http://www.units.it/etica/2004_2/POLLO.htm
Il benessere degli animali da sperimentazione: per
una revisione concettuale (*)
Dipartimento di Studi filosofici ed
epistemologici
Università di Roma “La Sapienza”
Abstract Experimentation on non human animals is a
widespread practice in our society and a main topic for animal ethics normative
theories. In the last forty years the humanisation of such practice has been
deeply influenced by the so called “3Rs method”. One of the most important aims
of this method is the improvement of the welfare of the animals involved in
experimental procedures through the Refinement
of housing and experiment conditions. Far to be a merely technical concept,
animal welfare is moral as well. The article tries to suggest an approach to
animal welfare more complex than the mental state approach, which seems to be
the most common one. Such new and richer approach is rooted in the utilitarian
conception of good life elaborated by John Stuart Mill for human beings. Non
human welfare (as that of humans) is promoted by conditions in which
individuals can self develop themselves and try to achieve their own and
particular good life. The article analyses also how such an approach can
influence the practice of Refinement and suggests some further theoretical
issues raising from this change of view toward non human welfare. |
1. Premessa
L’uso
degli animali non umani (d’ora in poi “animali”) nelle procedure sperimentali è
un tema di primo piano per tutte le teorie normative che si occupano dello status
morale degli animali non umani. In effetti, tutte le teorie che argomentano a favore
di un qualche tipo di rispetto morale per gli animali affermano che la sperimentazione
sugli animali è moralmente problematica. Nondimeno, alcune teorie (di certo
quelle consequenzialiste utilitariste) ammettono in linea di principio qualche
caso di sperimentazione moralmente giustificata.
Aldilà
delle teorie filosofiche, va sottolineato il fatto che la sperimentazione animale
è una pratica comune e diffusa delle nostre società, e che la maggior parte
delle nostre azioni quotidiane sono in qualche modo connesse ad essa. La produzione
di articoli per l’igiene personale, di cosmetici, di medicine, e di detersivi è
la pratica più direttamente ed evidentemente connessa alla nostra quotidianità.
In effetti, però, ci sono molte altre pratiche, forse meno note alla
maggioranza dell’opinione pubblica, che sono basate sull’uso di animali in
procedure sperimentali (si pensi a ricerche non direttamente applicative, come
le ricerche pure comportamentali, psicologiche, neurologiche, ecc.). Allo
stesso tempo, varie legislazioni nazionali e sovranazionali regolamentano
queste pratiche secondo un approccio di tipo “protezionista” e “riformista”.
Sono protezioniste, in quanto mirano a ridurre l’esigenza di animali impiegati
nella ricerca, di migliorare le condizioni di quelli che vi sono sottoposti e
di evitare l’uso di specie filogeneticamente prossime agli umani, come le
grandi scimmie, o famigliari agli umani, come i cani e i gatti. Esse, altresì,
sono riformiste, in quanto pur muovendo da un’esigenza di tutela degli animali
non mirano ad un’immediata abolizione della pratica, ma ad una sua graduale
riforma.
Più
specificamente, le diverse legislazioni nazionali (di cui, in Europa, la Direttiva
Europea del 1986 rappresenta il modello) sono ispirate dall’approccio all’etica
della sperimentazione animale che è stato elaborato da W.M.S. Russell e R.L.
Burch nel libro The Principles of Human
Experimental Technique, pubblicato per la prima volta nel 1959.(1) Questo approccio, chiamato “modello delle 3 R”, assegna
un’importanza centrale alla nozione di “benessere animale” (animal welfare), al fine di migliorare
le condizioni degli animali utilizzati per scopi sperimentali. Il mio lavoro
intende concentrarsi proprio su tale nozione. Lungi dall’essere un concetto
meramente tecnico, il benessere animale è un’intersezione di nozioni
scientifiche ed etiche. Quello che mi propongo è di contribuire a stabilire
un’agenda per un’analisi appropriata del concetto di benessere animale. Tale analisi
è necessaria per una migliore comprensione del modello di Russell e Burch e per
connetterlo più chiaramente al dibattito contemporaneo sull’etica animale.
