Etica & Politica / Ethics & Politics, 2005, 1

http://www.units.it/etica/2005_1/CISLAGHI.htm

 

 

Considerazioni sulla felicità come verità del soggetto

 

Alessandra Cislaghi

 

Dipartimento della Formazione e dell’Educazione

Università di Trieste

 

 

Abstract

The paper assumes as a starting point  the observation that the word “happiness” seems to be not really interesting within a critical thought. After a short digression on how different languages translate the word “happiness”, the paper focuses on the notion of “being happy” as equivalent to “choose correctly”. This equivalence seems to bring about a re–evaluation of the Greek concept of “daimon”.

 

 

1. La filosofia del “non”

 

Il tema scelto – la felicità – apparirà ad alcuni in–solito, forse im–proponibile, probabilmente im–praticabile e, di certo, in–attuale. E sotto svariati aspetti: infatti non si è soliti discorrere di felicità, allorché varchiamo il terreno del dominio teoretico; la felicità non è una parola della filosofia, che la espunge da sé come troppo ingenua e insieme troppo pretenziosa; non si può utilizzare il tema della felicità inflazionato dalla visione e dai linguaggi mass–mediatici; e per giunta la felicità è certamente questione lasciata indietro, superata, nel tempo luttuoso delle morti di Dio, dell’uomo, della filosofia. Ciò nondimeno mi faccio carico di inseguire nei suoi significati questa parola, così ambiziosa e inafferrabile, che pare, come una bella donna, come l’allumeuse di un tempo, sedurre e abbandonare; attira a sé come una fata ma si teme che annoierà come una moglie. E allora, suggeriscono i più, meglio lasciarla perdere, e dedicarsi a concetti più virili e promettenti. Non ho ascoltato questo savio consiglio e mi sono appassionata alla questione della felicità, così come ho amato il tema del “desiderio”, anch’esso a lungo tenuto fuori dalle marche della filosofia ma poi ripreso e posto in onore.

Cosa è dunque felicità e in qual senso ci interpella? Essa non è la nostra condizione più propria, anzi sembra non riguardarci se non accidentalmente.

 

 

2. I nomi della felicità

 

Coloro che in antico  ebbero il meraviglioso compito di dare i nomi alle cose s’industriarono con vivace fantasia per indicare questo improprio del genere umano. La semantica della felicità è assai ricca: per i Greci felicità era eudaimonia (avere un buon demone, un angelo buono), eutychia (buona sorte), olbos (ricchezza), makaria (beatitudine); per i latini era fortuna, nonché felicitas, risalente alla radice indoeuropea fe– il cui senso primo è quello di fecondità, prosperità, nutrimento. (1)

 Sembra così, come il buon senso di sempre riconferma, che non sia dia felicità senza abbondanza. Lo affermava finanche Aristotele: “Sembra che l’eudaimonia abbia bisogno anche dei beni esteriori; infatti è impossibile o non è facile compiere belle azioni senza mezzi d’aiuto”. (2) Era ovvio, allora, constatare la dipendenza dell’abbondanza di beni dalla mutevolezza della sorte. Per questo felicità è eutychia, fortuna, buona sorte, essendo affidata ad eventi esterni solo in parte dominabili dalla volontà umana. Apparve subito ai primi pensatori l’urgenza di accordare quanto più possibile sorte ed autonomia, per garantire all’uomo libero l’autosufficienza. Fu immediatamente chiaro che occorreva quanto più possibile sottrarsi ai dardi della sorte, ora benigna, ora avversa ma sempre aliena. La consueta rappresentazione della felicità identifica questa con beni e piaceri, ovvero sia con ricchezze, onori, potere, salute e lunga vita. Ma tutto ciò è sottomesso alle svolte della fortuna, è dipendente dal capriccio degli dei o del destino. Perciò i sapienti presero ad insegnare lo stratagemma del capovolgimento: sottrarre la signoria della felicità all’esteriorità, impossessarsi di lei neutralizzando il potere esterno. Felicità diventa cosa umana, legata ad autonomia ed autosufficienza; se essa dipende non da beni esteriori, ma dall’interiorità, è l’anima la signora assoluta della felicità o dell’infelicità. “Eudaimonie psychès kai kakodaimonie” – annotava già Democrito.  La vulnerabilità del possesso dei beni è vinta dallo spostamento operato attraverso la conquista del potere dell’animo. Da questo trucco vennero fuori le soluzioni ascetiche e pauperistiche, di cinici stoici e spiriti solitari d’ogni tempo. Ma l’annotazione di Democrito suggeriva di più: metteva in luce la connessione indisgiungibile di felicità e anima. Tutti i beni senza una visione intelligente sono un possesso insicuro; solo l’anima sa far tesoro di ciò che l’individuo possiede per goderne, solo l’anima può accettare di trasformare la vulnerabilità della sorte in bene per sé; solo l’anima decide se dichiarasi disponibile al gioco reciproco di plasmare–farsi plasmare dal destino. La felicità scende così dal piano dell’imponderabile per farsi cosa umana.

Certo propriamente felici apparivano solo gli dei, perché invulnerabili alla caducità temporale. Di quella divina felicità, di tale beatitudine, gli umani potevano sognare di partecipare solo in una vita ultraterrena e a condizioni di eroismi trasformativi. Luogo di tale vagheggiamento erano dunque le isole dei beati. Divertente e interessante imprecazione allora quella attestata da Platone: “ball’es makarian”, letteralmente – “va’ alla felicità!”, cioè “va’ alla malora!”.

Insomma la semantica della felicità dimostra che questa indica una pienezza, un possesso di sé, anzi un pieno dispiegamento di sé. Con la felicità sono dunque in questione molte faccende umane: la vita buona, con le sue esigenze minime ma irrinunciabili di possesso di beni, atti a garantire dignità e a presupporre giustizia; la libertà, che implica autosufficienza ed autonomia; la finitezza, come temporalità della vita umana e come vulnerabilità dei beni che ineriscono al ben–vivere; il soggetto, come attore della propria felicità o infelicità, ossia del proprio stare al mondo, nella ricchezza delle relazioni umane. Felicità appare quindi una faccenda interamente umana, che interessa l’uomo intero, prima e al di là di qualsiasi scissione tra sensibile ed intellettuale, tra spirito e corpo. Se la beatitudine – come stato di pienezza che mai viene meno – è cosa divina, la felicitas, quale attiva realizzazione della propria sorte, è comune denominatore dell’essere umano; tutti la desiderano, pure di contro alla fortuna che è felicità ridotta al caso.

