Etica &Politica / Ethics & Politics, 2004, 2

http://www.units.it/etica/2004_2/MORDACCI.htm

 

 

 

 

Etica ed eugenetica

 

Roberto Mordacci

 

Facoltà di Filosofia

Università Vita-Salute San Raffaele

 

 

abstract

 

Ethics and eugenetics

 

Recent developments in molecular biology and genetic engineering open the possibility of rethinking the meaning of an eugenic project in contemporary society. Whereas the old eugenic movement aimed at an “improvement of the race” and explicitly adopted coercitive means, eugenetics in a liberal society would be the result of the free and equal access of the public to the genetic technologies available. Buchanan, Brock, Daniels and Wikler suggest in a recent book that access to genetic therapy and enhancement can be permitted without generatine any discrimination, provided that it is regulated by rules of fairness that guarantee the equality of opportunities. Things are not so simple, anyway, because a normative model of a “perfectly healthy” individual will impose itself in the social perception, and equality of access does not protect against the discrimination of those who depart from such “perfectionist” model. A different approach is also suggested by Habermas in a recent book, where he maintains that the self-normative image of man as free and equal needs to be protected leaving the genome untouched.

 

 

Il dibattito etico recente in tema di genetica ha riproposto, in termini rinnovati, la questione dell’eugenetica. La ripresa del tema è certamente dovuta, almeno in parte, ad un rilevante mutamento nel significato dello stesso termine «eugenetica». La storia del movimento eugenetico, fra il 1870 e il 1950, ruota intorno al tentativo di «migliorare il patrimonio genetico dell’umanità», principalmente attraverso tecniche e strategie di selezione riproduttiva e di promozione della generazione di individui con una «buona» dotazione genetica. In un periodo in cui le tecniche di manipolazione del DNA (e la stessa nozione di DNA, ovviamente) sono ancora di là da venire, lo scopo del­l’eu­ge­ne­­tica viene inteso: a) come un obiettivo sanitario socialmente e politicamente rilevante, ma non come una opportunità per gli individui, e b) come un obiettivo da perseguire tramite la drastica riduzione del numero di individui «tarati», l’esclusione, anche con mezzi coercitivi, di costoro dalla riproduzione e l’induzione di accoppiamenti fra individui geneticamente «ben dotati», con l’indimostrato presupposto che ciò favorisca la generazione di individui geneticamente «migliori».

L’avvio della genetica «moderna» (o «nuova genetica») a partire dalla scoperta della struttura a doppia elica del DNA da parte di Watson e Crick (1953) ha comportato una rivoluzione radicale nel modo di intendere gli interventi sul patrimonio genetico. Già cinquanta anni fa si affacciava l’ipotesi di poter un giorno intervenire direttamente sul DNA, in modo da «correggere», modificare o anche «potenziare» i suoi elementi costitutivi, vale a dire i geni. Non si tratterà più di escludere i genomi «difettosi» dal ciclo della riproduzione e di affidarsi alla combinazione casuale dei geni fra individui dotati per ottenere individui eccellenti, ma si potrà intervenire direttamente sul patrimonio genetico, modificando nel dettaglio uno o l’altro tratto che si sia dimostrato dipendere da questo o quel gene. La possibilità teorica di questo sviluppo era inscritta nella stessa scoperta della struttura del DNA. Tutt’altra questione la realizzabilità tecnica, che ancora un decennio fa poteva sembrare fantascienza. Il tempo presente è quello in cui questa prospettiva comincia a farsi reale: dopo il completamento del Progetto Genoma e dopo il successo di almeno una forma di terapia genica (quella che prevede l’in­serimento di un gene mancante nel DNA delle cellule ematopoietiche di un individuo), un progetto eugenetico viene ad assumere caratteri decisamente inediti rispetto a quelli del movimento eugenetico. Oggi un progetto eugenetico ha le seguenti caratteristiche: a) il miglioramento del patrimonio genetico non è inteso anzitutto come un obiettivo di politica sanitaria, bensì anzitutto come un’opportunità offerta agli individui nel contesto dei servizi sanitari. L’obiettivo, in altri termini, non è più (almeno non esplicitamente) il «miglioramento del patrimonio genetico della popolazione», bensì l’offerta di «servizi di genetica» ai cittadini, i quali possono usufruirne per motivazioni e con scopi individuali, non legati all’idea di un incremento della qualità genetica della popolazione. Anzi, l’offerta di servizi genetici si pone nel contesto della competizione di mercato, poiché si assume che almeno certi trattamenti (per esempio, il potenziamento genetico della memoria, o della resistenza a certi agenti patogeni) offrano agli acquirenti un vantaggio sulla concorrenza; b) la modalità principale di una prassi eugenetica, affidata al mercato ma eventualmente monitorata dallo Stato, non è quella del controllo della generazione, bensì quella di una diffusione sistematica della diagnosi genetica prenatale e dell’applicazione delle tecniche di ingegneria genetica mano a mano che diverranno disponibili. Molte possibilità di intervento sul genoma rappresentano al momento solo un’ipotesi e appare chiaro che correggere le disfunzioni più complesse (quelle multifattoriali) presenta difficoltà difficilmente sormontabili. Tuttavia, la strada tracciata è quella dell’intervento medico ad altissimo contenuto tecnologico, e non quello di un controllo politico-sanitario dei comportamenti sessuali.

