http://www.units.it/etica/2004_2/MAZZONI.htm
Università degli Studi di Pavia
“Gli
uomini originari ed antichissimi hanno colto queste cose nella forma del mito,
e in questa forma le hanno trasmesse ai posteri, dicendo che questi corpi
celesti sono divinità, e che la divinità circonda tutta quanta la natura. Il
resto [cioè i nomi e i racconti degli dei] è stato aggiunto dopo, sempre
miticamente, per persuadere i più e per imporre l’obbedienza alla legge e per
ragioni di utilità. Dicono infatti che quegli esseri divini sono simili agli
uomini o ad altri animali, e aggiungono altre cose, che derivano da quelle o
sono molto simile ad esse” (Met. XII 8, 1074b3-5).
L’autore
di queste affermazioni non è, come si potrebbe immediatamente pensare, né
l’oligarca ateniese Crizia, né il sofista ed esperto di linguistica Prodico di
Ceo, ma un pensatore etico-politico tutt’altro che radicale o eversivo come
Aristotele. Egli, infatti, nella Metafisica, gettando uno sguardo
retrospettivo sui predecessori che si sono interrogati intorno alle
caratteristiche del divino, individua nella sapienza antichissima un
fondamentale nucleo di verità: la credenza nella divinità degli astri. Solo due
righe più avanti, tuttavia, egli separa nettamente questo indiscutibile
contenuto di verità dalla configurazione mitico-poetica per mezzo della quale
gli antichi hanno descritto le qualità del divino, mettendo in luce
l’inconsistenza teorica di quell’antropomorfismo narrativo intorno al quale
tradizionalmente si articolava la religione dei greci. Il pensiero filosofico,
come queste considerazioni di Aristotele testimoniano in maniera evidente,
caratterizzato da una sempre più spiccata tendenza alla razionalità e
dall’utilizzo di un rigoroso metodo d’indagine, sembra aver ormai spogliato i
racconti tradizionali della loro veste mitica, smascherando così la funzione
essenzialmente retorico-strumentale di questi e mettendo definitivamente in
crisi l’originaria architettura della religione olimpica.
Questo processo
di demistificazione e di ridefinizione dei contenuti teologici che con
Aristotele sembra essere approdato ad un esito radicale non è tuttavia una
conquista ascrivibile unicamente al filosofo di Stagira o a qualcun altro dei
suoi contemporanei, ma il prodotto di un lungo e tormentato percorso
intellettuale che vede impegnati i più autorevoli ingegni che la civiltà greca
abbia mai prodotto: Omero, Esiodo, Senofane, Sofocle, Euripide, Empedocle,
Democrito, Protagora, Crizia, Socrate e Platone. Itinerario estremamente
complesso, caratterizzato da innumerevoli polivalenze, da inquietudini sempre
risorgenti e da continui conflitti ed oscillazioni, esso è decritto in modo
puntuale e con grande dovizia di particolari da Stelio Zeppi nella sua opera di
recente pubblicazione, “Il pensiero religioso nei presocratici. Alle radici
dell’ateismo”. Attraverso una serie di saggi di diversa natura ed
estensione, Zeppi prende infatti in esame tutti i principali autori
presocratici che hanno contribuito allo sviluppo del pensiero teologico greco,
non solo grazie ad una sempre maggiore presa di coscienza dei fondamentali
problemi teorici, ma anche mediante la creazione di strutture concettuali ed
argomentative sempre più solide ed articolate. Partendo dall’analisi delle riflessioni
immature ed ancora espresse attraverso il linguaggio mitico dei poeti
genealogici, Zeppi arriva a prendere in considerazione le argomentazioni
raffinate e teoricamente ben fondate dei sofisti, esaminando sia i casi in cui
tali indagini hanno determinato un rinnovamento del sapere teologico
tradizionale (per esempio con Senofane), sia quelli in cui esse hanno posto le
premesse ad una concezione spregiudicatamente atea (Crizia e Prodico) o
agnostica (Protagora).