Le lingue europee mantengono la percezione greca: il francese bonheur, l’inglese happiness (nel rimando al verbo to happen = accadere), il tedesco Glück . Quest’ultimo rimanda a Luke, che significa passaggio, come un boccaporto, un finestrino, un abbaino, insomma una via d’uscita al riparo; un riparo, così si attesta intorno al 1160 il vocabolo Glück. Le lingue moderne hanno mantenuto la percezione della felicità come debitrice della sorte, dell’instabilità della fortuna, benigna o avversa. L’ambiguità del termine fortuna non è dunque casuale, è polivalente: dice sia l’equivalenza di felicità e buona sorte, sia la perenne instabilità e precarietà della fortuna, dal duplice volto. La mutabilità degli eventi non consente all’uomo un dominio sull’esteriorità, ma in questa relazione con l’esterno, rispetto al quale, come abbiamo visto, l’anima può rivendicare uno specifico potere, si articola la rappresentazione della felicità come accordo tra l’io ed il suo mondo, quello che in tedesco si dice Stimmung.

In ragione della casualità, della sua inerente incertezza, la felicità ha nome fortuna; ma a motivo della riflessione dell’io su sé medesimo essa è altra cosa, è il proprium dell’umano, come sua situazione costitutiva, senza la quale la compagine soggettiva si sfalda.

 

 

3. La frattura ontologica

 

Noi non siamo quello che ci aspetteremmo di essere: non siamo felici. La semplice constatazione di tale mancanza mostra la qualità del nostro proprium. Il desiderio che ci spinge ad esistere si muove verso un appagamento di sé che nominiamo felicità, per capirci. Lo scandalo del male che fiumi d’inchiostro ha fatto versare ai filosofi, nonché ai poeti, è tale, cioè scandalo, perché constatiamo che il male non è la condizione adeguata all’esistente. Il male, in tutte le sue forme, infrange la logica dell’essere, la nega. L’esistenza nel suo darsi abbisogna di completezza; i deficit che può tollerare sono limitati, oltre un determinato limite l’esistenza implode nel suo contrario.

Il mito edenico, uno dei miti fondatori del sapere d’Occidente, presenta la situazione paradisiaca come costitutiva per l’essere umano. Il terrestre, che vive in forza di un soffio divino, e che è doppio (Ish e Ishà), vive l’integrità, l’armonia, lo shalom, cioè la pienezza di relazioni con sé, con l’altro, con il tutto. Nella relazionalità piena, nella fiducia che è responsabilità che tutela e creatività dispiegata, l’essere umano riesce a vivere in quanto tale, non dimidiato, non ferito, non malato o monco, non infelice. La rappresentazione mitica sta fuori del divenire storico, tanto al suo inizio quanto alla sua fine. C’è una storia di deserti e di sangue versato tra due giardini lussureggianti, quello originario e quello escatologico. Ma l’uomo cerca se stesso perché si è smarrito, quando ha dovuto lasciare il giardino che abitava e non riesce a trovarsi se non nell’utopia del giardino a venire, laddove la felicità è ripresa. In quel luogo utopico il godimento è perfetto, inerisce alla relazione, alla bellezza, alla salute. Il percorso storico accidentato svela a contrario la costituzione umana: l’essere nostro è per la felicità. Tutto mira al suo raggiungimento, anche nelle negazioni, nelle deformazioni estreme.

Siamo separati dall’origine. Giochiamo il gioco della vita con autocoscienza ma privi di una conoscenza circa il nostro essere, la sua provenienza, il suo destino: regolati dalla finitezza di nascita e morte abitiamo un mondo misterioso e opaco, fascinosum e tremendum.Vi è una frattura tra l’esperienza storica del nostro divenire ed il conatus essendi.

L’esperienza della mancanza di felicità rivela la sua essenzialità, congenericità all’umano. Ci riconosciamo infelici, perché normalmente dovremmo esser felici. Ma siamo al di qua della frattura originaria. Nessun Eden è conosciuto se non nella memoria archioriginaria. Ed è tale memoria che tutti accomuna a esprimere ciò che propriamente siamo in quanto umani: separati da un origine che resta mistero, dentro il susseguirsi delle generazioni in quanto esseri desideranti. Il desiderio segnala una mancanza e chiede compimento, anche ad infinitum. Come il “desiderio metafisico” di cui ci parla Emmanuel Levinas: desiderio di chi è già felice. Solo i bisogni si appagano e tornano come bisogni; il desiderio è un bisogno di lusso inseguito da chi si sa come felice in sé e per sé. Desiderio di sé, che non si appaga di nulla di meno che del ritrovamento del sé. E anche allora la pienezza è di tipo erotico, come insegnava il grande Platone, è ossimorico, una insatiabilis satietas, secondo la formula agostiniana. Perciò la felicità non annoia e non è da temere come una Santippe ognora rediviva.

“Esser–gettato” il nostro – spiegava Heidegger, traducendo la nozione teologico–cristiana dell’esser stati creati senza che alcuno ce lo abbia chiesto: Chi ti ha creato senza di te, non ti salverà senza di te, recita la formula agostiniana. Ci troviamo insomma a sperimentarci esistenti in maniera trasecolata, siamo coinvolti in un gioco che non abbiamo scelto di giocare, ma che, una volta entrati in scena, ci costringe all’assenso, ci obbliga comunque al riconoscimento del già dato che non possiamo annullare.

Ci ritroviamo inoltre, secondo la constatazione di Levinas, con un debito che non abbiamo mai contratto, ma del quale siamo comunque responsabili. Quale paradosso! Esistere è assunzione di responsabilità, cogenza a farsi responsum abilis, cioè capaci di rispondere, mentre siamo privi di certezze, incapaci dunque di offrire risposte e disorientati. Ecco allora che il nostro esistere si sviluppa come continua e costante ricerca di orientamento da parte del soggetto che ci troviamo ad essere.

