http://www.units.it/etica/2004_2/MORDACCI.htm
Università Vita-Salute San Raffaele
abstract
Ethics
and eugenetics
Recent
developments in molecular biology and genetic engineering open the possibility
of rethinking the meaning of an eugenic project in contemporary society.
Whereas the old eugenic movement aimed at an “improvement of the race” and
explicitly adopted coercitive means, eugenetics in a liberal society would be
the result of the free and equal access of the public to the genetic
technologies available. Buchanan, Brock, Daniels and Wikler suggest in a recent
book that access to genetic therapy and enhancement can be permitted without generatine
any discrimination, provided that it is regulated by rules of fairness that
guarantee the equality of opportunities. Things are not so simple, anyway,
because a normative model of a “perfectly healthy” individual will impose
itself in the social perception, and equality of access does not protect against
the discrimination of those who depart from such “perfectionist” model. A
different approach is also suggested by Habermas in a recent book, where he
maintains that the self-normative image of man as free and equal needs to be protected
leaving the genome untouched. |
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Il dibattito etico recente in tema di genetica ha riproposto, in termini rinnovati, la questione dell’eugenetica. La ripresa del tema è certamente dovuta, almeno in parte, ad un rilevante mutamento nel significato dello stesso termine «eugenetica». La storia del movimento eugenetico, fra il 1870 e il 1950, ruota intorno al tentativo di «migliorare il patrimonio genetico dell’umanità», principalmente attraverso tecniche e strategie di selezione riproduttiva e di promozione della generazione di individui con una «buona» dotazione genetica. In un periodo in cui le tecniche di manipolazione del DNA (e la stessa nozione di DNA, ovviamente) sono ancora di là da venire, lo scopo dell’eugenetica viene inteso: a) come un obiettivo sanitario socialmente e politicamente rilevante, ma non come una opportunità per gli individui, e b) come un obiettivo da perseguire tramite la drastica riduzione del numero di individui «tarati», l’esclusione, anche con mezzi coercitivi, di costoro dalla riproduzione e l’induzione di accoppiamenti fra individui geneticamente «ben dotati», con l’indimostrato presupposto che ciò favorisca la generazione di individui geneticamente «migliori».
L’avvio
della genetica «moderna» (o «nuova genetica») a partire dalla scoperta della
struttura a doppia elica del DNA da parte di Watson e Crick (1953) ha
comportato una rivoluzione radicale nel modo di intendere gli interventi sul
patrimonio genetico. Già cinquanta anni fa si affacciava l’ipotesi di poter un
giorno intervenire direttamente sul DNA, in modo da «correggere», modificare o
anche «potenziare» i suoi elementi costitutivi, vale a dire i geni. Non si
tratterà più di escludere i genomi «difettosi» dal ciclo della riproduzione e
di affidarsi alla combinazione casuale dei geni fra individui dotati per
ottenere individui eccellenti, ma si potrà intervenire direttamente sul
patrimonio genetico, modificando nel dettaglio uno o l’altro tratto che si sia
dimostrato dipendere da questo o quel gene. La possibilità teorica di questo sviluppo
era inscritta nella stessa scoperta della struttura del DNA. Tutt’altra
questione la realizzabilità tecnica, che ancora un decennio fa poteva sembrare
fantascienza. Il tempo presente è quello in cui questa prospettiva comincia a
farsi reale: dopo il completamento del Progetto Genoma e dopo il successo di
almeno una forma di terapia genica (quella che prevede l’inserimento di un
gene mancante nel DNA delle cellule ematopoietiche di un individuo), un
progetto eugenetico viene ad assumere caratteri decisamente inediti rispetto a
quelli del movimento eugenetico. Oggi un progetto eugenetico ha le seguenti
caratteristiche: a) il miglioramento del patrimonio genetico non è inteso
anzitutto come un obiettivo di politica sanitaria, bensì anzitutto come un’opportunità
offerta agli individui nel contesto dei servizi sanitari. L’obiettivo, in altri
termini, non è più (almeno non esplicitamente) il «miglioramento del patrimonio
genetico della popolazione», bensì l’offerta di «servizi di genetica» ai
cittadini, i quali possono usufruirne per motivazioni e con scopi individuali,
non legati all’idea di un incremento della qualità genetica della popolazione.
