudice sarà poi chiamato a pronunciarsi in via imperativa. Come sottolineato
da Gadamer, infatti, «la cosa contesa nel processo» (68) viene determinata dalle parti in conflitto,
le quali prefigurano lo scenario decisionale entro cui l’interprete di secondo livello (il giudice) è chiamato ad operare.
La determinazione della “cosa
stessa” del contendere, sulla base di quanto fin qui osservato, muove
necessariamente dalla precomprensione in senso lato degli interpreti di primo
livello, vale a dire dalla loro rispettiva competenza pratica nell’uso del
linguaggio normativo, utilizzata per individuare sia i fatti giuridicamente
rilevanti sia le norme che in via ipotetica li disciplinano. L’aspetto interessante
di un approccio inferenzialista, sotto questo profilo, sta nell’evidenziare come
la competenza pratica dei contendenti – che include la capacità di valutare se
è opportuno o meno applicare un certo concetto nel discorso, in virtù delle
circostanze di applicazione e delle conseguenze che questa produce – si presti
ad esplicitata linguisticamente. Il
linguaggio consente cioè di dire ciò che facciamo attraverso il suo uso. (69) L’inferenza che va da ‘Alberto ha in mano
una pistola’ a ‘Alberto ha in mano un’arma’ può essere espressa attraverso il
condizionale ‘Se Alberto ha in mano una pistola, allora ha in mano un’arma’.
Mediante questa nuova enunciazione, l’interprete di primo livello rende
esplicite, nell’esempio considerato, le inferenze che guidano la sua precomprensione,
esponendo quest’ultima ad obbiezioni e alternative, ovverosia ad un confronto
intersoggettivo teso ad accertare la sua legittimità. Va da sé che tale
accertamento non potrà essere di natura logico-formale, non potrà cioè accontentarsi
di verificare il sussistere di una relazione deduttiva tra le l’ipotesi
decisionale le sue premesse implicite. Esso assumerà piuttosto la forma di un
confronto pragmatico tra il comportamento linguistico tenuto dai diversi protagonisti
del processo.
Riemerge, a questa altezza
della nostra analisi, la struttura dialogica del comprendere – chiave di volta
dell’ermeneutica filosofica gadameriana – così come la sua costitutiva
storicità, considerate tuttavia da una diversa angolatura prospettica.
Le regole che governano lo
“spazio delle ragioni” mostrano secondo Brandom un carattere sociale:
l’applicazione inferenzialmente corretta di un concetto dipende
dall’atteggiamento normativo che membri della comunità linguistica assumono nei
confronti di tale atto applicativo. (70)
Nel momento in cui un interprete di primo livello esplicita le inferenze
implicite di cui si compone la sua precomprensione, le controparte discorsiva
gli attribuisce un impegno (commitment)
in ordine a quanto esplicitato, che l’interprete è chiamato a soddisfare
discorsivamente. Nella prospettiva inferenzialista, infatti, si è membri di una
comunità linguistica solo se ci si assume la responsabilità dei propri atti
enunciativi, e si assume tale responsabilità se sono gli altri ad
attribuircela. Ne segue che trattare un proferimento come un’asserzione o una
prescrizione equivale ad attribuire al suo autore un impegno in ordine alla
verità o alla validità di quanto proferito, (71) un impegno che questi potrà soddisfare o meno mediante le sue
enunciazioni. Proviamo a chiarire questo punto riprendendo l’esempio
considerato in precedenza.
Supponiamo che, nel corso di
un processo per rapina, il pubblico ministero affermi:
(1) ‘Poiché Alberto aveva in mano una
pistola, e la pistola aveva una capacità offensiva, allora Alberto aveva in
mano un’arma, e dunque il fatto configura l’ipotesi di rapina commessa con
armi’.
Mediante questo atto
enunciativo, il pubblico ministero formula una ipotesi di soluzione del caso (precomprensione
in senso stretto), vale a dire una possibile qualificazione giuridica dei fatti
risultante dell’interpretazione di uno o più enunciati normativi, a cui seguono
le conseguenze previste dall’ordinamento. (72) Tale ipotesi, com’è facile osservare, è costituita dalla relazione tra due inferenze: la prima,
composta da asserzioni, concerne lo svolgimento dei fatti; la seconda, composta
da prescrizioni, concerne la loro qualificazione giuridica. La prima inferenza,
in particolare, esplicita le regole di utilizzabilità della “cosa” del contendere;
la seconda inferenza esplicita invece le regole d’uso dei concetti giuridici
utilizzati per imputare alla “cosa” le conseguenze giuridiche previste
dall’ordinamento. La relazione tra queste due inferenze costituisce il nucleo costitutivo
della “cosa stessa” attorno alla quale verte il contendere processuale. (73)
Nel ricevere questa ipotesi
decisionale, il difensore attribuirà al pubblico ministero presumibilmente
quattro differenti impegni deontici:
(2) ‘È
vero che Alberto aveva in mano una pistola’;
(3) ‘È
vero che la pistola di Alberto aveva una capacità offensiva’;
(4) ‘È
valido che la pistola di Alberto era un’arma’;
(5) ‘È
valido che Alberto va punito per il delitto di rapina commessa con armi’.
Richiamando ancora una volta
la struttura heideggeriana della precomprensione, enunciando (1) il pubblico
ministero assume, agli occhi dei suoi interlocutori processuali, un impegno in
ordine alla corretta applicazione del concetto normativo di arma per
qualificare l’oggetto ‘pistola di Alberto’ (Vorgriff),
dunque al fatto che la pistola di Alberto si presta ad essere effettivamente
utilizzata come un’arma (Vorsicht) e
quindi al fatto che egli conosce cosa la pistola di Alberto serve a fare (Vorhabe). Il difensore potrà a questo
punto assumere due diversi atteggiamenti nei confronti di (1). Sulla scorta dei
contributi enunciativi fino a quel momento esibiti nel processo – relativi sia
alle prove precedentemente assunte sia alle disposizioni giuridiche chiamate in
causa – egli potrà considerare gli impegni deontici (2), (3), (4) e (5)
soddisfatti, assumendoli a sua volta nel discorso. In questo caso, il pubblico
ministero acquista un titolo (entitlement) a formulare (1): la sua ipotesi
decisionale risulta cioè performativamente legittima. Ma il difensore può
parimenti contestare gli impegni deontici precedentemente ascritti al pubblico
ministero. Egli può ad esempio affermare:
(6) ‘Poiché Alberto aveva in mano una
pistola, ma si trattava di una pistola giocatolo, quindi priva di capacità
offensiva, allora Alberto non aveva in mano un’arma, e dunque il fatto non
configura l’ipotesi di rapina commessa con armi ma l’ipotesi base’.
Mediante questo nuovo contributo
enunciativo, il difensore prospetta un’ipotesi decisionale (precomprensione in
senso stretto) alternativa, che delinea un diverso rapporto inferenziale tra
fatti e norme e dunque un diverso criterio per l’applicazione dei concetti
giuridici in gioco. Di riflesso a (6), il pubblico ministero attribuirà cioè al
difensore i seguenti impegni deontici:
(7) ‘È
vero che Alberto aveva in mano una pistola’
(8) ‘È
falso che la pistola di Alberto aveva una capacità offensiva’
(9) ‘È
invalido che la pistola di Alberto è un’arma’
(10) ‘È invalido che Alberto deve essere
punito per il delitto di rapina commessa con armi’
(11) ‘È valido che Alberto deve essere
punito per il delitto di rapina’.