La gettatezza, l’interpellazione, o detto altrimenti, la strutturale finitezza e la libertà, che ci caratterizzano come umani ed instaurano così il nostro dramma, sono stati messi a tema nei miti religiosi, nelle opere poetiche, prima ancora che nelle dense pagine dei filosofi, e questo in molte e differenti culture e religioni. Spesso la condizione fratta, scissa, in cui versiamo, separata all’inizio come alla fine, è stata descritta come caduta da una situazione primigenia più elevata, migliore. Ho già fatto riferimento al mito adamitico biblico; pensiamo alle ipostasi plotiniane che scaturiscono dall’Uno in un movimento discensivo.

Secondo il grandioso e suggestivo quadro platonico, (3) noi proveniamo da un luogo superno, ove abbiamo goduto della visione della verità nella sua essenza. La nostra anima, che ha veduto la pienezza del vero, si incarna in un corpo e non una sola volta. E quando lascia la terra, o godrà per un certo tempo di premi o patirà per un tempo proporzionale delle pene; quindi dovrà scegliere guidata da Ananke (la Necessità) e dalle Parche, che sanciscono scelte e tempi di vita, il proprio tipo di esistenza. Ciascuno sceglie un modello, influenzato, più che dalle sagge parole dell’angelo che accompagna, dalle esperienze già fatte e in terra e nei luoghi ultraterreni. Non è affatto sicuro che chi ha goduto di premi si sia fatto più astuto nella scelta. L’ex–ottimo cittadino, premiato per la sua passata rettitudine, non sa scegliere con saggezza ed al giro successivo vorrà fare il dittatore, salvo poi rendersi conto della folle e triste decisione; Ulisse invece, libero ormai dall’ambizione, sceglie il modello di vita più oscuro, quello di un nullafacente, di un perdigiorno. Interessante dinamica quella descrittaci da Platone, che pare suggerire, con una strizzatina d’occhio, che la saggezza pratica deriva soltanto dalle scelte operate e sofferte in proprio! Il godimento ricevuto senza autonoma conquista nulla serve nell’accrescimento dell’esperienza e nella soddisfazione dei desideri. Occorre un’anima consapevole.

Anche Aristotele aveva compreso la centralità, per il raggiungimento dell’eccellenza umana, della deliberazione libera e attiva (la proairesis). Essa è conditio sine qua non d’ogni azione, e raccoglie in sé medesima il momento della comprensione intellettuale e quello della spinta desiderante: da questo insieme scaturisce la forza della decisione e della conseguente azione, nonché l’appagamento che ne deriva. Vita felice è quella di chi sa scegliere corrispondentemente al bene cercato e adeguatamente all’orizzonte di appartenenza.

 

 

4. Il desiderio del Sé

 

La questione diventa allora quella relativa alla scelta, ma come scegliere? E chi sceglie?

Riemerge il tema del soggetto. E torniamo ancora una volta agli antichi.  Socrate, che aveva appreso da una donna, l’insegnamento più prezioso, quello di conoscere il proprio sé, era attento all’altro da sé; si conosce come doppio: l’io di Socrate e il sé del daimon. Un sé potente che esige ascolto e rispetto e che non rinuncia tanto facilmente a farsi sentire. Un sé che è capace di farsi riconoscere dall’io e che lo obbliga a rivedere, se occorre, le sue opinioni. È il caso narrato nel Fedro platonico.

Dopo aver sostenuto al cospetto del giovane e brillante amico Fedro (= lo splendente) un articolato discorso a difesa dell’amore regolato dalla logica tutta razionale della convenienza e dell’opportunità, Socrate è deciso a terminare la conversazione e a congedarsi dall’amico. Ma accade qualcosa: un richiamo che non può trascurare e che lo costringe a intessere un discorso nuovo, ispirato ad altre verità. È il demone.

“Proprio quando ero sul punto di voler attraversare il fiume, caro amico, si è manifestato il segno divino, quel segno che è solito manifestarsi a me, e che sempre mi trattiene dal fare ciò che sono sul punto di fare. E mi è sembrato di sentire una voce che veniva da quello e che non mi permetteva di andarmene prima di essermi purificato, come se mi fossi macchiato di una colpa nei confronti della divinità. Veramente, io sono un indovino, però non molto valido; ma come quelli che sono poco bravi nel leggere, valgo quanto basta per me stesso; perciò capisco bene quale sia la colpa. In verità, amico, ha una capacità divinatoria anche l’anima”. Qualcosa inquietava Socrate, mentre sosteneva il suo discorso, ed ora che egli ha chiaro dinanzi a sé la propria colpa, compie il rito espiatorio di purificazione: tiene un altro discorso “sano e vero”. Si tratta del grande discorso di Socrate sull’amore, tenuto a capo scoperto questa volta, con atto di riverenza e pietà verso Eros ed Afrodite.

L’amore sacro a tali divinità è qualcosa di superiore all’opinione comune: è mania, cioè folle passione, profetica ispirazione. Essa esige rischio e piena dedizione. Platone, con la veste di Socrate, si rettifica, corregge l’intellettualismo lineare e univoco delle precedenti opere ed ha il coraggio della ritrattazione. Alla passione è riconosciuta qui una valenza cognitiva.

Nelle pagine successive del Fedro è presentato il mito della visione dei carri divini, nonché quello dell’auriga. In linguaggio mitologico e dunque umano, nell’impossibilità di costruire un discorso diretto, che sarebbe divino, Platone ci presenta la vita psichica. Ogni anima segue uno dei tanti carri divini, segno che essa ha caratteristiche individuali, e possiede una configurazione complessa (raffigurata dal cavallo bianco, da quello nero, e insieme dall’auriga), avendo la propria forza nell’articolazione delle varie parti di sé.

