Etica & Politica / Ethics & Politics, 2004, 2

http://www.units.it/etica/2004_2/MAZZONI.htm

 

 

 

 

La razionalità filosofica greca di fronte all'universo teologico arcaico

 

 

Mazzoni Marco

 

Dipartimento di Filosofia

Università degli Studi di Pavia

 

 

“Gli uomini originari ed antichissimi hanno colto queste cose nella forma del mito, e in questa forma le hanno trasmesse ai posteri, dicendo che questi corpi celesti sono divinità, e che la divinità circonda tutta quanta la natura. Il resto [cioè i nomi e i racconti degli dei] è stato aggiunto dopo, sempre miticamente, per persuadere i più e per imporre l’obbedienza alla legge e per ragioni di utilità. Dicono infatti che quegli esseri divini sono simili agli uomini o ad altri animali, e aggiungono altre cose, che derivano da quelle o sono molto simile ad esse” (Met. XII 8, 1074b3-5).

L’autore di queste affermazioni non è, come si potrebbe immediatamente pensare, né l’oligarca ateniese Crizia, né il sofista ed esperto di linguistica Prodico di Ceo, ma un pensatore etico-politico tutt’altro che radicale o eversivo come Aristotele. Egli, infatti, nella Metafisica, gettando uno sguardo retrospettivo sui predecessori che si sono interrogati intorno alle caratteristiche del divino, individua nella sapienza antichissima un fondamentale nucleo di verità: la credenza nella divinità degli astri. Solo due righe più avanti, tuttavia, egli separa nettamente questo indiscutibile contenuto di verità dalla configurazione mitico-poetica per mezzo della quale gli antichi hanno descritto le qualità del divino, mettendo in luce l’inconsistenza teorica di quell’antropomorfismo narrativo intorno al quale tradizionalmente si articolava la religione dei greci. Il pensiero filosofico, come queste considerazioni di Aristotele testimoniano in maniera evidente, caratterizzato da una sempre più spiccata tendenza alla razionalità e dall’utilizzo di un rigoroso metodo d’indagine, sembra aver ormai spogliato i racconti tradizionali della loro veste mitica, smascherando così la funzione essenzialmente retorico-strumentale di questi e mettendo definitivamente in crisi l’originaria architettura della religione olimpica.

Questo processo di demistificazione e di ridefinizione dei contenuti teologici che con Aristotele sembra essere approdato ad un esito radicale non è tuttavia una conquista ascrivibile unicamente al filosofo di Stagira o a qualcun altro dei suoi contemporanei, ma il prodotto di un lungo e tormentato percorso intellettuale che vede impegnati i più autorevoli ingegni che la civiltà greca abbia mai prodotto: Omero, Esiodo, Senofane, Sofocle, Euripide, Empedocle, Democrito, Protagora, Crizia, Socrate e Platone. Itinerario estremamente complesso, caratterizzato da innumerevoli polivalenze, da inquietudini sempre risorgenti e da continui conflitti ed oscillazioni, esso è decritto in modo puntuale e con grande dovizia di particolari da Stelio Zeppi nella sua opera di recente pubblicazione, “Il pensiero religioso nei presocratici. Alle radici dell’ateismo”. Attraverso una serie di saggi di diversa natura ed estensione, Zeppi prende infatti in esame tutti i principali autori presocratici che hanno contribuito allo sviluppo del pensiero teologico greco, non solo grazie ad una sempre maggiore presa di coscienza dei fondamentali problemi teorici, ma anche mediante la creazione di strutture concettuali ed argomentative sempre più solide ed articolate. Partendo dall’analisi delle riflessioni immature ed ancora espresse attraverso il linguaggio mitico dei poeti genealogici, Zeppi arriva a prendere in considerazione le argomentazioni raffinate e teoricamente ben fondate dei sofisti, esaminando sia i casi in cui tali indagini hanno determinato un rinnovamento del sapere teologico tradizionale (per esempio con Senofane), sia quelli in cui esse hanno posto le premesse ad una concezione spregiudicatamente atea (Crizia e Prodico) o agnostica (Protagora).