Si innesca in tal modo un
confronto pragmatico (deontic scorekeeping) tra i protagonisti del processo,
caratterizzato dall’atteggiamento deontico da loro assunto in ordine alle mosse
che si possono o non possono compiere all’interno del gioco linguistico
considerato. (74) Attraverso la
contestazione e il mutuo riconoscimento dei rispettivi impegni discorsivi,
vengono così via via determinate le possibili relazioni tra le regole di
utilizzabilità della “cosa” contesa e le regole d’uso del linguaggio normativo,
fornendo al giudice gli strumenti concettuali necessari per formulare
un’ipotesi decisionale legittima. Gli impegni dentici contestati o riconosciuti
consentono cioè di individuare le correlazioni semantiche tra norma e caso da
cui il lavoro interpretativo può legittimamente prendere il via.
Nell’esempio considerato,
l’ipotesi decisionale del giudice sarà presumibilmente costruita muovendo da (2),
in quanto entitlement attestato performativamente
da (7). Il contenuto proposizionale di (2) viene cioè trattato reciprocamente come
vero dagli interpreti di primo livello, fornendo una base comune di discussione.
Il giudice potrà poi optare tra l’inferenza che va da (3) e (4) e quella che va
da (8) a (9), vale a dire tra due opposte qualificazioni concettuali del termine
‘pistola’, a cui seguono rispettivamente la conclusione (5) oppure la conclusione
(11). Ciò che è importante notare è che una precomprensione in senso stretto,
per poter essere considerata legittima, deve muovere non da un giudizio arbitrario
ma dagli elementi inferenziali esibiti nel discorso processuale, vale a dire dalla
“cosa stessa” contesa dalle parti. Il riferimento alla “cosa stessa” non impone
al giudice un percorso interpretativo obbligato, ma gli prospetta un insieme finito,
e quindi determinato, di ipotesi decisionali ammissibili. Qualora la precomprensione
del giudice non rientrasse, senza alcuna giustificazione esplicita ulteriore,
nel novero di tali ipotesi, l’interpretazione-risultato sarebbe pertanto
comunque scorretta, a prescindere dalla strategie argomentative utilizzate in
sede di motivazione della sentenza.
Si potrebbe qui obbiettare,
tuttavia, che la corrispondenza tra la precomprensione in senso stretto del
giudice e la “cosa stessa” disciplinata dal testo viene in tal modo fatta
dipendere dai partners del discorso, riducendosi ad una variabile dipendente
dalle credenze, dai desideri e dalle intenzioni dei parlanti. La relazione di
corrispondenza non dipenderebbe cioè da un qualcosa esterno al dialogo – sia
esso situato nel mondo degli oggetti, dei fatti, degli stati di cose, oppure
nel mondo delle norme giuridiche, delle regole morali, dei valori ideali – ma
costituirebbe una prestazione interna del dialogo stesso. Detta corrispondenza
verrebbe in tal modo consegnata agli arbitri soggettivi, rendendo improponibile
scorgere in essa un criterio obbiettivo di correttezza dell’interpretazione.
Va tuttavia osservato come la
corrispondenza tra precomprensione e “cosa stessa” costituisca innanzitutto il
risultato di un confronto dialogico tra più soggetti: le ipotesi decisionali
ammissibili acquistano contorni determinati solo alla luce della contestazione
e del riconoscimento degli impegni deontici altrui. Dal punto di vista
inferenzialista, tale confronto non dipende quindi, in senso proprio,
dall’arbitrio dei parlanti, ma si limita a rendere esplicite le inferenze implicite
di cui questi ultimi si servono nel discorso, in modo indipendente dai loro rispettivi
stati intenzionali (credenze, desideri, intenzioni, ecc.). Nell’ambito
dell’interpretazione giudiziale, inoltre, il problema del senso di un testo
normativo acquista rilevanza soltanto in funzione della soluzione del caso
singolo. La corrispondenza tra la struttura normativa della “cosa stessa” e la
precomprensione in senso stretto del giudice rinvia al comportamento
linguistico di chi ha reso le “cose” significanti, vale a dire articolate
inferenzialmente mediante i suoi comportamenti concreti, e si appella a degli
enunciati normativi per far valere le ragioni esplicite sottese a tali
inferenze implicite. Nel caso della “pistola in quanto arma”, ad esempio, le
regole di utilizzabilità della “cosa” verranno determinate mediante i
contributi enunciativi di chi è imputato di aver fatto effettivamente uso della
pistola in quanto arma (mediante il suo difensore) e della sua controparte
processuale (il pubblico ministero, in quanto rappresentante del magistero
punitivo dello Stato). Allo stesso modo, nel caso di una stretta di mano “in
quanto contratto” oppure “in quanto saluto”, la “cosa stessa” oggetto del contendere
assumerà contorni ontologici espliciti in virtù dei contributi enunciati delle
parti effettivamente coinvolte, o meglio dei loro rispettivi rappresentanti
legali, i quali tenteranno di esplicitare le rispettive regole di utilizzabilità
di quella stretta di mano (le circostanze e le conseguenze del fatto) in rapporto
ai concetti giuridici chiamati in causa.
Con ciò la corrispondenza tra
l’ipotesi decisionale del giudice e la “cosa stessa” del contendere non
assumerà un carattere astrattamente universale. La sua pretesa di universalità
sarà soddisfatta in rapporto al caso singolo, ma non per questo potrà dirsi
meno obiettiva. Tale pretesa, in via generale, è resa infatti possibile da un
substrato di conoscenze e abilità pratiche (precomprensione in senso lato) che
non dipendono dall’arbitrio dei singoli quanto piuttosto dal lento sedimentarsi
storico di una pratica sociale. In una prospettiva inferenzialista, infatti, le
norme implicite in una pratica sociale precedono quelle esplicitate discorsivamente,
rendendo possibile la loro formulazione e la loro stessa applicazione. (75) Se adeguatamente
soddisfatta, inoltre, questa stessa pretesa di universalità potrà assumere un
valore esemplare per i casi futuri, entrando a sua volta a far parte delle
precomprensione in senso lato degli interpreti di primo e secondo livello, e
inserendosi dunque in quel processo di selezione e trasmissione storica del
senso (Überlieferung) che abbiamo
visto caratterizzare la storicità del comprendere giuridico. Brandom osserva,
con echi non a caso gadameriani, come «la decisione del giudice corrente, a
proposito del caso che egli si trova di fronte, è autorevole solo nella misura
in cui può essere giustificata mediante appello ad un principio che egli trova
implicito nella pratica dei suoi predecessori in relazione a casi che egli
tratta come precedenti. Il giudice deve produrre
la tradizione che eredita razionalmente, trovando un modo per assumerla concretamente come razionale». (76)
Riassumendo il percorso
compiuto, la precomprensione in senso stretto del giudice è legittima se
corrisponde alla “cosa stessa” del contendere giudiziale. E tale corrispondenza
si realizza se l’ipotesi di soluzione della controversia viene formulata
muovendo dalle inferenze esibite nel corso del processo, inferenze che vengono
messe alla prova mediante il confronto pragmatico tra le pretese di verità e di
validità avanzate dalle parti in conflitto. La struttura normativa della “cosa stessa”
non è data quindi a priori. Essa si sostanzia da un lato nelle regole di
utilizzabilità degli oggetti, dei fatti, degli eventi attorno a cui verte il
contendere, dall’altro lato nelle regole d’uso degli enunciati normativi
interpretati al fine di qualificare giuridicamente i fatti. (77) Tali regole, intese al modo di inferenze
valide, vengono esplicitate sotto il profilo linguistico dagli interpreti di
primo livello, che in questo modo prefigurano un repertorio di ipotesi decisionali
giuridicamente ammissibili.