Dunque quell’”alcunché di divino” che è il demone – ovvero il sé – intesse un discorso “musico”, in quanto tale discorso richiede la piena partecipazione ed orchestrazione di tutte le parti dell’anima incarnata. La preghiera a Pan, a chiusa del dialogo platonico, che Hölderlin onorò come preghiera filosofica per antonomasia, celebra l’amore tra le parti di sé, tra anima e corpo. Il riconoscimento della mania conduce ad una diversa e mutata concezione del bene e dell’autosufficienza, a garanzia della vita beata, la quale richiede lo sviluppo dell’attività e della passività, in armonia e reciprocità.

L’eudaimonia si presenta allora come cura di sé, perché conoscersi significa seguire il daimon, l’articolazione del sé. Socrate non ha tempo da dedicare ad altro che alla conoscenza di se stesso, giacché ad essa non è ancora giunto. E allora indaga se stesso per verificare chi egli sia davvero e quali siano le sue proprie caratteristiche. Il mutamento dichiarato nel Fedro è testimoniato anche da una svolta simbolica: Socrate che insegue la conoscenza di sé ritiene di poter imparare dall’incontro con gli altri uomini, perciò resta sempre entro la polis. In questa narrazione invece Socrate si lascia persuadere a varcare le porte della città ed il dialogo avviene in un luogo paradisiaco: il luogo descritto è un giardino lussureggiante, di una bellezza che infonde un’aura di profonda sacralità. Di nuovo un giardino, per imparare chi siamo; di nuovo è questione di bellezza, di lezione estetica.

 

 

5. Alla ricerca del sé, oltre il blocco cartesiano

 

Per mantenere esistente l’essere che come soggetto siamo occorre che confidiamo nella riuscita del nostro sé, pena la distruzione, operata in svariatissime forme, di ciò che siamo.

Cercare la verità del soggetto conduce a interrogarsi sul sé, “che ditta dentro”. Platone ce lo ha mostrato attraverso la delineazione del daimon. Aristotele ha pensato il nostro essere dandogli una misura umana costruita sulla relazione con l’altro: l’eccellenza è strutturalmente politica.

Nel nostro tempo Heidegger e Levinas hanno lasciato due prospettive speculari: il primo considera l’appello più intimo come appello dell’essere stesso, che non è coscienza (Gewissen), il secondo attribuisce all’altro da me, ad altri, la funzione di chiamata alla responsabilità costituente la mia più propria soggettività. Elemento comune è la scissione della compattezza dell’io, ma non nella duplicità cartesiana, bensì nella stratificazione a spirale di io autocosciente, unità appercettiva ed empirica, e sé in cui si radica l’identità del soggetto che siamo, e che lo fa essere attraverso una sua presentificazione che è fatta di materiale simbolico, sintomatologico, patico. Il sé insomma mai tace: la sua presenza è dialogica e avviene nel corpo e nella psiche, mediante immagini simboliche, reazioni psico–somatiche, nevrosi o psicosi quotidiane, passioni, affetti.

Chiamati dall’essere – chiamati dall’altro: sé come un altro. È il titolo del ben noto volume di Paul Ricoeur Soi même comme un autre. (4) Considerarci interpellati è la nostra condizione di umani: soggetti al desiderio di felicità per esser se stessi, soggetti impastati di psiche e soma inscindibilmente, soggetti desideranti e sottomessi all’oscurità di sé, del sé. Questo sé, guardato nel XX secolo dagli occhi bruciati dall’orrore del tempo, si separa dall’identità; è una sfasatura, un oblio di sé medesimo. In Altrimenti che essere Levinas osservava: “Il Sé è Sub–jectum: è sotto il peso dell’universo – responsabile di tutto. L’unità dell’universo non è ciò che il mio sguardo abbraccia nella sua unità d’appercezione, ma ciò che da tutte le parti m’incombe, mi riguarda nei due sensi del termine, mi accusa, è mio affare. In questo senso, l’idea che mi si cerchi negli spazi intersiderali non è una finzione della fantascienza, ma esprime la mia passività di Sé. (…) Il Sé è ciò che inverte l’opera dritta, imperturbabile e senza esenzioni in cui si sviluppa l’essenza dell’essere”. (5)

Torsione dell’essere che siamo; fissione dell’io in Sé. Relatività – non etica ma della fisica contemporanea, ove i campi interagiscono e si modulano l’uno in relazione all’altro. Complessità ripetuta dagli analisti della psiche: il Sé, nella considerazione di Jung per esempio, è un’entità sopraordinata all’io cosciente, abbracciante non solo la psiche cosciente ma anche quella inconscia. Il Sé è l’intera persona psico–somatica, inserita in un ambiente.

In quest’epoca di complessità frastagliata e diffusa ci troviamo alle prese con il blocco cartesiano, delimitati dalla cesura storica del moderno con il quale continuare a fare i conti.  Cartesio ha aperto la porta del tempo che viviamo, con lui abbiamo attraversato – pare – un punto di non ritorno. Il sub–jectum pensato letteralmente sino ad allora come fondamento e sostanza, oggetto con cui avere a che fare, diviene soggetto in quanto padrone di se stesso, autofondato sulle proprie certezze. Garanzia dell’io è l’io medesimo, che appare perciò adulto, ossia autonomo, indipendente, autosufficiente come gli antichi non avevano neanche di lontano osato supporre, pur affannandosi alla ricerca di una fondazione dell’autosufficienza individuale. Questo io autogarantito dalle proprie certezze si è costruito come superficie piana, abolendo i rischi della profondità, che viene bandita, come l’ipotesi della follia o dell’inganno. Quale felicità per l’ego cartesiano? Strana e inadeguata domanda. Anche la felicità è bandita dove l’ombra è negata. Ci vorrebbe forse una prosecuzione infinita dell’io per conquistarla, come in certo modo promise dipoi Kant, restando nel solco di rigorose attese razionalistiche.

Quale felicità per l’ego cogito, dunque? Solo la modesta promessa della rettitudine conseguita dal buon governo della ragione sulle passioni, legate si sensi e finalmente sottomesse. Non guadagniamo con ciò una felicità molto più grande di quella promessa dagli antichi stoici. Ma un soggetto, quale quello cartesiano, è distinto nettamente in due sezioni: res cogitans e res extensa. L’una domina, l’altra è dominata. Come sempre il dualismo genera gerachizzazioni.