Pur non
tralasciando di dar conto dell’importante contributo fornito da Esiodo, dai
naturalisti ionici e da Senofane all’elaborazione del pensiero teologico, il
lavoro di Zeppi prende in considerazione soprattutto le riflessioni degli
autori del V secolo a.C., non solo a motivo della loro maggior originalità e
consistenza argomentativa, ma anche a causa della loro fondamentale rilevanza
in relazione allo sviluppo delle concezioni religiose della civiltà greca. Il
“prodigioso V secolo a.C. che vede l’Ellade donare al mondo una profusione di ricchezze
spirituali che ancora oggi ci riempie di stupefatta ammirazione” è infatti
descritto dallo stesso Zeppi come una “stagione drammatica e tormentata, che è
tutta attraversata da un conflitto di fondo: quello che si svolge tra la difesa
e la contestazione dello spirito religioso ereditato dal passato” (p. 39).
“Stagione drammatica e tormentata” si è detto, dal momento che il problema
dell’esistenza e delle caratteristiche della divinità non suscita unicamente la
curiosità intellettuale del sapiente, ma determina anche una più generale
riflessione - si pensi ad esempio alle opere dei tre grandi tragediografi -
circa l’origine dell’uomo, il proprio destino, il corretto modo di condurre la
propria vita. La discussione sulle principali tematiche teologiche, ben lungi
dal rappresentare l’oggetto di un’indagine di carattere puramente cosmogonico
ed ontologico riservata ad un numero limitato di intellettuali, assume al
contrario una rilevanza universale, coinvolgendo aspetti antropologici, etici
ed escatologici e mobilitando in ogni uomo sentimenti fondamentali quali
l’angoscia per la precarietà dell’esistenza, la speranza di raggiungere una
felicità duratura e il timore di subire punizioni a causa delle proprie colpe.
La
dimensione religiosa, del resto, all’interno di uno specifico contesto
socio-culturale quale quello della polis greca, non occupa uno spazio
marginale e circoscritto ma, al contrario, perfettamente integrata
nell’orizzonte etico e politico della città, pervade ogni momento significativo
dell’esistenza privata e sociale: “non c’è guerra o fondazione di colonie,
promulgazione di leggi o trattati, stipulazione di matrimoni o contratti, che
non venga messa sotto la protezione di una divinità, la cui attenzione è
richiamata con gli opportuni gesti di culto e le necessarie pratiche
sacrificali (1)”,
così come non c’è atto di convivenza tra i cittadini - dalla festa
all’assemblea, dall’evento sportivo alla rappresentazione teatrale - che non
sia consacrato alla divinità, dalla quale si attendono in cambio garanzia e
benevolenza.
Questo
rapporto di familiarità e di prossimità della divinità ai tempi e ai luoghi
della vita quotidiana caratterizza ampiamente l’esperienza religiosa greca; la
divinità, infatti, non è mai lontana e inaccessibile, dal momento che è
possibile entrare facilmente in contatto con essa attraverso semplici gesti
come l’ascolto pubblico e privato di quei racconti mitologici su cui
tradizionalmente si fonda la paideia dei fanciulli, l’osservazione delle
numerose raffigurazioni artistiche - fondamentale supplemento iconografico
della poesia epica -, la celebrazione di pratiche rituali (2).