Nel dibattito recente, la ripresa di una prospettiva eugenetica è stata proposta da autori di matrice liberale, proprio nel contesto del nuovo significato che abbiamo descritto. Allen Buchanan, Dan W. Brock, N. Daniels e D. Wikler sono gli autori di un volume (1) che ricostruisce la vicenda storica dell’eugenetica ed elabora una posizione liberale, largamente ispirata alla teoria della giustizia come equità di John Rawls, sul rapporto fra genetica e giustizia. Le accuse rivolte al movimento eugenetico possono essere riassunte nei seguenti quattro punti: 1. L’idea di una pratica eugenetica si basa su una concezione normativa arbitraria della natura umana, espressa dall’idea di «buona» dotazione genetica; 2. La pratica eugenetica alimenta varie forme di discriminazione razziale e sociale, come è testimoniato ampiamente dalle profonde interrelazioni fra teorie eugenetiche e regimi totalitaristi nella prima metà del Novecento; 3. La pratica eugenetica prevede l’uso di metodi coercitivi che invadono la privacy degli individui e delle coppie; 4. Una parte significativa del progetto eugenetico è costituita dall’obiettivo di selezionare le dotazioni genetiche migliori, eliminando o sterilizzando i portatori di patrimoni genetici ritenuti peggiori o «difettosi».

Secondo gli autori americani le critiche 3 e 4 non si ripropongono più nel contesto della nuova genetica. Quest’ultima infatti, come abbiamo sottolineato poco sopra, si propone come offerta di servizi ai cittadini, e non come politica di «igiene sociale» o razziale, perciò non prevede, per definizione, metodi coercitivi. Inoltre, è espressamente esclusa l’idea di selezionare i patrimoni genetici degli individui ed «eliminare» quelli ritenuti meno vantaggiosi. È ovvio che nessuno oggi propone la genetica come strategia per la «pulizia etnica» di una certa popolazione. Tuttavia, se è vero che la nuova genetica non prevede esplicitamente l’obiettivo dell’eliminazione degli individui con patrimonio genetico «patologico», va però detto che una certa selezione degli individui su base genetica tende a manifestarsi attraverso la diffusione sistematica della diagnosi genetica preimpianto e prenatale. Di fatto, la possibilità di analizzare il genoma di embrioni e feti, connessa alla possibilità di non impiantare i primi o abortire i secondi, genera una situazione che spontaneamente riduce le nascite di individui con difetti genetici. Questo comporta una selezione per eliminazione dei portatori (sia pure allo stato embrionale o fetale), che certo non avviene nel contesto di un programma statale di miglioramento della razza, ma che si produce per effetto della preponderanza di modelli culturali e immagini dell’idea di «vita umana accettabile» che plasmano le scelte procreative delle coppie. È però chiaro a tutti che una selezione attraverso modelli impliciti non è affatto meno discutibile di una selezione esplicitamente pianificata.