Ciò detto, una precomprensione
in senso stretto legittima non garantirà in quanto tale il raggiungimento di
una interpretazione-risultato corretta. Essa si limiterà a circoscrivere, come
osservato precedentemente, l’insieme finito delle interpretazioni-risultato
non errate. (78) La correttezza
dell’interpretazione-risultato del giudice dipenderà dal soddisfacimento di
condizioni ulteriori, come quelle dettate dai criteri di coerenza logica,
coerenza normativa e coerenza narrativa richiamati precedentemente. Il
sussistere di tali requisiti potrà essere determinato solo ex post, mediante l’analisi della giustificazione delle sentenza,
ma questi strumenti argomentativi standard risulteranno del tutto inefficaci
qualora venisse meno un loro presupposto essenziale: il sussistere di
un’effettiva corrispondenza tra l’interpretazione del giudice e la “cosa
stessa” su cui verteva il giudizio.
6. Conclusione
Il titolo di questo saggio
poneva in realtà una duplice domanda. A quali condizioni la precomprensione
dell’interprete è legittima, plausibile, adeguata? E, nel caso tali condizioni
siano determinabili, il loro soddisfacimento consente di distinguere, sotto il
profilo metodologico, l’interpretazione di un testo normativo dal suo
travisamento?
Abbiamo tentato di rispondere
a questi interrogativi risalendo alle radici teoriche e filosofiche del
concetto di precomprensione, al fine di riannodare alcuni fili spezzati della
tradizione ermeneutica secondo coordinate originali. Il problema
dell’anticipazione di senso, che guida il giudice nella scelta del metodo
interpretativo e delle premesse decisionali, ci ha indotto a riconsiderare gli
elementi costitutivi della storicità del comprendere, e il ruolo di mediazione
che in esso svolge l’interpretazione. Un ruolo che può dirsi compiuto, nella
prospettiva gadameriana, nella misura in cui garantisce l’accordo tra il testo
giuridico interpretato e la “cosa stessa” che questo regola. L’esigenza di
ancorare la precomprensione dell’interprete giudiziale alla “cosa stessa”
disciplinata dal testo, in modo da garantire la legittimità della prima e la
consistenza ontologica della seconda, ci ha condotto a recuperare l’ontologia
heideggeriana dell’utilizzabilità, che riconduce il senso della “cosa stessa”
al ruolo normativo che essa svolge all’interno delle nostre pratiche
quotidiane.
Tale recupero offre un duplice
vantaggio. Da un lato consente di riabilitare, nel contesto ermeneutico, le
nozioni di riferimento e di corrispondenza senza per questo abbracciare una
forma di realismo normativo, e dunque derivare i contenuti direttivi dei testi
giuridici da un insieme di descrizioni fattuali. Ciò diventa plausibile qualora
si configuri lo statuto ontologico delle “cose” oggetto del giudizio muovendo
dalle regole che governano il loro uso nei comportamenti concreti di chi è
parte in causa, regole che si prestano ed essere poste in una relazione di
corrispondenza con le regole che governano l’uso del linguaggio utilizzato per
disciplinarle, poiché omogenee rispetto a queste ultime. Si tratta di un tipo
di corrispondenza che sfugge così al dualismo tra mondo esterno e stati mentali
dell’interprete, grazie ad una prerogativa esclusiva del linguaggio: quella di
poter esplicitare, allo stesso tempo e sotto il medesimo rispetto, tanto le
regole di utilizzabilità delle “cose” nominate, quanto le regole che governano
tale esplicitazione linguistica. In questo modo non è la natura delle “cose” ad
essere ricondotta al linguaggio – come spesso è stato imputato all’ermeneutica
(79) –, ma il linguaggio ad essere ricondotto
alla “cosa”, o meglio a configurarsi esso stesso come Sache, come oggetto del contendere tra pretese contrastanti.
La riscoperta di questa radice
latamente pragmatista entro la tradizione ermeneutica acquista una
valorizzazione inconsapevole nell’opera di Robert Brandom, un autore che
fornisce alcuni strumenti concettuali utili per mostrare come si forma, sotto
il profilo metodologico, una precomprensione legittima, plausibile, adeguata
rispetto a quanto il testo normativo prescrive. La precomprensione in senso
stretto può dirsi legittima se la scelta dell’ipotesi decisionale avviene alla
luce del confronto pragmatico tra le enunciazioni dei partners processuali, o
meglio se si fonda sul riconoscimento degli impegni discorsivi da questi
assunti sia nella spiegazione dei fatti giuridicamente rilevanti, sia nella
determinazione del senso dei testi normativi. Le presupposizioni del giudice,
così come quelle degli altri protagonisti del processo, non sono dunque
qualcosa che dobbiamo o possiamo eliminare: esse vanno piuttosto assunte
esplicitamente, chiarendone i presupposti e le implicazioni. Solo se questa
condizione viene soddisfatta l’ipotesi decisionale del giudice potrà dirsi
legittima, vale a dire conforme alla prescrizione del legislatore e all’oggetto
stesso del contendere.
Che tipo di garanzia fornisce
questo apparato metodologico per la formulazione di una interpretazione-risultato
corretta? Il quadro proposto offre semplicemente una soluzione filosoficamente
plausibile al problema della legittimità della precomprensione in senso
stretto, punto di accesso al procedimento interpretativo. (80) Esso si accontenta di individuare una
precondizione necessaria di un risultato interpretativo corretto, la quale, se
supportata dai criteri tradizionalmente messi a disposizione dalla teoria del
ragionamento giuridico, consente tuttavia di tracciare i limiti entro i quali
l’interpretazione del giudice è riconducibile al testo interpretato, e può
dunque essere considerata legittima nel contesto di un ordinamento
democratico-costituzionale. Si tratta di una cornice di risultati interpretativi
ammissibili che non è conoscibile a priori: essa non appare riducibile alle
sole regole della lingua né ad un insieme di contenuti normativi universalmente
validi. Tale cornice viene tracciata ogni volta di nuovo nel corso delle stesse
pratiche interpretative, ma può essere non di meno determinata obbiettivamente,
qualora si faccia ricorso a strumenti adeguati.