Pur non tralasciando di dar conto dell’importante contributo fornito da Esiodo, dai naturalisti ionici e da Senofane all’elaborazione del pensiero teologico, il lavoro di Zeppi prende in considerazione soprattutto le riflessioni degli autori del V secolo a.C., non solo a motivo della loro maggior originalità e consistenza argomentativa, ma anche a causa della loro fondamentale rilevanza in relazione allo sviluppo delle concezioni religiose della civiltà greca. Il “prodigioso V secolo a.C. che vede l’Ellade donare al mondo una profusione di ricchezze spirituali che ancora oggi ci riempie di stupefatta ammirazione” è infatti descritto dallo stesso Zeppi come una “stagione drammatica e tormentata, che è tutta attraversata da un conflitto di fondo: quello che si svolge tra la difesa e la contestazione dello spirito religioso ereditato dal passato” (p. 39). “Stagione drammatica e tormentata” si è detto, dal momento che il problema dell’esistenza e delle caratteristiche della divinità non suscita unicamente la curiosità intellettuale del sapiente, ma determina anche una più generale riflessione - si pensi ad esempio alle opere dei tre grandi tragediografi - circa l’origine dell’uomo, il proprio destino, il corretto modo di condurre la propria vita. La discussione sulle principali tematiche teologiche, ben lungi dal rappresentare l’oggetto di un’indagine di carattere puramente cosmogonico ed ontologico riservata ad un numero limitato di intellettuali, assume al contrario una rilevanza universale, coinvolgendo aspetti antropologici, etici ed escatologici e mobilitando in ogni uomo sentimenti fondamentali quali l’angoscia per la precarietà dell’esistenza, la speranza di raggiungere una felicità duratura e il timore di subire punizioni a causa delle proprie colpe.

La dimensione religiosa, del resto, all’interno di uno specifico contesto socio-culturale quale quello della polis greca, non occupa uno spazio marginale e circoscritto ma, al contrario, perfettamente integrata nell’orizzonte etico e politico della città, pervade ogni momento significativo dell’esistenza privata e sociale: “non c’è guerra o fondazione di colonie, promulgazione di leggi o trattati, stipulazione di matrimoni o contratti, che non venga messa sotto la protezione di una divinità, la cui attenzione è richiamata con gli opportuni gesti di culto e le necessarie pratiche sacrificali (1)”, così come non c’è atto di convivenza tra i cittadini - dalla festa all’assemblea, dall’evento sportivo alla rappresentazione teatrale - che non sia consacrato alla divinità, dalla quale si attendono in cambio garanzia e benevolenza.

Questo rapporto di familiarità e di prossimità della divinità ai tempi e ai luoghi della vita quotidiana caratterizza ampiamente l’esperienza religiosa greca; la divinità, infatti, non è mai lontana e inaccessibile, dal momento che è possibile entrare facilmente in contatto con essa attraverso semplici gesti come l’ascolto pubblico e privato di quei racconti mitologici su cui tradizionalmente si fonda la paideia dei fanciulli, l’osservazione delle numerose raffigurazioni artistiche - fondamentale supplemento iconografico della poesia epica -, la celebrazione di pratiche rituali (2).

Tale carattere diffuso ed omnipervasivo dell’esperienza del sacro all’interno del microcosmo delle poleis greche contribuisce a gettar luce sulla carica potenzialmente devastante delle tesi di quei pensatori che, soprattutto a partire dalla seconda metà del V secolo, mettono seriamente in discussione i principali postulati della religione greca. Due intellettuali caratterizzati dalla radicalità delle loro teorie come Crizia e Protagora, infatti, negando l’esistenza degli dei o contestandone la conoscibilità da parte degli uomini, mettono in discussione non solo la validità delle credenze che sono da tempo immemore alla base della teologia greca e la veridicità dei racconti mito-poetici che da sempre le tramandano, ma anche e soprattutto la capacità del sistema religioso di fornire garanzie di ordine all’universo e di senso e valore all’esperienza sociale ed individuale. Per questa ragione, Zeppi, a buon diritto, individua nel V secolo una svolta epocale per la cultura greca e non solo, poiché proprio in questo preciso momento storico “la fede tradizionale nel divino, affondante le sue radici nella più remota preistoria, perde – per la prima volta nella storia della coscienza occidentale – il suo dominio assoluto ed entra in crisi. La precedente incontrastata credenza nel divino urta, per la prima volta, contro gli scogli del dubbio e incontra le prime resistenze” (p. 39).