Anzi, l’offerta di servizi genetici si pone nel contesto della competizione di
mercato, poiché si assume che almeno certi trattamenti (per esempio, il
potenziamento genetico della memoria, o della resistenza a certi agenti
patogeni) offrano agli acquirenti un vantaggio sulla concorrenza; b) la
modalità principale di una prassi eugenetica, affidata al mercato ma eventualmente
monitorata dallo Stato, non è quella del controllo della generazione, bensì
quella di una diffusione sistematica della diagnosi genetica prenatale e
dell’applicazione delle tecniche di ingegneria genetica mano a mano che diverranno
disponibili. Molte possibilità di intervento sul genoma rappresentano al
momento solo un’ipotesi e appare chiaro che correggere le disfunzioni più
complesse (quelle multifattoriali) presenta difficoltà difficilmente
sormontabili. Tuttavia, la strada tracciata è quella dell’intervento medico ad
altissimo contenuto tecnologico, e non quello di un controllo
politico-sanitario dei comportamenti sessuali.
Nel
dibattito recente, la ripresa di una prospettiva eugenetica è stata proposta da
autori di matrice liberale, proprio nel contesto del nuovo significato che
abbiamo descritto. Allen Buchanan, Dan W. Brock, N. Daniels e D. Wikler sono
gli autori di un volume (1) che ricostruisce la
vicenda storica dell’eugenetica ed elabora una posizione liberale, largamente
ispirata alla teoria della giustizia come equità di John Rawls, sul rapporto
fra genetica e giustizia. Le accuse rivolte al movimento eugenetico possono
essere riassunte nei seguenti quattro punti: 1. L’idea di una pratica
eugenetica si basa su una concezione normativa arbitraria della natura umana,
espressa dall’idea di «buona» dotazione genetica; 2. La pratica eugenetica
alimenta varie forme di discriminazione razziale e sociale, come è testimoniato
ampiamente dalle profonde interrelazioni fra teorie eugenetiche e regimi
totalitaristi nella prima metà del Novecento; 3. La pratica eugenetica prevede
l’uso di metodi coercitivi che invadono la privacy degli individui e delle
coppie; 4. Una parte significativa del progetto eugenetico è costituita dall’obiettivo
di selezionare le dotazioni genetiche migliori, eliminando o sterilizzando i
portatori di patrimoni genetici ritenuti peggiori o «difettosi».
Secondo
gli autori americani le critiche 3 e 4 non si ripropongono più nel contesto
della nuova genetica. Quest’ultima infatti, come abbiamo sottolineato poco
sopra, si propone come offerta di servizi ai cittadini, e non come politica di
«igiene sociale» o razziale, perciò non prevede, per definizione, metodi
coercitivi. Inoltre, è espressamente esclusa l’idea di selezionare i patrimoni
genetici degli individui ed «eliminare» quelli ritenuti meno vantaggiosi.
È ovvio che nessuno oggi propone la genetica come strategia per la «pulizia
etnica» di una certa popolazione. Tuttavia, se è vero che la nuova genetica non
prevede esplicitamente l’obiettivo dell’eliminazione degli individui con
patrimonio genetico «patologico», va però detto che una certa selezione degli
individui su base genetica tende a manifestarsi attraverso la diffusione
sistematica della diagnosi genetica preimpianto e prenatale. Di fatto, la
possibilità di analizzare il genoma di embrioni e feti, connessa alla
possibilità di non impiantare i primi o abortire i secondi, genera una situazione
che spontaneamente riduce le nascite di individui con difetti genetici. Questo
comporta una selezione per eliminazione dei portatori (sia pure allo stato
embrionale o fetale), che certo non avviene nel contesto di un programma
statale di miglioramento della razza, ma che si produce per effetto della
preponderanza di modelli culturali e immagini dell’idea di «vita umana
accettabile» che plasmano le scelte procreative delle coppie. È però
chiaro a tutti che una selezione attraverso modelli impliciti non è affatto
meno discutibile di una selezione esplicitamente pianificata.