In senso più generale,
l’itinerario proposto consente di tratteggiare un piano comune di discussione
tra due tradizioni filosofiche a prima vista assai lontane, quella ermeneutica
e quella pragmatista, nei loro sviluppi più recenti. Grazie agli strumenti
concettuali abbozzati in queste pagine, lo stile di ricerca dell’ermeneutica
giuridica si arricchisce di un quadro metodologico più articolato, utile per
accostarsi al problema della corretta interpretazione senza per questo
rinnegare la circolarità del comprendere, e la sua mai compiuta intelligibilità
critica, o abbracciare una qualche forma metodologismo dogmatico. La prospettiva
pragmatista sviluppata da Brandom si arricchisce per converso di una base
ontologica più consistente, che rimane soltanto implicita nelle opere di questo
autore. Ciò può consentire ad un approccio inferenzialista di far fronte, in
modo più agguerrito sotto il profilo filosofico, all’accusa di ricondurre le
regole d’uso del linguaggio agli atteggiamenti idiosicratici dell’interprete, (81) oppure di scambiar la verità di
un’asserzione e la validità di una prescrizione per il risultato di un semplice
accordo performativo tra i parlanti. (82)
La risposta a queste obiezioni può essere trovata tematizzando la peculiare
forma di ontologia sociale sottesa ad un approccio inferenzialista,
un’ontologia per certi versi prospettata dallo stesso Brandom nelle pagine
conclusive di Making It Explicit:
«una concezione inferenziale dei concetti consente di raffigurare il pensiero e
il mondo su cui il pensiero verte come ugualmente,
e nei casi favorevoli identicamente,
articolati concettualmente». (83)
L’itinerario esplicativo
proposto, non di meno, potrebbe suscitare nel lettore non pochi sospetti.
Quanto detto sembra infatti sfociare in una forma malcelata di eclettismo
metodologico, che pone in relazione prospettive filosofiche incommensurabili a
fini puramente strumentali, contribuendo paradossalmente ad alimentare quella
perdita di identità dello stile ermeneutico paventate in apertura. Credo
tuttavia che tale sospetto non sia giustificato. L’articolazione stessa di
questo saggio ha inteso mostrare come un’istanza pragmatista di fondo, legata
alla critica dell’oggettualismo, al primato delle pratiche sociali nella
determinazione del senso dei testi e delle “cose” di cui questi parlano, come
pure alla rilevanza di scelte assiologicamente orientate tanto nei processi
conoscitivi quanto in quelli deliberativi, appartenga fin dalle origini al
codice genetico della tradizione ermeneutica. Una tradizione che se posta a
confronto col problema fondamentale della “cosa stessa”, il problema da cui
questa stessa tradizione ha preso il via nel Novecento, può utilmente
riannodare i fili spezzati che per oltre un secolo l’hanno contrapposta a molti
programmi di ricerca della tradizione analitica, nelle sue innumerevoli ed
eterogenee ramificazioni. (84)
Proprio alla luce di queste
considerazioni, il percorso proposto in questo saggio è ben lontano dal
ritenersi conclusivo. Esso si limita a prospettare ulteriori percorsi di
ricerca, tutti ancora da esplorare.
Note
(*) Questo saggio costituisce una versione ampiamente riveduta
della relazione tenuta in occasione della III edizione delle Giornate di Ermeneutica, Padova 16-17
gennaio 2004. Desidero ringraziare Baldassarre Pastore per le considerazioni
critiche che ha formulato, in qualità di discussant,
durante il convegno.
(1)
Cfr. Tontti 2004; Viola e Zaccaria 1999.
(2)
Cfr. Gadamer 2001, p. 12.
(3)
Basti qui ricordare come l’ermeneutica giuridica novecentesca in Germania abbia
fornito un terreno comune di confronto ad autori che si riconoscevano nella
tradizione filosofica dell’esistenzialismo (A. Kaufmann), del neo-positivismo (K.
Engisch), della fenomenologia (J. Hruschka), del personalismo (M. Kriele), del
neo-hegelismo (K. Larenz), del neo-kantismo (R. Alexy), della scuola critica (J.
Esser), del post-strutturalismo (F. Müller), vale a dire nei principali indirizzi
della filosofia tedesca del Novecento.
(4)
Secondo Esser il termine ‘razionalità’, se riferito alle pratiche giuridiche,
va inteso come il «rendere possibile un consenso su questioni di giustizia,
all’interno di istituzioni sociali e legislative date positivamente» (Esser
1972, p. 9).
(5) Cfr. Habermas, Heinrich e Taubes 1971; Betti 1962, pp. 42
ss.
(6) Heidegger 1927, § 32, p. 153. Nella sua pur pregevolissima traduzione di Sein und Zeit, Pietro Chiodi rende
questo celebre passo con «l’importante non sta nell’uscir fuori dal circolo, ma nello starvi dentro nella maniera giusta»
(p. 194, corsivo mio). La singolare scelta di Chiodi di tradurre il verbo di
moto ‘hineinkommen’ (letteralmente: ‘entrare dentro’) col
verbo italiano ‘stare dentro’, ha
indotto molti esponenti e critici dell’ermeneutica filosofica in Italia a
concepire il circolo come una condizione esistenziale, ovvero come la struttura
ontologica del Dasein stesso – da cui
non ha senso entrare o uscire –, e non invece come un procedimento comprensivo
che ha un punto di accesso e un punto di uscita, dei quali si può predicare la
correttezza e l’errore. È certo vero che il fenomeno del senso, a cui la figura
del circolo ermeneutico rinvia, si radica secondo Heidegger nella costituzione
esistenziale del Dasein, di
quell’ente (l’uomo) che esiste nella maniera della comprensione dell’essere.
Non di meno lo stesso Heidegger avverte che «poiché il circolo è un’immagine che
cade nel dominio ontologico della semplice-presenza (Vorhandenheit) (…), bisognerà guardarsi, in generale dal
caratterizzare ontologicamente con questo fenomeno un ente come l’Esserci (Dasein)» (Heidegger 1927, p. 154, trad.
it. p. 195). Il circolo raffigura pertanto la struttura delle comprensione nel suo sussistere immediato (Bestand), la quale assume una direzione
determinata (senso) in virtù del modo in cui vi si accede – che può essere
corretto (richtig) o errato (falsch) –, non dei risultati a cui approda.
Le traduzioni italiane dei
passi in lingua tedesca verranno modificate, ove necessario, alla luce del
confronto col testo originale. I passi direttamente citati dal tedesco verranno
invece riportati nella traduzione italiana nostra.
(7)
Nel proseguo di questo saggio l’attenzione verrà focalizzata sulla nozione di
precomprensione giudiziale, vale a dire sull’anticipazione di senso che ha
luogo nell’ambito del processo. Non verranno pertanto analizzate le nozioni di
precomprensione dottrinale, teorico-giuridica e filosofico-giuridica, ciascuna
delle quali mostra caratteristiche peculiari. Sulla struttura della
precomprensione filosofico-giuridica vedi Alexy 2004, pp. 158-159.
(8)
Riprendendo un uso linguistico diffuso entro il paradigma ermeneutico, utilizzerò
la parola ‘senso’ per indicare tanto l’intensione quanto l’estensione di un
enunciato, ovvero, in termini fregeani, tanto il suo significato (Sinn)
quanto il suo riferimento (Bedeutung).
Questa scelta si giustifica per il fatto che nel lessico della fenomenologia,
dal quale l’ermeneutica filosofica attinge le proprie categorie fondamentali,
il termine ‘senso’ (Sinn) indica il
dirigersi dell’atto intenzionale verso l’oggetto intenzionato (cfr. Husserl
1900-1901, p. 315). Ne segue che il modo di presentazione dell’oggetto (il Sinn di Frege) e l’oggetto reale, per
quanto tra loro distinti, risultano tra loro strettamente connessi: secondo Husserl
nell’unità dell’atto intenzionale, secondo Heidegger e Gadamer nell’unità della
comprensione, con la differenza che nel primo caso si tratta di una connessione
estrinseca (analogamente a quanto sostenuto da Frege), nel secondo caso di una
connessione intrinseca. Ciò conduce l’ermeneutica filosofica, come vedremo in
seguito, a distinguere concettualmente gli oggetti (Dinge), nei quali questa connessione intrinseca rimane celata,
dalle cose (Sache), nelle quali
questa medesima connessione si dispiega invece pienamente.
