http://www.units.it/etica/2004_2/CATAPANO.htm
Fra teocentrismo e antropocentrismo etico: Socrate nell’interpretazione di Stelio Zeppi
Il volume Il pensiero religioso nei presocratici. Alle radici dell’ateismo
(Edizioni Studium, Roma 2003) raccoglie alcuni dei saggi che Stelio Zeppi ha
dedicato, durante la sua lunga e meritoria carriera di studioso, alla
problematica teologica nel periodo della storia della filosofia antica da lui
prediletto, quello che va dalle origini a Socrate (1).
L’ultimo saggio, su Protagora, è inedito, e corregge in parte la lettura
dell’agnosticismo dell’Abderita proposta in precedenza, scorgendo ora al fondo
di esso, quale logica e inevitabile conseguenza del fenomenismo teorizzato a
livello gnoseologico, una posizione che in realtà è ateistica (2). Protagora però non è il solo protagonista del volume: accanto
a lui spiccano le figure di numerosi altri pensatori, quali Senofane (3), Parmenide (4),
Democrito (5), e di scrittori non prettamente
filosofici, come Tucidide (6) ed Euripide (7), per non parlare di poeti come Esiodo (8) e Pindaro (9). è un peccato che il volume non contenga
un indice dei nomi: esso avrebbe reso facilmente l’idea dell’ampiezza
d’orizzonti posseduta dalle ricerche di Zeppi, che si muovono con invidiabile
padronanza fra autori differenti per epoca e per genere, dal poetico al
filosofico, dal teatrale allo storico al medico.
Sarebbe impossibile, nell’angusto
spazio concesso alla presente nota critica, render conto nei dettagli del modo
in cui Zeppi tratta ciascuno di quegli autori. Mi soffermerò perciò su uno
solo, un filosofo che non scrisse nulla ma di cui difficilmente si potrebbe
sopravvalutare l’importanza: mi riferisco naturalmente a Socrate, personaggio
tanto enigmatico quanto decisivo per gli sviluppi del pensiero occidentale.
Zeppi gli riserva un intero capitolo della parte seconda del volume (10) (sezione che è un vero e proprio “libro
nel libro”) e una posizione preminente in quasi tutta la terza e ultima parte (11). Il motivo di tale attenzione particolare
per il grande Ateniese risiede nella convinzione che il cuore del suo messaggio
sia caratterizzato da una peculiare dialettica tra divino e umano, nella quale
si riflette e trova parziale soluzione la tensione di fondo che attraversa tutta
la cultura greca del V secolo a.C. (12).
Quel secolo straordinario è
infatti segnato, a giudizio di Zeppi, da un drammatico conflitto: «quello che
si svolge tra la difesa e la contestazione dello spirito religioso ereditato dal
passato» (13). Esso investe specialmente la questione
della genesi delle arti e delle cognizioni che sono alla base della civiltà.
Secondo la concezione tradizionale, espressa da Omero ed Esiodo, il sapere
umano ha un’origine divina, proviene cioè da una rivelazione fatta dagli dèi ai
poeti stessi e, tramite loro, all’intera umanità (14).
A partire da Talete, invece, e procedendo con i Pitagorici antichi, con
Senofane e con Eraclito, la conoscenza del vero e del bene è considerata una
conquista esclusivamente umana, in assenza di illuminazioni dall’alto (15). Dopo un primo tentativo di mediazione
rappresentato dal poema di Parmenide, nel quale la rivelazione della dea è
stimolo all’esercizio del lógos umano
(16), la divaricazione fra la linea
teocentrica tradizionale da un lato, proseguita dall’Empedocle del poema
lustrale (17), e quella antropocentrica dall’altro, si
fa più netta appunto nel V secolo, quando l’«ondata illuministica» degli
atomisti e dei sofisti spinge l’antropocentrismo sino alle prime forme di
ateismo (18). Se Democrito ancora conserva la funzione
ispiratrice degli dèi nella creazione poetica (19),
Prodico e Crizia non solo negano l’origine divina delle arti ma, con una sorta
di feuerbachismo ante litteram,
affermano anzi (senza avere peraltro intenzioni polemiche) l’origine meramente
umana della credenza negli dèi, sorta nei primitivi dalla spontanea
divinizzazione delle forze naturali utili alla vita e dei loro scopritori
(secondo Prodico) o indotta opportunamente da qualche saggio antico per
rafforzare nel popolo il timore di trasgredire le leggi (secondo Crizia) (20).