2. Il metodo delle 3R
Il metodo
di Russell e Burch, esposto compiutamente per la prima volta nel 1959 nel loro
libro The Principles of Human
Experimental Technique, ha profondamente
influenzato la pratica della sperimentazione di laboratorio sugli animali. La
fortuna di questo testo e del modello in esso presentato, tuttavia, è rimasta
limitata all’ambito degli addetti ai lavori. Non sembrano numerose, infatti, le
discussioni di etica animale filosofica che si sono concentrate sull’analisi
del modello delle 3R. In effetti, questo fatto sembrerebbe una delle molte
conferme alla tesi di chi sostiene l’esistenza di una mancanza di contatto fra
l’etica animale e la scienza del benessere animale.(2) Il
lavoro che intendo condurre, tra l’altro, si propone di contribuire a stabilire
un più stretto contatto fra questi due ambiti. Per tale ragione può essere
utile avvicinare il modello delle 3R di Russell e Burch al dibattito teorico
sull’etica animale. Tuttavia, non intendo fornire un’analisi storica delle
connessioni fra il dibattito filosofico sull’etica animale e il metodo
elaborato da Russell e Burch. Piuttosto intendo evidenziare alcune affinità di
tale modello con alcune posizioni influenti all’interno del dibattito filosofico.
Prima di
tutto, è necessario un rapido abbozzo del modello delle 3R. Le R alle quali si
riferiscono Russell e Burch stanno per Replacement
(Sostituzione), Reduction (Riduzione)
e Refinement (Raffinamento). Sono
questi i tre concetti che devono essere utilizzati per rendere eticamente più
accettabile (to humanise) la pratica
della sperimentazione su animali. Per utilizzare le parole di Russell e Burch:
“Replacement means the substitution for conscious
living higher animals of insentient material. Reduction means reduction in the
number of animals used to obtain information of given amount and precision.
Refinement means any decrease in the incidence or severity of inhumane
procedures applied to those animals which still have to be used”.(3)
L’idea
centrale del modello delle 3R è che, al momento di disegnare una procedura sperimentale
che implichi l’uso di animali, il ricercatore dovrebbe chiedersi cosa può fare
rispetto a ciascuna ‘R’. Il test del Replacement
può condurre a sostituire gli animali con un modello differente (ad es. una
meta-analisi, una simulazione computerizzata, o un test su cellule in vitro). Il test della Reduction può significare l’impiego di
un numero minore di animali. Infine, il test del Refinement è volto a ridurre la sofferenza e lo stress degli
animali che comunque devono essere utilizzati nella procedura. Inoltre,
rispetto alla sua formulazione iniziale il modello delle 3R è stato nel corso
degli anni aggiornato e interpretato in modi nuovi. Ad esempio, con Replacement oggi ci si riferisce anche
all’utilizzo, in uno specifico protocollo di ricerca, di un animale con un
sistema nervoso meno “complesso”. Inoltre, la pratica del Refinement oggi è diretta non solo al contesto delle procedure
sperimentali, ma alle stesse condizioni di stabulazione dell’animale prima ed,
eventualmente, dopo l’esperimento. Il lavoro che si presenta qui opera, per
l’appunto, nella cornice di questa revisione concettuale.
In
termini generali, si può sostenere che il modello sembra assimilabile ad una
concezione consequenzialista/utilitarista dell’etica. Tutte le tre ‘R’,
infatti, puntano a diminuire il numero degli animali impiegati nelle procedure
sperimentali e a diminuire (o, se possibile, eliminare del tutto) la sofferenza
di quelli che sono utilizzati negli esperimenti. Il modello delle 3R sembra presentare
come assunzioni implicite sia che l’idea che gli animali non abbiano un diritto
assoluto alla vita sia l’idea che alcuni esperimenti su animali possono essere
moralmente giustificati in virtù dei risultati attesi. In aggiunta a ciò, c’è
la tesi per cui la sofferenza e il benessere degli animali contano moralmente.
Alla luce di queste premesse, ciò che è rilevante, quindi, è la valutazione
delle conseguenze da parte del ricercatore. Reduction,
Replacement e Refinement sono, in questa prospettiva, tre strategie per cercare
di ottenere il maggior beneficio possibile dall’attività di sperimentazione,
minimizzando al tempo stesso la sofferenza animale e la perdita di vite
animali.
Per
questa suo orientamento consequenzialista e l’attenzione all’analisi costi/benefici,
il modello delle 3R sembra in grado di confrontarsi adeguatamente con la
pratica dello sfruttamento degli animali per scopi scientifici così come essa
si presenta nelle nostre società e di proporre un efficace approccio riformista
a tale pratica. Da un punto di vista teorico (con risvolti applicativi
importanti) un approccio riformista come questo presenta particolari vantaggi.