(9) «Understanding designates less a cognitive (and thus methodological)
process than a know-how, an ability, a capacity, a possibility of our existence»
(Grondin 2002, p. 38).
(10) Cfr. Mengoni 1996, pp. 48-51; Hassemer 1994, pp. 263-267;
Müller 1986; Zaccaria 1984a, pp. 47 ss. e 72 ss.; Zimmermann 1983; Kriele 1979,
pp. 79 ss.; Esser 1978, pp. 227-251; Larenz 1969, pp. 247-267.
(11) «L’aspettativa di senso ha il carattere di una ipotesi, che
può essere confermata se l’interpretazione ha successo» (Larenz 1983, p. 198).
(12) Sul punto vedi Pastore 1996, pp. 114 ss.; Müller 1989, pp.
120-125, 140-147, 271-280; Zaccaria 1984a, p. 174; Kriele 1976, pp. 197 ss.; Kaufmann
1973, pp. 7-20.
(13) L’interpretazione giudiziale si caratterizza in altri termini
«come un processo di posizione, esame, revisione, e, se del caso, di rinnovata
elaborazione di ipotesi di soluzione giuridica del caso, sempre provvisorie,
sino a che non si determini il reperimento della massima di decisione» (Zaccaria,
1990b, p. 110). Sull’analogia tra il procedimento interpretativo e il metodo
popperiano del trial and error vedi
Kaufmann 2001.
(14) «La precomprensione non è un concetto metodologico, bensì un
concetto analitico-descrittivo che pone un problema metodologico, ovverosia
come si giunga da una comprensione provvisoria (per esempio di un testo) a una
comprensione motivata» (Zaccaria 1990a, p. 22).
(15) Cfr. Larenz 1978, pp. 411-425.
(16) Il criterio di coerenza come non contraddittorietà logica non
consente infatti di discriminare tra ipotesi di soluzione del caso coerenti
nella loro costruzione ma in contraddizione tra loro, lasciando quindi
irrisolto il problema dell’interpretazione-risultato corretta. Il
soddisfacimento di tale criterio costituisce pertanto una condizione necessaria
ma non sufficiente delle corretta interpretazione di un testo normativo. Sul
punto vedi Aarnio, Peczenik e Alexy 1981, p. 268.
(17) Cfr. McCormick 1984. Non è possibile, in questa sede,
ricostruire l’ampio dibattito sviluppatosi nella teoria del diritto dell’ultimo
trentennio attorno alla nozione di coerenza. Mi limito qui a rinviare a
Schiavello 2001 e Pino 1998.
(18) Pastore 1990, pp. 145 ss.; Hassemer 1985, p. 71; Hruschka 1965, p. 9. Per un confronto critico tra
la nozione ermeneutica di coerenza e i concetti di normative coherence e narrative
coherence elaborati da MacCormick, vedi Zaccaria 1990c, pp. 138-150.
(19) Zaccaria 1990c, p. 144.
(20) Ronald Dworkin ha recentemente imboccato questa strada
caratterizzando, mediante un’acrobatica analogia, i concetti politici e
giuridici fondamentali dell’ordinamento al modo di natural kinds predicates, il cui significato, nella prospettiva di
Putnam e Kripke, non dipende dalle credenze o dai desideri dei parlanti, quanto
piuttosto dalla natura empirica, scientificamente conoscibile, degli enti che
essi designano. Cfr., rispettivamente, Dworkin 2004 e Putnam 1975, cap. 12. Per
una critica ai tentativi di arginare il problema dell’indeterminatezza
semantica del diritto ricorrendo a concezioni realiste del significato e del
riferimento vedi Bix 2003.
(21) Occorre inoltre ricordare che il criterio di falsificazione
consente di corroborare oppure di confutare teorie e ipotesi scientifiche
soltanto se queste sono riconducibili alla forma logica di «asserzioni
strettamente universali» (Popper 1934, p. 55). Tale criterio risulta dunque del
tutto inadeguato per sottoporre a controllo ipotesi concernenti fatti
singolari. Ringrazio G. Tuzet per avermi segnalato questo aspetto.
(22) Vedi su questo punto Pastore 1990, pp. 94 ss.
(23) Gadamer 1960, p. 314, trad. it. p. 360.
(24) Va osservato come la determinazione del “senso originario” di
un testo normativo, corrispondente all’intenzione del suo autore, si riveli
un’operazione autocontraddittoria nella prospettiva gadameriana. La ricerca del
senso originario potrà costituire una direttiva che guida la precomprensione in
senso stretto dell’interprete, ma proprio perché mediato dalla precomprensione,
e dunque dalla situazione attuale da regolare, il risultato interpretativo non
potrà mai corrispondere pienamente ad un “senso originario” anteriore, col
risultato che tale locuzione finisce col perdere il contenuto concettuale che
solitamente le viene attribuito. Vedi su questo punto Grondin 2002.
(25) «La comprensione non va
intesa tanto come un’azione del soggetto, quanto come l’inserirsi nel vivo di
un processo di trasmissione storica (Überlieferungsgeschehen),
nel quale presente e passato continuamente si sintetizzano» (Gadamer 1960, p.
295, trad. it. p. 340, corsivo nel testo).
(26) Per una interpretazione in chiave esistenzialistica di questo
approccio alla storicità del diritto vedi Kaufmann 1969, pp. 234-272. Il
richiamo al carattere storico dei procedimenti interpretativi, e con esso alla
storicità del diritto, è stato tradizionalmente utilizzato dall’ermeneutica
giuridica per sottoporre a critica la tesi vetero-positivista
dell’autosufficienza semantica dei testi normativi, che conduce a concepire il
diritto come «qualcosa di cristallizzato, di determinato a priori» (Kaufmann
1969, p. 258).
(27) La “situazione
ermeneutica” (hermeneutische Situation)
in cui si trova l’interprete, che determina la sua precomprensione, non può mai
essere compiutamente esplicitata: «la chiarificazione di questa situazione (…)
non è qualcosa che si possa concludere; tale inconcludibilità non è per un
difetto della riflessione, ma è legata alla stessa essenza dell’essere storico
che noi siamo. Essere storico significa
non poter mai risolversi totalmente in autotrasparenza (Sichwissen)» (Gadamer 1960, p. 307,
trad. it. p. 352). Sull’impossibilità di obiettivare e quindi di sottoporre a
controllo la precomprensione vedi Bonanni 2004, p. 42; Figal 2002, p. 113; Apel
1997, p. 84.
(28) «Il comprendere perviene alla sua possibilità autentica sole
se le pre-supposizioni da cui parte non sono arbitrarie. C’è dunque un senso
positivo nel dire che l’interprete non accede al testo semplicemente rimanendo
nella cornice delle presupposizioni già presenti in lui, ma piuttosto, nel
rapporto col testo, mette alla prova la legittimità, cioè l’origine e la
validità, di tali presupposizioni» (Gadamer 1960 p. 272, trad. it. p. 314).