Socrate, a parere di Zeppi,
avrebbe sperimentato intimamente questo dissidio che tormentava l’età sua, e
solo verso la fine della propria vita ne avrebbe prospettato consapevolmente il
superamento. A documentare la presenza di un’antinomia nel pensiero socratico
circa il ruolo del divino nella conoscenza della verità morale starebbero i Memorabili di Senofonte da una parte e
l’Eutifrone di Platone dall’altra.
Nel primo testo Socrate, dialogando con Ippia, distingue le leggi umane, scritte
e particolari, da quelle divine, non-scritte e universali, assegnando a queste
ultime una netta superiorità e portando il suo interlocutore a riconoscere che
«difficilmente altri dal Dio potrebbe porre come legge il giusto» (Mem. IV, iv, 25). «Affermazione solenne
e perentoria di teocentrismo» (21),
commenta Zeppi, intendendo con questo termine la tesi per cui «è […] la
divinità […] a conferire alle leggi umane il valore che possiedono; è essa
l’autrice e la rivelatrice unica della giustizia e della moralità» (22). Nel secondo testo, invece, Socrate
sostiene che una cosa non è santa perché è amata dagli dèi, ma è amata dagli
dèi perché è santa, e il fatto che sia amata dagli dèi non indica la sua essenza,
ma solo una sua qualità accidentale (Euthyphr.
10a-11b). Zeppi ritiene che questa affermazione sia assolutamente antitetica
alla prima e la classifica come “antropocentrica”, perché a suo giudizio essa
implica che alle scelte morali pertengano «principi e criteri del tutto
autonomi dal comportamento divino e tali che gli uomini stessi debbono
scoprirli e ritrovarli con le loro sole forze» (23).
L’Apologia di Socrate e il Critone
platonici attestano tuttavia che l’ultimo Socrate, ormai prossimo alla morte,
era arrivato a conciliare teocentrismo e antropocentrismo etico (24). Nel celebre discorso di autodifesa contenuto in Apol. 20e-23b, egli spiega che il suo
esame dialogico di politici, poeti e artigiani, che tante inimicizie gli aveva
provocato nella città, rispondeva al desiderio di comprendere l’oracolo delfico
che l’aveva indicato come il più sapiente di tutti. Tra parola divina e ragione
umana s’instaura perciò un rapporto di cooperazione: «Fonte di ogni valore è la
divinità, ma il messaggio […] da essa inviato abbisogna di quel chiarimento
interpretativo che soltanto dalla ragione umana può provenire […]. Divino e
umano, dunque, si congiungono indissolubilmente […] nel generare gli imperativi
che forniscono al vivere la sua dignità e la sua ragion d’essere» (25). Concorde con questa è, nella sostanza, la posizione assunta
da Socrate nel Critone, dove alla
dichiarazione di voler seguire esclusivamente la ragione migliore (46b) fa
séguito il rinvio all’opinione di quell’unico giudice che s’intende del giusto
e dell’ingiusto (47c-d) ed è tutt’uno con la verità (48a): «Dove è manifesto
che la fonte suprema della verità è collocata nel pensiero della Divinità,
intesa teisticamente come personalità, e che l’umano retto pensare è il pensare
conforme a quello divino, pur essendo intrinsecamente autonomo» (26).