Gli autori liberali si propongono di affrontare soprattutto le prime due critiche, nell’ambito di uno schema di giustizia come equità che vede la nuova genetica come un servizio medico che può avere effetti discriminatori. Quanto al primo punto, l’«eugenetica liberale» ripudia ovviamente l’idea di un modello normativo unico della natura umana. Si tratta piuttosto di offrire i servizi di genetica come modi di garantire alcuni tratti genetici (come l’assenza di patologie gravi, l’intelligenza, un certo grado di autocontrollo ecc.) che consentano l’equa eguaglianza di opportunità in una società democratica. Il punto è quello di considerare la dotazione genetica come un aspetto della vita individuale che, con l’avvento delle nuove tecnologie, è sottratto al puro caso, e quindi entra di diritto nelle dimensioni soggette a un’equa apertura alle risorse disponibili. Una dotazione genetica «normale» o «nella media» fa parte di uno spettro di beni primari che devono essere garantiti, attraverso l’accesso alle tecniche eugenetiche, a tutti i cittadini.

Questo punto si basa naturalmente sull’interpretazione della nozione di uguaglianza, in particolare con riferimento ai tratti genetici giudicati svantaggiosi. Si affrontano qui due diverse concezioni, pur sempre all’interno della prospettiva liberale: secondo la prima, la giustizia in questo settore va garantita rimediando solo alle disuguaglianze prodotte dalle strutture sociali («visione strutturale sociale»); ciò significa che andranno rimosse le restrizioni di accesso alle cure che penalizzano alcune categorie sociali. Ora, se oggi disponiamo di tecnologie che possono porre rimedio alle differenze prodotte dalla effettiva discrepanza fra le opportunità aperte a soggetti geneticamente «meglio dotati» rispetto ad altri soggetti, è un dovere di giustizia mettere tali tecnologie alla portata di tutti, e in particolare dei più svantaggiati (worst off) per ristabilire una reale equa eguaglianza di opportunità.

Una seconda concezione (denominata «visione della mera fortuna») sostiene che occorre rimediare a tutte le disuguaglianze che dipendono da fattori che sfuggono al controllo del soggetto. In altri termini, tutti gli svantaggi che derivano dalla «lotteria naturale», una volta che siano divenute, almeno in parte, rimediabili tramite interventi di ingegneria genetica, devono essere riappianate. Si tratta di una concezione più fortemente egualitarista, per la precisione di una concezione basata sull’egualitarismo delle risorse, laddove la teoria della struttura sociale si basa sull’egualitarismo delle opportunità. Le due visioni possono convergere nelle conclusioni pratiche se le cure sanitarie sono concepite come un fattore di giustizia, cioè come strumenti per la restituzione agli individui di un «funzionamento normale», e non, come avviene tradizionalmente, nel­l’ot­tica solidaristica di aiuto ai sofferenti. Nell’ottica liberale, dunque, la genetica e più in generale le cure sanitarie fanno parte degli strumenti sociali che mirano a conservare ai cittadini uno status di «competitori normali» nella cooperazione sociale a partire da eque opportunità. Nella visione sociale strutturale le differenze genetiche possono essere tollerate se si inseriscono in un sistema nel complesso equo: alcuni vantaggi per certe categorie devono provocare ricadute vantaggiose per i più svantaggiati. La visione della mera fortuna è più rigida: ogni svantaggio immeritato deve essere appianato e i cittadini devono poter accedere, almeno in linea di principio, alle stesse opportunità.

Entrambe queste teorie mirano soprattutto a rispondere alla critica 2, cioè quella relativa alla discriminazione sociale. È evidente che la mossa fondamentale dell’approc­cio liberale è quella di pensare la nuova eugenetica come un insieme di servizi a cui i cittadini accedono per libera scelta. In tale contesto, le questioni di giustizia sorgono in riferimento alle possibili distorsioni dell’equità provocate dal «vantaggio» procurato agli individui dall’eugenetica. L’etica pubblica, e la politica, possono intervenire, in quest’ottica, solo per garantire che il libero accesso a tali servizi non avvenga in condizioni di disuguaglianza e non generi discriminazione. L’accesso deve quindi essere equo, o nel senso che esso si verifica in strutture sociali che compensano il deficit derivante da un patrimonio genetico meno vantaggioso (visione strutturale sociale) o nel senso che esso deve essere garantito a tutti coloro che soffrono di svantaggi che non dipendono dalle loro scelte.