(29) Gadamer 1960, p. 271, trad. it. p. 313.
(30) Gadamer 1960, p. 388, trad. it. p. 443. «Il fine di ogni comprensione
è l’intendersi sulla cosa (Einverständnis
in der Sache). L’ermeneutica ha quindi sempre il compito di istituire
questo accordo (Einverständnis),
quando esso manchi o sia messo in pericolo» (Gadamer 1960, p. 297, trad. it. p. 342); «Comprendere significa innanzitutto
comprendersi sulla cosa (sich in der
Sache verstehen), e solo in secondo luogo capire e distinguere le opinioni
altrui in quanto tali» (Gadamer 1960, p. 299, trad. it. p. 344). Vedi su questo
punto Zaccaria 1984, p. 47.
(31) «Le regole giuridiche di cui disponiamo con la loro pretesa
di applicazione vincolante, debbono “accordarsi con la realtà di vita che si
deve giudicare”» (Esser 1972, p. 24). Allo stesso modo Larenz osserva come «la
precomprensione costituisca una condizione (positiva) di possibilità della
comprensione della cosa (Sache)»:
essa si risolve nello «sforzo di cogliere “la cosa stessa” (die Sache selbst)» (Larenz 1983, p. 202).
(32) Cfr. Gadamer 1960, pp. 324-325, trad. it. pp. 371-372.
(33) Riformulando quanto osservato nel lessico di Searle, la
nozione di accordo come corrispondenza può indicare la condizione di
soddisfazione di un atto linguistico dotato di forza assertiva, la cui
direzione di adattamento è cioè mente-a-mondo, ma non di un atto linguistico
dotato di forza prescrittiva, la cui direzione di adattamento è invece
mondo-a-mente. Cfr. Searle 1983. Il linguaggio giuridico si propone infatti di
indirizzare i comportamenti umani, non di fornirne una rappresentazione il cui
contenuto proposizionale sia vero.
(34) Gadamer 1960a.
(35) Gadamer 1960a, p. 67, trad. it. p. 67. Prosegue Gadamer: «La cosa deve essere messa al
sicuro contro l’arbitrarietà dell’intervento dell’una o dell’altra parte. In
rapporto a ciò, obbiettività significa senz’altro l’opposto di parzialità, cioè
dell’abuso del diritto per scopi particolari». Gadamer, in realtà, fa qui
propria un’osservazione di Martin Heidegger: «“Sache” (…) significa la causa del contendere (Streitfall), ciò che è conteso (das
Strittige)» (Heidegger 1957, p. 37).
(36) Gadamer 1960, p. 388, trad. it. p. 443. «Il linguaggio è il medium in cui gli interlocutori si comprendono e in cui si verifica
l’intesa sulla cosa (Einverständnis über
die Sache)» (Gadamer 1960, p. 387, trad. it. p. 442).
(37) Gadamer 1960a, p. 73, trad. it. p. 72.
(38) Gadamer 1960a, p. 71, trad. it. p. 70.
(39) Ciò si lega, nella III parte di Wahrheit und Methode, alla caratterizzazione della comprensione
come evento, che è tale in quanto segnato dall’immediatezza (die Unmittelbarkeit) e dall’evidenza (das Einleuchtende) del senso compreso: Gadamer
1960, pp. 488 ss., trad. it. pp. 552 ss.
(40) «Inevitabilmente e sempre, la linea di senso (Sinnlinie) che, nella lettura, si mostra
[all’interprete], termina in una apertura indefinita (notwendig in einer offenen Unbestimmtheit abbricht). Il lettore si
rende facilmente conto, anzi non può non ammettere, che ciò che egli ha letto
nel testo sarà compreso in modo diverso dalle generazioni future» (Gadamer
1960, p. 345, trad. it. p. 394). È questo d’altra parte un corollario della
caratterizzazione “produttiva” proposta da Gadamer della distanza temporale.
Quest’ultima, infatti, «fa venir in luce il senso vero (den wahren Sinn)
contenuto nella cosa (Sache). Ma la
messa in luce del senso vero contenuto in un testo o in una produzione
artistica non giunge ad un certo punto alla sua conclusione, è in realtà un
processo infinito. Non vengono solo eliminate sempre nuove cause di errore,
sicché il senso vero (der wahre Sinn)
viene purificato da ogni confusione, ma nascono anche sempre nuove fonti di
comprensione, che rivelano insospettate connessioni di significato» (Gadamer 1960,
p. 303, trad. it. p. 348).
(41) «Non c’è dubbio che il giurista ha sempre di mira la legge
come tale. Ma il contenuto normativo di essa deve essere determinato in base al
caso specifico a
cui ha da essere applicata» (Gadamer
1960, p. 332, trad. it. p. 379).
(42) «L’idea di un ordine giuridico implica che il giudizio del
giudice non nasca da un prevedibile arbitrio, ma dalla giusta valutazione
dell’insieme (gerechte Erwägung des
Ganzen). Di tale giusta valutazione è capace chiunque, purché abbia
approfondito a sufficienza la situazione di fatto (Sachlage)». (Gadamer 1960, p. 335, trad. it. p. 382).
(43) «L’anticipazione di senso che definisce l’orizzonte
ermeneutico è orientata e limitata dalla relazione vivente che lega
l’interprete con la “cosa” (…). In altre parole, la precomprensione non va
fissata e irrigidita una volta per tutte, ma, date le sue caratteristiche di
possibilità aperta e di progettualità, deve ogni volta tornare a misurarsi con
la “cosa”» (Zaccaria 1990b, p. 80). Vedi anche Gardini 2004, p. 117.
(44) Nei §§ 15 ss. di Sein
und Zeit, dedicati all’analisi dell’utilizzabilità (Zuhandensein) in contrapposizione alla semplice-presenza (Vorhandensein), Heidegger considera le
“cose” in quanto Dinge (oggetti
materiali in generale) e non in quanto Sache
(materia del contendere in particolare). Ciò sembrerebbe contraddire il
quadro interpretativo proposto qui di seguito, che scorge nell’utilizzabilità e
nella cura la struttura ontologia della cosa stessa (Sache selbst). Va tuttavia notato come il § 15 costituisca
semplicemente il punto di partenza dell’esplicazione ontologica delle cose, le
quali si presentano qui come «sostanzialità, materialità, estensione,
giustapposizione», vale a dire nella loro immediata costituzione ontica. Questo
percorso trova compimento nei paragrafi successivi, in particolare nei §§ 26-27
dedicati al con-essere (Mitsein).
Proprio a quest’altezza della trattazione, i criteri di utilizzabilità si
scoprono dipendenti dal rapporto che l’‘io’ intrattiene con gli ‘altri’, vale a
dire da un insieme di determinati sociali (Öffentlichkeit).
Ciò consente all’analisi heideggeriana di passare dal piano ontico a quello
ontologico, un passaggio che viene scandito, sotto il profilo concettuale,
caratterizzando la cosa non più come Ding
ma come Sache: Heidegger 1927, § 26, p. 122, trad. it. p. 158; § 27, p. 127,
trad. it. p. 164. Vedi su questo punto Herrmann 1985, pp. 54-55.