Ci troviamo qui, secondo Zeppi,
di fronte a un’intuizione più che a una dottrina (27);
il ridotto grado di elaborazione teorica non diminuisce però la rilevanza
storica di questo tentativo conciliatorio («una delle maggiori e più
rivoluzionarie conquiste della coscienza occidentale») (28) né il suo carattere consapevole e intenzionale, che segna un
progresso rispetto alla compresenza non tematizzata di divino e umano nella
filosofia di Parmenide (29) e manifesta ancora
una volta la profonda aspirazione di Socrate a «comporre i dilemmi e le
contrapposizioni che travagliavano la coscienza del V secolo» (30). Un segno della volontà di tenere insieme immanenza e
trascendenza è l’ambivalenza irriducibile del daímon socratico, presenza divina che abita nell’intimo dell’uomo (31). Il Socrate dell’Apologia e del Critone,
insomma, «sente […] congiungersi nella sua persona […] gli opposti elementi
divino e umano (il responso dell’oracolo delfico e la decifrazione che egli,
ragionando, ne opera; il demone in quanto influsso proveniente ab extra e il demone in quanto intima
voce della coscienza) come indissolubili fonti d’ispirazione morale, come guide
indissociabili nella ricerca del bene» (32).
Da questo punto di vista, egli da un lato eredita e porta a compimento
l’autocomprensione che era stata di Parmenide, Empedocle e Pindaro
(emblematico, di quest’ultimo, il fr. 150 Snell: «Vaticina, o Musa, e io sarò
il tuo interprete») (33), dall’altro prefigura
le concezioni cristiane del deus in
interiore homine e della collaborazione tra Dio e uomo nell’opera di
salvezza (34). Viene infine a cadere la
contrapposizione tra i due principali filoni interpretativi del pensiero
socratico, concentrati rispettivamente sulla sua dimensione razionalistica e su
quella religiosa: lungi dall’essere inconciliabili, essi devono invece
completarsi a vicenda (35).
Fin qui, in estrema sintesi,
l’interpretazione di Zeppi. Essa ha, oltre alla chiarezza e al rigore con cui è
argomentata ed esposta, almeno due meriti evidenti: mostra il nesso tra
religiosità e razionalità nella meditazione di Socrate, contro l’enfatizzazione
unilaterale dell’uno o dell’altro aspetto, e ne mette in luce il legame con il
contesto storico-culturale, consentendo di comprenderne meglio la genesi e lo
scopo. Si tratta di meriti di non poco conto, e ci sarebbe da chiedersi se il
contributo dei saggi di Zeppi, dalla loro prima edizione sino ad oggi, sia
stato adeguatamente recepito dalla letteratura critica sull’argomento (un
aggiornamento bibliografico, in questa seconda edizione, forse sarebbe stato
opportuno).
Vi è solo un punto, nella
ricostruzione proposta dallo studioso triestino, che mi pare possa destare
qualche perplessità. Si tratta della presunta antinomia tra il teocentrismo dei
Memorabili e l’antropocentrismo dell’Eutifrone. Essa testimonierebbe, se
capisco bene, una fase del pensiero di Socrate in cui la mediazione tra etica
teocentrica ed etica antropocentrica non era stata ancora realizzata. Questa
mediazione, infatti, «è conquista raggiunta dall’ultimo Socrate, dal Socrate
pervenuto al cospetto della morte» (36).
Che il filosofo ateniese abbia attraversato una lunga e sofferta evoluzione
spirituale, dalla quale solo lentamente e gradualmente sia stato portato alla
soluzione del problema che avvertiva come proprio di sé e dei suoi
contemporanei, è perfettamente verosimile; bisogna però verificare se i testi
citati da Zeppi consentano davvero di documentarlo. è discutibile, ad esempio, che si possa opporre l’Eutifrone all’Apologia di Socrate e al Critone,
come attestazioni di fasi distinte della riflessione socratica: com’è noto,
anche il primo dialogo — appartenente come gli altri due al periodo giovanile
della produzione platonica — è ambientato nell’anno della morte di Socrate, e
si svolge proprio nel portico del tribunale dove il filosofo si trova a causa
dell’accusa mossa da Meleto.