Tale
carattere diffuso ed omnipervasivo dell’esperienza del sacro all’interno del
microcosmo delle poleis greche contribuisce a gettar luce sulla carica
potenzialmente devastante delle tesi di quei pensatori che, soprattutto a
partire dalla seconda metà del V secolo, mettono seriamente in discussione i
principali postulati della religione greca. Due intellettuali caratterizzati
dalla radicalità delle loro teorie come Crizia e Protagora, infatti, negando
l’esistenza degli dei o contestandone la conoscibilità da parte degli uomini,
mettono in discussione non solo la validità delle credenze che sono da tempo immemore
alla base della teologia greca e la veridicità dei racconti mito-poetici che da
sempre le tramandano, ma anche e soprattutto la capacità del sistema religioso
di fornire garanzie di ordine all’universo e di senso e valore all’esperienza
sociale ed individuale. Per questa ragione, Zeppi, a buon diritto, individua
nel V secolo una svolta epocale per la cultura greca e non solo, poiché proprio
in questo preciso momento storico “la fede tradizionale nel divino, affondante
le sue radici nella più remota preistoria, perde – per la prima volta nella
storia della coscienza occidentale – il suo dominio assoluto ed entra in crisi.
La precedente incontrastata credenza nel divino urta, per la prima volta,
contro gli scogli del dubbio e incontra le prime resistenze” (p. 39).
Nel contesto di questa nuova e fluida atmosfera culturale,
come lo stesso Zeppi mostra in modo adeguato, non stupisce per nulla il fatto
che molti intellettuali, in relazione ai contenuti del sapere teologico,
assumano posizioni fondamentalmente ambigue e in continua oscillazione,
evidente testimonianza dell’esistenza di personalità divise e dilacerate tra
l’atteggiamento ancestrale della credenza nel divino e le nuove perplessità ed
inquietudini; audaci e spregiudicate prese di posizione contro le tradizionali
credenze religiose si combinano infatti, come nel caso di Euripide ed Erodoto,
ad appassionate dichiarazioni di fedeltà ai tradizionali assiomi della
religione greca, così come considerazioni di carattere marcatamente
antropocentrico convivono in modo problematico con affermazioni di stampo
teocentrico, come ad esempio in Parmenide e Socrate.
Ogni
innovazione ed ogni rottura con la tradizione sembrano contemporaneamente
determinare una forte sensazione di esaltazione - originata dalla consapevolezza
di star compiendo un importante passo verso la conoscenza della verità - e un
marcato senso di nostalgia - causato dal superamento e dalla perdita di un
sistema di credenze che affonda le sue origini nella “notte dei tempi” -.
Questa ambivalenza di atteggiamenti che, come ha descritto in modo esemplare
Thomas Kuhn ne “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”, accompagna
tutti i momenti di passaggio da un antico sistema di credenze ad un altro di
più recente origine, è perfettamente visibile in un autore come Platone,
chiamato a trovare una complessa mediazione dialettica tra i tradizionali - ma
in grave crisi - retaggi della culturale greca e le audaci - ma potenzialmente
pericolose - prese di posizione di fisiologi come Anassagora, Empedocle e
Democrito e di sofisti come Protagora e Prodico.
Platone, in particolare, sempre per quanto riguarda la
riflessione teologica, nel secondo libro della Repubblica, non si
dimostra molto interessato a confutare le radicali tesi di carattere ateistico
ed anti-provvidenzialistico espresse da un personaggio vicino all’intelligencija
sofistica come Adimanto (cfr. 365 d sgg.). Il filosofo ateniese, infatti,
comportandosi in questo caso come un illuminista ante litteram, assume
come un dato di fatto l’incapacità del sistema religioso di dimostrare il