In particolare, questo approccio sembra implicare una migliore rappresentazione
della psicologia morale umana. La questione cui mi riferisco qui è quella degli
scopi e dei limiti del ragionamento teorico in etica e della difficoltà (se non
assurdità) della pretesa che l’etica filosofica possa cambiare le convinzioni e
le abitudini morali delle persone, attraverso il semplice ricorso
all’argomentazione e al ragionamento.(4)
Rispetto
alla questione della sperimentazione animale, si può dire che una posizione di
tipo riformista sembra più in sintonia con l’esperienza morale quotidiana. Come
si è già detto, molte delle pratiche delle nostre società implicano la convinzione
che gli animali possano essere utilizzati (e uccisi) per scopi a vantaggio
degli esseri umani. Allo stesso tempo, la consapevolezza che anche gli animali
hanno una qualche rilevanza morale è in crescita nella comunità scientifica e
nella società nel suo complesso. Se questo scenario è corretto, è lecito
aspettarsi risultati migliori da argomentazioni filosofiche che puntano in
prima istanza ad una riforma morale delle pratiche esistenti, piuttosto che ad
una loro completa abolizione.
Nel
contesto del modello delle 3R la capacità di riformare la pratica della sperimentazione
dipende in modo cruciale dalla capacità di comprendere i concetti di Replacement, Reduction e Refinement.
Ognuno di questi concetti non è semplicemente tecnico. Ad esempio, sostituire
un test su animali per accertare gli effetti tossici di una sostanza con un
esame in vitro non implica solo una
valutazione dell’affidabilità della nuova procedura. In effetti, ciò implica
anche una valutazione dei costi e benefici attesi. Questa analisi
costi-benefici richiede un qualche tipo di argomentazione morale per rispondere
a questioni che esulano dalla fattibilità tecnica della procedura alternativa.
Ci si potrebbe chiedere, ad esempio, se sia moralmente accettabile sostituire
un modello animale con un modello in
vitro, qualora la sostituzione implichi una maggiore incertezza dei
risultati. Si potrebbe argomentare, ad esempio, che ci sono casi in cui rischi
maggiori sono più accettabili (ad esempio, quando si tratta di un prodotto
voluttuario come un profumo) e casi in cui aumentare i rischi è discutibile
(se, ad esempio, si tratta di un medicinale).(5)
Questo è solo un esempio, ma penso che esso mostri efficacemente che
l’implementazione delle 3R non richiede solo capacità tecniche per disegnare
nuove procedure sperimentali, ma altresì esige anche argomentazione morale e
analisi dei concetti.
Una delle
questioni chiave per l’implementazione del modello delle 3R è sollevata nel
contesto delle procedure di Refinement.
Tale concetto è intimamente connesso con la nozione di benessere animale. In
termini generali, infatti, si può dire che raffinare le procedure sperimentali
e le condizioni di stabulazione consiste principalmente nella promozione del
benessere degli animali coinvolti. A tale proposito bisogna osservare che il
concetto di benessere animale (così come quello di benessere umano) è morale.
Il benessere non è semplicemente una descrizione fattuale dello stato di un
organismo. Il concetto di benessere è intimamente connesso con il termine
morale “buono”. Il benessere di un individuo è qualcosa che quell’individuo
desidera per se stesso, o che uno spettatore benevolente dovrebbe desiderare
per esso. In termini generali, promuovere il benessere di un animale (umano e
non umano) significa promuovere uno stato di cose che è moralmente buono per
quello stesso animale.
È chiaro,
pertanto, che qualsiasi analisi del concetto di Refinement richiede un’indagine analitica del concetto di benessere
nelle sue implicazioni morali.
3. La pratica della sperimentazione: scienza ed
etica
Tutti gli
esperimenti su animali che si pretendono “scientifici” devono avere alcuni
requisiti. Essi, cioè, devono essere eseguiti secondo metodologie che siano
riconosciute come valide o, se nuove, che possano essere provate tali. Gli
esperimenti, inoltre, devono essere ripetibili. Ogni settore di ricerca
(etologia, neurologia, tossicologia, ecc.) ha i suoi propri requisiti, ma in generale
si può dire che tutte le procedure sperimentali su animali condividono una
caratteristica comune. Tutte le procedure tentano di provare la validità di
qualche ipotesi per mezzo degli animali impiegati. Per raggiungere questo scopo
il ricercatore deve intervenire per indurre dei cambiamenti nel corso di vita
dell’animale.