Questa difficoltà di ordine
cronologico non è certo insormontabile; essa tuttavia suggerisce un
interrogativo: siamo sicuri che la posizione di Socrate nell’Eutifrone propenda decisamente verso
l’antropocentrismo, e quindi si collochi al di qua del superamento
dell’antinomia teocentrismo-antropocentrismo che si riscontra nell’Apologia e nel Critone? Zeppi giustamente fa notare che nell’Eutifrone «Socrate non giunge all’antropocentrismo estremo del
Protagora del Teeteto, che ritiene i
valori etico-politico-giuridici creati
dagli uomini» (37): non dell’origine dei valori è questione
nell’Eutifrone, ma della loro
conoscenza. Socrate inoltre «mostra di non rendersi ben conto delle
sconvolgenti conseguenze» (38)
implicate nella sua rivoluzionaria «dissociazione di santo e caro agli dèi» (39). Ciò nonostante, secondo Zeppi «egli
spinge l’antropocentrismo ai suoi limiti estremi» (40), perché stabilisce che «ciò che la divinità addita agli
uomini come oggetto della sua dilezione e della sua approvazione e del suo
volere non fornisce ad essi una norma necessariamente obbligante, un imperativo
categorico, e neppure — più modestamente
— un’indicazione atta ad orientarli nelle loro scelte morali» (41), sicché agli uomini non resta che affidarsi alle proprie
forze per scoprire che cosa è santo o giusto e che cosa non lo è. Ma
quest’ultima conclusione è davvero sottintesa nel dialogo tra Socrate ed
Eutifrone?
A ben vedere, quando in Euthyphr. 10d Socrate afferma che «ciò
che è caro agli dèi (theophilés) non
coincide con il santo (hósion), e
neppure il santo coincide con ciò che è caro agli dèi […]: si tratta, invece,
di cose diverse l’una dall’altra» (42),
egli non intende dire che gli dèi amino qualcosa che non sia santo né che
qualcosa che sia santo non sia amato dagli dèi, ma solo che il fatto di essere
amato dagli dèi non definisce l’essenza del santo. L’esser santa di una cosa è
la ragione per cui essa è amata dagli dèi, non viceversa: in quanto santa, essa
è amata dagli dèi, e in quanto amata, è loro cara. L’esser santa di una cosa e
il suo esser cara agli dèi sono dunque due aspetti concettualmente differenti,
poiché uno è la causa, l’altro la conseguenza dell’amore che gli dèi hanno per
essa.
Tutto ciò non esclude affatto che
l’essere amata dagli dèi sia un’indicazione valida della santità di una cosa.
Socrate stenta a credere che fra gli dèi esistano discordie e contese (6a-c),
le quali vertono solo intorno al giusto e all’ingiusto, al bello e al brutto,
al buono e al cattivo (7b-8a); da ciò si può evincere che per Socrate vi sia
unanimità fra gli dèi nel ritenere santa una cosa e quindi nell’amarla. A meno
di ipotizzare che tutti gli dèi si sbaglino, non resta che concludere che ciò
che gli dèi amano, e quindi hanno caro, è davvero santo. L’amore degli dèi per
una cosa è pertanto un criterio sì insufficiente per sapere che cosa sia il
santo in sé, ma sufficiente per sapere se quella cosa sia o no santa. Esso cioè,
per riprendere le parole di Zeppi sopra citate, può essere «un’indicazione atta ad orientare gli uomini nelle loro
scelte morali» (43), anche se non può esserlo per le loro
indagini teoretiche.
Mi pare allora eccessivo asserire
che «nell’Eutifrone Socrate compie
due distinte operazioni: svincola la moralità dalla subordinazione alla
religione, subordina la religione alla moralità» (44),
se per “moralità” s’intende quella umana e per “religione” la religione simpliciter e non soltanto quel
politeismo mitico dei poeti e del culto ufficiale in cui crede il sacerdote
Eutifrone. Direi piuttosto che Socrate svincola l’essenza dei valori morali
dalla volontà divina e viceversa vincola la volontà divina ai valori morali.