Nel contesto di questa nuova e fluida atmosfera culturale, come lo stesso Zeppi mostra in modo adeguato, non stupisce per nulla il fatto che molti intellettuali, in relazione ai contenuti del sapere teologico, assumano posizioni fondamentalmente ambigue e in continua oscillazione, evidente testimonianza dell’esistenza di personalità divise e dilacerate tra l’atteggiamento ancestrale della credenza nel divino e le nuove perplessità ed inquietudini; audaci e spregiudicate prese di posizione contro le tradizionali credenze religiose si combinano infatti, come nel caso di Euripide ed Erodoto, ad appassionate dichiarazioni di fedeltà ai tradizionali assiomi della religione greca, così come considerazioni di carattere marcatamente antropocentrico convivono in modo problematico con affermazioni di stampo teocentrico, come ad esempio in Parmenide e Socrate.

Ogni innovazione ed ogni rottura con la tradizione sembrano contemporaneamente determinare una forte sensazione di esaltazione - originata dalla consapevolezza di star compiendo un importante passo verso la conoscenza della verità - e un marcato senso di nostalgia - causato dal superamento e dalla perdita di un sistema di credenze che affonda le sue origini nella “notte dei tempi” -. Questa ambivalenza di atteggiamenti che, come ha descritto in modo esemplare Thomas Kuhn ne “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”, accompagna tutti i momenti di passaggio da un antico sistema di credenze ad un altro di più recente origine, è perfettamente visibile in un autore come Platone, chiamato a trovare una complessa mediazione dialettica tra i tradizionali - ma in grave crisi - retaggi della culturale greca e le audaci - ma potenzialmente pericolose - prese di posizione di fisiologi come Anassagora, Empedocle e Democrito e di sofisti come Protagora e Prodico.

Platone, in particolare, sempre per quanto riguarda la riflessione teologica, nel secondo libro della Repubblica, non si dimostra molto interessato a confutare le radicali tesi di carattere ateistico ed anti-provvidenzialistico espresse da un personaggio vicino all’intelligencija sofistica come Adimanto (cfr. 365 d sgg.). Il filosofo ateniese, infatti, comportandosi in questo caso come un illuminista ante litteram, assume come un dato di fatto l’incapacità del sistema religioso di dimostrare il valore dei contenuti della morale tradizionale, non impegnandosi pertanto a difendere il ruolo di protezione dell’obbligo della giustizia comunemente riconosciuto alla religione, ma concentrando piuttosto le proprie forze nel tentativo di dimostrare l’autonoma validità e auspicabilità del sistema etico tradizionale, a prescindere dalla questione dell’esistenza o meno degli dei (cfr., ad esempio, il lanthanon theous di 366 e; 367 e). Anche la kallipolis delineata dal personaggio di Socrate nei libri successivi - ambiente sociale in grado, a differenza delle città della storia, sia di realizzare nel modo più compiuto possibile l’idea di giustizia, sia di assicurare all’uomo giusto un’esistenza felice - assume le sembianze di uno stato esclusivamente laico e a-confessionale, nell’ambito del quale la religione tradizionale non svolge alcun ruolo di primo piano. Nelle Leggi, al contrario, la religione e i suoi principali assiomi teologici non solo tornano a svolgere la loro tradizionale funzione di protezione degli obblighi morali e di legittimazione dell’assetto sociale ma, “migliore e più bello di tutti i proemi alle leggi” (X, 887 b-c), diventano anche il fondamento stesso dell’ordine politico. La polis tratteggiata dall’Ateniese nelle Leggi, infatti, ormai lontana dal carattere essenzialmente laico della kallipolis della Repubblica, si contraddistingue per la sua struttura compiutamente teocratica (3) (cfr. IV, 715 e – 716 a: “il Dio è detentore del principio, del mezzo e della fine di tutti gli esseri”; 716 c: “la divinità è per noi la misura di tutte le cose”) e, in modo perfettamente conseguente, per la severità della sua legislazione penale nei confronti di coloro che si macchiano di empietà, mettendo in discussione l’esistenza degli dei, il loro intervento provvidenziale nel mondo umano, l’impossibilità di modificare le loro decisioni attraverso offerte e sacrifici (cfr. l’intero libro X).