Se le
ipotesi sono comportamentali, alcuni nuovi stimoli o task possono essere presentati all’animale; se si tratta di ipotesi
circa gli effetti di qualche sostanza sul sistema nervoso, questa dovrà essere
somministrata agli animali. Ciò che deve essere sottolineato è che la
sperimentazione implica un’alterazione delle condizioni di vita degli animali
utilizzati. Non intendo sostenere che la sperimentazione cambia il “corso
naturale” della vita dell’animale che vi è sottoposto (affermazione che cadrebbe
in difficoltà e incongruenze sollevate dal termine “naturale”). È sufficiente
dire che la sperimentazione costringe l’animale a fare qualcosa o ad affrontare
una situazione che probabilmente non avrebbe affrontato nell’ambiente d’origine
della sua specie.
Per
evidenziare le implicazioni etiche di questo aspetto delle procedure sperimentali,
può essere utile un rapido confronto con quanto avviene nella pratica della
sperimentazione su esseri umani. Anche quest’ultima può essere descritta come
un tentativo di validare delle ipotesi per mezzo degli individui sottoposti
all’esperimento: l’essere umano è un modello. Per essere scientificamente
accettabili, gli esperimenti su animali e quelli su esseri umani devono
condividere questo aspetto. Tuttavia, c’è una differenza importante fra quanto
accade nel caso degli umani e quel che accade nel caso degli animali. Per
essere eticamente giustificabile, qualsiasi sperimentazione su esseri umani deve
soddisfare la condizione necessaria (ma non sufficiente) di essere stata
liberamente scelta da chi vi è sottoposto. Naturalmente, non bisogna
dimenticare che la maggior parte delle sperimentazioni sono condotte su persone
le cui possibilità di scelta sono diminuite per via della malattia di cui
soffrono (6) e che, probabilmente, è un mito l’idea che
le persone scelgano in modo completamente autonomo di sottoporsi ad una
sperimentazione.(7) Ciò nondimeno, la pratica della sperimentazione
umana è concepita per fare in modo che le persone abbiano l’opportunità di aderire
il più liberamente possibile all’esperimento e – soprattutto – l’opportunità di
aderire alla procedura cui si sottopongono, rendendola consapevolmente parte
del proprio piano di vita e della propria biografia. Pertanto, si può dire che,
nel caso degli umani, la sperimentazione è un’opportunità e un’opzione fra le
altre nel corso della vita (anche se non in senso assoluto).
Al
contrario, nel caso degli animali, la sperimentazione è la sola “opzione” della
loro vita. Essi vengono allevati a tale scopo. In molti casi (anche se non in
tutti) la loro vita termina con l’esperimento. Quando sopravvivono
all’esperimento, in attesa del successivo, in genere le condizioni di
stabulazione sono tali che ad essi non è consentito di vivere una vita in
accordo con le esigenze etologiche della propria specie. Quello che sembra
essere quasi completamente assente (o seriamente compromesso) nel vita degli
animali utilizzati per la sperimentazione è la capacità di “controllo” sulla
propria vita.
A questa
osservazione si potrebbe obiettare, negando che gli animali abbiano un
“controllo” sulla propria vita e che questa dovrebbe essere considerata una
caratteristica propria solo degli esseri umani. Tuttavia, il concetto di
controllo non deve essere inteso come una capacità razionale di gestire la
propria vita, ma piuttosto come la capacità di compiere scelte in una gamma di
opzioni seguendo i propri bisogni e desideri. Animali complessi, come i
mammiferi, esercitano le proprie complesse capacità cognitive operando scelte
comportamentali basate sulle precedenti esperienze in contesti simili, e basate
su una certa limitata capacità di predire le conseguenze di un’azione.(8)
In questi
termini gli animali possono esercitare una qualche forma di controllo sulle
proprie vite. L’obiezione accennata in precedenza avrebbe senso se si potesse
provare che gli esseri umani hanno una natura differente da quella degli
animali, cioè se vi fosse un salto ontologico fra umani e non umani. Dopo
Darwin, questa idea deve essere rigettata. Le differenze fra le capacità umane
e quelle animali sono di grado, non ontologiche.(9)
Probabilmente, gli esseri umani posseggono ragione e linguaggio nel grado più
alto, ma sotto questo aspetto, uno scimpanzè è più simile a un essere umano che
a un pesce. Una versione naturalizzata e darwiniana del concetto di “controllo”
consente di utilizzare correttamente e sensatamente tale nozione anche nel caso
degli animali.