Attraverso il riferimento centrale alla libera scelta dei cittadini, l’approccio liberale risponde in modo netto alla critica 1, quella relativa all’ideale normativo arbitrario della natura umana: né lo Stato né la medicina impongono un modello genetico da imitare, ma, almeno teoricamente, i cittadini decidono liberamente quali fattori genetici siano da giudicare svantaggiosi e quali vantaggiosi.

Tuttavia, la questione è decisamente più intricata di quanto appaia dalla soluzione ora prospettata. In primo luogo, infatti, può ben darsi, come abbiamo già osservato, che un modello normativo del patrimonio genetico ideale (o di un modello di essere umano da imitare) si affermi surrettiziamente, proprio attraverso le dinamiche del mercato. Anzi, questo è lo scenario decisamente più probabile: i «consumatori» tenderanno spontaneamente a escludere certi tratti genetici giudicati «inadeguati», per i motivi più diversi: medici, igienici, estetici, culturali e di moda. Sul mercato dei servizi genetici vincerà il prodotto che è più facile commercializzare e si imporrà un tipico modello di individuo da spot pubblicitario. Uno scenario di questo tipo, anche quando accadesse in un contesto di sostanziale equa eguaglianza delle opportunità, appare comunque segnato da una forma profonda di discriminazione: il «diverso», colui che non è adeguato al modello di perfezione estetica indotto nei consumatori è radicalmente emarginato, o meglio escluso in radice dall’esistenza. L’ideale sotterraneo in questo caso è la non nascita di individui meno che geneticamente perfetti, tramite la selezione genetica prenatale e soprattutto preimpianto. In secondo luogo, si ripropone qui un tema che è inscindibile da tutte le questioni morali e filosofiche relative alla genetica (e più in generale alla medicina): la differenza fra terapia e potenziamento, nonché quella corrispondente fra malattia e salute. Di solito, per evitare scivolamenti in situazioni palesemente inaccettabili,  ci si rifugia in tali distinzioni, dichiarando accettabili le forme di genetica riconducibili alla nozione di «terapia», cioè quelle che curano «patologie», e rifiutando le forme di «potenziamento», cioè quelle che mirano ad accrescere la «salute» nel senso di una più piena e longeva vitalità. Gli autori liberali hanno il merito di affrontare espressamente tale questione, e di mettere in chiaro che: a) i confini fra malattia e salute, e quindi quelli fra terapia e potenziamento, sono certamente labili sotto il profilo concettuale, ma possono servire come strumento euristico per la definizione dei criteri di uguaglianza; b) la differenza fra terapia e potenziamento, tuttavia, non corrisponde alla differenza fra permissibile e vietato: «Come la distinzione fra trattamento e potenziamento non coincide con quella fra obbligatorio e non obbligatorio, così essa non coincide con la distinzione fra permissibile e non permissibile. Non tutte le terapie saranno permissibili e non tutti i potenziamenti saranno non permissibili» (2).

Perciò, per questi autori il potenziamento è una prospettiva accettabile, purché sia regolato dai vincoli di una società giusta, cioè dai vincoli dell’equa eguaglianza di opportunità. Restano ferme, anche in questo caso, le obiezioni prima avanzate circa la limitatezza della prospettiva basata sulla giustizia: la questione centrale, cioè quella dell’ac­co­glienza dei più svantaggiati (dal punto di vista genetico, ma non solo) resta senza risposta. Se è plausibile sostenere che la dinamica della domanda e dell’offerta condurrà all’affermazione di un modello normativo estetico-energetico di individuo, la prospettiva di una discriminazione significativa per individui geneticamente «meno-che-perfetti» è un esito molto probabile.