(45) Heidegger 1927, §15, pp. 66 ss., trad. it. pp. 92 ss.
(46) Heidegger 1927, § 15, p. 68, trad. it. p. 94. Vedi su questo punto Perissinotto
2002, p. 42. Sul «carattere pragmatico» delle cose nell’ontologia heideggeriana
ha per primo posto l’attenzione Koyré 1946, p. 277. Questa caratterizzazione
trova d’altra parte un significativo parallelo nella tradizione pragmatista di
inizio Novecento. In un saggio
(47) Come opportunamente sottolinea Walter Biemel, «l’utensile n’est pas
d’abord présent comme un object isolé, qui puorrait éventuellement être employé,
mais c’est le fait de pouvoir être employé qui constitue son être, son
caractère “en-soi” (An-sich)» (Biemel
2005, p. 30). Per
una ricostruzione in chiave sistematica del rapporto Vorhandensein-Zuhandensein
vedi Vigo 1999; Hall 1993.
(48)
«A rigor di termini, un mezzo isolato a non “c’è”. L’essere del mezzo
appartiene sempre alla totalità dei mezzi, all’interno della quale un mezzo può
essere ciò che è. Un mezzo è essenzialmente “qualcosa per…” (etwas, um zu)» (Heidegger 1927, § 15, p.
68, trad. it. p. 94). Mi sembra che la dimensione normativa che caratterizza
l’utilizzabilità sia esplicitata, in Sein
und Zeit, dalla struttura ontologica della cura (Sorge), del prendersi cura (Besorgen)
e dell’aver cura (Fürsorge), che
concerne, rispettivamente, l’Esserci in generale, il suo rapporto con le cose e
il suo rapporto con gli altri: Heidegger 1927, § 41, pp. 193 ss., trad. it. pp.
241 ss. L’interpretazione della “cura” (intesa come Sorge, Besorgen e Fürsorge) nei termini delle nozioni
filosofiche di regola e di normatività mi sembra plausibile alla luce della
caratterizzazione che Heidegger fornisce di questa struttura ontologica
fondamentale. La cura è l’«in-avanti-a-sé-essendo-già-in-un-mondo» (Sich-vorweg-im-schon-sein-in-einer-Welt):
detto più semplicemente, essa esprime la proiezione in avanti di una nostra
possibilità, mediata fenomeni come la volontà, il desiderio, l’inclinazione,
l’impulso; una proiezione tesa a modificare il mondo, ma che si colloca essa
stessa nel mondo, e che è quindi soggetta alla sua effettività e
condizionatezza. Come avremo modo di osservare, se intesa nei termini della
“cura” la nozione di regola, anche riferita agli usi linguistici, non rinvia
alla soggezione ad un comando o ad una necessità naturale, quanto piuttosto ad
una presa di responsabilità nei confronti dei nostri comportamenti.
(49) «Il prendersi cura (Besorgen) sottostà al “per” (Um-zu) costitutivo di ogni mezzo» (Heidegger 1927, § 15, p. 69,
trad. it. p. 95).
(50) «La concatenazione dell’insieme dei rimandi e dei vari
rapporti del “per” con ciò per cui ne va dell’Esserci, non è il risultato della
saldatura fra un “mondo” di oggetti semplicemente presenti e un soggetto. Essa
è piuttosto l’espressione fenomenica della costituzione dell’Esserci
originariamente unitaria» (Heidegger 1927, § 41, p. 192, trad. it. p. 240).
Richiamando la terminologia di John Searle, si potrebbe dire che l’ontologia
sociale heideggeriana attribuisce un primato ontologico alle «proprietà
funzionali relative» dell’osservatore/utilizzatore (functional observer-relative features) rispetto alle «proprietà
fisiche intrinseche» (intrinsic physical
features) delle cose (Searle 1995, pp. 9-13, trad. it. pp. 16-21). Le
proprietà intrinseche che le scienze naturali attribuiscono alle cose costituirebbero
in altri termini la proiezione sull’oggetto delle proprietà funzionali che
l’oggetto, così concepito, acquista per noi. Sull’ontologia sociale di Searle
vedi, da ultimo, i saggi raccolti in Di Lucia 2003.
(51) Heidegger 1927, § 32, p. 149, trad. it. p. 189.
(52) Heidegger 1927, § 32, p. 150, trad. it. p. 191.
(53) Heidegger 1927, § 36, pp. 167 ss., trad. it. pp. 211 ss.
(54) «Il segno è un
utilizzabile ontico che, in quanto è questo determinato mezzo, funge nel
contempo da qualcosa che manifesta la struttura ontologica dell’utilizzabilità,
della totalità dei rimandi e della mondità (Weltlichkeit)» (Heidegger 1927, § 17, p. 82, trad. it. p. 111,
corsivo nel testo); «La totalità delle parole attraverso cui il discorso
acquista un proprio essere “mondano” viene ad essere disponibile come un ente
intramondano, come un utilizzabile» (Heidegger 1927, § 34, p. 161, trad. it. p.
204).
(55) «La chiacchiera (Gerede) è la possibilità di comprendere tutto
senza alcuna appropriazione preliminare della cosa da comprendere (Sache)» (Heidegger 1927, § 35, p. 169,
trad. it. p. 215).
(56) Cfr. Livet 1981, p. 306. Questo problema, com’è noto,
costituisce uno dei nuclei teoretici che condurrà Heidegger alla “svolta”
successiva a Sein und Zeit, segnata
dallo sviluppo del concetto di verità come atto libero: cfr. Heidegger 1930.
(57) Tale connessione è prospettata a ben vedere dallo stesso
Gadamer. Analizzando il presupposto della perfezione o compiutezza del senso (Vorgriff der Volkommenheit) che guida il
procedimento interpretativo, Gadamer osserva come esso presupponga «non solo
una immanente unità di senso che fornisce una guida al lettore; la comprensione
del lettore è anche sempre guidata da trascendenti aspettative di senso (Sinnerwartungen) che nascono dal
rapporto con la verità del contenuto del testo (die aus dem Verständnis zur Wahrheit des Gemeinten entspringen)» (Gadamer
1960, p. 299, trad. it. p. 343). La precomprensione (Sinnerwartung) non è cioè determinata soltanto dal processo
immanente della trasmissione storica del senso, ma anche dal ruolo trascendente
riconosciuto alla “cosa stessa” (qui intesa come Wahrheit des Gemeinten) di cui il testo parla.
(58) Cfr. Allen 1999.
(59) Bubner 1977, pp. 197 ss. Sulle implicazioni di questa reciproca convergenza nel
campo della filosofia e della teoria
(60) Cfr. Brandom 1983 e Brandom 1997. L’interpretazione
pragmatista di Sein und Zeit proposta
da Brandom, fortemente debitrice della lettura fornita da Hubert Dreyfus e John
Haugeland, è stata ripresa e sviluppata da Mark Okrent in Okrent 1988, come
pure dallo stesso Richard Rorty in Rorty 1993, pp. 39-69. I due saggi di
Brandom appena citati sono stati recente raccolti in Tales of the Mighty Dead (Brandom 2002), volume nel quale l’autore
si confronta, tra l’altro, con l’ermeneutica gadameriana, ed in particolare col
problema della trasmissione storica del senso, a cui si è fatto cenno
precedentemente: cfr. Brandom 2002, pp. 90 ss.