Definire come blocco la cesura del moderno inaugurata da Cartesio significa prendere in considerazione due argomenti:

la suddetta distinzione tra mente e corpo, ragione e passioni;

la definizione dell’autonomia, che determinerà l’oblio della dipendenza del soggetto.

Circa il primo punto abbiamo già detto, mi soffermerò sul secondo. La moderna definizione di autosufficienza garantisce l’acquisizione dell’autonomia del soggetto. E i meriti culturali di questa conquista risultano assolutamente irrinunciabili. Ma tale acquisizione, resa solida dalla riflessione illuministica, ha oscurato sino alla negazione e alla dimenticanza l’altro elemento costituente la soggettività, quello della “dipendenza”.

Il soggetto autonomo si fonda da sé solo e dimentica irresponsabilmente così la propria costitutiva limitatezza. La cesura solo storica del moderno, piccolo baluardo dell’umano ingegno, impedisce di riguardare la frattura originaria che come un abisso ci sovrasta impedendoci di spingere oltre lo sguardo. La visione è bloccata e come un’onda sonora rimbalza indietro facendo eco su di noi, che ne veniamo colpiti. Scopriamo allora il limite invalicabile ma presente e sublime.

Questa è la dimenticata dipendenza che istituisce la soggettività. Il soggetto invero non si autofonda e non si chiarifica da sé solo, né, tantomeno, si autoassicura. Non si basta affatto. Costitutivamente interrelato, necessita di altri, come insegnava Hegel e differentemente Levinas, per riconoscersi. Il suo essere inoltre è inizialmente un essere–due, nella definiente distinzione di maschile e femminile. Il soggetto è finito, avendo un inizio e una fine determinate, che non racchiude nella propria esperienza conoscitiva autocosciente. Per tutti questi aspetti fondamentali, il soggetto è non solo autonomo ma parimenti dipendente. Dipendente e dunque oscuro a sé medesimo. Nessuna chiarificazione operata per analisi progressive potrà dissolvere questa sua opacità.

Il soggetto ha una profondità irrisolvibile in una superficie piana. Il soggetto non si risolve nell’io, si sviluppa piuttosto nel sé. All’orizzonte del dibattito contemporaneo si sono affacciate numerose e importanti teorie del sé, seguendo per esempio la linea di G.H. Mead cui si rifà Charles Taylor; significativi i contributi di J. Habermas e A. Honneth, nonché gli studi di H. Arendt; meritevole di attenzione da parte filosofica anche il filone dei modelli psicoanalitici, come la “psicologia del Sé” di H. Kohut.

Il soggetto ha una storia da cui non prescinde nemmeno attraverso le operazioni delle progressive riduzioni fenomenologiche. Il soggetto deriva da altro da sé: è soggetto generato e a sua volta fertile; è aperto e non solipsistico; libero di una libertà strappata alla necessità con cui viene progressivamente a patti. Il soggetto è individuo insostituibile nella sua unicità ed espressione di verità, la sua, l’unica, come ci ha insegnato a scoprire Luigi Pareyson. Potrei appellarmi all’autorevolezza di altri autori, a Dieter Henrich per esempio, che ha scritto ampiamente su questo tema di dipendenza ed oscurità, senza nulla negare alle attestazioni di autonomia. Potrei anche riferirirmi alle autrici, filosofe e teologhe, della corrente femminista, che insistono sulla relazione come elemento imprescindibile nella ridefinizione del soggetto. Mi limito a considerare le tonalità emotive del soggetto dimidiato e cui è negata la profondità: il suo affetto principe è l’angoscia. Come parossisticamente ha testimoniato l’arte novecentesca, oltre ovviamente alla filosofia coeva.

 

 

6. Del Sé, ovvero dello Spirito

 

Un soggetto preda dell’angoscia è un soggetto malato, la sua malattia riguarda proprio il sé e ha nome di disperazione. La disperazione è la malattia mortale del soggetto, malattia universale secondo l’interpretazione datane da Kierkegaard. Essa consiste in un rapporto di squilibrio, di disarmonia che corrode il sé, dato che il sé può opportunamente venir definito come “un rapporto che si rapporta a se stesso, oppure è questo nel rapporto”. (6) Il soggetto come composizione, sintesi, è già rapporto, di anima e corpo per esempio; ma egli è anche rapporto riflesso, ovvero si interroga sul rapporto che si trova ad essere, giacché non ha posto se stesso come rapporto, ma è stato posto da un altro. Dunque solo nel rapporto a questo altro può esservi equilibrio. Sorge la disperazione invece quando vi è squilibrio nel rapporto o quando il soggetto nel rapporto non si rapporta all’altro. Infatti un rapporto che si rapporta a stesso, un sé, deve o aver posto se stesso o esser stato posto da un altro. Un simile rapporto derivato è il sé del soggetto.

Insomma la disperazione pare consistere in un rapporto sbagliato con se stessi, o perché si è addirittura inconsapevoli di avere un sé, o perché non si accoglie il proprio specifico sé o, all’opposto, perché si vuole ostinatamente questo sé come unico. Si dispera dunque sempre e solo di se stessi.

Come rapporto che si rapporta a se stesso il sé è libertà. Tale libertà si articola tra quattro determinazioni rappresentabili da quattro poli, intorno a cui segnare un’ellisse. I poli sono: il finito, l’infinito, la possibilità e la necessità. Nel vortice che si ingenera nella messa in movimento dei quattro si realizza il sé del soggetto. Nell’articolazione di quei poli infatti, che sono la finitezza e l’infinità, il possibile e il necessario, si determina la libertà nei confronti della realtà. Realizzare il sé equivarrebbe a compiere la sintesi dei poli, allorché invece il soggetto, abolisce, misconosce, la propria libertà, si aggrappa ad uno solo dei poli dell’ellisse, vi si rifugia,fuggendo l’opposto. Così cade nell’angoscia, e, psicoanaliticamente, in varie tipologie di nevrosi, come penoso tentativo di eludere il compito di divenire un sé.