Non parlerei a questo riguardo di “antropocentrismo”, perché al centro non sta
l’uomo, ma il Valore morale nella sua autonoma sussistenza, indipendente tanto
dall’uomo quanto dagli dèi. Gli dèi tuttavia, a differenza degli uomini,
conoscono con certezza ciò che è buono e santo, e perciò non possono non amarlo
concordemente (giacché si può volere il male solo per ignoranza); le loro
preferenze costituiranno dunque un segno che potrà indirizzare anche le
limitate intelligenze e volontà umane a ciò che è veramente giusto e bello.
Se la lettura dell’Eutifrone qui proposta è legittima,
allora non è necessario ravvisare un’antinomia con quanto Socrate fa ammettere
a Ippia in Mem. IV, iv, 25, cioè che
«difficilmente altri dal Dio potrebbe porre come legge il giusto» (45). Non voglio con questo lasciar intendere che il pensiero
socratico inclini verso il teocentrismo. Ritengo infatti che, come la tesi
dell’Eutifrone potrebbe non essere
antropocentrica, così l’affermazione dei Memorabili
potrebbe non essere teocentrica, se per “teocentrismo” intendiamo la concezione
per cui la divinità è non solo la «rivelatrice», ma anche, come dice Zeppi, «l’autrice […] unica della giustizia e
della moralità» (46). A me pare che la frase che Socrate fa
pronunciare a Ippia possa essere interpretata nel senso che solo il dio,
verosimilmente, è in grado di conoscere che cosa è realmente giusto, e dunque
di farlo oggetto di una prescrizione. Il giusto, però, non è tale perché sia prescritto
dal dio, ma è prescritto dal dio perché è tale, esattamente come il santo non è
tale perché è amato dagli dèi, ma è amato dagli dèi perché è tale.
Se le cose stanno o possono stare
così, non mi sentirei di sottoscrivere il seguente giudizio di Zeppi: «Tra la
conversazione socratico-ippiana riportata da Senofonte e il ragionamento svolto
da Socrate nell’Eutifrone
l’incompatibilità non potrebbe essere più radicale, l’opposizione più
diametrale» (47). Mi sembra invece che i due testi siano
interpretabili come espressioni di una medesima concezione, che definirei un
realismo dei valori (sussistenza autonoma e oggettiva degli stessi), unito a
uno scetticismo antropologico nel primo testo (incapacità umana di conoscere e
prescrivere autonomamente il giusto) e a un antivolontarismo teologico nel
secondo (indipendenza del santo dall’amore divino). Si tratta, com’è facile
notare, di una concezione coincidente o in tutto compatibile con l’appello del Critone all’opinione dell’unico giudice
(divino) esperto del giusto e dell’ingiusto quale ragione migliore da seguire,
e quindi con il sinergismo ermeneutico (cooperazione tra parola divina e
interpretazione umana) dell’Apologia,
ad esso assimilabile. L’ipotesi evolutiva, che assegna il superamento
dell’opposizione fra teocentrismo e antropocentrismo etico all’ultimo periodo
della vita di Socrate, non viene con ciò smentita, ma si mostra bisognosa di
una base documentaria più ampia dei passi segnalati da Zeppi (48).
Al di là delle perplessità che ho
cercato qui di spiegare, la lettura del pensiero socratico fornita da Zeppi
rimane per molti versi illuminante e suggestiva. Soprattutto, essa ci fa
intravedere da un’angolatura originale la misura della grandezza storica e
filosofica di un uomo che ha lasciato un marchio indelebile nella nostra
coscienza di occidentali, e quindi ci consente di apprezzare, una volta di più,
quanto sia vero ciò che Zeppi scrive nella Premessa del volume, e cioè che la
speculazione etico-religiosa della Grecia preplatonica «costituisce a tutt’oggi
una fonte e una stimolazione insostituibili di profonda riflessione critica, di
ardita e creativa meditazione filosofica, di esemplare affrontamento di
problemi con i quali anche noi non possiamo esimerci dal confrontarci» (49). Anche per questo non possiamo che essere
grati all’illustre studioso triestino.