Gli
autori liberali si propongono di affrontare soprattutto le prime due critiche,
nell’ambito di uno schema di giustizia come equità che vede la nuova genetica
come un servizio medico che può avere effetti discriminatori. Quanto al primo
punto, l’«eugenetica liberale» ripudia ovviamente l’idea di un modello
normativo unico della natura umana. Si tratta piuttosto di offrire i servizi di
genetica come modi di garantire alcuni tratti genetici (come l’assenza di
patologie gravi, l’intelligenza, un certo grado di autocontrollo ecc.) che
consentano l’equa eguaglianza di opportunità in una società democratica. Il
punto è quello di considerare la dotazione genetica come un aspetto della vita
individuale che, con l’avvento delle nuove tecnologie, è sottratto al puro
caso, e quindi entra di diritto nelle dimensioni soggette a un’equa apertura
alle risorse disponibili. Una dotazione genetica «normale» o «nella media»
fa parte di uno spettro di beni primari che devono essere garantiti, attraverso
l’accesso alle tecniche eugenetiche, a tutti i cittadini.
Questo
punto si basa naturalmente sull’interpretazione della nozione di uguaglianza,
in particolare con riferimento ai tratti genetici giudicati svantaggiosi. Si
affrontano qui due diverse concezioni, pur sempre all’interno della prospettiva
liberale: secondo la prima, la giustizia in questo settore va garantita
rimediando solo alle
disuguaglianze prodotte dalle strutture sociali («visione strutturale
sociale»); ciò significa che andranno rimosse le restrizioni di accesso alle
cure che penalizzano alcune categorie sociali. Ora, se oggi disponiamo di
tecnologie che possono porre rimedio alle differenze prodotte dalla effettiva
discrepanza fra le opportunità aperte a soggetti geneticamente «meglio dotati»
rispetto ad altri soggetti, è un dovere di giustizia mettere tali tecnologie
alla portata di tutti, e in particolare dei più svantaggiati (worst off) per ristabilire una reale
equa eguaglianza di opportunità.
Una
seconda concezione (denominata «visione della mera fortuna») sostiene che
occorre rimediare a tutte le disuguaglianze che dipendono da fattori che
sfuggono al controllo del soggetto. In altri termini, tutti gli svantaggi che derivano
dalla «lotteria naturale», una volta che siano divenute, almeno in parte,
rimediabili tramite interventi di ingegneria genetica, devono essere riappianate.
Si tratta di una concezione più fortemente egualitarista, per la precisione di
una concezione basata sull’egualitarismo delle risorse, laddove la teoria della
struttura sociale si basa sull’egualitarismo delle opportunità. Le due visioni
possono convergere nelle conclusioni pratiche se le cure sanitarie sono
concepite come un fattore di giustizia, cioè come strumenti per la restituzione
agli individui di un «funzionamento normale», e non, come avviene
tradizionalmente, nell’ottica solidaristica di aiuto ai sofferenti.
Nell’ottica liberale, dunque, la genetica e più in generale le cure sanitarie
fanno parte degli strumenti sociali che mirano a conservare ai cittadini uno status di «competitori normali» nella
cooperazione sociale a partire da eque opportunità. Nella visione sociale
strutturale le differenze genetiche possono essere tollerate se si inseriscono
in un sistema nel complesso equo: alcuni vantaggi per certe categorie devono
provocare ricadute vantaggiose per i più svantaggiati. La visione della mera
fortuna è più rigida: ogni svantaggio immeritato deve essere appianato e i
cittadini devono poter accedere, almeno in linea di principio, alle stesse
opportunità.
Entrambe
queste teorie mirano soprattutto a rispondere alla critica 2, cioè quella
relativa alla discriminazione sociale. È evidente che la mossa fondamentale
dell’approccio liberale è quella di pensare la nuova eugenetica come un
insieme di servizi a cui i cittadini accedono per libera scelta. In tale
contesto, le questioni di giustizia sorgono in riferimento alle possibili distorsioni
dell’equità provocate dal «vantaggio» procurato agli individui dall’eugenetica.