Per
comprendere come questa idea si colleghi al concetto di benessere e
all’implementazione delle procedure di Refinement,
devo ora passare attraverso una breve discussione sul concetto di benessere.
4. Due modelli di benessere
Vorrei
proporre un confronto fra un approccio che si focalizza sugli stati mentali e
un approccio basato su una concezione progressiva del benessere per mostrare
come quest’ultimo sembri più adeguato per rendere conto del benessere animale e
per contribuire a migliorare le tecniche di Refinement.
Non
intendo discutere in questa sede che cosa significhi “stato mentale” per un animale:
la discussione sulle emozioni negli animali è ampiamente rappresentata nella
letteratura scientifica.(10) In ogni caso, qui
assumo che dolore e stress possano condurre a uno stato mentale povero e,
quindi, ad uno stato fisiologico povero, diminuendo, ad esempio, le difese
immunitarie.(11) Di per sé, quindi, un approccio basato
sugli stati mentali sembra consentire misurazioni piuttosto precise del livello
di benessere degli animali coinvolti nelle procedure sperimentali. Molti
indicatori fisiologici e comportamentali possono rivelare il dolore e lo stress
e i loro valori possono essere misurati e confrontati con i valori di
controllo. Valutare il benessere animale riferendosi a questi indicatori sembra
essere una procedura abbastanza semplice. Dato un intervallo di condizioni
“normali”, i valori che lo eccedono rivelano uno stato di compromissione del
benessere. Un tale approccio sembra avere il grande vantaggio di fornire solidi
indicatori oggettivi per misurare il benessere. In effetti, questo approccio
sembrerebbe essere quello più diffuso per valutare, in genere, il benessere
animale e, nello specifico, per valutare l’efficacia di procedure e tecniche di
Refinement.
Tuttavia,
intendo evidenziare come il concetto di benessere non possa essere ridotto agli
stati mentali. Anzitutto, va osservato che gli animali, indipendentemente
dall’essere sottoposti a procedure sperimentali, spesso fanno esperienza di
dolore e stress. Un animale che viva nel suo ambiente “naturale” vive
esperienze stressanti e dolorose (non solo se si tratta di una preda, ma anche
se ha il ruolo di predatore). In secondo luogo, va rilevato che in genere le
procedure sperimentali tentano di evitare il più possibile il dolore e lo
stress negli animali. In effetti, il dolore e lo stress possono condizionare i
risultati di una procedura influenzando negativamente la qualità dei dati. A
meno che la procedura sperimentale non riguardi specificamente il dolore e lo
stress, tutti gli esperimenti che implicano l’uso di animali dovrebbero evitare
di causarli (e va sottolineato che non si tratta di un requisito etico, bensì
tecnico e scientifico).
Alla luce
di queste due considerazioni, si potrebbe essere condotti a conclusioni
paradossali. Immaginiamo due animali della medesima specie. Uno vive libero in
un ambiente che è adeguato per i suoi bisogni specie-specifici e conduce una
vita caratterizzata dalle esperienze che normalmente ci si aspetta per un
animale di quella specie. L’altro animale è stato allevato specificamente per
essere sottoposto a sperimentazione, è utilizzato in procedure sperimentali e,
infine, ucciso. In realtà potrebbe darsi che il primo animale sperimenti molto
più dolore e stress del secondo.(12)
Dobbiamo forse concluderne che il secondo animale è in condizioni migliori del
primo rispetto al suo benessere? Se ci focalizziamo solo sul dolore e allo
stress, forse dovremmo concludere che è proprio così.
La tesi
progressiva sul benessere animale che intendo proporre sembra in grado di evitare
paradossi del genere. Naturalmente, va sottolineato adeguatamente che anche
questa tesi progressiva prende in considerazione l’assenza di dolore e stress
come un indicatore di un buon livello di benessere, ma non riduce integralmente
il benessere ai soli stati mentali.