valore dei contenuti della morale tradizionale, non impegnandosi pertanto a
difendere il ruolo di protezione dell’obbligo della giustizia comunemente
riconosciuto alla religione, ma concentrando piuttosto le proprie forze nel
tentativo di dimostrare l’autonoma validità e auspicabilità del sistema etico
tradizionale, a prescindere dalla questione dell’esistenza o meno degli dei
(cfr., ad esempio, il lanthanon theous
di 366 e; 367 e). Anche la kallipolis delineata dal personaggio di
Socrate nei libri successivi - ambiente sociale in grado, a differenza delle
città della storia, sia di realizzare nel modo più compiuto possibile l’idea di
giustizia, sia di assicurare all’uomo giusto un’esistenza felice - assume le
sembianze di uno stato esclusivamente laico e a-confessionale, nell’ambito del
quale la religione tradizionale non svolge alcun ruolo di primo piano. Nelle Leggi, al contrario, la religione e i
suoi principali assiomi teologici non solo tornano a svolgere la loro tradizionale
funzione di protezione degli obblighi morali e di legittimazione dell’assetto
sociale ma, “migliore e più bello di tutti i proemi alle leggi” (X, 887 b-c),
diventano anche il fondamento stesso dell’ordine politico. La polis tratteggiata dall’Ateniese nelle Leggi, infatti, ormai
lontana dal carattere essenzialmente laico della kallipolis della Repubblica, si contraddistingue per la sua struttura compiutamente teocratica (3)
(cfr. IV, 715 e – 716 a: “il Dio è detentore del principio, del mezzo e della
fine di tutti gli esseri”; 716 c: “la divinità è per noi la misura di tutte le
cose”) e, in modo perfettamente conseguente, per la severità della sua
legislazione penale nei confronti di coloro che si macchiano di empietà, mettendo
in discussione l’esistenza degli dei, il loro intervento provvidenziale nel
mondo umano, l’impossibilità di modificare le loro decisioni attraverso offerte
e sacrifici (cfr. l’intero libro X).
Platone,
in entrambi i casi di cui si è fatta menzione, dà prova di condividere
quell’ambiguità di fondo e quell’oscillazione teorica che, nella trattazione
delle principali tematiche teologiche e religiose, caratterizza molti
intellettuali del V secolo, tra i quali, non da ultimo, il suo stesso maestro
Socrate. Anche Platone dimostra così di essere testimone e, allo stesso tempo,
protagonista di quell’epocale e tormentato processo di trasformazione delle
tradizionali credenze sul divino - contraddistinte da uno spiccato
antropoformismo e da una multiforme veste mitologica - in un vero e proprio
sistema teologico e cosmologico – sempre più razionale e scevro da elementi
mitico-poetici - che Stelio Zeppi descrive in modo dettagliato nella sua opera.
Ciò che
invece, a mio avviso, non è presente in maniera adeguata nello scritto di Zeppi
è l’elaborazione di una spiegazione complessiva in grado di dar conto sia
dell’emergenza di questo processo di graduale razionalizzazione del sapere
teologico, sia della persistenza nella costruzione delle nuove teorie sul
divino di molti elementi e suggestioni mitico-poetici. Per individuare le cause
che determinano la progressiva trasformazione delle antiche credenze teologiche
e per comprendere le ambiguità, le contraddizioni e le inquietudini che tale
mutamento comporta, è necessario prendere in considerazione il generale
contesto storico e culturale che caratterizza la Grecia tra il VI e il V secolo
a.C. La crisi che investe le tradizionali credenze sul divino e il processo che
determina la costituzione di un nuovo sapere teologico, infatti, sono eventi
culturali paralleli che possono essere compresi solo attraverso il riferimento
ad un fenomeno storico più ampio e complesso: il graduale logoramento
dell’universo mitico e il contemporaneo consolidamento del sapere filosofico e
scientifico.