Un’oscillazione di prospettiva del tutto simile a quella appena descritta è del resto rinvenibile anche nel modo in cui Platone si confronta con un’altra fondamentale problematica da sempre connessa alla costruzione del sapere teologico: che validità e quale spazio devono essere accordati ai racconti mitico-poetici intorno ai quali tradizionalmente si articola la religione greca? All’interno dello stesso dialogo, vale a dire la Repubblica, Platone, in un primo tempo - in maniera del tutto simile a quanto farà il suo discepolo Aristotele -, discredita i mythoi antropomorfici che caratterizzano tutta la poesia epica, tragica e comica, ravvisando in essi una potenziale causa di corruzione morale dei cittadini e arrivando addirittura a proporre l’allontanamento dalla polis di tutti gli autori di questo genere di opere: finché si penserà infatti che “Omero ha educato l’Ellade e che merita di essere appreso per governare ed educare il mondo degli uomini, e che secondo le regole di questo poeta si organizza e si vive tutta la propria esistenza” non vi sarà né una buona forma di vita né una città giusta, giacché “se vi ammetterai la seducente Musa lirica o epica, nella tua città regneranno piacere e dolore anziché la legge e quella ragione che da tutti concordemente è giudicata la migliore” (X, 607 a sgg.), cioè la ragione filosofica. Poche righe più avanti, tuttavia, lo stesso Platone, consapevole della grande capacità di condizionamento emotivo posseduta dalla poesia imitativa, elabora un lungo e complesso mythos che, ampiamente ispirato a quella tradizione poetica prima violentemente contestata (cfr. l’aspra critica di II, 377 a sgg.), conferma la validità e la veridicità di quegli antichi racconti mitici che parlano dei premi e dei castighi che gli dei assegnano agli uomini dopo la loro morte sulla base del loro comportamento (4) (X, 614 a sgg., ma anche Gorgia 523 a-b).

Platone, in entrambi i casi di cui si è fatta menzione, dà prova di condividere quell’ambiguità di fondo e quell’oscillazione teorica che, nella trattazione delle principali tematiche teologiche e religiose, caratterizza molti intellettuali del V secolo, tra i quali, non da ultimo, il suo stesso maestro Socrate. Anche Platone dimostra così di essere testimone e, allo stesso tempo, protagonista di quell’epocale e tormentato processo di trasformazione delle tradizionali credenze sul divino - contraddistinte da uno spiccato antropoformismo e da una multiforme veste mitologica - in un vero e proprio sistema teologico e cosmologico – sempre più razionale e scevro da elementi mitico-poetici - che Stelio Zeppi descrive in modo dettagliato nella sua opera.

Ciò che invece, a mio avviso, non è presente in maniera adeguata nello scritto di Zeppi è l’elaborazione di una spiegazione complessiva in grado di dar conto sia dell’emergenza di questo processo di graduale razionalizzazione del sapere teologico, sia della persistenza nella costruzione delle nuove teorie sul divino di molti elementi e suggestioni mitico-poetici. Per individuare le cause che determinano la progressiva trasformazione delle antiche credenze teologiche e per comprendere le ambiguità, le contraddizioni e le inquietudini che tale mutamento comporta, è necessario prendere in considerazione il generale contesto storico e culturale che caratterizza la Grecia tra il VI e il V secolo a.C. La crisi che investe le tradizionali credenze sul divino e il processo che determina la costituzione di un nuovo sapere teologico, infatti, sono eventi culturali paralleli che possono essere compresi solo attraverso il riferimento ad un fenomeno storico più ampio e complesso: il graduale logoramento dell’universo mitico e il contemporaneo consolidamento del sapere filosofico e scientifico. 