In
termini estremamente generali, la teoria progressiva del benessere animale che
suggerisco è ispirata alla concezione del bene elaborata da John Stuart Mill.(13) Le tesi di Mill sulla vita buona può
essere definita una concezione naturalizzata e “agente-relativa”. Ciò significa
che ciò che è il bene dell’agente
deve essere anche un bene per
l’agente (14) e che il bene deve essere spiegato in
termini naturalizzati ed empirici (senza, quindi, ricorrere ad alcuna
concezione metafisica del bene). Al livello della metaetica, la stessa teoria
di Mill spiega il bene in termini di stati mentali, ma questo non significa che
la promozione del bene possa essere ridotta al produrre determinati stati
mentali e all’evitarne altri. Gli stati mentali che costituiscono il benessere
(o la vita buona) devono essere raggiunti dall’agente stesso attraverso un processo
di creazione e fioritura individuale, ovvero sia un processo di sviluppo di sé. Questo punto è
esemplificato chiaramente da un famoso esempio di Mill. Secondo Mill, sarebbe
meglio essere un Socrate insoddisfatto piuttosto che essere uno sciocco o un
maiale soddisfatto, dal momento che i piaceri e la vita buona di un Socrate
possono essere sperimentati solo per via di quel processo di sviluppo di sé che
necessariamente implica anche alcune frustrazioni.
Per
raggiungere la vita buona, gli agenti devono compiere un processo di sviluppo
di sé. Questo processo è creativo e originale e ciascun individuo costruisce il
suo proprio sviluppo verso la vita buona. Questo punto va particolarmente
sottolineato: la concezione milliana della vita buona non è monista: ci sono
molte vite buone (e quella di Socrate e solo una di queste), dal momento che è
il processo autonomo e individuale di sviluppo di sé a creare le condizioni per
la vita buona. Stando così le cose, il modo migliore per massimizzare le opportunità
degli individui di raggiungere la vita buona è lasciarli liberi di esercitare
le proprie capacità e di svilupparle, fornendo loro un qualche aiuto qualora
sia necessario (l’ignoranza e la povertà, ad esempio, impediscono alle persone
non solo di esercitare le proprie capacità, ma anche di sapere quali sono
queste capacità).
Questo
che ho presentato è, in estrema sintesi, il nocciolo della teoria liberale e
progressiva di Mill circa il benessere umano.(15)
La mia tesi è che – forse contro le parole di Mill ma non credo contro la sua
teoria – anche i maiali (e molti altri animali) possono avere “vite socratiche”,
cioè vite caratterizzate dallo sviluppo di sé. Cosa significa per un animale
vivere una vita socratica? Naturalmente, la vita socratica di un gorilla, ad
esempio, non consiste nell’interrogare insistentemente gli altri gorilla con
domande pressanti circa la natura del bene. Nondimeno, la vita socratica di un
animale non è molto differente dalla vita socratica umana. Essa consiste
nell’avere l’opportunità di sviluppare le proprie capacità e di compiere da sé
il percorso verso la vita buona. Gli esseri umani hanno, fra le altre, la
capacità di sviluppare una riflessività di tipo filosofico, ma non c’è dubbio
che, secondo le loro possibilità, anche i primati non umani, come altri
mammiferi, sono animali estremamente inquisitivi, il cui approccio all’ambiente
è estremamente creativo. Hanno bisogno di stimoli e necessitano di mantenere la
loro intelligenza in esercizio. In altre parole, hanno il bisogno di sviluppare
le proprie capacità comportamentali, attraverso scelte diverse. Ogni specie ha
un insieme di capacità, che sono esibite in modo differente da ciascun
individuo.
Alla luce
di queste considerazioni, si può sostenere che promuovere il benessere di un
animale non umano non è così differente (nei suoi caratteri generali) dal promuovere
il benessere di un essere umano. Il requisito necessario (anche se non
sufficiente) per la vita buona è essere liberi di sviluppare se stessi.
5. Una revisione del concetto di Refinement e tre
questioni controverse
Questa
schematica discussione sulle teorie del benessere si collega direttamente
all’analisi della pratica della sperimentazione che ho presentato in
precedenza. Nel momento in cui si mette in una gabbia un animale (ad esempio,
una scimmia), il cambiamento più importante nella sua vita è una drammatica
diminuzione nei suoi gradi di libertà. Non ha scelto di essere lì e non ha
scelto di essere parte di un esperimento, qualunque sia la sua invasività. Per
un animale, come un primate o un altro mammifero, l’evoluzione del suo
comportamento è segnata dalla possibilità di sviluppare la strategia comportamentale
più appropriata. Quel che manca agli animali utilizzati nelle procedure
sperimentali è la capacità di controllare la propria vita. Se il Refinement è indirizzato a promuovere il
benessere degli animali, allora è tale capacità di controllo che dovrebbe
essere migliorata prima di tutto.