Il mito,
infatti – quell’insieme di racconti progressivamente elaborati nel corso del
processo di formazione della società greca arcaica e trasmessi di generazione
in generazione grazie alla loro caratteristica forma poetica che ne facilitava
la recitazione e la memorizzazione –, a partire dal VI secolo, non si dimostra
più in grado di rispondere in maniera adeguata ai bisogni, alle ansie e alle
domande di un contesto socio-culturale sempre più complesso e lontano da quello
arcaico. Patrimonio di conoscenze e credenze perfettamente adeguato ad
orientare il comportamento individuale e collettivo dell’ambiente in cui si era
formato e a fornire risposte efficaci ed esemplari agli interrogativi degli
uomini dell’età arcaica (come ci si deve comportare, nei riguardi degli dei e
degli altri uomini, per condurre una vita onorata e prosperosa? che cosa si
deve pensare della nascita, delle grandi vicende della vita e della morte? qual
è il posto che spetta agli uomini nell’insieme del mondo e della natura?), esso
entra progressivamente in crisi quando le esigenze culturali poste da società
più complesse e più evolute, come quelle delle poleis greche fra VI e V
sec., iniziano a non trovare più risposte adeguate e soddisfacenti all’interno
del suo insieme di racconti. Inoltre, man mano che si sviluppano forme
specifiche di conoscenza e che si differenziano nuovi ambiti di riflessione,
l’universo del mythos perde via via la sua capacità di costituire
l’insieme del sapere collettivo, la regola della vita comune; le cognizioni
cosmologiche, religiose, morali e antropologiche, che esso conteneva nella
forma condensata ed esemplare del racconto poetico, non solo non sono più in
grado di porsi quali indiscutibili coordinate culturali di riferimento, ma sono
anche sempre più messe in discussione dall’affermazione di una nuova forma di
razionalità - il sapere filosofico e scientifico -, maggiormente adatta a
rispondere alle nuove esigenze sociali. L’universo mitico viene così
progressivamente sostituito da questa nuova forma di sapere, non più basata sul
suo potere suggestivo o sull’autorevolezza della sua fonte, ma su dimostrazioni
e argomentazioni logiche universalmente valide, in grado di resistere alle
confutazioni e di generare persuasione (5). Allo stesso modo, il sapere
tradizionale contenuto nei numerosi racconti mitico-poetici, pur non cessando
del tutto di influenzare le riflessioni e i comportamenti dei greci, a causa
dell’incertezza dei suoi fondamenti e dell’inconsistenza del suo contenuto
teorico, viene sempre di più considerato come una forma di conoscenza
secondaria ed irrazionale, nettamente inferiore alla nuova razionalità
scientifica, sempre più estesa e dominante, grazie anche alla diffusione della
scrittura alfabetica.
La sempre
più gravosa crisi che investe le credenze ed i valori legati all’universo
mitico deve, senza ombra di dubbio, essere messa in relazione con il declino di
quella forma esclusivamente orale di trasmissione della cultura che agli stessi
racconti mitico-poetici aveva assicurato una fortuna secolare, così come la
graduale affermazione della razionalità scientifica e filosofica deve essere
connessa con la progressiva diffusione della scrittura alfabetica, non a caso
privilegiato veicolo di codificazione del nuovo sapere. La scrittura, infatti,
se in un primo tempo si era rivelata un efficace mezzo per la diffusione della
cultura tradizionale - prima tramandata solo oralmente -, a causa della
facilità con la quale si apprende e dell’estensione dei suoi possibili
impieghi, diventa in un secondo momento il principale strumento non solo per
una radicale critica dello stesso sistema culturale tradizionale, ma anche per
la costruzione, in forme nuove che essa stessa agevola, di una cultura diversa,
maggiormente laica e democratica (6). Le nuove forme di sapere (la medicina, la
storiografia, l’astronomia etc.), infatti, man mano che acquistano una forma di
trasmissione scritta e in prosa, si sostituiscono a quell’insieme - ora
giudicato irrazionale e poco attendibile - di cognizioni sugli dei, sul mondo e
sulla vita degli uomini che formava il sapere collettivo della società greca
arcaica, senza tuttavia riuscire – come avrebbe voluto Platone – né ad
eliminare in maniera definitiva questa antica “enciclopedia” di verità e di
valori, né a rimpiazzarla con una nuova a base esclusivamente filosofica.
Questi due sistemi, vista l’incapacità di entrambi di prevalere in modo
risolutivo sull’altro, si trovano così a coesistere in maniera problematica
all’interno dello stesso spazio sociale, dando vita ad un conflitto permanente
e generalizzato per la conquista della leadership culturale, conflitto
per altro possibile solo in una società, come quella greca, in cui non esiste
nessuna autorità – né statale né ecclesiastica – che abbia il potere di
decidere, in modo dogmatico, qual è la forma legittima del sapere e dei valori.