Il mito, infatti – quell’insieme di racconti progressivamente elaborati nel corso del processo di formazione della società greca arcaica e trasmessi di generazione in generazione grazie alla loro caratteristica forma poetica che ne facilitava la recitazione e la memorizzazione –, a partire dal VI secolo, non si dimostra più in grado di rispondere in maniera adeguata ai bisogni, alle ansie e alle domande di un contesto socio-culturale sempre più complesso e lontano da quello arcaico. Patrimonio di conoscenze e credenze perfettamente adeguato ad orientare il comportamento individuale e collettivo dell’ambiente in cui si era formato e a fornire risposte efficaci ed esemplari agli interrogativi degli uomini dell’età arcaica (come ci si deve comportare, nei riguardi degli dei e degli altri uomini, per condurre una vita onorata e prosperosa? che cosa si deve pensare della nascita, delle grandi vicende della vita e della morte? qual è il posto che spetta agli uomini nell’insieme del mondo e della natura?), esso entra progressivamente in crisi quando le esigenze culturali poste da società più complesse e più evolute, come quelle delle poleis greche fra VI e V sec., iniziano a non trovare più risposte adeguate e soddisfacenti all’interno del suo insieme di racconti. Inoltre, man mano che si sviluppano forme specifiche di conoscenza e che si differenziano nuovi ambiti di riflessione, l’universo del mythos perde via via la sua capacità di costituire l’insieme del sapere collettivo, la regola della vita comune; le cognizioni cosmologiche, religiose, morali e antropologiche, che esso conteneva nella forma condensata ed esemplare del racconto poetico, non solo non sono più in grado di porsi quali indiscutibili coordinate culturali di riferimento, ma sono anche sempre più messe in discussione dall’affermazione di una nuova forma di razionalità - il sapere filosofico e scientifico -, maggiormente adatta a rispondere alle nuove esigenze sociali. L’universo mitico viene così progressivamente sostituito da questa nuova forma di sapere, non più basata sul suo potere suggestivo o sull’autorevolezza della sua fonte, ma su dimostrazioni e argomentazioni logiche universalmente valide, in grado di resistere alle confutazioni e di generare persuasione (5). Allo stesso modo, il sapere tradizionale contenuto nei numerosi racconti mitico-poetici, pur non cessando del tutto di influenzare le riflessioni e i comportamenti dei greci, a causa dell’incertezza dei suoi fondamenti e dell’inconsistenza del suo contenuto teorico, viene sempre di più considerato come una forma di conoscenza secondaria ed irrazionale, nettamente inferiore alla nuova razionalità scientifica, sempre più estesa e dominante, grazie anche alla diffusione della scrittura alfabetica.

La sempre più gravosa crisi che investe le credenze ed i valori legati all’universo mitico deve, senza ombra di dubbio, essere messa in relazione con il declino di quella forma esclusivamente orale di trasmissione della cultura che agli stessi racconti mitico-poetici aveva assicurato una fortuna secolare, così come la graduale affermazione della razionalità scientifica e filosofica deve essere connessa con la progressiva diffusione della scrittura alfabetica, non a caso privilegiato veicolo di codificazione del nuovo sapere. La scrittura, infatti, se in un primo tempo si era rivelata un efficace mezzo per la diffusione della cultura tradizionale - prima tramandata solo oralmente -, a causa della facilità con la quale si apprende e dell’estensione dei suoi possibili impieghi, diventa in un secondo momento il principale strumento non solo per una radicale critica dello stesso sistema culturale tradizionale, ma anche per la costruzione, in forme nuove che essa stessa agevola, di una cultura diversa, maggiormente laica e democratica (6). Le nuove forme di sapere (la medicina, la storiografia, l’astronomia etc.), infatti, man mano che acquistano una forma di trasmissione scritta e in prosa, si sostituiscono a quell’insieme - ora giudicato irrazionale e poco attendibile - di cognizioni sugli dei, sul mondo e sulla vita degli uomini che formava il sapere collettivo della società greca arcaica, senza tuttavia riuscire – come avrebbe voluto Platone – né ad eliminare in maniera definitiva questa antica “enciclopedia” di verità e di valori, né a rimpiazzarla con una nuova a base esclusivamente filosofica. Questi due sistemi, vista l’incapacità di entrambi di prevalere in modo risolutivo sull’altro, si trovano così a coesistere in maniera problematica all’interno dello stesso spazio sociale, dando vita ad un conflitto permanente e generalizzato per la conquista della leadership culturale, conflitto per altro possibile solo in una società, come quella greca, in cui non esiste nessuna autorità – né statale né ecclesiastica – che abbia il potere di decidere, in modo dogmatico, qual è la forma legittima del sapere e dei valori. Quest’ampio spazio di libertà intellettuale accordato dalle poleis greche garantisce così la possibilità di un continuo confronto-scontro tra le varie forme di razionalità rivali, determinando in questo modo quelle ambiguità, quelle resistenze e quelle oscillazioni teoriche che, come si è visto, caratterizzano l’intera riflessione teologica.