L’angoscia dinanzi alla libertà di diventare un Sé spinge l’io alla fuga in quattro diverse direzioni; allora esso proclama: voglio diventare assolutamente necessario e determinare tutto oppure voglio assolutamente vagare in una libertà apparente; anzi, voglio rimanere assolutamente in me e così conservare la mia presunta infinità, o voglio diventare assolutamente utile, perdermi nel finito e così perpetuarmi. Così l’io persevera nella costrizione (rigido autocontrollo, nevrosi ossessivo–coatta) o si abbandona all’incostanza (isteria); può temere la solitudine (depressione) o la prossimità (schizoidia). Dunque cerca di placarsi nella legge del dovere e del necessario o, al contrario,tiene aperte tutte le possibilità; può chiudersi nella mera fattualità o prolungare le proprie azioni all’infinito. (7) Queste volizioni, queste fughe dell’io rappresentano tutte, pur nella loro diametrale opposizione, una unilateralizzazione finalizzata a risolvere la tensione, che invero si struttura nell’angoscia. Nei suoi sforzi angosciosi per voler essere se stesso, l’io lavora per l’esatto opposto, non diventando in senso proprio un sé.

Il riconoscimento della autentica disperazione di un io che rifiuta di farsi sé è l’unica via di superamento della malattia mortale del soggetto che, attraverso l’atteggiamento opposto, vale a dire la fiducia, vive la complessità della vita reale, il vortice di libertà personale e di profondità spirituale, giacché “lo spirito è il sé”. (8) E il sé può giungere all’equilibrio solo grazie al fatto che “nel rapportarsi a se stesso, si rapporta a ciò che ha posto l’intero rapporto. Questo è lo stato del sé quando la disperazione è completamente estirpata: “nel rapportarsi a se stesso e nel voler essere se stesso, il sé si fonda in modo trasparente nella potenza che lo ha posto”. (9)

Il volere essere disperatamente se stesso esprime nella distorsione della malattia dell’io la dipendenza dell’intero rapporto che è il sé. Lo stato di disperazione infatti consiste in un rapporto squilibrato entro “un rapporto che si rapporta a se stesso e che è stato posto da un Altro”. (10)

La relazionalità riflessa dell’io rimanda al tema dello spirito, per poter intessere un discorso sul sé e qui dovrebbe/potrebbe soccorrerci Hegel, con la ricchezza mirabile del suo impianto speculativo. Per esempio, attingendo alla Fenomenologia dello Spirito leggiamo: “Che la sostanza sia essenzialmente Soggetto, ciò è espresso in quella rappresentazione che enuncia l’Assoluto come Spirito, elevatissimo concetto appartenente all’età moderna e alla sua religione. Soltanto lo spirituale è l’effettuale; esso è: – l’essenza o ciò che è in sé; ciò che ha riferimento e determinatezza, l’esser–altro e l’esser–per–sé; e ciò che in quella determinatezza o nel suo esser fuori di sé resta entro se stesso; ossia esso è in sé e per sé.  – Ma questo essere per sé lo è dapprima per noi o in sé: è la sostanza spirituale. (11) Completa ricchezza dello spirito è la rivelazione del profondo, il suo “insearsi”. La Fenomenologia dello Spirito hegeliana si chiude facendo memoria celebrativa del “calvario dello spirito assoluto”.

Il movimento è lento e doloroso, affinché sia penetrata e assorbita tutta la ricchezza della sostanza spirituale: “Nel suo insearsi lo spirito è calato nella notte della sua autocoscienza; ma ivi è conservato il suo dileguato esserci; e questo tolto esserci, – quello di prima, ma rinato or ora dal sapere, – è il nuovo esserci, un mondo nuovo e una nuova figura spirituale”. (12)

Questa freschezza della figura spirituale, che conserva comunque memoria dell’esperienza, ci riconduce, al pensiero della forma singolare, dell’io che si cerca come sé. E così torniamo alle pagine kierkegaardiane che ho assunto a guida di questo tema. Alla conclusione de La ripresa Kierkegaard inneggia al ritrovamento del proprio più autentico sé come reintegratio in statum pristinum: le vicende dell’esperienza esistenziale, emotivamente e razionalmente comprese, conducono l’io dell’individuo all’emersione del sé, come autenticità propria, nascosta, cercata e finalmente trovata. Trovato e costruito qui fanno tutt’uno. L’io inabissatosi nella conoscenza di sé faticosamente riemerge con il tesoro più prezioso: la conquista di sé e della propria libertà. Allora è felicità, condizione riconosciuta come originaria e quindi destinale.

Facciamoci ancora una volta aiutare dal mito: mi pare che un’immagine appropriata a questo discorso sia quella di Orfeo. Orfeo il musico, che commuove anche le fiere, e che perde quanto ha di più caro, la sposa Euridice. Con Euridice si identifica la felicità di Orfeo. E una volta perduta, bisogna ritrovarla – toccasse andare all’inferno! –. La rinuncia equivarrebbe alla perdita di sé, tanto sono congiunte identità e felicità. E Orfeo scende agli inferi: ma non resiste al comando divino e perde per sempre Euridice. Quale ermeneutica per questo mito? Forse la considerazione intorno allo sguardo, alla visione. Tempo e luogo non sono estranei al sapere di sé, alla sua conquista o alla sua perdita. In gioco vi è ancora la relazione, in cui ne va del soggetto, della sua verità come compimento di sé.

 

 

7. Gaudium de veritate

 

Per i pensatori antichi e moderni l’anima, variamente intesa, resta la categoria essenziale di riferimento per la comprensione del nucleo del nostro essere; l’imperativo a conoscere se stessi costituisce la prima sollecitazione alla ricerca della verità per il soggetto. “Fare anima” – è il Leitmotiv di James Hillman, noto filosofo americano, seppur di origine viennese, e psicoanalista di origine junghiana.  Il motto è tratto da una citazione del poeta inglese John Keats: “Chiamate, vi prego, il mondo la valle del fare anima. Allora scoprirete a cosa serve il mondo”. L’anima è impegnata nel mondo, la sua vita è il coinvolgimento in esso. “Fedeltà alla terra!” griderebbe Nietzsche, di contro a tanto risentimento falsamente spiritualistico. Torniamo perciò al daimon.