L’etica pubblica, e la politica, possono intervenire, in quest’ottica, solo per
garantire che il libero accesso a tali servizi non avvenga in condizioni di
disuguaglianza e non generi discriminazione. L’accesso deve quindi essere equo, o nel senso che esso si
verifica in strutture sociali che compensano il deficit derivante da un
patrimonio genetico meno vantaggioso (visione strutturale sociale) o nel senso
che esso deve essere garantito a tutti coloro che soffrono di svantaggi che non
dipendono dalle loro scelte.
Attraverso
il riferimento centrale alla libera scelta dei cittadini, l’approccio liberale
risponde in modo netto alla critica 1, quella relativa all’ideale normativo
arbitrario della natura umana: né lo Stato né la medicina impongono un modello
genetico da imitare, ma, almeno teoricamente, i cittadini decidono liberamente
quali fattori genetici siano da giudicare svantaggiosi e quali vantaggiosi.
Tuttavia,
la questione è decisamente più intricata di quanto appaia dalla soluzione ora
prospettata. In primo luogo, infatti, può ben darsi, come abbiamo già
osservato, che un modello normativo del patrimonio genetico ideale (o di un
modello di essere umano da imitare) si affermi surrettiziamente, proprio
attraverso le dinamiche del mercato. Anzi, questo è lo scenario decisamente più
probabile: i «consumatori» tenderanno spontaneamente a escludere certi
tratti genetici giudicati «inadeguati», per i motivi più diversi: medici,
igienici, estetici, culturali e di moda. Sul mercato dei servizi genetici
vincerà il prodotto che è più facile commercializzare e si imporrà un tipico
modello di individuo da spot pubblicitario. Uno scenario di questo tipo, anche
quando accadesse in un contesto di sostanziale equa eguaglianza delle
opportunità, appare comunque segnato da una forma profonda di discriminazione:
il «diverso», colui che non è adeguato al modello di perfezione estetica
indotto nei consumatori è radicalmente emarginato, o meglio escluso in radice
dall’esistenza. L’ideale sotterraneo in questo caso è la non nascita di
individui meno che geneticamente perfetti, tramite la selezione genetica
prenatale e soprattutto preimpianto. In secondo luogo, si ripropone qui un tema
che è inscindibile da tutte le questioni morali e filosofiche relative alla
genetica (e più in generale alla medicina): la differenza fra terapia e potenziamento,
nonché quella corrispondente fra malattia e salute. Di solito, per evitare
scivolamenti in situazioni palesemente inaccettabili, ci si rifugia in tali distinzioni, dichiarando accettabili le
forme di genetica riconducibili alla nozione di «terapia», cioè quelle che
curano «patologie», e rifiutando le forme di «potenziamento», cioè quelle che
mirano ad accrescere la «salute» nel senso di una più piena e longeva
vitalità. Gli autori liberali hanno il merito di affrontare espressamente tale
questione, e di mettere in chiaro che: a) i confini fra malattia e salute, e
quindi quelli fra terapia e potenziamento, sono certamente labili sotto il
profilo concettuale, ma possono servire come strumento euristico per la
definizione dei criteri di uguaglianza; b) la differenza fra terapia e
potenziamento, tuttavia, non
corrisponde alla differenza fra permissibile
e vietato: «Come la distinzione fra trattamento e potenziamento non
coincide con quella fra obbligatorio e non obbligatorio, così essa non coincide
con la distinzione fra permissibile e non permissibile. Non tutte le terapie
saranno permissibili e non tutti i potenziamenti saranno non permissibili» (2).
Perciò,
per questi autori il potenziamento è una prospettiva accettabile, purché sia regolato dai vincoli di una
società giusta, cioè dai vincoli dell’equa eguaglianza di opportunità.
Restano ferme, anche in questo caso, le obiezioni prima avanzate circa la
limitatezza della prospettiva basata sulla giustizia: la questione centrale,
cioè quella dell’accoglienza dei più svantaggiati (dal punto di vista
genetico, ma non solo) resta senza risposta. Se è plausibile sostenere che la
dinamica della domanda e dell’offerta condurrà all’affermazione di un modello
normativo estetico-energetico di individuo, la prospettiva di una
discriminazione significativa per individui geneticamente «meno-che-perfetti» è
un esito molto probabile.