Anche in campo religioso, infatti, il complesso universo delle credenze e dei valori mitico-poetici non viene mai del tutto meno, ma continua ad influire nell’elaborazione culturale e nella consapevolezza collettiva dei greci, nonostante il processo di graduale logoramento a cui esso è inesorabilmente sottoposto, tra il VI e il V secolo a.C., ad opera della nuova razionalità filosofico-scientifica. Quest’ultima, d’altra parte, non si pone mai come scopo primario quello di destituire di significato il sistema religioso tradizionale tout court ma, come dimostra chiaramente l’esempio di Aristotele, si sforza di raggiungere la ben più limitata finalità di depurare il discorso sulla divinità da quegli elementi antropomorfici e politeistici sempre più avvertiti come incompatibili con il rigore teorico richiesto dal nuovo sapere teologico e cosmologico. Solo in rarissimi casi, infatti, l’attacco sferrato dai rappresentanti della nuova intelligencija filosofica ha come scopo il totale ripudio della religione tradizionale; anche i sofisti, del resto, i più radicali critici dell’universo teologico arcaico, dimostrano un’inaspettata forma di reverenza nei confronti della religione: “tanto in Prodico quanto in Crizia”, come Zeppi fa giustamente notare, “l’ateismo si accompagna al riconoscimento dell’utilità e dignità della religione, che essi ammettono svolgere una funzione eminentemente positiva quale pratico fattore di incivilimento” (p. 89).

D’altra parte, la sempre più estesa consapevolezza dell’inconsistenza teorica della teologia tradizionale non determina semplicemente una più generalizzata diffusione di posizioni atee, agnostiche e anti-provvidenzialistiche - peraltro favorita ad Atene dalla tragica ondata di peste del 430-429 a.C. e dalla drammatica sconfitta nella guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) -, ma anche l’introduzione di forme cultuali e rituali alternative, maggiormente adeguate a rispondere ai nuovi interrogativi socio-culturali e alle più complesse esigenze psicologiche degli abitanti delle poleis del V secolo. Antiche e nuove forme di religiosità come quelle orfiche, pitagoriche, misteriche e dionisiache riaffermano infatti l’importanza del rapporto tra la dimensione umana e quella divina, diffondendosi ampiamente presso tutti gli strati sociali e riuscendo a coesistere in modo incruento non solo con le posizioni laiche ed immanentistiche dei filosofi, ma anche con le pratiche e i riti della religione olimpica. Religione che non si fonda su una rivelazione direttamente concessa dalla divinità agli uomini e che non possiede un libro sacro che enunci le verità rivelate e che costituisca il fondamento di un sistema teologico (7), essa rende così possibile non solo la tollerante convivenza tra diverse forme di religiosità, ma anche quel libero dibattito tra differenti posizioni che dà origine sia alle oscillazioni teoriche di cui si è parlato, sia a spregiudicate ed originali sperimentazioni intellettuali. La religione olimpica, infatti, priva di dogmi di fede la cui osservanza vada imposta e la cui trasgressione dia luogo alle figure dell’eresia e dell’empietà, a motivo di questo suo carattere psicologicamente e socialmente non opprimente (8), non solo permette e favorisce il dibattito tra i diversi punti di vista, ma fa anche sì che persino le prese di posizione più radicali e provocatorie rimangano circoscritte ad un ambito puramente intellettuale, dal momento che esse, esattamente all’opposto di quanto avverrà in seguito, “non sorgono come reazione e come protesta nei riguardi di una religione rigidamente autoritaria ed oppressiva, caratterizzata da ferrei dogmi e imposta da un intransigente clero rigorosamente gerarchizzato e socialmente dominante” (p. 89). Solo pochi secoli più tardi, infatti, la tolleranza e la possibilità di confronto garantite dalle peculiari caratteristiche della religione olimpica saranno negate dall’affermazione e dalla diffusione delle tre grandi religioni monoteistiche - giudaismo, cristianesimo, islamismo -, contraddistinte dalla presenza di un’istituzione ecclesiastica dotata di un forte potere coercitivo a protezione dell’ortodossia teologica, del tutto incompatibile con quella vocazione anti-dogmatica ed innovatrice che caratterizza non solo l’esperienza religiosa dei greci, ma anche l’elaborazione intellettuale da essi prodotta in campo teologico.