Quest’ampio spazio di libertà intellettuale accordato dalle poleis
greche garantisce così la possibilità di un continuo confronto-scontro tra le
varie forme di razionalità rivali, determinando in questo modo quelle
ambiguità, quelle resistenze e quelle oscillazioni teoriche che, come si è
visto, caratterizzano l’intera riflessione teologica.
Anche in
campo religioso, infatti, il complesso universo delle credenze e dei valori
mitico-poetici non viene mai del tutto meno, ma continua ad influire
nell’elaborazione culturale e nella consapevolezza collettiva dei greci,
nonostante il processo di graduale logoramento a cui esso è inesorabilmente
sottoposto, tra il VI e il V secolo a.C., ad opera della nuova razionalità
filosofico-scientifica. Quest’ultima, d’altra parte, non si pone mai come scopo
primario quello di destituire di significato il sistema religioso tradizionale tout
court ma, come dimostra chiaramente l’esempio di Aristotele, si sforza di
raggiungere la ben più limitata finalità di depurare il discorso sulla divinità
da quegli elementi antropomorfici e politeistici sempre più avvertiti come
incompatibili con il rigore teorico richiesto dal nuovo sapere teologico e
cosmologico. Solo in rarissimi casi, infatti, l’attacco sferrato dai
rappresentanti della nuova intelligencija filosofica ha come scopo il
totale ripudio della religione tradizionale; anche i sofisti, del resto, i più
radicali critici dell’universo teologico arcaico, dimostrano un’inaspettata
forma di reverenza nei confronti della religione: “tanto in Prodico quanto in
Crizia”, come Zeppi fa giustamente notare, “l’ateismo si accompagna al
riconoscimento dell’utilità e dignità della religione, che essi ammettono
svolgere una funzione eminentemente positiva quale pratico fattore di
incivilimento” (p. 89).
D’altra
parte, la sempre più estesa consapevolezza dell’inconsistenza teorica della
teologia tradizionale non determina semplicemente una più generalizzata
diffusione di posizioni atee, agnostiche e anti-provvidenzialistiche - peraltro
favorita ad Atene dalla tragica ondata di peste del 430-429 a.C. e dalla
drammatica sconfitta nella guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) -, ma anche
l’introduzione di forme cultuali e rituali alternative, maggiormente adeguate a
rispondere ai nuovi interrogativi socio-culturali e alle più complesse esigenze
psicologiche degli abitanti delle poleis del V secolo. Antiche e nuove
forme di religiosità come quelle orfiche, pitagoriche, misteriche e dionisiache
riaffermano infatti l’importanza del rapporto tra la dimensione umana e quella
divina, diffondendosi ampiamente presso tutti gli strati sociali e riuscendo a
coesistere in modo incruento non solo con le posizioni laiche ed
immanentistiche dei filosofi, ma anche con le pratiche e i riti della religione
olimpica. Religione che non si fonda su una rivelazione direttamente concessa
dalla divinità agli uomini e che non possiede un libro sacro che enunci le
verità rivelate e che costituisca il fondamento di un sistema teologico (7), essa rende così possibile non solo la
tollerante convivenza tra diverse forme di religiosità, ma anche quel libero
dibattito tra differenti posizioni che dà origine sia alle oscillazioni
teoriche di cui si è parlato, sia a spregiudicate ed originali sperimentazioni
intellettuali. La religione olimpica, infatti, priva di dogmi di fede la cui
osservanza vada imposta e la cui trasgressione dia luogo alle figure
dell’eresia e dell’empietà, a motivo di questo suo carattere psicologicamente e
socialmente non opprimente (8),
non solo permette e favorisce il dibattito tra i diversi punti di vista, ma fa
anche sì che persino le prese di posizione più radicali e provocatorie
rimangano circoscritte ad un ambito puramente intellettuale, dal momento che
esse, esattamente all’opposto di quanto avverrà in seguito, “non sorgono come
reazione e come protesta nei riguardi di una religione rigidamente autoritaria
ed oppressiva, caratterizzata da ferrei dogmi e imposta da un intransigente
clero rigorosamente gerarchizzato e socialmente dominante” (p. 89). Solo pochi
secoli più tardi, infatti, la tolleranza e la possibilità di confronto
garantite dalle peculiari caratteristiche della religione olimpica saranno
negate dall’affermazione e dalla diffusione delle tre grandi religioni
monoteistiche - giudaismo, cristianesimo, islamismo -, contraddistinte dalla
presenza di un’istituzione ecclesiastica dotata di un forte potere coercitivo a
protezione dell’ortodossia teologica, del tutto incompatibile con quella
vocazione anti-dogmatica ed innovatrice che caratterizza non solo l’esperienza
religiosa dei greci, ma anche l’elaborazione intellettuale da essi prodotta in
campo teologico.