In un suo
recente intervento (3), Jürgen
Habermas mette a tema le questioni affrontate dagli autori liberali in un modo
particolarmente proficuo. Nel quadro della sua nota interpretazione della
società democratica come luogo dell’agire comunicativo, di cui il
riconoscimento della libertà individuale è uno dei presupposti fondamentali,
Habermas pone la seguente questione: «Possiamo considerare l’autotrasformazione
genetica della specie come un mezzo per accrescere l’autonomia individuale,
oppure questa strada metterà a repentaglio l’autocomprensione normativa di
persone che conducono la loro vita portandosi mutuo ed eguale rispetto?» (4). La risposta di Habermas è controcorrente fra i fautori
del liberalismo (per es., oltre agli autori già citati, Ronald Dworkin e Thomas Nagel, che discutono
le sue tesi), poiché propende chiaramente per la seconda alternativa: benché
l’ottica liberale sembri favorire l’idea di plasmare liberamente il proprio sé, includendovi perciò anche il
proprio corpo e quello dei propri discendenti, Habermas osserva che ciò
renderebbe estremamente difficile continuare a basare le nostre relazioni
sull’autocomprensione reciproca di esseri liberi ed eguali. La possibilità di
modificare in senso eugenetico,
non soltanto terapeutico, il genoma degli individui comporta infatti la
rimozione definitiva di un elemento «naturale» dell’uguaglianza, vale
a dire proprio la costituzione genetica, «casuale» e non «progettata» o
«selezionata», di ciascuno; a sua volta, ciò implica che ogni individuo
risultante da queste scelte dei procreatori perde la possibilità di
considerarsi l’autore unico e inviolabile della propria forma di esistenza,
cioè come qualcuno che si è liberamente dato una personalità a partire da un
nucleo non manipolato.
Per avere
una concezione di sé come centro di responsabilità per le proprie azioni (e
quindi come essere libero), la persona deve potersi identificare, almeno fino a
un certo grado, con il proprio corpo. Ma, scrive Habermas, «affinché la persona
possa sentirsi tutt’uno con il proprio corpo, sembra proprio che quest’ultimo
debba venire esperito come spontaneo (naturwüchsig),
ossia come lo sviluppo di quella vita organica che – rigenerando se stessa –
trae fuori di sé la persona» (5). Per questo, la possibilità di selezionare gli embrioni a
seguito di una diagnosi genetica preimpianto costituisce, secondo Habermas, un vulnus non rimediabile alla
possibilità di interagire fra soggetti che si considerino liberi ed eguali:
nessun fondamento di uguaglianza è dato spontaneamente nella costituzione genetica
e, al tempo stesso, nessun nuovo nato potrà rintracciare nella propria origine
un nucleo di indisponibilità da
cui la sua autonomia ha preso le mosse. Se io sono il risultato di un progetto
genetico, anche se resto libero di fare ciò che voglio, la mia costituzione
fondamentale è già stata orientata
in una direzione non casuale, decisa in assenza del mio consenso. In questo
senso, per Habermas anche l’uso strumentale di embrioni come fonte di cellule
staminali, benché non distrugga delle «persone» in senso stretto,
rappresenta una «riduzione a cosa» dell’origine della vita umana che si
inscrive nella stessa dinamica che compromette l’autonomia e lo status morale
delle persone.
Si noti
che le tesi di Habermas non rimandano ad alcun presunto fondamento metafisico
dell’idea di «natura umana»: non vi è alcuna essenza o costituzione biologica
che sia dichiarata inviolabile per sé. Piuttosto, se non vogliamo rinunciare a
fondare le relazioni fra eguali sul riconoscimento di una eguale libertà,
dobbiamo altresì riconoscere che la selezione e la modificazione genetica
rischiano di compromettere alcune precondizioni ineliminabili della libertà di
esseri umani concreti, in carne ed ossa non ancora «geneticamente modificati».
(1) Buchanan A., Brock D.W., Daniels
N., Wikler D., From Chance to Choice:
Genetics and Justice, Cambridge University Press, Cambridge 2000.
(2) Ibid., p. 153.
(3) J. Habermas, Il futuro della
natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino 2002.
(4) Ibid., p. 31.
(5) Ibid., p. 59.