L’argomentazione
sviluppata in precedenza per un cambiamento concettuale circa il benessere
animale produce come cambiamento concettuale nella definizione di Refinement una modifica degli obiettivi
delle procedure di Refinement. Nella
pratica comune, il Refinement sembra
essere principalmente inteso come “Refinement
della vita di un animale”. Tuttavia, se il benessere è qualcosa che è
inscindibile da un processo individuale di sviluppo di sé, allora sarebbe più
appropriato parlare di “Refinement
delle condizioni di vita di un
animale”. Aldilà di casi eccezionali (quando un animale patisce gravi
sofferenze che necessitano di essere alleviate immediatamente) le procedure di Refinement non dovrebbero intervenire
direttamente sugli stati mentali dell’animale (come sembrerebbe presupporre
l’uso comune di Refinement), ma le
condizioni in cui questi vive.
In questo
modo il concetto di Refinement viene
spinto oltre la definizione che ne diedero al principio Russell e Burch. Nelle loro parole “Refinement means any decrease in
the incidence or severity of inhumane procedures applied to those animals which
still have to be used” (16) o “to
reduce to an absolute minimum the amount of stress”.(17)
Alla luce
di una teoria progressiva del benessere, il Refinement
non è indirizzato principalmente ad evitare il dolore e lo stress, ma a
dare agli animali condizioni in cui possano vivere vite buone. Questo
cambiamento concettuale produce conseguenze pratiche. Ad esempio, il Refinement non dovrebbe essere inteso
come una pratica intesa a fornire agli animali un’unica soluzione di arricchimento
delle condizioni di stabulazione che sia ritenuta la migliore disponibile. Al
contrario, risulta preferibile dare agli animali l’opportunità di scegliere fra
diverse opzioni di arricchimento.
Naturalmente,
è probabile che questo cambiamento concettuale produca dubbi e perplessità.
Come conclusione, intendo io stesso proporre alcune questioni controverse. A
mio giudizio, tali problemi rappresentano alcuni punti di partenza per meglio
comprendere il concetto di benessere animale inteso come sviluppo di sé
dell’animale e per promuovere l’implementazione di procedure di Refinement fondate su tale concetto.
L’etologia degli animali da laboratorio. Fornire
agli animali condizioni in cui possano sviluppare una vita buona implica una
comprensione dei loro bisogni. Gli studi etologici possono fornire una tale
comprensione. Va rilevato, tuttavia, che gli animali impiegati nelle procedure
sperimentali sono per la maggiore parte allevati a tale scopo. Sono la prole di
molte generazioni di animali allevati in cattività e geneticamente selezionati
per essere adatti alle ricerche di laboratorio. Quel che è richiesto, quindi, è
una “Etologia degli animali da laboratorio” finalizzata a scoprire i bisogni
etologici di tali animali e che potrebbero essere anche piuttosto diversi da
quelli dei loro cospecifici non allevati per scopi di ricerca.
Il Refinement del ricercatore. La
conoscenza etologica è una condizione necessaria per il Refinement, ma non di per sé sufficiente. Il Refinement mira a migliorare il benessere di singoli specifici
animali e – come si è mostrato – il benessere è un processo individuale. Quel
che è necessario, quindi, è un miglioramento delle capacità delle persone che
si prendono cura degli animali e li utilizzano per gli esperimenti. Si può
sostenere che Refinement significa
anche Refinement del carattere e
delle capacità del ricercatore. Questo, peraltro, significa anche che la legge
non può stabilire in ogni dettaglio la maggior parte delle procedure di Refinement. La legge può solo tratteggiare
le linee guida e i requisiti minimi, ma solo la conoscenza diretta degli
animali individuali e dei loro bisogni permette di elaborare le procedure
corrette di Refinement.
Il rischio dell’antropomorfismo. Il Refinement del carattere e delle
capacità del ricercatore implica un importante problema metodologico: il
rischio dell’antropomorfismo. Paradossalmente, da un lato è richiesta una
relazione personale con gli animali per migliorarne il benessere, ma d’altra
parte questa relazione comporta dei rischi. Il più pericoloso sembra essere
quello di interpretare i bisogni degli animali in termini antropomorfici. La
pratica del Refinement dovrebbe
costantemente muoversi dal livello delle considerazioni oggettive dei bisogni
etologici delle specie impiegate al giudizio soggettivo del ricercatore che
lavora direttamente a contatto con quegli animali e viceversa.