 

 

 

Note.

 

(1) M. Vegetti, L’uomo e gli dei, in J.P. Vernant (a cura di), L’uomo greco, Roma-Bari, 1997, pp. 257-87, p. 272.

(2) Per un’approfondita analisi della fondamentale e complessa funzione esercitata dalla religione nella Grecia classica si rimanda a U. Bianchi, La religione greca, Torino, 1975.

(3) Sul ruolo assegnato da Platone alla religione nel contesto della Leggi si vedano G.R. Morrow, Plato’s Cretan City: A Historical Interpretation of the Laws, Princeton, 1960, pp. 399-496 e O. Reverdin, La religion de la cité platonicienne, Paris, 1945. Per una più ampia analisi delle dottrine teologiche a cui Platone fa riferimento, non solo nelle Leggi, ma anche negli altri suoi dialoghi, si rimanda invece a F. Solmsen, Plato’s Theology, New York, 1942 e a V. Goldschmidt, La religion de Platon, Paris, 1959.

(4) Per un condivisibile tentativo di spiegare questa apparente contraddizione platonica si veda G. Cerri, Dalla dialettica all’epos: Platone, Repubblica X, Timeo, Crizia, in G. Casertano (a cura di), La struttura del dialogo platonico, Napoli, 2000, pp. 7-34, in particolare pp.12-34.

(5) Per un’analisi del graduale e tormentato passaggio dall’orizzonte culturale mitico-poetico a quello filosofico-scientifico si vedano J.P. Vernant, Mito e pensiero presso i greci, Torino, 1978 e M. Detienne, L’invenzione della mitologia, Torino, 1983.

(6) Sulle importanti conseguenze culturali, sociali e politiche determinate dal passaggio dalla trasmissione orale a quella scritta si rimanda a E.A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Roma-Bari, 1973 e a M. Detienne, Sapere e scrittura in Grecia, Roma-Bari,1989.

(7) Per un esauriente esame delle caratteristiche e delle peculiarità della religione greca -religione senza casta sacerdotale professionale e senza chiesa, nel senso di apparato gerarchico separato, legittimato ad interpretare le verità religiose e ad amministrare le pratiche cultuali - si rimanda a W. Burkert, La religione dei greci, Torino, 1981 e a M. Vegetti, (a cura di), L’esperienza religiosa antica, Torino, 1992.

(8) Tanto il processo ai danni di Socrate, quanto quelli nei confronti di Anassagora e Protagora sono da interpretare come episodi della lotta politica in corso ad Atene nella seconda metà del V secolo, piuttosto che come testimonianza dell’esistenza di un clima di intolleranza religiosa spinta fino alla persecuzione delle eresie. Per un approfondimento di questo tema si veda J.T. Roberts, Athens on Trial: the Antidemocratic Tradition in Western Thought, Princetown, 1994.