Platonicamente e poi plotinianamente è il daimon ha fornirci la nostra immagine fondamentale, presente tutta in una volta già nell’infante ma dispiegatesi nel corso dell’intera esistenza. Il demone richiama, esige, rimprovera; consente ritardi e digressioni ma non si lascia abbandonare. Può esser detto con altri nomi in contesti culturali diversi: vocazione, chiamata, genius, angelo custode, cuore, fortuna, ka o ba. È il segreto dell’individualità che crea un destino. Conformarsi al daimon significa realizzare il proprio sé. E ogniqualvolta il daimon è messo a tacere, imbavagliato, recluso, le conseguenze non tardano tristemente a venire. La felicità è perduta ed il soggetto malato. Ciascuno ha una forma di bellezza da realizzare, ed è irrequieto ogni volta non è all’opera per compierla. “La bellezza è in se stessa una cura per il malessere della psiche”. (13)

La bellezza arresta il moto – diceva Tommaso nella Summa Theologiae. La considerazione può venirci in soccorso, per frenare l’affannosa corsa archeologica dell’autoanalisi come ricerca di felicità a caccia di perché. Bisogna forse piuttosto considerare la vita del soggetto come un frammento di bellezza da plasmare, così come si forgia il proprio carattere, per restare fedeli al proprio daimon fino alla morte e così lasciarsi amare dalla direzione del proprio destino.

Eudaimonia, la più bella parola greca per dire felicità, significa “avere un buon daimon”, uno spirito guardiano, l’immagine che guida il nostro sé, lo spirito. Si esplica come pienezza, espansione di sé, eros, estasi, godimento, attimo–interruzione–eternità, desiderio, origine. La disposizione originaria alla felicità si esprime nella costituzione desiderante del nostro essere.

Non si è “eudaimon”, come ben mostrò Aristotele, senza beni esteriori: e tale basilare constatazione ha una valenza politica assai forte. Ma il godimento non è uguale alla soddisfazione, né il piacere al bene. Di insoddisfacente nel piacere vi è il carattere di incompletezza. Eppure nel principio di piacere si istituisce la soggettività: essa si pone cercando di soddisfarsi, come il neonato che agogna all’appagamento materno. Il bisogno sempre ricompare e facilmente si estingue; non così il desiderio che anela, smisuratamente, all’infinito. Il desiderio non può essere saturato da un contenuto finito. Oggetto adeguato alla felicità è soltanto un “bonum perfectum, quod totaliter quietat appetitum”. (14) L’espressione è di Tommaso: la felicità consiste in un bene perfetto che appaga totalmente il desiderio. Il culmine del desiderio non ne segna però l’arresto.La beatitudine è quiete dinamica e possesso attivo.

La soddisfazione del desiderio, per meritare il titolo di felicità, va pensata come coincidente con la sua massima attivazione, ma in condizioni mutate. Ne facciamo esperienza nell’estasi erotica o contemplativa, a livello estetico, speculativo o mistico. Si gode di una totalità che tutto assorbe, senza più limite alcuno, senza esaurirsi mai. Agostino, che nelle Confessioni descrive l’esperienza mistica dell’estasi come un dolcissimo amplesso goduto attraverso tutti e cinque i sensi, definisce la felicità come “gaudium de veritate”, come gioia nella contemplazione amorosa della verità nella sua bellezza. Nella beatitudine è compresa la delectatio. Quanto maggiore il desiderio, tanto più grande il godimento, il piacere, la jouissance. Ciò che desta meraviglia, continua a suscitare desiderio.

Mi affido ancora una volta a Levinas per meditare su questo punto, il più alto:

“La vita che è la vita di qualcosa è felicità. La vita è affettività e sentimento. Vivere è godere della vita. Disperare della vita ha senso solo perché la vita è, originariamente, felicità.La sofferenza è un venir meno della felicità, non è esatto dire che la felicità è un’assenza di sofferenza. La felicità non è costituita da un’assenza di bisogni di cui si denuncia la tirannia e il carattere imposto, ma dalla soddisfazione di tutti i bisogni. Il fatto è che la privazione dei bisogni non è una privazione qualsiasi ma la privazione in un essere che conosce il sovrappiù della felicità, la privazione in un essere colmo. La felicità è attuazione: è in un’anima soddisfatta e non in un’anima che ha estirpato i propri bisogni, anima castrata. E poiché la vita è felicità, essa è personale. La personalità della persona, l’ipseità dell’io, più che la particolarità dell’atomo e dell’individuo è la particolarità della felicità del godimento”. (15)

La disperazione mostra a contrario che la vita è originariamente felicità. Tutti la bramano come il bene più desiderabile, anzi come l’orizzonte di godimento di ogni bene; tutti agiscono a causa sua, “finanche quelli che si impiccano” – annotava Pascal. Ma tutti, senza eccezione di categorie, se ne lamentano, ne lamentano l’assenza. Il desiderio tiene il posto della felicità. L’avidità di lei e l’incapacità a raggiungerla attestano – ed è ancora Pascal – “che un tempo c’è stata nell’uomo una vera felicità di cui adesso non gli restano che il segno e la traccia di un vuoto che egli inutilmente cerca di colmare con tutto quello che lo circonda, chiedendo alle cose assenti il soccorso che non ha dalle presenti, ma che tutte quante sono incapaci di dargli, perché l’abisso infinito non può essere colmato se non da un oggetto infinito e immutabile”. (16)

Quello di un tempo originario di felicità pare il sogno dostoevskijano di un uomo ridicolo, che aveva visto su un pianeta lontano uomini felici. (17) Ma il sognatore diceva la verità. Ed era una felicità terrena. Quell’origine non è temporale, né ha avuto mai un suo spazio, ma la memoria che ne abbiamo è il segno caratteristico del nostro essere: essere–desiderante, aperto ad infinitum.