Questi
tre problemi costituiscono, a mio avviso, punti importanti dell’agenda per la
revisione del concetto di Refinement
al fine di ottenere una sua migliore implementazione nel contesto della
sperimentazione animale. Essi non esauriscono, ovviamente, tutte le questioni
concettuali e tecniche implicate dal concetto di Refinement e non affrontano il problema del conflitto con le altre
R, Reduction e Replacement. Nondimeno, esse possono rappresentare un punto di
avvio per un’analisi completa del concetto di Refinement che cerchi di coniugare temi filosofici e scientifici.
(*)
Questo testo è stato prodotto all’interno dei lavori del progetto di ricerca Anim.Al.See (Alternative Methods in Animal Experimentation: Evaluating Scientific,
Ethical and Social Issues in the 3Rs Context; QLRT-2001-00028), finanziato
dalla Comunità Europea. I temi e gli argomenti che presento sono frutto di
un’intensa collaborazione con Augusto Vitale.
(1) W.M.S. Russell e R.L.
Burch, The Principles of Human
Experimental Technique, Methuen, London, 1959. Qui ci si
riferisce alla seconda edizione: UFAW, Wheathampstead, 1992.
(2) D. Fraser, Animal Ethics and Animal Welfare Science:
Bridging the Two Cultures, «Applied
Animal Behavior Science», LXV, 3, 1999, pp. 171-189.
(3) W.M.S. Russell e R.L. Burch, op. cit., p. 64.
(4) A.
Baier, Fare a meno della teoria morale?,
in P. Donatelli e E. Lecaldano (a cura di), Etica
analitica. Analisi,teorie, applicazioni, LED, Milano, 1996, pp 261-283.
(5)
Traggo questo punto dagli argomenti sviluppati da Flavia Zucco e Caterina Botti
sul concetto di Replacement nel corso
dei lavori del progetto Anim.Al.See.
(6) Si
veda: L. Canavacci, I confini del
consenso. Un’indagine sui limiti e l’efficacia del consenso informato, G.C.
Edizioni medico scientifiche, Torino, 1999.
(7) Si
veda: C. Botti, Bioetica ed etica delle
donne. Relazioni, affetti, potere, Zadig, Milano, 2000.
(8) M. Tomasello e J. Call, Primate Cognition, Oxford U.P., Oxford,
1997.
(9) J.
Rachels, Creati dagli animali.
Implicazioni morali del darwinismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1996.
(10)
Per un’approfondita discussione sulla relazione fra emozioni, coscienza ed
etica si veda: M. Dol, S. Kasanmoentalib, S. Lijmbach, E. Rivas e R. van den
Bos R. (a cura di), Animal Consciousness
and Animal Ethics, Van Gorcum, Assen, The Netherlands, 1997.
(11) B. Bohus e J.M. Koolhaas, Psychoimmunology of Social Factors in Rodents and Other Subprimate
Vertebrates, in R. Ader., D.L.
Felten e N. Cohen (a cura di), Psychoneuroimmunology, Academic Press,
New York, 1990; E.M.C. Terlow, W.G.P. Schouten, J. Laeewig, Physiology, in M.C. Appleby e B.O.
Hughes (a cura di), Animal Welfare,
Cab International, Wallingford, UK 1997.
(12)
M.S. Dawkins, Animal Suffering: The
Science of Animal Welfare, Chapman and Hall, London, 1980; T. Poole, Natural Behaviour is Simply a Question of
Survival, «Animal Welfare», 1996, 5.
(13)
Ho presentato più diffusamente questa concezione del benessere / qualità della
vita in: S. Pollo, Scegliere chi nasce.
L’etica della riproduzione umana fra libertà e responsabilità, Guerini,
Milano, 2003.
(14)
La distinzione agente-relativo/agente neutrale è ben analizzata in: S. Darwall,
Welfare and rational care, Princeton
U.P., Princeton, 2002. Rendo con «bene del»
l’espressione «good for» e «bene per»
quella «good to».
(15) F.
Berger, Happiness, Justice and Freedom.
The Moral and Political Philosophy of John Stuart Mill, University of California
Press, Berkeley-Los Angeles-London, 1984
1984, W. Donner The
Liberal Self. John Stuart Mill's Moral and Political Philosophy, Cornell
University Press, Ithaca 1991; Id., Mill's
Utilitarianism, in J. Skorupski, The
Cambridge Companion to Mill, Cambridge University Press, Cambridge 1999, pp. 255-292.
(16)
W.M.S. Russell e R.L. Burch, op. cit.,
p. 64.
(17) Ivi., p.
134.