(61) Cfr. Brandom 1994; Brandom 2000. Sulle ricadute
dell’inferenzialismo semantico nel campo della teoria dell’interpretazione
giuridica vedi Canale 2003, cap. VI; Canale e Tuzet. Per una ricostruzione
complessiva della proposta filosofica di Brandom, vedi invece Giovagnoli 2004.
Va notato come l’influenza esercitata da Heidegger e Gadamer
sull’inferenzialismo di Brandom emerga soprattutto dal modo in cui quest’ultimo
ricostruisce storicamente la tradizione ermeneutica, la quale viene presentata
in accanto ad alcuni aspetti rilevanti dell’opera di Spinoza, Leibniz, Kant,
Hegel, Frege e Sellars, come di un
antecedente della semantica inferenziali (cfr. Brandom 2002). Se ciò rende
l’interpretazione brandomiana di Heidegger e Gadamer talora assai discutibile (vedi
le osservazioni critiche di Haugeland 2005), non di meno consente di identificare
le trasformazioni che le istanze filosofiche fin qui considerate subiscono
all’interno della prospettiva inferenzialista.
(62) Brandom definisce «normative phenomenalism» il tentativo di
fornire una spiegazione del senso (contenuto concettuale) nei termini del modo
in cui i parlanti trattano le performances linguistiche altrui, considerandole
come istanze di adempimento o non adempimento di regole, regole che vengono in
tal modo pragmaticamente determinate: Brandom 1994, pp. 291-297 e 626-628.
(63) Brandom 1994, pp. 94 ss.; Brandom 2000, cap. I. Nel lessico di Brandom, per
‘inferenza’ non si intende una relazione formale tra enunciati, quanto piuttosto
una relazione di tipo materiale: la sua correttezza non dipende da un set di
regole logiche ma dalla competenza linguistica dei parlanti: cfr. Brandom 1994,
pp. 97-107. Sulla nozione di inferenza materiale vedi Sellars 1953.
(64) Brandom 2000, pp. 63-66, trad. it. pp. 69-73.
(65) Lo spazio delle ragioni, in una prospettiva inferenzialista,
è «lo spazio in cui si giustifica e si è in grado di giustificare ciò che si
dice» (Sellars 1956, p. 54).
(66) Cfr. Brandom 2002, p. 78 e p. 316. Ciò non equivale a dire
che per Heidegger, al pari che per Brandom, il linguaggio abbia una funzione esclusivamente strumentale. Come lo stesso Brandom sottolinea, «It is of the essence of Heidegger’s
contribution, in particular the language he gives us to think about language,
that we not think of it instrumentally, that is, as being for something. I
think the idea of language itself as a kind of tool gets the essence of the
linguistic precisely backwards. What is wrong about it is that making something
intelligible as a tool is exhibiting it as a means to an end that can be grasped or specified
independently of consideration of that means. Our antecedent grasp of the
goal or purpose then provides the basis for normative assessments of success
and failure of the tool, and so for comparison of various alternative means to
that same end» (Brandom 2005, p. 439, corsivo nel testo).
(67) Per ragioni di chiarezza espositiva, definisco ‘interprete di
primo livello’ qualsiasi partecipante alla dinamica processuale autorizzato a
formulare enunciati interpretativi prima
facie, in quanto tali non giuridicamente vincolanti. Chiamo invece
‘interprete di secondo livello’ il giudice, vale a dire qualsiasi partecipante
alla dinamica processuale autorizzato a formulare enunciati interpretativi
giuridicamente vincolanti.
(68) Gadamer 1960a, p. 67.
(69) «Potremmo concepire il processo di espressione, nei casi più
complessi e interessanti, non come una trasformazione di ciò che è interiore in
ciò che è esteriore, bensì come un rendere esplicito
ciò che è implicito. Ciò deve essere
inteso nel senso pragmatista di trasformare qualcosa che dapprima ci limitavamo
a fare in qualcosa che possiamo dire, codificando un certo tipo di
sapere come (knowing how) in una forma di sapere che (knowing that)» (Brandom
2000, p. 8, trad. it. p. 18).
(70) «Dire o pensare che le cose stanno in un certo modo significa
assumere un tipo particolare di impegno (commitment) inferenzialmente articolato, proponendo
ciò che si dice o si pensa come premessa confacente per ulteriori inferenze,
vale a dire autorizzando a usarlo
come premessa, e assumendosi la responsabilità
di dimostrare il proprio titolo (entitlement) a tale impegno, di giustificare la propria
autorità nelle circostanze opportune, di solito presentando la propria affermazione
come conclusione di un’inferenza da altri impegni di tale tipo ai quali si ha
titolo o si potrà averlo» (Brandom 2000, p. 11, trad. it. p. 21).
(71) Cfr. Brandom 1994, pp. 167 ss. e 197 ss. Il pragmatismo
inferenzialista, infatti, «parte da una distinzione pratica tra inferenze buone
e cattive, intesa come distinzione tra comportamenti
[linguistici] appropriati e inappropriati, e procedere a interpretare la
nozioni di verità [e di validità] come nozioni di ciò che viene preservato dai
passi inferenziali ammissibili» (Brandom 2000, p. 12, trad. it. p. 21-22).
(72) Nell’esempio le disposizioni interpretate prima facie sono l’art. 628 I comma c.p.
(delitto di rapina), l’art. l’art. 628 III comma n. 1 c.p. (delitto di rapina
commessa con armi) e l’art. 585 II comma c.p. (definizione di arma).
(73) Come osserva opportunamente Pastore, «l’individuazione delle
circostanze oggetto del giudizio è legata allo schema legale impiegato per
definire i termini della controversia, cosicché gli eventi passati “significativi”
sono quelli definiti in funzione dei criteri giuridici che si ritengono
applicabili per decidere il caso» (Pastore 1996, p. 147).
(74) Per un’analisi dettagliata del procedimento (deontic scorekeeping) attraverso il
quale gli impegni discorsivi altrui vengono riconosciuti e vagliati nel contesto
del processo, determinando pragmaticamente il contenuto concettuale, mi permetto
di rinviare il lettore a Canale e Tuzet 2006.
(75) Brandom 1994, pp. 639-649.
(76) Brandom 2001, p.
(77) Non risulta casuale il fatto che Brandom scorga questo duplice piano
normativo nella stessa ontologia heideggeriana: «Heidegger undertakes two principal
sorts of commitments (…): one concerning the relation between the normative and
the factual realms, the other regarding the relation between norms taking the
explicit form of rules and norms taking the implicit form of proprieties of
social practice» (Brandom 2002, p. 77).
(78) Su questa distinzione vedi Canale 2003, pp. 33-35.
(79) Per la discussione di questo punto vedi, da ultimo, i
contributi raccolti in Di Cesare 2001.
(80) Per una estensione dell’approccio inferenzialista alla teoria
del ragionamento giuridico vedi Canale 2005.
(81) Cfr. Williams 2002.
(82) Loeffler 2005; Rosenkranz 2001.
(83) «The conception of concepts as inferentially articulated permits a
picture of thought and of the world that thought is about as equally, and in the favoured cases identically, conceptually articulated» (Brandom 1994, p. 622).
(84) Sulle origini storiche di questa contrapposizione e sui suoi
limiti Dummett 1993. Cfr. anche Dummett 2001, pp. 89 ss.
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