L’eudaimonia si configura come propriamente umana, tutta giocata tra sorte mutevole, in cui si può però riporre anche fiducia, e saggezza pratica, relazione e reazioni emotive, scelte e orizzonti di appartenenza valoriale. Già lo sapeva Aristotele che insiste sulla peculiarità umana della felicità come ciò cui l’umano propriamente tende. E vi tende uscendo dalle orgogliose tentazioni della autosufficienza solitaria, per costruire mondi abitabili e governabili, ove la philia e la koinonia, ovvero i  rapporti di profonda condivisione, sono oggetto di somma cura. La misura umana, non individualmente sofistica, è tanto riconosciuta e considerata nell’Etica Nicomachea, che pare addirittura poco coerente l’inserzione dei paragrafi del libro X dedicati alla vita teoretica. Pare una concessione all’Accademia, o forse, e meglio, uno sguardo a ciò che dà vigore e slancio alla vita etica. Platone aveva narrato, e di nuovo menziono il Fedro, che la nostra anima è fatta per volare, ma le ali sono per lo più bloccate e come atrofizzate da inattività. Se l’anima però viene infuocata dalla passione, ecco che, secondo una descrizione deliziosamente meccanico–fisiologico, i canali interni si  disostruiscono e liberano, come petali dispiegati da una gemma, le ali. L’anima, infiammata dalla bellezza per la forza di eros, vola a contemplare le essenze e ne gode pienamente. Visione e vita buona non sono disgiunte, l’integrazione governa la felicità.

Essa richiede stabilità e pretende futuro. Aspirare alla felicità come alla condizione che ci è propria mi pare significhi alzare lo sguardo verso l’altezza della nostre capacità, nonché della nostra integrità o dignità personale, che non deve essere offesa e che chiede invece protezione e progettualità.

“La felicità poi è l’ultimo fine che l’uomo costitutivamente desidera. È perciò desiderio proprio dell’uomo lo stabilirsi nella felicità”. (18) Felicità e stabilità si rimandano l’una all’altra, pena la non soddisfazione dell’uomo:sono parole dell’aristotelico Tommaso che, occupandosi anche di forme soprasensibili, annotava col candore dell’ordine medievale, che “gli angeli erano in fondo certi del bene sulla base della sua stabilità futura, senza la quale non avrebbero potuto esser beati”. (19) Angoscia dei grandi spiriti di doversi limitare allo speculativo!

Costruire in vista della felicità comporta speranza nei progetti umani e fiducia nelle realizzazioni personali, di contro alla sfiducia del tragico e del nichilismo. L’orizzonte di solitudine atea in cui ci muoviamo e respiriamo ha accresciuto il desiderio di incontro e di pienezza. Bisogna aver a lungo sentito una mancanza, per cercare la presenza; sofferto la distruzione, per aver voglia di costruire. Allora ci si sente di nuovo engagés, imbarcati alla scoperta delle nostre isole felici, sapendo che il viaggio può durare una vita.

Un’anima filosofica – racconta il Gorgia platonico – è destinata alle Isole dei Beati, muove la rotta verso di loro. E anche il disincanto razionalista, che abolisce sogni visionari, mira alla costruzione di vite vivibili e degne, facendo della nostra terra l’isola dei beati.”Siccome la nostra sorte nel mondo futuro può benissimo dipendere dal come abbiamo tenuto il nostro posto qua, concludo con le parole che Voltaire fa dire al suo onesto Candido, dopo molte discussioni inutili: «Pensiamo ai nostri affari, andiamo in giardino e lavoriamo!»“; la citazione è kantiana. (20)

Ci vuol fortuna a trovare spazi di sorprendente beatitudine: serendipity è il vocabolo derivato dall’antico nome persiano dell’isola di Sri Lanka, secondo la testimonianza letteraria di Horace Walpole del 1754, per indicare, come vuole una fiabesca etimologia, una scoperta o un evento fortuito che sorprende per essere diverso e assai superiore alle aspettative. Chi vagheggia la felicità intuisce questo, immaginando Dio felice. L’eudaimonia è dono del demone che si può impetrare attraverso la cura di sé; bellezza e bontà – kalokagathia  sono i pilastri della tecnica pedagogica lasciataci in eredità dai Greci per garantirci una vera riuscita.

 

 

Note

 

(1) V. S. NATOLI, La felicità, Feltrinelli, Milano 1994.

(2) ARISTOTELE, Etica Nicomachea 1099 a 31–33.

(3) PLATONE, Repubblica, X libro.

(4) Seuil, Paris 1990; trad. It. Di D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993.

(5) E. LEVINAS, Altrimenti che essere, trad. it. di S. Petrosino e M.T. Aiello, Jaca Book, Milano 1983, p. 145.

(6) S. KIERKEGAARD, La malattia verso la morte, trad. it. di E. Rocca, Donzelli, Roma 1999, p. 15.

(7) Cfr. le considerazioni di  E. DREWERMANN contenute ad es. nel suo  Psicanalisi e teologia morale, trad. it. di C. Danna, Queriniana, Brescia, 19932, pp. 96–132.

(8) S. KIERKEGAARD, op. cit., p. 15.

(9) Ibidem, p. 16.

(10) Ibidem.

(11) G.F.W. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1960 e 1996, “Prefazione”, p. 14.

(12) Ibidem, “Il Sapere Assoluto”, p. 496.

(13) J. HILLMAN, Il codice dell’anima, Adelphi, Milano, 1997, p. 59.

(14) TOMMASO, Summa Theologiae, I–II, q. 2, a.8.

(15) E. LEVINAS, Totalità e infinito, trad. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1977, p. 115.

(16) B. PASCAL, Pensieri (n.*425), Ed. Paoline, Cinisello Balsamo (Milano), 1987, p. 261.

(17) V. F. DOSTOEVSKIJ, Il sogno di un uomo ridicolo, trad. it. di G. Spendel e G. Lombardo,Mondatori, Milano,1995.

(18) TOMMASO, Summa contra Gentiles, III, c. 48.

(19) ID., De Malo, q. 16, a. 4.

(20) I. KANT, Sogni di un visionario spiegati coi sogni della metafisica, trad. it. di M. Venturini, Rizzoli, Milano 1982, p.165.