Note
(1)
Basti qui ricordare, tra le sue numerose pubblicazioni nel settore, i volumi Protagora e la filosofia del suo tempo,
La Nuova Italia, Firenze 1961 (Pensatori antichi e moderni); Studi sulla filosofia presocratica, La
Nuova Italia, Firenze 1962 (Pensatori antichi e moderni, 61); Studi sul pensiero etico-politico dei
sofisti, Cesviet, Roma 1974 ("Studi e ricerche" - Filosofia, 2); L'umano e il divino nella poesia greca da
Omero a Pindaro, La Editoriale Libraria, Trieste 1984.
(2)
Cfr. S. Zeppi, Il pensiero religioso nei
presocratici. Alle radici dell’ateismo, Edizioni Studium, Roma 1993 (La
dialettica, 16), p. 228. Si confrontino, nel medesimo volume, le pp. 44, 48 e
113.
(3) Cfr. ivi, pp. 13-16, 21-35, 73-74, 93, 114, 172, 182-183, 198-200.
(4)
Cfr. ivi, pp. 17, 160, 163-174,
185-188, 201-202.
(5)
Cfr. ivi, pp. 53-55, 91, 127-137.
(6)
Cfr. ivi, pp. 115-125.
(7) Cfr. ivi, pp. 40, 82-86, 91, 94-95, 215.
(8)
Cfr. ivi, pp. 3, 84, 179-180, 196,
210-212.
(9)
Cfr. ivi, pp. 160, 169, 192-193,
205-206, 214.
(10)
Cfr. ivi, pp. 139-161. Sempre nella
seconda parte, cfr. anche le pp. 41, 74-76, 114.
(11)
Cfr. ivi, pp. 191-194, 204-205,
216-219.
(12) Cfr. ivi, pp. 139-140, 154-158.
(13) Ivi, p. 39.
(14)
Cfr. ivi, pp. 178-180, 195-196.
(15)
Cfr. ivi, pp. 181-184, 197-200.
(16)
Cfr. ivi, pp. 163-174, 185-188,
201-202.
(17)
Cfr. ivi, pp. 189-190, 203.
(18)
Cfr. ivi, pp. 87-114, 190-191,
203-204.
(19)
Cfr. ivi, pp. 134-135.
(20)
Cfr. ivi, pp. 89-91, 95-99.
(21) Ivi, p. 140.
(22) Ivi, p. 141.
(23) Ivi, p. 142.
(24)
Cfr. ivi, p. 143.
(25) Ivi, p. 144.
(26) Ivi, p. 145.
(27)
Cfr. ivi, p. 146.
(28) Ivi, p. 194.
(29)
Cfr. ivi, p. 192.
(30) Ivi, p. 146.
(31)
Cfr. ivi, pp. 147-152.
(32) Ivi, p. 153.
(33) Cfr.
ivi, pp. 160, 169, 192-193, 205-206.
(34) Cfr. ivi, pp. 161, 194, 205.
(35) Cfr.
ivi, pp. 158-159.
(36) Ivi, p. 143.
(37) Ivi,
pp. 142-143 (corsivo mio).
(38) Ivi, p. 142.
(39) Ibidem.
(40) Ibidem, n. 1.
(41) Ivi, p. 142
(corsivo mio).
(42) Trad.
Reale.
(43) Ibidem.
(44) Ibidem, n. 1.
(45) Il testo greco suona così: scholêi gàr àn állos gé tis tà díkaia nomothetéseien,
ei mè theós.
(46) Ivi, p. 141
(corsivo mio).
(47) Ivi,
p. 143.
(48) Tale
ipotesi, avanzata nel saggio su Socrate contenuto nella seconda parte del
volume, è del resto taciuta nei saggi della terza parte, dove compaiono solo i
riferimenti al Critone e soprattutto
all’Apologia (cfr. ivi, pp. 191-192, 204-205).
(49) Ivi, p. VII.