Note.
(1) M.
Vegetti, L’uomo e gli dei, in J.P. Vernant (a cura di), L’uomo greco,
Roma-Bari, 1997, pp. 257-87, p. 272.
(2) Per
un’approfondita analisi della fondamentale e complessa funzione esercitata
dalla religione nella Grecia classica si rimanda a U. Bianchi, La religione
greca, Torino, 1975.
(3) Sul
ruolo assegnato da Platone alla religione nel contesto della Leggi si
vedano G.R. Morrow, Plato’s Cretan City:
A Historical Interpretation of the Laws, Princeton, 1960, pp. 399-496 e O.
Reverdin, La religion de la cité platonicienne,
Paris, 1945. Per una più ampia analisi delle dottrine teologiche a cui Platone
fa riferimento, non solo nelle Leggi,
ma anche negli altri suoi dialoghi, si rimanda invece a F. Solmsen, Plato’s Theology, New York, 1942 e a V.
Goldschmidt, La religion de Platon,
Paris, 1959.
(4) Per un
condivisibile tentativo di spiegare questa apparente contraddizione platonica
si veda G. Cerri, Dalla dialettica
all’epos: Platone, Repubblica X, Timeo, Crizia, in G. Casertano (a cura di),
La struttura del dialogo platonico,
Napoli, 2000, pp. 7-34, in particolare pp.12-34.
(5) Per
un’analisi del graduale e tormentato passaggio dall’orizzonte culturale
mitico-poetico a quello filosofico-scientifico si vedano J.P. Vernant, Mito
e pensiero presso i greci, Torino, 1978 e M. Detienne, L’invenzione
della mitologia, Torino, 1983.
(6) Sulle
importanti conseguenze culturali, sociali e politiche determinate dal passaggio
dalla trasmissione orale a quella scritta si rimanda a E.A. Havelock, Cultura
orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Roma-Bari, 1973 e a M.
Detienne, Sapere e scrittura in Grecia, Roma-Bari,1989.
(7) Per un
esauriente esame delle caratteristiche e delle peculiarità della religione
greca -religione senza casta sacerdotale professionale e senza chiesa, nel
senso di apparato gerarchico separato, legittimato ad interpretare le verità
religiose e ad amministrare le pratiche cultuali - si rimanda a W. Burkert, La
religione dei greci, Torino, 1981 e a M. Vegetti, (a cura di), L’esperienza religiosa antica, Torino,
1992.
(8) Tanto
il processo ai danni di Socrate, quanto quelli nei confronti di Anassagora e
Protagora sono da interpretare come episodi della lotta politica in corso ad
Atene nella seconda metà del V secolo, piuttosto che come testimonianza
dell’esistenza di un clima di intolleranza religiosa spinta fino alla
persecuzione delle eresie. Per un approfondimento di questo tema si veda J.T.
Roberts, Athens on Trial: the
Antidemocratic Tradition in Western Thought, Princetown, 1994.