In un suo recente intervento (3), Jürgen Habermas mette a tema le questioni affrontate dagli autori liberali in un modo particolarmente proficuo. Nel quadro della sua nota interpretazione della società democratica come luogo dell’agire comunicativo, di cui il riconoscimento della libertà individuale è uno dei presupposti fondamentali, Habermas pone la seguente questione: «Possiamo considerare l’autotrasformazione genetica della specie come un mezzo per accrescere l’autonomia individuale, oppure questa strada metterà a repentaglio l’autocomprensione normativa di persone che conducono la loro vita portandosi mutuo ed eguale rispetto?» (4). La risposta di Habermas è controcorrente fra i fautori del liberalismo (per es., oltre agli autori già citati,  Ronald Dworkin e Thomas Nagel, che discutono le sue tesi), poiché propende chiaramente per la seconda alternativa: benché l’ottica liberale sembri favorire l’idea di plasmare liberamente  il proprio sé, includendovi perciò anche il proprio corpo e quello dei propri discendenti, Habermas osserva che ciò renderebbe estremamente difficile continuare a basare le nostre relazioni sull’autocomprensione reciproca di esseri liberi ed eguali. La possibilità di modificare in senso eugenetico, non soltanto terapeutico, il genoma degli individui comporta infatti la rimozione definitiva di un elemento «naturale» del­l’u­gua­glian­za, vale a dire proprio la costituzione genetica, «casuale» e non «progettata» o «selezionata», di ciascuno; a sua volta, ciò implica che ogni individuo risultante da queste scelte dei procreatori perde la possibilità di considerarsi l’autore unico e inviolabile della propria forma di esistenza, cioè come qualcuno che si è liberamente dato una personalità a partire da un nucleo non manipolato.

Per avere una concezione di sé come centro di responsabilità per le proprie azioni (e quindi come essere libero), la persona deve potersi identificare, almeno fino a un certo grado, con il proprio corpo. Ma, scrive Habermas, «affinché la persona possa sentirsi tutt’uno con il proprio corpo, sembra proprio che quest’ultimo debba venire esperito come spontaneo (naturwüchsig), ossia come lo sviluppo di quella vita organica che – rigenerando se stessa – trae fuori di sé la persona» (5). Per questo, la possibilità di selezionare gli embrioni a seguito di una diagnosi genetica preimpianto costituisce, secondo Habermas, un vulnus non rimediabile alla possibilità di interagire fra soggetti che si considerino liberi ed eguali: nessun fondamento di uguaglianza è dato spontaneamente nella costituzione genetica e, al tempo stesso, nessun nuovo nato potrà rintracciare nella propria origine un nucleo di indisponibilità da cui la sua autonomia ha preso le mosse. Se io sono il risultato di un progetto genetico, anche se resto libero di fare ciò che voglio, la mia costituzione fondamentale è già stata orientata in una direzione non casuale, decisa in assenza del mio consenso. In questo senso, per Habermas anche l’uso strumentale di embrioni come fonte di cellule staminali, benché non distrugga delle «persone» in senso stretto, rappresenta una «riduzione a cosa» dell’origine della vita umana che si inscrive nella stessa dinamica che compromette l’autonomia e lo status morale delle persone.

Si noti che le tesi di Habermas non rimandano ad alcun presunto fondamento metafisico dell’idea di «natura umana»: non vi è alcuna essenza o costituzione biologica che sia dichiarata inviolabile per sé. Piuttosto, se non vogliamo rinunciare a fondare le relazioni fra eguali sul riconoscimento di una eguale libertà, dobbiamo altresì riconoscere che la selezione e la modificazione genetica rischiano di compromettere alcune precondizioni ineliminabili della libertà di esseri umani concreti, in carne ed ossa non ancora «geneticamente modificati».

 

 

Note

 

(1) Buchanan A., Brock D.W., Daniels N., Wikler D., From Chance to Choice: Genetics and Justice, Cambridge University Press, Cambridge 2000.

(2) Ibid., p. 153.

(3) J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino 2002.

(4) Ibid., p. 31.

(5) Ibid., p. 59.